La Bolognina reggiana

Ricordi di vent’anni fa, da cittadino che lascia lo storico a sonnecchiare nel grigio domenicale. Autunno 1989, l’Europa era lì lì per cambiare ma sembrava che tutto fosse normale, tanto più nella felice Reggio. In quel novembre si tenne all’ancora Municipale (l’indimenticabile Romolo Valli sarebbe morto l’anno dopo) il Convegno sui “Magnacucchi”. Vennero tanti, quasi tutti, Paletta incluso. Un convegno politico, dove gli storici erano quasi invitati a consegnare la loro relazione e starsene lì ad ascoltare. Ad ascoltare i “protagonisti”, pronti a concordare, gli uni con gli altri, cosa dire, dieci minuti prima di salire al microfono. Il mondo stava cambiando, il loro mondo era finito, ma tutto continuava come prima. Il comunismo era lì, nella miglior variante possibile, forse, quella italiana, ma tale era. Immutabile nella coscienza e nei sogni dei tanti che avevano creduto, con fede, contro ogni logica e speranza (ed evidenza).
Solo due anni prima la mia vicina di casa, la signora Giulia, era partita per l’Urss con un viaggio organizzato dalla sua sezione. Al ritorno, malignamente, le avevo chiesto: “Allora,come si sta in Urss?” e lei, convinta, aveva risposto: “Che bello! Hanno proprio tutto…no, anzi, non ci sono i jeans…”.
Il comunismo era quello, una fede, immutabile. Una fede anche nobile, come ci ricorda Gaber, ma una fede.
Poi il muro venne giù e fu il panico. Qualcuno si inventò che l’Italia era diversa. Ma non lo era stata nel 1956, nel 1968. I dirigenti del Pci andavano in vacanza sul Mar Nero, non a Lisbona o a Oxford. Era la storia, la cultura, i loro sogni, il loro lavoro. Immutabili. La guerra fredda ancora nelle ossa e nel cervello.
Poi la Bolognina, 12 novembre 1989. Giusto, inevitabile. Inutile. 3 giorni troppo tardi. 72 ore e la storia ti frega. E poi ognuno cerca di salvare la scrivania, la sedia, il parcheggio. Umano, figurarsi. Quando poi si è classe dirigente. La storia non ci racconta di una classe dirigente che, pur di fronte alla fine di un percorso storico, abbia levato le tende. Salvo carestie, epidemie, invasioni. Ma qui non arrivarono gli Hyksos, figurarsi l’Armata Rossa testè defunta. E così partì la giostra delle chiacchiere, delle assemblee di 100 persone. La fede era fede prima e lo diventava ora. Per quegli stessi militanti, come la signora Giulia, ora era arrivato il “contrordine”, giù il Muro, abbasso il Muro.
Finito il Pci iniziava la “Cosa”. Venite, facciamo il partito nuovo. Si ricomincia. C’ero anch’io fra i tanti che, in qualche modo, credettero che anche in Italia fosse possibile una forza politica laica, di sinistra. Non avevo bisogno di fedi.
Ho partecipato, invitato a quegli incontri, seppur la mia inesperienza (e poca pazienza) mi esponesse a solenni imborsature di fronte alla querula e logorroica capacità dei tanti maestrini che annaspavano alla ricerca di novi orizzonti, risolti nel vuoto incomprensibile che mi trovavo ad ascoltare.
Mi affacciai anch’io alla nuova “casa”, ma mi trovai come semplice invitato, a casa altrui. Come quando si fa entrare l’ospite ma lo si tiene nell’ingresso, mentre la “famiglia” siede in salotto a discutere. Eravamo tanti con storie diverse, senza esperienze e con esperienze, soprattutto “intellettuali”. Nessuno offrì mai più che un bicchier d’acqua. Ora che i posti si riducevano, figurarsi.
La fine è nota. Il Pci rimase quello che era, sotto mutate spoglie. L’occupazione del potere non consentiva scelte creative. Non consentiva una riflessione laica sulla storia, sui valori. Si cambiò la ragione sociale, una, due volte. Finirono le visite in Urss. Mi sono sempre chiesto perché sotto la quercia, nel nuovo simbolo, insieme al garofano, non ci fosse anche il gattopardo.
Dieci anni dopo quando il terzo o quarto partito succeduto si schierò su 3 mozioni andai a vedere quegli elenchi di candidati reggiani: su 29, 27 erano nel 1989 nel Pci.
Tutto normale. Nessuno scandalo, il potere richiede questo e altro, figuriamoci poi un potere dolce e funzionale come quello emiliano. Ma, senza rendersene conto, il morbo di Zelig si era impadronito di quel corpaccione ormai svuotato. E iniziò la lotta per bande e fazioni, senza più un progetto ci si nascose dietro ad un tourbillon di “idee” (altrui): ecologisti, blairiani, clintoniani, giddensiani, terzavisti, kleiniani, amerikani, maistaticomunisti, obamiani che hanno contribuito a 15 anni di destra trionfante.
E mai essersi fermati a riflettere, su quel muro che era caduto, mai a chiedersi cosa dovevamo portare oltre e cosa gettare via, dopo quel muro, nella storia della nostra Europa e del’Italietta ormai tinta di azzurro.

La Bolognina reggianaultima modifica: 2009-11-15T10:29:00+01:00da pelikan-55
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Un pensiero su “La Bolognina reggiana

  1. Caro Max, concordo con metà del tuo articolo, da dopo la Bolognina ad oggi, mentre credo sbagliata l’analisi del periodo precedente. Direi falsa. Non perché tu voglia raccontare il falso, ma perché appartiene al costume di come si vuole dipingere il PCI da parte di chi “ha vinto”. Il problema è che nessuno ha perso. Il trasformismo ha evitato ai dirigenti di prendersi le loro responsabilità e così persone che allora erano giovani vecchi del partito oggi sono solo vecchi del partito: D’Alema, Veltroni, Fassino…
    Quindi nessuno che prenda le difese di quel partito, neanche alle commemorazioni dei venticinque anni della morte di Berlinguer, solo Fini lo ha fatto: generoso, soprattutto con l’immagine che sta costruendo di se stesso. Gli altri, invece, quelli che avrebbero dovuto dire cosa era quel partito perché lo hanno diretto (non provenendo dalle fabbriche ma dalle migliori scuole per dirigenti) hanno preferito far la chiosa alla memoria di Craxi.
    Caro Max, io l’ultima volta che sono stato iscritto ad un partito era il 92, quando ancora il PCI esisteva, e io te lo racconto dall’interno: era un partito di massa, con le sue lentezze e i suoi slanci, vissuto e partecipato, carico di discussioni dentro e fuori. Era il partito che già nel 76 fece i conti con la teoria che non si poteva essere autosufficienti (o per dirla alla Veltroni “ad ispirazione maggioritaria”) e fece venire il mal di pancia ai suoi iscritti proponendogli l’unione delle masse popolari cattoliche e comuniste (do you remember? il compromesso storico!). Ma lo fece da partito di massa: promuovendo una discussione ed un processo che portò l’intero partito a ritenersi d’accordo su quel che fu una intuizione antesignana dell’Ulivo prima e del PD dopo. Fu quel partito che sempre negli anni 70 disse che l’Unione Sovietica aveva esaurito la sua “spinta propulsiva”, fu quel partito il cui segretario non andava più a Mosca per non essere fatto fuori, ma non poteva neanche andare in America a fare le vacanze, perché esisteva ed esiste tutt’ora il divieto d’ingresso dei comunisti in suolo americano. Napolitano che allora era un dirigente “migliorista” del PCI fu il primo comunista ad andare in america in quegli anni a tenere conferenze, perché la segreteria di stato rilasciò un permesso speciale. Erano gli anni che la guerra alle brigate rosse la fece il PCI in parlamento e nelle fabbriche, in difesa della democrazia. Erano gli anni che Mario Pastore officiava tutte le sere la messa in TG contro l’URSS e la chiesa partecipò alla spallata facendo il primo papa straniero dopo secoli, quando la chiesa li dovette fare sotto l’influenza francese. Sono gli anni del PCI al 33% che proponeva l’austerità, ovvero un modo di vivere responsabile e contro l’affarismo.
    Caro Max, poi venne quell’ubriacone di Occhetto che la tv si sta preparando a fare santo ora, che in un impeto di coma alcolico scalcagnò il partito più forte che c’era facendolo diventare un prodotto da consumo televisivo. Erano gli anni che mi venne censurato il mio intervento al congresso della sezione Togliatti dalla allora inviata della federazione di via Toschi E. C. perché andava oltre i 10 minuti, ben 12!, mentre lei e l’altra crema di allora usavano l’eloquio-sproloquio come forma di affermazione e carriera politica. Erano gli anni che gli iscritti ed i militanti della mia sezione si dispersero e morirono in solitudine, quando invece prima, al mio matrimonio mi regalarono un set di bicchieri di piazza piccola che ancora conservo come uno dei regali più importanti che ho mai ricevuto. Persone che hanno fatto la resistenza, persone figlie di chi ha fatto la resistenza, persone che si erano avvicinate al PCI perché proponeva una visione non sovietica ma italiana di società, che valorizzasse il lavoro, l’onestà, le pari opportunità, i diritti civili, l’emancipazione. Erano gli anni che il PCI marcava la sua diversità assieme ai partiti comunisti occidentali, quello francese e quello spagnolo, e che da tempo si chiedeva se fosse giusto cambiare nome ma che aveva sempre detto che il percorso fatto e lo sganciamento dall’est gli consentivano una identità forte e pulita.
    Esattamente quella che oggi, la STORIA fatta dai media gli nega.
    Fra me e te Max ci divide un percorso storico diverso e ci accomuna la pochezza dell’oggi. Ma non dare la colpa al PCI di quel che vivi oggi: tu che sei uno storico sfuggi a questa storia illustrata a fumetti che ci hanno creato apposta per vivere questo incubo quotidiano ritenendolo ovvio.

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