Cefalonia, due nuovi indagati per la strage degli italiani

ROMA – Due nuovi indagati per la strage di Cefalonia, il peggior eccidio di militari italiani compiuto dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale: sono – secondo quanto riferito dall’Ansa – due ex soldati della Wehrmacht, entrambi di 86 anni, sospettati di aver ucciso un numero imprecisato di uomini della Divisione Acqui. La procura militare di Roma avrebbe già sentito per rogatoria i due indagati, che avrebbero sostenuto la loro estraneità ai fatti. Sentiti anche numerosi ex militari tedeschi in qualità di testimoni, ma ulteriori accertamenti sono in corso.
Gregor Steffens e Peter Werner – questi i loro nomi – sono stati rintracciati dai carabinieri, quasi 67 anni dopo i fatti, nell’ambito dell’inchiesta a carico di Otmar Muhlhauser, l’ex ufficiale tedesco morto nel luglio scorso mentre era in corso l’udienza preliminare nei suoi confronti. L’identificazione dei due ex soldati e la loro iscrizione nel registro degli indagati da parte della procura militare di Roma, diretta da Antonino Intelisano, riapre l’inchiesta su una strage che, con la morte dell’ultimo imputato e una serie di assoluzioni e archiviazioni, è rimasta finora impunita.
Secondo quanto è stato possibile ricostruire, i carabinieri sarebbero stati messi sulla nuova pista dopo essersi imbattuti in due nomi, citati in una relazione del cappellano militare don Luigi Ghilardini, redatta poco dopo la strage, avvenuta nel settembre ’43. Nel documento, proveniente dall’Ufficio storico dell’Esercito, si parla dei “soldati Steffens Gregor e Werner Peter, che precedentemente erano stati nostri prigionieri”, i quali “si vantavano di aver ucciso tramite fucilazione – lungo la strada tra Lakhitra e Faraò – 170 soldati disarmati che si erano arresi”. I militari dell’Arma si sono subito attivati e, grazie anche alla collaborazione della polizia criminale tedesca, sono riusciti a individuare i due ex militari, scoprendo che sono entrambi vivi e qual è il loro attuale domicilio in Germania.

Steffens e Werner appartenevano alla prima divisione Alpenjager (da montagna), ed erano già stati sentiti per “sommarie informazioni” nel 1965 e nel 1966 dalla procura di Dortmund, che sui crimini compiuti dalla Wehrmacht a Cefalonia aveva aperto un’inchiesta, conclusasi con l’archiviazione. Entrambi avevano negato ogni responsabilità. Sempre dalle indagini è emerso che dei due si era probabilmente occupata molti anni fa anche la magistratura militare italiana, che nel 1957 e nel 1960 emise due sentenze istruttorie nei confronti di 30 militari tedeschi accusati di “violenza con omicidio continuato commessa da militari nemici in danno di militari italiani prigionieri di guerra” in relazione all’uccisione, “tra il 15 e il 28 settembre 1943, in Cefalonia e Corfù”, di “450 ufficiali e 5.500 uomini di truppa italiani”.

Ma per tutti gli imputati la vicenda processuale si concluse con un nulla di fatto, tra archiviazioni e proscioglimenti, e in particolare per 17 di loro la sentenza del ’57 stabilì di “non doversi procedere” per essere rimasti ignoti gli autori del reato. Tra questi “militari ignoti” anche tali  ‘Wermer’ e ‘Stefans Gregor’, all’epoca non meglio identificati e ora improvvisamente riemersi da un lontanissimo passato.
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/01/11/news/cefalonia_indagati-1906858/

Felici di odiare (1)

La Lega è naturalmente e felicemente xenofoba. Essa ha scoperto cioè da una ventina d’anni quanto il suo ‘popolo’ sia felice nell’odiare qualcuno, come se fosse una curva di tifosi perennemente in guerra contro un’altra curva. E quindi, paradossalmente, la Lega ha bisogno dell’immigrazione e dell’insicurezza”.

di Alessandro Dal Lago, da MicroMega 6/2009

And hereupon it was my mother dear
Did bring forth twins at once, both me and fear.
Thomas Hobbes, Vita carmine expressa, vv. 27-28 (1).

1. […] Il berlusconismo è soprattutto un blocco sociale e culturale relativamente maggioritario, grosso modo lo stesso che a suo tempo sosteneva il Caf. Nel 1993-1994, il talento di Berlusconi si è manifestato nell’aver compreso che, dopo la fine di Craxi e del Caf, questo blocco era privo di un leader. Ecco allora la discesa in campo, l’invenzione di Forza Italia, del Popolo delle libertà e poi del Partito della libertà. È vero che senza le televisioni l’impresa di Berlusconi sarebbe stata impossibile. Ma lo stile è sempre stato quello del maestro Craxi (non a caso grande alleato e sponsor del Cavaliere) e dei congressi pacchiani allestiti dall’architetto Panseca. Che il Pdl, soprattutto nella cerchia più vicino a Berlusconi, pulluli di ex socialisti ed ex democristiani di destra (nonché di transfughi della sinistra) dà un’idea della continuità tra la prima e la seconda repubblica. Se il programma del Cavaliere era quello di Gelli, come molti hanno scritto, significa che il grottesco capo della P2 ha espresso meglio di ogni altro l’anima profonda della destra italiana.
Un blocco sociale e culturale non è solo un’aggregazione di interessi, anche di lungo periodo. È stile di vita idealizzato, assemblaggio più o meno riuscito di quello che un tempo i sociologi avrebbero chiamato «valori», e cioè punti di vista profondi, è un insieme al tempo stesso concreto e immaginario, e quindi un sistema di rappresentazioni in cui riconoscersi. Berlusconi ha offerto al blocco sociale orfano del Caf – lo sterminato mondo della piccola impresa e del commercio che un tempo votava Dc, le tante vandee italiane, il cosiddetto popolo delle partite iva, del l’evasione fiscale e dell’interesse particolare a ogni costo, la piccola borghesia impiegatizia del Sud, le clientele elettorali (a cui si aggiungono anche pezzi di classe operaia delusi dai sindacati) eccetera – un modello culturale in cui identificarsi. Il mito della riuscita personale, il paternalismo del «ghe pensi mi», il maschilismo, la rozzezza da cumenda, le barzellette da caserma corrispondono esattamente ai sentimenti profondi e allo stile di vita del blocco sociale di centro-destra. Esattamente come il provincialismo, l’indifferenza in materia di politica internazionale, il cattolicesimo opportunista, l’ostilità per gli stranieri, le tendenze forcaiole in tema di ordine pubblico e sicurezza (2).
Berlusconi, il cui fiuto politico è indubbiamente superiore a quello dei suoi avversari ha sintetizzato tutto ciò nella sua persona. Nella coalizione che sta guidando gli accenti possono essere molto diversi – la truce goliardia xenofoba della Lega, il moderatismo dell’ala cattolica e centrista del Pdl, il perbenismo statalista degli ex missini, le tendenze separatiste a nord come a sud eccetera – ma Berlusconi rappresenta la capacità di mediazione tra posizioni anche lontane. Non avendo probabilmente nessuna idea personale o qualcosa in cui credere (che non sia la volontà spasmodica di guadagno e successo in ogni campo), egli è volta per volta e allo stesso tempo tutto quello che sono i suoi alleati. Si potrebbe dire, con Lao Tzu, che è il vuoto che dà senso al pieno e quindi permette a una sparsa pluralità di funzionare come unità. Che questa sua capacità di leadership si sia affermata con la manipolazione mediatica e la trasformazione di una saga personale in vicenda pubblica non cambia i termini della questione. Berlusconi è un caudillo in declino. Ma ciò significa soltanto che se mai e quando sparirà, il blocco sociale e culturale che lo sostiene andrà in cerca di un nuovo padrone.

http://temi.repubblica.it/micromega-online/felici-di-odiare/

continua..

Rosarno, il coraggio di insorgere contro la mafia. Intervista a Roberto Saviano

di Giorgio Santilli, da “Il sole 24 ore”, 9 gennaio 2010
«Gli immigrati non vengono in Italia solo a fare lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma anche a difendere diritti che gli italiani non vogliono più difendere». Roberto Saviano, autore trentenne del bestseller mondiale Gomorra, simbolo della lotta alle mafie che il Sole 24 Ore ha inserito nella classifica dell’uomo dell’anno per la battaglia di legalità, non rinuncia a vedere negli incidenti di Rosarno un lato positivo. L’altra faccia della luna. A mostrarla sono gli immigrati che protestano contro le mafie oggi come a Villa Literno nel settembre 1989, dopo l’omicidio del sudafricano Jerry Maslo, e a Castel Volturno nel settembre 2008 dopo l’uccisione di sei immigrati.
Saviano – che in questa intervista lancia l’allarme per il rischio di nuovi attentati di ‘ndrangheta e camorra dopo la bomba di Reggio Calabria – non nega che le modalità della rivolta siano criticabili, ma è convinto che «a ribellarsi è la parte sana della comunità africana» che non accetta compromessi con la criminalità. «Quello che colpisce – dice lo scrittore – è che gli immigrati hanno un coraggio contro le mafie che gli italiani hanno perso. Per loro il contrasto alle organizzazioni criminali è questione di vita o di morte». Non vanno criminalizzati. «Piuttosto dovremmo considerarli alleati nella battaglia all’illegalità».
Saviano non vuole criminalizzare gli immigrati di Rosarno, che nelle regioni a rischio mafia entrano nella rete della criminalità organizzata fin dallo sbarco. «Mentre nel nord Italia la Lega ha continuato a ostacolare l’immigrazione, la camorra si è lentamente impadronita del monopolio dei documenti falsi: le leggi più severe sull’immigrazione le hanno fruttato milioni di euro».

Saviano, lei usò parole dure anche in occasione del massacro di Castel Volturno, territorio che conosce bene.
Di Rosarno come di Castel Volturno si parla solo quando c’è una rivolta. Anche questo mi colpisce: il silenzio favorisce le mafie e si perdono occasioni di sviluppo. Castel Volturno ha il maggior numero di abusi edilizi al mondo ed è il comune più africano d’Italia.
C’è una connessione fra le due cose?
Era una città abbandonata per via dell’abusivismo e nei palazzi vuoti arrivarono gli africani. È diventata così la prima città africana d’Italia. Anziché valorizzarla, l’abbiamo nascosta come fosse una suburra.
Valorizzarla, come?
Qualunque paese europeo avrebbe fatto un vanto di avere una città tutta africana e l’avrebbe messa sotto i riflettori mediatici. Avrebbe fatto un sindaco immigrato, avrebbe portato lì le ambasciate dei paesi africani, avrebbe organizzato un bel festival africano. Ne avrebbe fatto una porta sul Mediterraneo. Invece, si è consegnata la città in mano alla mafia nigeriana con il risultato di farne uno snodo del traffico della droga. Una città dove la maggior parte degli immigrati onesti vivono una vita d’inferno.
Cos’è che i media non raccontano?
La Calabria è, come la Campania, un territorio che vive una guerra quotidiana. Se si vedono i dati, ci sono tantissimi attentati alle associazioni antiracket o a consiglieri comunali, intimidazioni con un colpo sparato alla porta o una molotov su una tomba. Magistrati continuamente nel mirino come Raffaele Cantone o Nicola Gratteri. È una guerra silenziosa che non trovi sui giornali.
Che significa in questa guerra quotidiana la bomba alla procura di Reggio?
È il segno che la ‘ndrangheta alza il livello dello scontro. È una bomba artigianale, quindi un segnale di misura contenuta e simbolica ancora, un messaggino. La famiglia Condello possiede bazooka ed esplosivi C3 e C4, capaci di far saltare l’intero edificio della procura.
È credibile che l’attentato sia stato deciso da una riunione di tutti i capiclan?
Mi pare più probabile che l’abbia deciso una famiglia e abbia ottenuto il silenzio-assenso delle altre. Certo è un segnale condiviso in qualche misura da tutte le ‘ndrine.
Un segnale alla procura o a chi altro?
Alla procura, non c’è dubbio. Le grammatiche delle mafie sono disciplinatissime. Se avessero voluto intimidire la direzione antimafia, l’avrebbero messo alla loro sede.
Perché ora?
Ci sono due livelli di risposta. Il primo riguarda la procura di Reggio Calabria. Il destinatario della bomba è il procuratore capo che è arrivato un mese fa e ha già fatto scelte importanti. Penso ci fossero correnti di magistrati, all’interno della procura, che le cosche preferivano. Non necessariamente colluse. Forse, più semplicemente, meno efficienti. Istruire le carte di un processo in tre mesi o due anni può cambiare il destino di una famiglia, saltano attività economiche, azioni criminose.
C’è un livello di lettura più generale dell’attentato di Reggio Calabria?
Molto è cambiato con gli arresti nel casertano e le sentenze di condanna in Calabria. Un anno e mezzo fa a Reggio è stato arrestato Pasquale Condello detto “il supremo”. Era il leader indiscusso, uomo capace di mediazione, anche con la politica. Il suo arresto ha messo in crisi assetti consolidati. Le mafie si aspettavano molto dai loro referenti politici e non sono disposte a vedere che se la cavano. Il problema non riguarda solo la Calabria.
Pensa che l’episodio della bomba non resterà isolato?
Non mi aspetto che sia finita qui. Chiedo molta attenzione al governo, ai media. Il 15 gennaio dovrebbe chiudersi in Cassazione il processo Spartacus contro i Casalesi. È il primo processo sull’intera organizzazione camorristica che arriva al terzo grado. È il più importante processo di mafia nella storia insieme al maxiprocesso di Palermo. Se le condanne saranno confermate, l’organizzazione non potrà non fare nulla, manderà segnali.
C’è il rischio di una escalation.
Tanto più se la cosa passerà sotto silenzio. Ricordo che questo processo era durato dieci anni in primo grado e, dopo che sono stati accesi i riflettori sui Casalesi, fino ad allora sconosciuti alla pubblica opinione, il processo di appello è durato un anno e mezzo e ora il terzo grado un anno.
C’è un collegamento fra questi gruppi? Siamo abituati a ragionare che le mafie sono sistemi isolati.
Le mafie non sono monadi isolate. Casertani e calabresi sono in continua connessione perché sono le mafie degli investimenti e delle regole. Non come i napoletani, sregolati, e i siciliani, ormai vecchi. In Romania stanno lavorando insieme, sui casinò investono insieme. Le loro strutture seguono la globalizzazione con ritmi più veloci di quanto riesca a fare lo Stato. Nelle loro strutture ci sono domenicani, boliviani, tedeschi. Negli ultimi arresti fatti a Caserta c’era un tunisino affiliato. La camorra è la prima mafia ad aver aperto agli stranieri e fra dieci anni avremo capicamorra arabi e slavi.
Il cambiamento di clima confermerebbe quel che dice il ministro Maroni: una risposta dello Stato c’è già stata. Che valutazione dà del modello Caserta?
È stato fatto un buon lavoro: arresti e molta pressione sulle amministrazioni pubbliche, sul risparmio, sul ciclo dei rifiuti. Però le mafie sono tutt’altro che sconfitte ed è un errore grave dirlo o anche solo farlo pensare.
Qual è la realtà della vita quotidiana?
Se cammini sulla Napoli-Caserta, anche stasera, continui a vedere, proprio come dieci anni fa, i fuochi delle discariche abusive che bruciano copertoni arrivati da tutta Italia. Non è vero che il ciclo dei rifiuti è stato sconfitto. Ancora sono liberi, per altro, Antonio Iovine e Michele Zagaria, latitanti da 13 anni, i capi, uomini del cemento che investono a Roma e in Romania.
Siamo in una fase di transizione?
C’è una operatività dello Stato che viene riconosciuta dalle mafie ma non ancora considerata fisiologica. Se lo Stato fosse unito e la risposta compatta, le mafie capirebbero che qualunque azione peggiorerebbe la loro situazione. Se alzano il tiro è perché sanno che ancora possono parlare con qualcuno all’interno dell’apparato statale. È un brutto clima, lo stesso che ha portato alla primavera siciliana, quando fu ucciso Lima.
Il sequestro di beni è strumento risolutivo?
Un salto di qualità c’è stato anche lì. Però rinnovo l’invito a non abbassare la guardia. Sequestrare la Lamborghini o la villa è importante, ma non abbiamo ancora intaccato i patrimoni attivi delle mafie. La cosa davvero importante è che non si mettano all’asta. Chiedo a Maroni che intervenga su questo punto: i beni vengano immediatamente riassegnati alle biblioteche, alle associazioni antiracket, alle università.
Sul piano repressivo che altro bisogna fare?
La repressione non basta. Bisogna sconfiggere l’economia mafiosa, passare al sequestro delle loro aziende. Ci vuole un segnale di cambiamento anche a livello di leggi: lo scudo fiscale, il limite alle intercettazioni, il patteggiamento per i reati di mafia non vanno bene.
Qual è l’obiettivo?
Deve essere premiato il mondo delle imprese pulite, si deve permettere all’imprenditore di guadagnare dalla prassi antimafia. Oggi per l’imprenditore pulito essere contro le organizzazioni mafiose porta solo svantaggi e danni.
Come?
Va bene quel che ha cominciato a fare Confindustria Sicilia: cacciare dal mercato chiunque partecipi all’economica mafiosa, prima ancora che per un fatto morale, per una concorrenza sleale. Prendiamo gli appalti. Il gioco del massimo ribasso fa vincere le mafie perché possono fare costi più bassi: pagano meno la manodopera in nero, ammortizzano i costi con altre entrate come la droga. Se non cambi le regole degli appalti, vinceranno sempre.
Ance propone di passare a un sistema di subappalti in cui l’appaltatore scelga in un elenco di imprese pulite selezionate dalle Procure. Che ne pensa?
Il certificato antimafia è una garanzia di partenza ma non basta. Bisogna togliere all’imprenditore pulito la possibilità di utilizzare il vantaggio competitivo che arriva dall’economia mafiosa. La proposta va in quella direzione.
Che significa uscire dal sistema del massimo ribasso?
Se un’impresa investe per lo sviluppo del territorio, per esempio con una scuola di formazione di carpentieri, va premiata. Di più: bisogna premiare l’attività antimafiosa delle imprese. Nelle gare d’appalto basta massimo ribasso, diamo un premio a chi si impegna in un’attività antimafiosa: chi denuncia il pizzo o l’economia mafiosa. Se vogliamo vincere questa guerra dobbiamo abbandonare il formalismo di certe gare e la legge del massimo ribasso.
Che altro si può fare per sconfiggere l’economia mafiosa?
Fare quello che fa l’associazione Libera. Porta lì ragazzi di Torino, del Friuli, romani o umbri a fare il lavoro con le bufale di Schiavone o i filari di vite portati via a Reina. Combatte l’economia mafiosa e occupa il territorio.
Vede segnali positivi?

Cresce il disgusto degli elettori per politici collusi di destra e sinistra. Penso alla Campania dove il coordinatore Pdl è Nicola Cosentino che dice di essere dalla mia parte, ma non lo è affatto. I processi faranno il loro corso. A un politico, però, bisogna chiedere non solo di essere lontano dagli affari criminali, ma anche di avere una reputazione lontana dagli affari criminali. Il fatto che sul territorio un politico sia considerato da tutti come interlocutore di quel mondo è di per sé imbarazzante anche qualora non fosse condannato. Aggiungo che anche le politiche del centro-sinistra degli ultimi anni sono state politiche di connivenza. Spero che gli elettori alle prossime regionali facciano pulizia dei collusi mandando un segnale chiaro.
(11 gennaio 2010)

Braccia nei campi, nulla fuori. Dove il sogno del lavoro è incubo

di Mimmo Calopresti

Rosarno, uno svincolo della ormai inutile ed impercorribile Salerno-Reggio Calabria, il pezzo di autostrada che mai nessun governo è riuscito a terminare e che rende la parte bassa della Calabria il luogo più lontano dal resto dell’Italia. Non mi viene in mente un altro modo di definire quel luogo. Un nome che sfugge dallo sguardo subito dopo averlo messo a fuoco, mentre stai andando da qualunque altra parte.

È un non luogo: da quello svincolo o ci si addentra nella Piana di Gioia Tauro, fino ad arrivare al porto, o si imbocca la superstrada che porta all’altra costa, venti minuti per passare dal mar Tirreno al mar Jonio, e in mezzo il nulla. In quella parte della Calabria non c’è che il nulla e, in più, d’inverno fa freddo, niente a che vedere con l’immaginario classico del sud: sole, mare e tutto il resto.

Nella Piana gli agrumeti e gli uliveti fanno da padroni. La raccolta, prima dei mandarini e poi delle arance, è un lavoro duro, ma è ancora un buon modo di fare soldi. Chi ha ereditato un pezzo di terra dai genitori ha evitato quell’emigrazione di massa che ha coinvolto i più e ora ha qualcosa di cui occuparsi. I più capaci hanno sviluppato un sistema semi industriale per riuscire a sviluppare la commercializzazione del loro prodotto, gli altri debbono accontentarsi, usando manodopera a basso costo, di rivendere il raccolto sul territorio.
Lavoro duro e malpagato che nessuno vuol più fare. Eppure qualcuno che ancora può fare quel lavoro c’è: sono gli stranieri, gli immigrati, quelli dalla pelle scura (ma più scura di quella dei ragazzotti del luogo), i neri, i negri.
Proprio i negri, quelli che arrivano dall’Africa nera, quelli che non hanno niente, che non hanno ancora capito se sono arrivati in Italia oppure chissà dove, che si illudono di essere lì solo di passaggio, prima di approdare nei luoghi della ricchezza e delle comodità.
I negri che si accontentano di vivere come bestie. Quelli che, d’altronde, ci sono abituati, quelli che si fanno la capanna con il cartone nei casolari abbandonati o, peggio, per paura di essere derubati dormono tutti insieme, per terra, in una fabbrica abbandonata e data al fuoco qualche anno fa.
Gli unici rapporti sono quelli con un parroco di buona volontà. Gli unici luoghi di contatto con il resto del mondo: i supermercati, dove comprare il minimo indispensabile per sopravvivere. Lì c’è l’incontro, lì c’è lo scambio. Ma non ti venga in mente di rivolgere qualche parola di più alla cassiera, altrimenti scoppia il casino: se fino a quel punto, in quel mare di desolazione, i ragazzi del luogo ti avevano solo preso in giro e quando ti incontravano in paese ti scansavano perché i negri puzzano, a quel punto fanno il salto di qualità e ti sparano.
Per carità niente colpi di lupara, basta un fucile ad aria compressa ed eccoti umiliato, non si parla e non si scherza con la donna bianca. Allora non sopporti più, ti sembra troppo, hai voglia di alzare la testa, di dirlo in faccia a quei quattro ragazzotti che tu hai gia abbastanza cazzi per riuscire a sopportare quella vita di merda, che quando ti svegli al mattino non riesci a lavarti perché l’acqua è gelida, che durante il giorno, mentre lavori, hai le mani e i piedi rattrappiti dal freddo e, quando hai finito di lavorare, non c’è niente intorno a te che ti renda la vita sopportabile tranne un improvvisato fuoco intorno a cui passare la serata.
Non hai più la forza di pensare e sognare una vita migliore di questa, sei solo incazzato con te stesso per esserti infilato, senza sapere come, in un inferno senza vie d’uscita. Il casino, a quel punto, sei tu a cominciarlo, perché – come diceva Fabrizio De Andrè – chi non terrorizza si ammala di terrore. Cerchi di farti sentire. Vuoi far sapere a tutti che non sei più disponibile a fare quella vita; che, anche se hai accettato un lavoro da schiavo, se non sai che cos’è un contratto di lavoro, se non sai che esiste il sindacato, se non pretendi di essere tutelato da uno Stato di diritto che in una parte del suo territorio accetta che esista la schiavitù, hai comunque una dignità e una vita da difendere.
Vuoi affermare che non puoi essere scambiato per un tiro a segno, che la tua carne brucia non solo per il freddo che accumuli durante le troppe ore di lavoro, ma perché da troppo tempo il tuo cuore non riesce ad essere riscaldato dai suoni, dagli odori e dagli affetti della tua terra e quindi pompa in circolo solo sangue avvelenato. Rosarno brucia. Il resto dell’Italia è lontana, irraggiungibile.

Da Il Fatto Quotidiano del 9 gennaio

Parlano di Craxi. Noi parliamo di Jobs

di Nicola Fangareggi

A volte mi chiedo se il problema sia esclusivamente anagrafico, ma mi rispondo di no. Conosco ottuagenari e perfino ultranovantenni in eccellente forma fisica e mentale abituati a usare internet ogni giorno, informati e attenti alle cose del mondo. Dunque la ragione deve essere un’altra. Forse l’abitudine a guardare solo ciò che è alle proprie spalle? L’incapacità di avere una visione del futuro? Un senso di attaccamento a ciò che è stato e alla dolente consapevolezza che è passato e non tornerà più? O, più semplicemente, pigrizia?
Prendiamo questa storia di Craxi. Vi sembra serio che nel 2010 le forze politiche di un intero paese – non parlo solo di Reggio – occupino da settimane le colonne dei giornali per litigare su Craxi? A me sembra pura follia. Oggi il Corriere della Sera, che fino a prova contraria sarebbe il più autorevole quotidiano italiano, dedica una pagina di intervista su Craxi nientemeno che a Ciriaco De Mita. De Mita! Nel 2010! Ora, dovete sapere che De Mita, a 82 anni, è stato eletto all’Europarlamento con l’Udc. Fa parte dello stesso gruppo di Tiziano Motti, per dire.
De Mita e Craxi furono fieri avversari nel pentapartito durante gli anni Ottanta, ossia un quarto di secolo fa. Nel frattempo, qualcosina nel mondo è successo. Che so: la caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione dell’impero sovietico, la moneta unica e l’allargamento a Est dell’Europa, in Italia il crollo dei partiti tradizionali. Ma molto, molto di più. La globalizzazione ha squassato le economie di mezzo mondo, la Rete ha rivoluzionato le forme di comunicazione, il riscaldamento del pianeta è diventato un allarme ahimé ancora insufficiente per risvegliare i potenti, i beni fondamentali come l’acqua sono sottoposti a un furioso scontro per l’accaparramento delle concessioni private da parte delle multinazionali.
E ancora si sono scatenate guerre per il petrolio e guerre in nome di Dio, e molti dittatori sono ancora al potere, e in Italia un signore straricco monopolista della tv fa il bello e cattivo tempo pretendendo di sfuggire alla giustizia del suo Paese perché – dice – è stato eletto dal popolo, quasi che la Costituzione non fissasse nelle funzioni del Capo dello Stato e del Parlamento le regole per il funzionamento corretto della democrazia. Quello stesso signore che ha annunciato di volere riempire la penisola di centrali nucleari, dimenticando di un voto contrario espresso molto tempo fa dai cittadini italiani, nonché di realizzare il ponte sullo Stretto di Messina: opera di cui si avverte un bisogno spasmodico, in una Sicilia dove manco funzionano le ferrovie.
Eppure no, anche il Corriere ci casca. Almeno fino al 19 gennaio, ricorrenza del decennale della morte, il dibattito politico italiano si giocherà sull’infinita discussione se Craxi fosse uno statista o un bandito, un latitante o un esiliato, un criminale comune o un leader internazionale. Discussione che non può certo esaurirsi in uno strepitìo di voci dissonanti anche perché viziata dall’interesse contingente. Si usa Craxi come oggetto di scontro sulla politica di oggi, un po’ come fanno certi berluscones emiliani quando attaccano il Pd per i morti del dopoguerra. Possibile che il ceto politico non sappia fare altro che strumentalizzare i fatti della storia a proprio uso e consumo? Possibile che non accettino di fare un passo indietro?
Non volevo dedicare questo editoriale a Craxi. Volevo dedicarlo a Steve Jobs.

Mi consola sapere che ci sono senz’altro più lettori che conoscono Jobs di quanti conoscano le vicende di Craxi. Parlo di Jobs non tanto come genio della tecnologia, ma per focalizzare una riflessione sul futuro dell’informazione – e in fondo della vita di quasi tutti noi. Il tablet di cui si vocifera da giorni si annuncia come un prodotto epocale, in grado di salvare l’editoria libraria e la carta stampata. Se l’iPod ha cambiato le nostre abitudini nell’ascolto della musica, e l’iPhone ha segnato un balzo nell’utilizzo della telefonia cellulare, la creatura in arrivo dai guru di Cupertino consentirà di leggere libri e giornali direttamente sulla “tavola” portatile, risolvendo definitivamente lo squilibrio di prestazioni che separa un notebook da un palmare.
Non stiamo parlando di futurologia. Il nuovo prodotto Apple sarà presentato a fine gennaio e dovrebbe arrivare sul mercato a marzo. Pare che Jobs, inguaribile perfezionista, ne sia entusiasta. Prendano nota lettori e colleghi. L’editoria non è morta, anzi. Mentre qui si baloccano sulla storia del secolo scorso, negli Usa c’è chi disegna il mondo di domani. Dai politici, da questi politici non abbiamo niente di buono da attenderci. Si veda il caso Schifani: quando Grillo gli ha proposto la webcam, questi deve avere pensato a un pericoloso oggetto contundente e se l’è data a gambe. Questo ceto politico sa solo andare a rimorchio, quando va bene. Quando va male, ruba. Continuano a finanziare giornali di carta di partito che nessuno legge: solo spreco di carta.
Ma tutti i quotidiani vanno male: la carta stampata costa troppo e la sfida tecnologica – come dimostra il successo di questo sito – o la si affronta con coraggio o si è destinati a sparire. Con tutto il rispetto per il dibattito su Craxi, credo che da oggi parleremo soprattutto di Jobs. E del futuro della comunicazione. Cioè di economia, di politica, di cultura, di storia, del mondo in cui viviamo e in cui vivremo.

http://www.reggio24ore.com/Sezione.jsp?titolo=Parlano+di+Craxi.+Noi+parliamo+di+Jobs&idSezione=9309

27 gennaio. Leggiamo “La notte” (E.Wiesel)

Venerdì 8 gennaio presso la Gabella di via Roma alla presenza di rappresentanti della scuola, degli istituti storici e di ricerca, delle istituzioni, dei sindacati, delle comunità degli immigrati e del mondo del teatro e dell’animazione si è tenuto l’incontro – promosso dal consigliere provinciale Marcello Stecco e da Lorenzo Capitani, Carmen Marini e Chiara Morelli – per promuovere la lettura de “La Notte” (del premio Nobel per la letteratura Elie Wiesel) in occasione del “Giorno della Memoria”, celebrazione istituita dieci anni fa per ricordare la tragedia della Shoah, delle leggi razziali, della persecuzione degli ebrei e di tutti coloro che hanno subito la deportazione, la prigionia e la morte nei campi di concentramento nazisti.

Sarà una lettura del testo in forma partecipativa, con 100 lettori che domenica 24 gennaio dalle ore 15 alle 19 si alterneranno per declamare ciascuno una delle pagine del libro nel contesto della Sinagoga di via de L’Aquila: nello stesso pomeriggio, presso la stazione ferroviaria, si effettueranno letture tratte da “Le donne e la Shoah” di Giovanna De Angelis.

L’amministrazione provinciale è quindi ora alla ricerca di cittadini interessati ad essere coinvolti nel progetto e disponibili per la lettura di uno stralcio del testo, che possono mettersi in contatto direttamente con i promotori attraverso i rispettivi indirizzi di posta elettronica (marcellostecco@gmail.com, capitanilorenzo@libero.it, carmen.marini@fastwebnet.it, ceres.m@libero.it, 27gennaio@istoreco.re.it, odescalchi@libero.it, massimo.storchi@fastwebnet.it, mammant@libero.it e antoniettacento@libero.it).

Il regime militare del partito dell’amore

Intervista di Marco Travaglio a Barbara Spinelli

“Se la politica italiana fosse un film, questo inizio di 2010 lo intitolerei Le conseguenze dell’amore. Il regime c’è da tempo. Ma ora si sta consolidando e inasprendo alla maniera classica dei totalitarismi: introducendo nella politica la categoria del sentimento per cancellare qualunque normalità democratica, qualunque ordinaria dialettica fra maggioranza e opposizione, fra governo e poteri di controllo e di garanzia. Il Capo pretende di essere amato, anzi adorato e, dopo l’attentato di Piazza Duomo, gioca sui sentimenti dei cittadini per ricattarli: ‘Chi non è con me è contro di me. Chi non mi adora mi odia’”. Barbara Spinelli non si è mai sottratta alle regole ferree del dizionario: ha sempre chiamato “regime” il berlusconismo. Ma ora vede un’altra svolta, una cesura estrema, un salto in avanti verso il baratro.

Qual è precisamente questa svolta di regime nel regime?
Nella testa di Berlusconi l’attentato di Piazza Duomo ha creato un prima e un dopo. Dopo, cioè oggi, nulla può più essere come prima. Si sente in guerra, anche se combatte da solo. E con il dualismo amore-odio crea una situazione militare: l’immagine del suo volto sfregiato e insanguinato, riproposta continuamente in tv e sui giornali, è per lui l’equivalente dell’attentato alle due Torri per Bush. Stessa valenza, stessa ossessività, stesso scopo ricattatorio. Con la differenza che, dietro l’11 settembre, c’era davvero il terrorismo internazionale. Dietro l’attentato a Berlusconi c’è solo una mente malata e isolata.

Qual è la conseguenza politica?
L’attentato al premier ha ancor di più narcotizzato la stampa italiana, che ha rapidamente interiorizzato il ricatto dell’amore e dell’odio. E il Pd dietro. Viene bollata come espressione di odio da neutralizzare, espellere, silenziare qualunque voce di opposizione intransigente. Cioè di opposizione. Tutti quei discorsi sul dovere del Pd di isolare Di Pietro. A leggere certi quotidiani, ci si fa l’idea che il vero guaio dell’Italia degli ultimi 15 anni non sia stato l’ascesa del berlusconismo, ma quella dell’antiberlusconismo. Quanti editoriali intimano ogni giorno all’opposizione di non odiare, cioè in definitiva di non opporsi! Come se l’azione isolata di un imbecille potesse e dovesse condizionare l’opposizione. Un ricatto che si riverbera anche sugli articoli di cronaca.

A che cosa si riferisce?
Alla strana indifferenza con cui si raccontano alcune scelte mostruose, eversive della maggioranza che inasprisce il suo regime senza più critiche né opposizione. Penso alle tre o quattro leggi ad personam fabbricate in queste ore nella residenza privata del premier. Penso all’orribile apposizione del segreto di Stato sugli spionaggi illegali scoperti dalla magistratura in un ufficio del Sismi e nell’apparato di sicurezza Telecom. A salvare con gli omissis di Stato gli spioni accusati di avere schedato oppositori, giornalisti e magistrati sono gli stessi che un anno fa creavano il mostro Genchi, dipingendolo come una minaccia per la democrazia, trasformando il suo presunto ‘archivio’ in una centrale eversiva.

E Genchi operava legalmente per procure e tribunali, al contrario delle barbe finte della Telecom e del Sismi.
Appunto, ma nella smemoratezza generale, facilitata dalla narcosi della stampa (per non parlare della tv), nessuno ricorda più nulla. Nessuno è chiamato a un minimo di coerenza, né di decenza. I sedicenti cultori della privacy che strillano a ogni legittima intercettazione giudiziaria tentano di controllare addirittura il cervello e i sentimenti del comune cittadino col ricatto dell’‘odio’. Fanno scandalo le intercettazioni legali, mentre lo spionaggio illegale viene coperto dal governo. Così il segreto di Stato diventa un lasciapassare preventivo a chiunque volesse tornare a spiare oppositori, giornalisti e magistrati. ‘Fatelo ancora, noi vi copriremo’, è il messaggio del regime. ‘Le operazioni illegali diventano legali se le facciamo noi’: un avvertimento per quel poco che resta di opposizione e informazione libera. E il Pd e i giornali ‘indipendenti’ non dicono una parola, soggiogati dalla sindrome di Stoccolma.

Che dovrebbe fare, in questo quadro, l’opposizione?
Vediamo intanto che cosa dobbiamo fare noi con l’opposizione: smettere di chiamarla opposizione. Diciamo ‘quelli che non governano’. Gli daremo la patente di oppositori quando ci diranno chiaramente che cosa intendono fare per contrastare il regime e cominceranno seriamente a farlo. Se è vero che Luciano Violante segnala addirittura al governo le procure da far ispezionare, se Enrico Letta difende il diritto del premier a difendersi ‘dai’ processi, se altri del Pd presentano disegni di legge per regalare l’immunità-impunità a lui e ai suoi amici, chiamarli oppositori è un favore. Li aspetto al varco: voglio sapere chi sono e cosa fanno.

Ellekappa li chiama “diversamente concordi”.
Appunto. Non si sono nemmeno accorti dello spartiacque segnato dall’attentato nella testa di Berlusconi, fra il prima e il dopo. Non hanno neppure colto la portata ricattatoria dell’ultimatum del premier perché le nuove leggi ad personam vengano approvate entro febbraio, altrimenti ‘le conseguenze politiche non saranno indolori’. Nessuno ha nulla da dire contro questo linguaggio da mafioso ai vertici dello Stato? Perché nessuno fa dieci domande su quella frase agghiacciante? E’ il Partito dell’Amore che si esprime così?

Che dovrebbe fare l’opposizione per essere tale?
Rendersi graniticamente inaccessibile a qualsiasi compromesso sulle leggi ad personam. Evitare di reagire di volta in volta sui piccoli dettagli, ma alzare lo sguardo al panorama d’insieme e dire chiaro e forte che siamo di fronte a una nuova svolta, a un inasprimento del regime. E respingere pubblicamente, una volta per tutte, questo discorso osceno sull’amore-odio.

Tabucchi invita le opposizioni a coinvolgere l’Europa con una denuncia che chiami in causa le istituzioni comunitarie.
Sull’Europa non mi farei soverchie illusioni: basta ricordare i baci e abbracci a Berlusconi negli ultimi vertici del Ppe. Io comincerei a dire che con questo tipo di governo non ci si siede a nessun tavolo, non si partecipa ad alcuna ’convenzione’, non si dialoga e non si collabora a cambiare nemmeno una virgola della Costituzione. Oddio, se vogliono ridurre i deputati da 630 a 500 o ritoccare i regolamenti, facciano pure: ma non è questo che interessa a Berlusconi. Come si fa a negoziare sulla seconda parte della Costituzione con chi, vedi Brunetta, disprezza anche la prima, cioè i princìpi fondamentali della nostra democrazia? Anziché dialogare con Berlusconi, quelli del Pd farebbero meglio a guardare a Fini, provando a fare finalmente politica e lavorando sulle divisioni nella destra, invece di inseguire, prigionieri stregati e consenzienti, il pifferaio magico. Spesso in questi mesi Fini s’è mostrato molto più avanti del Pd, che l’ha lasciato solo e costretto ad arretrare.

Perché, con la maggioranza che ha, il Cavaliere cerca il dialogo col Pd?
Anzitutto per un’irrefrenabile pulsione totalitaria: lui vorrebbe parlare da solo a nome di tutto il popolo italiano, ecco perché l’opposizione dovrebbe dirgli chiaramente che più della metà degli italiani non ci sta. E poi c’è una necessità spicciola: senza i due terzi del Parlamento, le controriforme costituzionali dovrebbero passare dalle forche caudine del referendum confermativo: e l’impunità delle alte cariche o della casta, per non parlare del lodo ad vitam di cui parlano i giornali, non hanno alcuna speranza di passare. Dunque è proprio sulla difesa della Costituzione e sul no a qualunque immunità che il Pd dovrebbe parlar chiaro. Invece è proprio lì che sta cedendo.

L’ha soddisfatta il discorso di Napolitano a Capodanno?
Mi ha impressionato più per quel che non ha detto, che per quel che ha detto. Mi aspettavo che, onorando i servitori dello Stato che rischiano la vita, non citasse solo i soldati in missione, ma anche i magistrati che corrono gli stessi rischi anche a causa del clima, questo sì di odio, seminato dalla maggioranza. Invece s’è dimenticato dei magistrati persino quando ha elencato i poteri dello Stato, come se quello giudiziario non esistesse più.

Perché, secondo lei, tutte queste dimenticanze?
È una lunga storia…Chi è stato comunista a quei livelli non ha mai interiorizzato a sufficienza i valori della legalità, della giustizia, dei diritti umani. Quando poi i comunisti italiani, caduto il Muro, hanno cambiato nome, sono diventati socialisti, e all’italiana: cioè perlopiù craxiani. Mentre la cultura socialista europea ha sempre difeso la legalità e la giustizia, il socialismo italiano degli anni ’80 e ‘90 era quello che purtroppo conosciamo. E chi, da comunista, è diventato craxiano oggi non può avvertire fino in fondo la violenza di quanto sta facendo il regime.

Ora si apprestano a celebrare il decennale di Craxi.
Mi auguro che il presidente della Repubblica non si abbandoni a festeggiamenti eccessivi. E non ceda alla tentazione di associarsi a questa deriva generale di revisionismo e di obnubilazione della realtà storica sulla figura di Craxi. Anche perché la riabilitazione di Craxi non è fine a se stessa: serve a svuotare politicamente e mediaticamente i processi a Berlusconi e a tutti i pezzi di classe dirigente compromessi con il malaffare. Riabilitano un defunto per riabilitare i vivi. Cioè se stessi.

Da Il Fatto Quotidiano dell’8 gennaio

http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2414230&yy=2010&mm=01&dd=08&title=il_regime_militare_del_partito

Pillole

La Bonino si è candidata in Lazio. Persa per persa almeno un candidato dignitoso e di livello. Noo, Castagnetti sta meditando di proporre Silvia Costa. Ci fa piacere: pensavamo fosse già passata a miglior vita o si fosse data al tombolo, in fondo era già deputato nel 1983 (solo 27 anni fa). Una ola per l’ala maschilista del PD che ne ricordano ancora le gonne corte e le belle gambe negli anni ottanta. Un rimpianto per l’ala sovietica del medesimo PD: ci fosse ancora la Nilde si candidava lei! Per la serie il nuovo che avanza (e come suggeriva Lella Costa: “se avanza…buttiamolo via, no?).

Schifani a Reggio. E’andato quasi tutto liscio, in piazza spingi spingi per salire sul palco (se osservate le foto non ci stava più neanche uno spillo, sembravano i naufraghi sull’ultima zattera del Titanic) delle varie “autorità”, entusiasmo popolare a livello Bolzano (-4). Comunque il Presidente non ha avuto contatti con la folla circondato da un nugolo di bodyguard che, pare, però, non abbiano fermato le salivate del nostro Filli, di cui attendiamo a minuti uno storico comunicato stampa del tipo “nella roccaforte bolscevica oggi ha soffiato un vento di libertà..schifani..”.

Schifani a Reggio 2. Nessuno ha capito perchè si sia voluto invitare il suddetto. Ce l’avessero mandato era scortese rifiutare ma andarsele a cercare…Quos vult perdere Deus dementat..o una versione padana del morettiano “continuiamo a farci del male…”?

Schifani a Reggio 3. Stamane l’Associazione Reggiana per la Costituzione ha donato all’illustre ospite un quadretto recante alcune frasi di Giuseppe Dossetti sulla Costituzione. L’illustre ha gradito, dicono le agenzie, speriamo che almeno la cornice fosse d’argento, così, tanto per poterla riciclare…

Visitata la mostra statica di mezzi dell’Esercito in Piazza della Vittoria. Delusione dello scrivente che da vecchio militarista si aspettava carri armati, blindati, lanciarazzi. Niente. Solo camion, cisterne, gru, portacontainer. Insomma roba da Cersaie, la fiera dell’edilizia di Bologna. Dimenticavo che ora l’esercito fa solo missioni di pace. Ingenuo.

L’on.alessandri ha effettuato un sopralluogo sulla SS63. Attendiamo una superstrada per il prossimo weekend, ma solo per veri reggiani. Gli altri a dorso di mulo e calci nel… Almeno un vecchio on. dc, all’epoca (come ora) moolto potente, per farsi sganciare i soldi delle Colombiadi per fare un po’ di lavoretti organizzò, per il ministro dell’epoca dei LL.PP. Prandini (do you remember? 6 anni e 4 mesi per le tangenti ANAS…), un falso ingorgo, ingaggiando appositamente un camionista con bilico e rimorchio che si premurò di inchiodare il regale corteo su per i tornanti di Casina. “Visto che roba? Non si può andare avanti così!” mostrò sdegnato il nostro potente al ministro. E i soldi arrivarono (magari andarono anche un po’ giro, ma vogliamo mettere lo stile?).


Il più grande illusionista del ‘900 (Antonio Tabucchi)

È riuscito a far sparire la fine del secolo, come i miliardi dalle banche: l’Italia è ancora negli anni Ottanta
di Antonio Tabucchi

Dieci anni fa moriva Bettino Craxi nella sua residenza tunisina. Fuggiasco, con due mandati di cattura sul capo e due condanne definitive a dieci anni per corruzione e finanziamento illecito: miliardi di lire imboscati in conti esteri. Oggi i suoi fan lo commemorano: ogni categoria ha il suo santo patrono. Il Pride ideato dalla signora sindaco di Milano partirà da quella città diretto al Senato della Repubblica. E intanto giungono i “messaggi”.
Il ministro Frattini dichiara che si deve “lasciare ai professionisti delle manette la prospettiva di seminare odio e inimicizia”. Dove per “professionisti delle manette” altro non si può intendere che le forze dell’ordine (carabinieri, polizia, guardia di finanza) cui lo Stato affida il compito di arrestare i professionisti del crimine. Ma se arrestare criminali pare sconveniente al ministro, è strano che faccia sapere al presidente della Repubblica che nella sua prossima visita ufficiale in alcuni paesi africani non potrà esimersi dal fare una deviazione in Tunisia per sostare in raccoglimento sulla tomba di Craxi.
Non si capisce perché un nostro ministro in carica si rechi in un paese come la Tunisia che il Consiglio d’Europa ha più volte censurato per le torture e le feroci repressioni del dittatore Ben Ali.
Altri messaggi provengono da Gianni De Michelis, già pluricondannato per corruzione (tangenti autostradali nel Veneto e scandalo Enimont), con pene sospese con la condizionale. In America un rottamato del governo Nixon non scriverebbe neppure su un giornalino dello Iowa. In Italia De Michelis merita l’attenzione della grande stampa. Cito: “La stragrande maggioranza degli italiani riconosce il ruolo politico di Craxi, cioè del più grande statista della fine del Ventesimo secolo. Grillo, Travaglio, Di Pietro rappresentano una minoranza molto esigua che esiste in tutte le società del mondo”. (Repubblica, 31/12/09). Non si capisce bene con quali motivazioni De Michelis affermi che le persone da lui indicate esprimano una minoranza.
È esattamente il contrario. Nonostante la sua frequentazione delle aule di giustizia, si è dimenticato che i tribunali della Repubblica pronunciano le sentenze in nome del popolo italiano. Ma se vuole una revisione del processo a Craxi può portare le prove.
Ma a De Michelis interessano soprattutto gli statisti. Si veda la sua opera, purtroppo l’unica finora pubblicata, Dove andiamo a ballare stasera? Guida a 250 discoteche italiane, Mondadori 1988, un esemplare trattato per diventare statisti, politici e ministri. Craxi ne fu entusiasta e la preferì al socialismo liberale di Norberto Bobbio, un filosofo che gli pareva troppo scomodo e che definì fuori di testa. Forse De Michelis voleva dire un grande statistico: e infatti Craxi i 150 miliardi di introiti illeciti li suddivise con un fine senso della statistica in conti personali sparsi fra Svizzera, Liechtenstein, Caraibi ed estremo oriente, e nel ‘98, quando la Cassazione ne dispose il sequestro, i soldi erano spariti.
Ma finalmente De Michelis esplicita i tre motivi per cui lo considera un grande statista: “Penso a come prese di petto la vicenda di Sigonella. Penso al viaggio sulla tomba di Allende nel Cile di Pinochet: in quel cimitero gli prudevano davvero le mani. Penso ai soldi dati ai movimenti di liberazione, senza andare troppo per il sottile, come fu per ’Olp di Arafat” (Repubblica, cit.).

La vicenda di Sigonella Craxi la prese di petto, eccome. Il signor Leon Klinghoffer, l’ebreo americano in carrozzella che i terroristi buttarono a mare, la prese in un altro modo. Il fatto è che per la prima volta nel dopoguerra Craxi impose alla comunità internazionale l’idea che un atto di terrorismo possa essere considerato lecito. Quanto al prurito alle mani in Cile, resta il mistero. Gli durò a lungo? Come se lo fece passare? Su un evento biografico così importante De Michelis purtroppo tace.
E infine i soldi che elargiva all’Olp di Arafat “senza andare troppo per il sottile”. Viene spontanea una domanda: ma chi glielo aveva ordinato, a Bettino Craxi, di dare soldi sottobanco all’Olp di Arafat? Se fossero stati soldi di famiglia sarebbe solo un problema politico, ma dato che erano soldi di tangenti, cioè denaro sporco, la faccenda si complica. E poi: il grande statista lo sapeva che anche Arafat, i soldi, invece di usarli per la sua organizzazione li imboscava come lui su conti personali in Svizzera e in Francia?
Ma De Michelis dimentica le imprese che fanno del Nostro uno statista sui generis: per esempio la sua amicizia con Siad Barre, un sanguinario dittatore che con un colpo di Stato, dopo aver fatto fucilare intellettuali, giornalisti e oppositori, aveva instaurato dal 1969 una feroce dittatura in Somalia e che ricevette da Craxi montagne di denaro. Era la cosiddetta “cooperazione italiana”. Per il solo quadriennio 1981-84, Craxi stanziò per la dittatura di Barre 310 miliardi di lire. Tralascio le armi italiane alla Somalia, oltre agli aiuti “tecnici” e le magnifiche autostrade costruite nel deserto.
Del grande statista il suo devoto dimentica poi la legge Mammì, la revisione del Concordato del 1984 con l’attribuzione dell’8 per mille alla Chiesa, il debito pubblico che da 400 mila passò a 1 milione di miliardi di lire, l’Alfa Romeo regalata alla Fiat e sottratta alla Ford che l’avrebbe pagata, le amicizie con Licio Gelli, le parole di sostegno ai generali argentini contro la Gran Bretagna durante la crisi delle Falkland. E infine la Tunisia.
Craxi la scelse come punto di fuga nel 1994. In quel paese dal 1987, con un colpo di Stato sostenuto dal nostro Sismi, aveva preso il potere un certo Zine El-Abidine Ben Ali, instaurando un regime di terrore dove sparizioni, omicidi e torture erano all’ordine del giorno. Evidentemente a Craxi piaceva, non gli prudevano le mani. Ben Ali, si noti, è “presidente” della Tunisia da 21 anni, perché “ama il suo popolo e ne è riamato”, come dice la sua propaganda.
Il devoto del grande statista conclude con un messaggino al presidente della Repubblica: “Alle elezioni del ’92 cominciammo ad ospitare nelle liste del Psi alcuni miglioristi: Borghini, Minopoli, Francese. Altri, più vicini a Napolitano, saltarono solo per un’esitazione dell’ultimo secondo. Poi, venne Mani Pulite (…) Non gli tiro la giacca, il capo dello Stato sa cosa fare. Avrà un grande ruolo, perché Bettino offre a tutti una grande occasione…”. Bettino offre a tutti una grande occasione. Meglio girar la testa dall’altra parte e fare finta di non avere sentito.
Ma c’è una cosa che De Michelis non può dire, ed è una cosa che fa di Craxi a suo modo un “grande”. Non certo il più grande statista della fine del secolo, ma il più grande illusionista della fine del secolo. Perché Craxi, con l’aiuto dei suoi fidi, la fine del secolo è riuscito a farla sparire, come i miliardi dalle banche. Non ha imboscato solo i soldi delle tangenti, ha imboscato anche il Tempo. Dove abbia nascosto la fine del secolo, in quale remoto conto off-shore o in quale Buco Nero dell’universo non si sa, ma è sparita.
Il Novecento è finito e il nuovo secolo (anzi il nuovo millennio) si è portato via il vecchio, con la sua storia e i suoi detriti, che in occidente sono volati via dappertutto, in America come in Europa. Meno che in Italia, che probabilmente non appartiene all’Europa. Gli italiani non sono nel Duemila, sono ancora nel millennio scorso: ci sono ancora i comunisti (lo dice Berlusconi), c’è ancora il Sillabo, ci sono ancora i Servizi deviati, c’è ancora la mafia che lavora coi politici e i politici che lavorano con la mafia, c’è ancora il conflitto d’interessi, c’è ancora senza esserci l’Alitalia, c’è ancora Porta a Porta, c’è ancora D’Alema e soprattutto c’è ancora Bettino Craxi, e dunque c’è Berlusconi.
Voi siete (noi siamo) ancora negli anni Ottanta, cari connazionali, quando c’era la Democrazia cristiana, la P2, la Milano da bere e De Michelis componeva la sua fondamentale opera sulle discoteche italiane. È la notte dei morti viventi. E per fortuna siamo agli anni Ottanta, perché se va avanti (anzi indietro) così, domani potremmo leggere sui giornali: “Individuati i responsabili della bomba al tribunale o alla questura tal dei tali. Si chiamano Pietro Valpedra e Giuseppe Pinelli”.

Una strada intitolata a Craxi? Ma che gli diano pure un vialone. Purché l’eventuale via che Ilaria Alpi meriterebbe ne sia a debita distanza. Dove andiamo a ballare stasera? Ma al Senato, tesoro.

Da Il Fatto Quotidiano del 6 gennaio

Libertà e diritti della persona: la bussola dei Padri costituenti

di Lorenza Carlassare

Le elezioni del 2 giugno 1946 ebbero come risultato l’emergere in Assemblea Costituente di due gruppi praticamente equivalenti, la Democrazia Cristiana da un lato e i partiti della sinistra (socialisti e comunisti) dall’altro; assai distaccate, alcune formazioni minori. L’elemento tutte comune a tutte, dopo l’esperienza vissuta, era l’antifascismo.
La Costituzione del 1948 ha la sua premessa nella resistenza, nel ripudio dello stato autoritario e dei suoi dogmi, nella volontà di ripristinare la democrazia e i principi dello Stato di diritto. Ciò spiega la forza delle idee liberali, ben superiore alla forza numerica del gruppo. Sulla base dell’idea liberale che vuole il potere regolato e sottoposto a limiti giuridici per garantire diritti e libertà, storicamente congiunto all’idea democratica, s’innestano alcuni elementi propri delle dottrine delle due forze dominanti, cristiano sociale e socialista.
Ma il conto delle forze in campo e il loro confronto numerico, certamente assai rilevante, vale fino a un certo punto; le idee circolavano, in Italia e fuori. La Costituzione va collocata in uno scenario più ampio, addirittura mondiale, traversato da idee e speranze comuni maturate attraverso esperienze tragiche che non si volevano ripetere, aperto o orizzonti diversi e nuovi. Proiettandola in uno scenario meno angusto, meglio si comprendono le forti convergenze e i tra i Costituenti e il loro perché. È giusto, ma riduttivo, vedere nella Costituzione solo il prodotto dell’antifascismo, il rigetto della dittatura come esperienza italiana.
La lotta antifascista si iscrive nell’ampio scenario di una guerra mondiale condotta e vinta contro tutti i ‘fascismi’ dominato dall’intento di costruire un mondo diverso e migliore, che potesse ridare dignità alla persona. Il valore della persona era nella cultura comune dei Costituenti, decisi nell’affermarne i diritti non solo come garanzia di una sfera intoccabile di libertà e di partecipazione politica, ma anche come tutela effettiva dei diritti stessi attraverso l’assicurazione di condizioni esistenziali dignitose.
Riecheggia nel testo della Carta italiana il pensiero espresso al di là dell’oceano nel pieno della seconda guerra mondiale (1941) da Franklin Delano Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, nella famosa proclamazione delle quattro libertà, dove a quelle tradizionali – libertà di pensiero e di espressione , di religione – si affiancava la libertà dalla paura e la libertà dal bisogno. Non stupisce dunque che nella Costituente subito si parlasse di dignità della persona e di diritti sociali. Le idee girano.
Tanto è vero che alcuni dei più significativi articoli della Costituzione, ad esempio l’art.3, comma 2, riprendono affermazioni di persone, elette poi alla Costituente, neppure appartenenti alle formazioni politiche maggiori. Penso a Piero Calamandrei del Gruppo autonomista, una piccola formazione che si ispirava al pensiero di Carlo Rosselli, che considerava il problema della libertà individuale e il problema della giustizia sociale “un problema solo”: non basta assicurare al cittadino “teoricamente le libertà politiche, ma bisogna metterlo in condizione di potersene praticamente servire”.

Di libertà politica “potrà parlarsi solo in un ordinamento in cui essa sia accompagnata per tutti dalla garanzia di quel minimo benessere economico”, senza il quale la possibilità di esercitare i diritti viene meno. I tradizionali diritti vanno dunque riempiti di “sostanza economica”, integrati da quel minimo di giustizia sociale, la cui mancanza “equivale per l’indigente alla loro soppressione giuridica”.
Ai diritti sociali “corrisponde l’obbligo dello Stato di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che si frappongono alla libera espansione morale e politica della persona umana”. In termini analoghi si esprimevano Mortati e La Pira, cattolici entrambi.
Si può parlare dunque di una cultura comune dei Costituenti, decisi nell’affermazione dei diritti della persona non solo come garanzia di una sfera intoccabile di libertà e di partecipazione politica, ma anche come tutela effettiva di quelli stessi diritti, attraverso l’assicurazione di condizioni esistenziali dignitose. Fin dal primo articolo si parla del “lavoro”, base della democrazia, condizione prima della dignità umana. Eliminare questo riferimento, è già rovesciare il senso dell’intera Carta.

Da il Fatto Quotidiano del 5 gennaio