Ci hanno portato via anche la vergogna (Marco Belpoliti)

Si intitola “Senza vergogna” il nuovo saggio di Marco Belpoliti appena pubblicato da Guanda. Scritto come un racconto, è un’indagine a tutto campo sulla vergogna nell’attuale società. Il libro conduce il lettore dal carcere iracheno di Abu Ghraib, alle camerette degli hikikomori a Tokyo, alla Città del Capo di J. M. Coetzee, alla New York di Andy Warhol, alla Londra multietnica di Salman Rushdie, alla Las Vegas del porno di David Foster Wallace.

senzavergognagrande.jpgIl tempo della vergogna è forse finito? Non passa giorno che uomini politici, affaristi, immobiliaristi, costruttori edili, banchieri, attrici, alti funzionari dello Stato vengano sbugiardati nelle loro affermazioni, messi alla berlina, esposti al pubblico ludibrio, senza che nessuno debba pentirsi di ciò che ha detto o fatto, rassegnare le dimissioni, ritirarsi a vita privata, o chiedere semplicemente scusa. Tutto resta eguale, come se quel sentimento, che per Brunetto Latini era «passione d’animo, e non è virtude», non li pervadesse, sino a spingerli a gesti estremi. Dal Giappone giunge invece la notizia che il conduttore di un treno superveloce, in ritardo di cinque minuti, si è tolto la vita per l’onta. Un gesto eccessivo, probabilmente, ma perfettamente simmetrico a quello che ha invaso la società italiana negli ultimi vent’anni.
La vergogna, sostengono gli psicologi, è un’emozione intrinsecamente sociale e relazionale: si prova davanti a un pubblico più o meno virtuale che ci guarda, ci biasima, ci giudica; ma al tempo stesso la vergogna appare una emozione «focale», cioè selettiva, per cui ci colpisce solo se abbiamo una disposizione a esserne toccati. Per una persona la contestazione d’eccesso di velocità da parte di una pattuglia di vigili urbani è fonte d’indubbia vergogna, per altri è solo una scocciatura. Naturalmente tutto questo dipende dal giudizio che la società in cui si vive attribuisce a quell’infrazione. Se la nostra società non reputa il peculato, l’interesse privato in atto pubblico, il clientelismo, l’affarismo, il conflitto d’interessi, la prostituzione atti morali riprovevoli, allora è evidente che i singoli che v’incorrono difficilmente proveranno vergogna.
Forse per capire se è scomparsa la vergogna nella società italiana basta fare un piccolo esperimento: per quale ragione abbiamo un’immagine negativa di noi stessi? Probabilmente la maggioranza risponderebbe: per la vergogna di non aver successo, di non essere notati, per la terribile vergogna d’essere nessuno. Vige oggi una vergogna di tipo amorale, emozione e sentimento di superficie che non intacca l’immagine profonda di sé. «Il tempo delle figure di merda è finito», dice un amico, rivolto al protagonista del romanzo di Nicolò Ammaniti Che la festa cominci. La frase coglie nel segno e indica il rovesciamento anche di un codice morale. Ma come siamo arrivati a questo? Forse perché le istituzioni deputate ad ammaestrare i singoli circa le norme e i comportamenti sociali, ovvero la scuola, la Chiesa, i partiti tradizionali, i sindacati, sono andate tutte in crisi? Probabilmente sì. Tuttavia il problema è: perché è accaduto?
In un celebre saggio, di cui in questi mesi si è celebrato il trentennale della pubblicazione, La cultura del narcisismo, lo storico americano Christopher Lash metteva in luce il rapporto esistente tra l’affermazione del narcisismo e il dominio delle immagini nell’ambito della vita individuale e collettiva. Viviamo, scriveva, in una sorta di vortice d’immagini e di risonanze che arrestano l’esperienza e la riproducono al rallentatore. In quel periodo, anni 70, si erano diffuse le piccole fotocamere, ma anche i registratori portatili e altri riproduttori, così la vita americana appariva una immensa camera dell’eco, una sala degli specchi. La stessa crescita della televisione rendeva il fenomeno ancora più pervasivo, così che oggi la nostra vita quotidiana è a tal punto mediata dalle immagini elettroniche che nessuno risponde più delle proprie azioni, presi come siamo da questa continua esibizione di noi stessi, e insieme degli altri.

Siamo sempre davanti a una «camera», come scriveva già negli anni 60 Thomas Pynchon, per cui il nostro atteggiamento è quello dello «Smile!». Il sorriso è sempre stampato sul nostro viso, e tutti conoscono perfettamente l’angolazione fotografica, o televisiva, con cui mettere in luce il lato migliore del proprio viso. Andy Warhol, con la sua arte, è stato uno dei profeti più acuti di tutto questo.
La civiltà dell’immagine ha dunque divorato la vergogna? Probabilmente sì. Come scriveva negli anni 50 Günther Anders, il filosofo tedesco riparato in America durante la guerra, la televisione ha la capacità di defraudarci dell’esperienza e della capacità di prendere posizione. Certo, grazie al video il nostro orizzonte si allarga a dismisura, ma solo attraverso le immagini. Con formula icastica il filosofo, che era stato operaio alla Ford e uomo delle pulizie a Hollywood, affermava che chi consuma nella propria stanza ben riscaldata l’immagine di un’esplosione nucleare fornita a domicilio è defraudato della capacità di concepire la cosa stessa, le sue conseguenze concrete, e dunque di prendere posizione.
La moralità è legata strettamente a esperienze dirette che nell’ambito della vita quotidiana vengono sempre più a mancare, con il loro corollario di giudizio che inevitabilmente vi si forma. La barriera del pudore si è abbassata, e non solo quella del pudore sessuale, ma anche del pudore legato allo scambio delle merci. Il sesso stesso, grazie alla pornografia, è sempre più una merce, separato dalla sfera dei sentimenti, e quindi anche dalla vergogna stessa, o almeno quella cosiddetta morale; le merci si sessualizzano grazie alla pubblicità.

La vergogna amorale appare legata non già a norme, bensì a modelli di consumo, a etichette sociali, in particolare al potere personale. La psiche individuale e collettiva reca non i segni della vergogna, bensì quelli di un transitorio senso d’imbarazzo. Chi nel romanzo di Ammaniti pronuncia la frase sulla «figura», un chirurgo, si siede, accende una sigaretta e aggiunge: «Si è estinta come le lucciole». Con buona pace di Pasolini e della sua mutazione antropologica.

da “La Stampa”, 28 aprile 2010

Ci hanno portato via anche la vergogna (Marco Belpoliti)ultima modifica: 2010-05-03T15:57:00+02:00da pelikan-55
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