La sindone, il papa e il successore di Poletto (don Paolo Farinella, prete)

TKimg49c8989f9925f.jpgIl papa è andato a Torino a vedere la sindone. Ognuno impegna il proprio tempo come meglio crede. Personalmente penso che invece di perdere tempo a visitare lenzuola che nulla aggiungono alla fede, avrebbe fatto meglio se si fosse dedicato di più a riformare i preti (quelli che restano) e a rilanciare il concilio Vaticano II, l’unica via per parlare al mondo di oggi. La sindone non mi interessa, mi lascia indifferente perché resta come una «icona», cioè un simbolo di uomo crocifisso e non ha senso perdere tempo in verifiche di autenticità. Essa è parte di quel «superfluo» religioso tanto caro a chi fa incetta di religioso miracolistico, salvo poi considerare gli immigrati indegni di avere gli stessi diritti di tutti gli italioti.

Faceva specie vedere il papa tutto bianco che più bianco non si può e accanto a lui Cota, il governatore leghista e il gentiluomo papale Gianni Letta, il prosseneta di Berlusconi. Mi meraviglio che Berlusconi non abbia preso il posto della sindone per potere dire che era apparso anche al papa e di sentirsi crocifisso per il bene del Paese. Poareto!

Intanto Calderoli non aveva ancora finito di parlare contro l’Unità di Italia che Bagnasco gli ha dato una bacchettata sulla lingua, affermando l’importanza delle celebrazioni. Mi piace l’interventismo veloce della Cei, sempre vigile e attenta a quello che accade nei suoi dintorni. Quanta solerzia e che tempestività, signor Cardinale! Lei non ha mosso un capello davanti alle indecenze del signor Berlusconi a caccia di verginelle minorenni, non ha fato una grinza davanti al caso Boffo, costruito ad arte per intimidire la Cei, ma ora, poffarbacco, nèh!, a scemenza calda, arriva la sua condanna immediata, ferma e risoluto sul «valore non negoziabile» dell’Unità d’Italia.

Miracolo! E’ una svolta! Peccato, che il presidente della Cei, dorma quasi sempre e taccia quando deve parlare. Per es., sia Bagnasco che Bertone devono ancora rispondere alla mia lettera sulla comunione di Berlusconi ai funerali di Raimondo Vianello, a parte le «ante» ex et post di Fisichella che vanifica sempre tutte le occasione di stare zitto. Ricevo telefonate ed e-mail di preti, anche molto anziani, che mi chiedono se i due dell’Ave Maria hanno risposto perché si ritengono scandalizzati dal silenzio della gerarchia che parla dell’unità di Italia, ma nulla le cale dei suoi doveri pastorali. Rispondo che i due «fifty-fifty» non hanno risposto perché «in tutt’altre faccende affaccendate». Così va il mondo della gerarchia mondanizzata.

(6 maggio 2010)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-sindone-il-papa-e-il-successore-di-poletto/

L’Unità d’Italia, un affare per tutti (Angelo D’Orsi)

cavour.jpgMeno male che c’è Ignazio La Russa a preoccuparsi dei festeggiamenti per il 150°. Stando a una sua intervista (ad Antonella Rampino, su La Stampa) il programma è ricchissimo, e le intenzioni del ministro della Difesa, aspirante coordinatore degli eventi, sono assai serie: annuncia, in accordo con il presidente del Consiglio, l’intenzione di dar vita «accanto ai convegnoni», a «un evento popolare». E che c’è di più «popolare» della televisione? Infatti, ecco affacciarsi Festival di Sanremo, Lega Calcio, e Coni. Siamo a posto. Cavour e Garibaldi, Mazzini e Cattaneo, Gioberti e Pisacane, riposino il loro sonno eterno, tranquilli. Apicella canterà dai microfoni di Rai-Mediaset, in un tripudio di sfilate di carri armati, giacché, come spiega il solerte ministro, «bisogna far coincidere le quattro feste delle Forze armate con le celebrazioni».

Insomma, tra canzonette e marce militari, anche noi, malgrado la Lega, e i suoi sussulti antinazionali, ricorderemo l’Unità. Malgrado la Lega, appunto: e per una volta sono d’accordo con Ernesto Galli della Loggia, che sul Corriere della Sera, ha ammonito Calderoli e Bossi: «Non si governa un Paese contro la sua storia». Aggiungo, che coloro che con sufficienza o arroganza, deprecano, fuori tempo massimo, il Risorgimento e irridono all’Unità, sono semplicemente estranei a una pur minima conoscenza della storia: possono anche tentare di governare «contro» di essa, in quanto la ignorano.

Il Risorgimento, intanto, non fu un fatto italiano: esso si colloca in un contesto europeo frutto di un moto che fu tra gli effetti di lungo periodo della Grande Rivoluzione del 1789. Il nazionalismo della prima metà dell’Ottocento ha un carattere progressivo: basti scorrere gli scritti di Marx ed Engels, o i loro carteggi, per rendersi conto di quanto peso abbiano quei moti, a cui i fondatori del «socialismo scientifico» guardarono con attenzione e simpatia. Il Risorgimento italiano, collocato nell’ambito dei movimenti nazionalpatriottici del XIX secolo, mentre servì a cancellare residui di Stati paternalistici, fondati su concezioni proprietarie del potere, ebbe un carattere indubbiamente emancipatorio su vari piani, da quello economico-sociale a quello politico, non trascurando l’ambito della cultura. Una larga fetta della migliore produzione letteraria o di teoria politica italiana si colloca in quella fase ed è frutto di scrittori e pensatori che hanno espresso variamente l’istanza unitaria. Che era tutt’altro che un mero bisogno di statualità, che pure rappresentava un’esigenza significativa in un Paese frammentato, sottoposto all’estro ghiribizzoso di piccoli, mediocri o mediocrissimi sovrani locali, spesso mandatari di poteri reali lontani, a cominciare da quello degli Asburgo che faceva il bello e il cattivo tempo nella Penisola.

Ma quello era anche un Paese economicamente bloccato; solo l’Unità gli diede la spinta decisiva per avviare il decollo industriale, e la sua trasformazione capitalistica: insomma, ne rese possibile ciò che chiamiamo lo «sviluppo». Esso, con tutti i suoi enormi limiti (denunciati da una schiera di studiosi, politici e intellettuali: Antonio Gramsci per tutti) costituì un dato di progresso, a dispetto, appunto, delle contraddizioni e delle sperequazioni, prima fra tutte quella Nord- Sud.

Già, proprio qui, come è noto, si appunta l’angusta polemica della Lega degli ignoranti: il Sud che drenerebbe le risorse realizzate dal Nord. A costoro bisognerebbe innanzi tutto ricordare che lo squilibrio tra le due aree, al di là delle situazioni storiche pregresse, è stato favorito da un processo di industrializzazione che si è localizzato nelle regioni settentrionali, a scapito del Mezzogiorno; e ribadire che quel Sud, fu ed è tuttora un mercato essenziale per le imprese produttrici del Nord; e infine, rammentare che i protagonisti di quel terzo moto unitario (il secondo è stata la lotta di liberazione nazionale contro il nazifascismo, del ’43-45), ossia gli immigrati meridionali a Torino, Milano e nelle altre aree industriali, resero possibile la fortuna delle imprese (e degli imprenditori) ivi collocate.

E se nel Risorgimento e nella Resistenza, l’opera dei meridionali fu limitata – ma non irrilevante -, nelle migrazioni Sud/Nord degli anni Cinquanta/Sessanta, sono stati i meridionali poveri a fornire il «materiale umano» per le industrie del Nord, dopo aver costituito carne da macello, accanto ai poveri del resto d’Italia, nei due conflitti mondiali e nelle altre guerre fasciste.

D’altra parte, l’Unità fu un affare anche per il Mezzogiorno, malgrado le storture e gli errori, gravissimi. Per tanti versi, lo sappiamo, «è andata male»; ma fu il moto unitario, e lo Stato nazionale, a ricuperare il Sud, inserendolo in circuiti dai quali secoli di monarchia borbonica (oggi rivalutata dai soliti revisionisti), l’aveva tenuto fuori. Così la presa di Porta Pia, il 20 settembre 1870, mise fine a un regime tirannico e oscurantista come quello del Papa. Che, nelle sue rinnovate manifestazioni, non più statuali, ma simboliche (oltre che economico-finanziarie), non ha chance alcuna di essere restaurato, a dispetto dei Concordati vecchi e nuovi, e della crescente ingerenza delle gerarchie nella vita politica. Anche questo lo si deve al Risorgimento, e al processo unitario: sul quale, oggi come allora, dobbiamo esprimere tutte le riserve critiche, da studiosi, e da cittadini consapevoli (innanzi tutto informati), ma che possiamo e dobbiamo considerare un punto di non ritorno.

Perciò a quei personaggi pittoreschi che ostentano la cravatta verde, marchio di una inesistente «Padania», e sputano su Garibaldi, Mazzini, e Cavour (inneggiando al «federalista» Cattaneo, dimenticando che si tratta di uno dei più coerenti e convinti sostenitori dell’Unità!), ci permettiamo di dare un modesto consiglio: prendano tra le mani un manuale di storia, e comincino a leggerlo. Non è mai troppo tardi per imparare.

(il manifesto, 6 maggio 2010)

Presentazione

Copertina_Il primo.jpgPresentazione All’Arco. La sala piena, la musica di Virgiglio Rovali, suonata da Emanuele Reverberi e Paolo Simonazzi. Un libro è come una freccia: si prepara, si appuntisce, si equilibra e poi si scocca. E il libro va, segue la sua strada, lo leggi e non ti ricordi subito di averle scritte tu quelle righe, di avere pensato tu quella struttura, quell’ordine nel racconto. Il libro va e tu resti solo, a pensare al prossimo libro, alla prossima freccia che, forse, riuscirai a scoccare. O forse no. Questo forse, per quanto mi riguarda, è stato il libro-finora-più personale, quello in cui ho dovuto temperare il mestiere dello storico con la passione della scrittura. Quello in cui ho “incontrato” di più le persone, cercando di ridare loro quello spazio, quella vita che non avevano potuto godere. Piccolissima cosa.

E poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare (F.De Andrè,  Il suonatore Jones).

In fondo è un modo anche questo, come Fortezza Bastiani, per non arrendersi a questa decomposizione trionfante, a questa volgarità lucente a questa completa mancanza di vergogna. Cose così, per i miei 25 lettori. Grazie a tutti.

S’avanza uno strano partito…

pioggia.jpgSaranno le piogge primaverili, sarà il crac greco, saranno le occasioni immobiliari di Scajola (a proposito lancio un avviso: se qualcuno vuole pagarmi un auto nuova-la mia ha 12 annni-io sono disponibile a non accorgermi di nulla…) però certe cose mi suonano strane, pur nella bella Reggio che ci ospita e ci nutre. L’amica Normanna osservava che almeno del buon Filippi sappiamo cosa “pensa”, ma dei piddini capiamo solo la tendenza alla sedentarietà seggiolara (patologia di antica data diffusa in Italia), quando poi non ci sorprendono con trovate geniali come quella di bocciare la concessione della cittadinanza onoraria a Gino Strada (è successo a Castelnovo Monti). IO non capisco molto di politica, sono un montanaro venuto giù con l’ultima piena, però. Però mi suona strano un partito che non fa proseliti. Dopo la nascita del PD mi immaginavo una campagna acquisti, entusiasti attivisti che battessero le contrade per staccare tessere, per costituire circoli etc. Nulla. La logica mi sembrava (e mi sembra) fosse “chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori…”, come quando si giocava a nascondino. Se si vuole, ma proprio se si vuole, uno può iscriversi, se proprio vuole…e poi, particolare banale, come ci si iscrive? Il PD aveva una sede in centro in via Guido da Castello, chiusa. Costava troppo. Ma una volta si usava fossero gli iscritti a pagarla, si faceva alla romana: tot euro x tot persone=affitto. Non è difficile. No. Impossibile. Taglio dei costi. E sede chiusa. Poi ci vengono a sassare le gonadi con la storia della Lega radicata nel territorio. Boh. Ti riaprono una sede, lo so perchè è sotto casa mia. Beh, una sede..Una mezza sede, una stanza 6×4 (ventiquattro), aperta solo tre giorni la settimana nei mesi dispari, in quelli pari si vedrà…Da qualche elezione si perde il centro storico e lo si lascia in mano a una folcloristica congrega di fascio-leghisti-forzaitalioti, prima con un presidente cotonato, ora con il benzinaio leghista. Un bel salto di qualità. Dai bassi alla..fossa. Bene, si perde il centro storico e con un distacco limitato. Qualcuno è mai venuto a chiedere voti, aiuti, idee a noi cittadini del centro che (ancora, pervicacemente) votiamo a sinistra? Nulla, a un certo punto spuntano le liste che qualcuno avrà fatto, uno se le legge, si chiede quali sostanze abbiano usato i sagaci compilatori e poi si vota. E, regolarmente, si perde. Bene, bravi. Bis? No, ormai ter! Mah. Ma io non capisco nulla di politica, si sa.

E per chiudere questa piovosa riflessione: come si sceglie il nuovo segretario del PD provinciale? Facile. Come riferiva ieri Reggio 24: “alcuni maggiorenti si sono trovati a discutere gli equilibri e i ticket..?”. Wonderful! Uno legge ed è contento di sapere di aver votato, simili “maggiorenti”. Poi, pare, che si siano messi d’accordo i “maggiorenti” (o gerarchi?) e così avremo il segretario, come recitava quella poesia del Giusti, ricordate?

Al Re Travicello piovuto ai ranocchi, mi levo il cappello e piego i ginocchi;
lo predico anch’io cascato da Dio:
oh comodo, oh bello un Re Travicello!

Perchè stupirsi se continua a ritmo vorticoso il gioco dei 4 cantoni? “Allora quello da lì lo mettiamo la, l’altro da là lo mettiamo lì…” I posti sono limitati e le natiche sono tante, bel problema! Vuoi che vada a cercare anche degli iscritti al club, che poi magari le natiche crescono e le sedie rimangono sempre quelle? Ma che? Son scemo? “Ma mi faccia il piacere”, diceva il buon Totò… A proposito Zanichelli dove lo mettiamo?


Moro è più laico di Berlinguer (Luca Telese)

“Moro aveva una visione più laica e occidentale di Berlinguer“. Parola di Massimo D’Alema. Meraviglioso. L’ennesima puttanata antistorica, vien da dire pensando alla frequenza delle revisioni e delle piccole, miserabili abiure dei dirigenti post-comunisti quando parlano con prevedibile riflesso parricida, del leader che li ha cresciuti. Veltroni ci ha spiegato che Craxi era più moderno di lui. Fassino che è morto perché non aveva una linea politica. Caldarola che è stato la palla al piede della sinistra. Lo dicono ora, però: non quando sognavano carrierine sotto la sua segreteria. Sono cresciuti tutti con Berlinguer. Hanno scritto tutti un libro su di lui. A ogni anniversario tirano fuori il suo quadro e fanno bei discorsi per i militanti.

Poi, per il resto dell’anno, spiegano i suoi difetti, i suoi limiti, dimostrano la sua inadeguatezza alla modernità che presumono di frequentare con disinvoltura e talento. Ogni volta che arriva la sparata di un ex comunista contro Berlinguer, ti chiedi: perché? Se fosse davvero il leader impantanato che dipingono, non si capirebbe perché il popolo della sinistra ami così tanto lui (e stimi così poco loro). O forse è proprio per questo che scatta il tic. Berlinguer vinse le battaglie su divorzio e aborto. Moro combatteva contro. A quanto pare D’Alema è andato a lezione di laicità dalla Binetti.

Da il Fatto Quotidiano dell’1 maggio

Ci hanno portato via anche la vergogna (Marco Belpoliti)

Si intitola “Senza vergogna” il nuovo saggio di Marco Belpoliti appena pubblicato da Guanda. Scritto come un racconto, è un’indagine a tutto campo sulla vergogna nell’attuale società. Il libro conduce il lettore dal carcere iracheno di Abu Ghraib, alle camerette degli hikikomori a Tokyo, alla Città del Capo di J. M. Coetzee, alla New York di Andy Warhol, alla Londra multietnica di Salman Rushdie, alla Las Vegas del porno di David Foster Wallace.

senzavergognagrande.jpgIl tempo della vergogna è forse finito? Non passa giorno che uomini politici, affaristi, immobiliaristi, costruttori edili, banchieri, attrici, alti funzionari dello Stato vengano sbugiardati nelle loro affermazioni, messi alla berlina, esposti al pubblico ludibrio, senza che nessuno debba pentirsi di ciò che ha detto o fatto, rassegnare le dimissioni, ritirarsi a vita privata, o chiedere semplicemente scusa. Tutto resta eguale, come se quel sentimento, che per Brunetto Latini era «passione d’animo, e non è virtude», non li pervadesse, sino a spingerli a gesti estremi. Dal Giappone giunge invece la notizia che il conduttore di un treno superveloce, in ritardo di cinque minuti, si è tolto la vita per l’onta. Un gesto eccessivo, probabilmente, ma perfettamente simmetrico a quello che ha invaso la società italiana negli ultimi vent’anni.
La vergogna, sostengono gli psicologi, è un’emozione intrinsecamente sociale e relazionale: si prova davanti a un pubblico più o meno virtuale che ci guarda, ci biasima, ci giudica; ma al tempo stesso la vergogna appare una emozione «focale», cioè selettiva, per cui ci colpisce solo se abbiamo una disposizione a esserne toccati. Per una persona la contestazione d’eccesso di velocità da parte di una pattuglia di vigili urbani è fonte d’indubbia vergogna, per altri è solo una scocciatura. Naturalmente tutto questo dipende dal giudizio che la società in cui si vive attribuisce a quell’infrazione. Se la nostra società non reputa il peculato, l’interesse privato in atto pubblico, il clientelismo, l’affarismo, il conflitto d’interessi, la prostituzione atti morali riprovevoli, allora è evidente che i singoli che v’incorrono difficilmente proveranno vergogna.
Forse per capire se è scomparsa la vergogna nella società italiana basta fare un piccolo esperimento: per quale ragione abbiamo un’immagine negativa di noi stessi? Probabilmente la maggioranza risponderebbe: per la vergogna di non aver successo, di non essere notati, per la terribile vergogna d’essere nessuno. Vige oggi una vergogna di tipo amorale, emozione e sentimento di superficie che non intacca l’immagine profonda di sé. «Il tempo delle figure di merda è finito», dice un amico, rivolto al protagonista del romanzo di Nicolò Ammaniti Che la festa cominci. La frase coglie nel segno e indica il rovesciamento anche di un codice morale. Ma come siamo arrivati a questo? Forse perché le istituzioni deputate ad ammaestrare i singoli circa le norme e i comportamenti sociali, ovvero la scuola, la Chiesa, i partiti tradizionali, i sindacati, sono andate tutte in crisi? Probabilmente sì. Tuttavia il problema è: perché è accaduto?
In un celebre saggio, di cui in questi mesi si è celebrato il trentennale della pubblicazione, La cultura del narcisismo, lo storico americano Christopher Lash metteva in luce il rapporto esistente tra l’affermazione del narcisismo e il dominio delle immagini nell’ambito della vita individuale e collettiva. Viviamo, scriveva, in una sorta di vortice d’immagini e di risonanze che arrestano l’esperienza e la riproducono al rallentatore. In quel periodo, anni 70, si erano diffuse le piccole fotocamere, ma anche i registratori portatili e altri riproduttori, così la vita americana appariva una immensa camera dell’eco, una sala degli specchi. La stessa crescita della televisione rendeva il fenomeno ancora più pervasivo, così che oggi la nostra vita quotidiana è a tal punto mediata dalle immagini elettroniche che nessuno risponde più delle proprie azioni, presi come siamo da questa continua esibizione di noi stessi, e insieme degli altri.

Siamo sempre davanti a una «camera», come scriveva già negli anni 60 Thomas Pynchon, per cui il nostro atteggiamento è quello dello «Smile!». Il sorriso è sempre stampato sul nostro viso, e tutti conoscono perfettamente l’angolazione fotografica, o televisiva, con cui mettere in luce il lato migliore del proprio viso. Andy Warhol, con la sua arte, è stato uno dei profeti più acuti di tutto questo.
La civiltà dell’immagine ha dunque divorato la vergogna? Probabilmente sì. Come scriveva negli anni 50 Günther Anders, il filosofo tedesco riparato in America durante la guerra, la televisione ha la capacità di defraudarci dell’esperienza e della capacità di prendere posizione. Certo, grazie al video il nostro orizzonte si allarga a dismisura, ma solo attraverso le immagini. Con formula icastica il filosofo, che era stato operaio alla Ford e uomo delle pulizie a Hollywood, affermava che chi consuma nella propria stanza ben riscaldata l’immagine di un’esplosione nucleare fornita a domicilio è defraudato della capacità di concepire la cosa stessa, le sue conseguenze concrete, e dunque di prendere posizione.
La moralità è legata strettamente a esperienze dirette che nell’ambito della vita quotidiana vengono sempre più a mancare, con il loro corollario di giudizio che inevitabilmente vi si forma. La barriera del pudore si è abbassata, e non solo quella del pudore sessuale, ma anche del pudore legato allo scambio delle merci. Il sesso stesso, grazie alla pornografia, è sempre più una merce, separato dalla sfera dei sentimenti, e quindi anche dalla vergogna stessa, o almeno quella cosiddetta morale; le merci si sessualizzano grazie alla pubblicità.

La vergogna amorale appare legata non già a norme, bensì a modelli di consumo, a etichette sociali, in particolare al potere personale. La psiche individuale e collettiva reca non i segni della vergogna, bensì quelli di un transitorio senso d’imbarazzo. Chi nel romanzo di Ammaniti pronuncia la frase sulla «figura», un chirurgo, si siede, accende una sigaretta e aggiunge: «Si è estinta come le lucciole». Con buona pace di Pasolini e della sua mutazione antropologica.

da “La Stampa”, 28 aprile 2010

Sms di mia figlia nel libro di Silvio (di Fabio Filippi)

È uscito da pochi giorni il nuovo libro del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, titolato “L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio”. Un volume di 262 pagine, pubblicato dalla Mondadori. All’interno, tra i vari capitoli, oltre ai diversi interventi di Silvio Berlusconi, viene dedicata un’ampia parte del libro ai messaggi pervenuti al Presidente del Consiglio dopo l’aggressione subita a Piazza del Duomo a Milano nel dicembre scorso (I messaggi del popolo di Silvio).

Tra questi anche il pensiero di Elena, la figlia del consigliere del Pdl Fabio Filippi (pag. 230): “Ill.mo Presidente, ho avuto la brutta notizia proprio dopo aver fatto i banchetti per il tesseramento al Pdl a Reggio Emilia, dove gli insulti e il banchetto ribaltato a terra dai sinistroidi non sono una novità… ma noi non molliamo mai!! Oggi torno a lavorare per Lei con tanta grinta! Le siamo vicini, buona guarigione. Elena F.”

Fabio Filippi
Consigliere regionale Pdl

http://www.reggio24ore.com/Sezione.jsp?titolo=Sms+di+mia+figlia+nel+libro+di+Silvio&idSezione=13248

p.s. Inutile dirlo, per i venticinque lettori di Fortezza Bastiani: è tutto vero! Sublime Filippi..e famiglia!