Lo sconosciuto Schindler di Bordeaux

sousa_mendes.jpgLo sconosciuto Schindler di Bordeaux Sousa Mendes, il console portoghese salvò 12mila ebrei. Salazar lo destituì dall’incarico, la sua vita fu rovinata, morì in povertà in un monastero francescanoAristides de Sousa Mendes e sua moglie Maria Angelina Mentre in una tranquilla giornata autunnale ammiro l’elegante palazzina di Bordeaux, non posso fare a meno di pensare al caos che vi doveva regnare una certa settimana del giugno 1940. Proprio in questa palazzina un uomo si rivelò ancor più coraggioso del celebrato Oscar Schindler. Aristides de Sousa Mendes era un eroe inatteso ed improbabile. Gentiluomo cattolico di origini aristocratiche e non più giovanissimo, all’epoca dell’invasione tedesca della Francia era console portoghese a Bordeaux. Nato nel 1885 era fratello gemello del ministro degli Esteri. Aristides Sousa e sua moglie Maria Angelina avevano 14 figli.

Tra i suoi debitori, politici e futuri attori
Con l’invasione nazista della Francia, Bordeaux divenne meta di decine di migliaia di sfollati in fuga da Parigi, di spie, di politici, di gente che tentava di lasciare il Paese. Il dittatore portoghese Antonio de Oliveira Salazar diramò un dispaccio con il quale invitava le rappresentanze consolari a non consentire l’ingresso in Portogallo agli ebrei o ai dissidenti. Secondo Sousa Mendes il provvedimento era in contraddizione con i tradizionali valori del Portogallo e, per di più, Sousa era amico personale di un rabbino. Dopo due giorni di riflessione riunì il personale del consolato e disse: “Non posso permettere che moriate. Molti di voi sono ebrei e la nostra costituzione afferma chiaramente che non si può rifiutare la residenza in Portogallo per motivi religiosi o politici. Come cristiano ho deciso di comportarmi secondo coscienza”. Il 17 giugno mise in piedi una piccola organizzazione che rilasciò 30.000 visti e documenti di viaggio. Di questi, 12.000 furono consegnati a ebrei. Ma il console portoghese salvò la vita anche al principe ereditario austriaco Otto von Habsburg, all’attore di Hollywood Robert Montgomery e all’intero governo belga.

A poche centinaia di metri da Sousa un altro uomo stava combattendo la sua battaglia. Il generale De Gaulle ara alloggiato all’Hotel Splendid che ospitava anche il governo francese. Il generale De Gaulle partì poi alla volta di Londra a bordo di un aereo della Raf mentre il maresciallo Petain firmava la capitolazione condannando la Francia ad una umiliante occupazione. Ma la ribellione di Sousa Mendes contro il suo governo non passò inosservata. Fu richiamato a Lisbona da Salazar che lo giudicò psicologicamente inadatto a rappresentare il governo portoghese. “Non mi importa – disse Sousa Mendes – Come cristiano posso agire solamente secondo coscienza”. Non solo fu rimosso dal suo incarico, ma fu anche privato dello status di diplomatico, gli fu tolta la pensione e gli fu vietato di praticare l’avvocatura, sua originaria professione. In un certo senso fu dichiarata la sua “morte civile”. Tutti i suoi figli, tranne uno, abbandonarono il Paese per rifarsi una vita. Per 14 anni visse come un paria e morì nel 1954, sei anni dopo Maria Angelina, in stato di assoluta indigenza in un monastero francescano.

Su Facebook il gruppo dei superstiti
Nel giugno scorso un giornale dello Utah ha pubblicato una insolita notizia: Olivia Mattis, in occasione del compleanno del padre, come regalo gli aveva presentato Ari Mendes. Nel 1940 suo padre Daniel, che all’epoca si chiamava Matuzewitz, aveva otto anni e, grazie al visto concesso dal nonno di Ari alla sua famiglia, era riuscito a fuggire in Portogallo e da lì, attraverso il Brasile, era arrivato negli Stati Uniti. Ho deciso di mettermi in contatto con Olivia Mattis. “Conoscevo la storia della famiglia di Sousa Mendes attraverso i racconti e i ricordi di mio padre”, mi ha detto. “Ma quando li ho incontrati di persona è stato uno shock. Davanti a me c’erano persone che avevano sofferto di tutto, povertà, esilio, calunnie, per salvare la vita della mia famiglia e di altre famiglie come la mia”. Olivia mi ha anche detto che su Facebook c’è un gruppo di cui fanno parte le famiglie di coloro che sono stati salvati da Sousa e che il loro scopo è quello di onorare la sua memoria. Molti di quelli che debbono la vita all’allora console portoghese si sono fatti strada. Lissy Jarvik insegna psichiatria e scienze del comportamento alla facoltà di medicina dell’Università di Los Angeles (Ucla). Nel 1940 era una sedicenne terrorizzata: “I miei genitori, mia sorella 14enne ed io vivevamo ad Amsterdam”, ricorda. “Raggiungemmo Parigi, tentammo di imbarcarci a Calais, ma le navi, persino quelle olandesi, prendevano a bordo solo passeggeri di nazionalità britannica. Ci spingemmo fino a Biarritz. Avevamo quasi perso le speranze. Un giorno per fortuna un amico di mio padre ci disse che il governo portoghese concedeva visti di ingresso e ci consigliò di andare subito a Bayonne”.

Fu Sousa Mendes a firmare il visto. “Salimmo su quello che sarebbe stato l’ultimo treno che lasciava la Francia con dei rifugiati a bordo. Il treno era diretto a Figueira da Foz, dove i locali, che non avevano mai visto un ebreo, ci accolsero cordialmente. Rimasero sorpresi nel vedere che il nostro aspetto non era diverso da quello degli altri esseri umani”, aggiunge Lissy Jarvik sorridendo. Ma è Sonja, sorella di Lissy, a riassumere l’importanza di quel gesto per la sua famiglia: “Aristides de Sousa mi ha salvato la vita. Mi ha permesso di avere una famiglia nella quale ci sono persone che lavorano per il bene dell’umanità. Il valore del suo sacrificio è enorme e si tramanda di generazione in generazione”. Durante la mia permanenza a Bordeaux mi reco nell’ufficio spoglio di Hellen Kaufmann che dirige l’‘Associazione Anonimi, Giusti e Perseguitati durante il Periodo Nazista’. L’associazione dispone di una preziosa banca dati e lo stesso ufficio ospita anche Manuel Diaz, presidente del ‘Comitato francese Aristides de Sousa Mendes’. Insieme si propongono di compilare l’elenco completo di tutti coloro che furono salvati quella estate.

“Molti non sannodi dovergli tutto”
Hellen Kaufmann è convinta che il gesto di Sousa ebbe conseguenze dio notevole importanza nella ricostruzione dell’Europa dopo la guerra in quanto salvò la vita a membri del governo belga e polacco, alle famiglie reali del Lussemburgo e dell’Austria e ad esponenti politici di primo piano di ogni parte del continente. “La cosa straordinaria – dice Hellen, minuta, capelli neri, una tazzina di espresso in una mano e una sigaretta arrotolata nell’altra – è che Sousa ignorava che ci sarebbe stato un Olocausto e agì per intuizione”. Verso la metà degli anni ’80 Otto von Habsburg scrisse ad Antonio Moncada Sousa Mendes, uno dei 39 nipoti di Aristides, che insegna in Portogallo ed è membro della Fondazione Sousa Mendes. “Volevo esprimere per iscritto la mia eterna gratitudine a suo nonno. In un momento in cui molti uomini si comportarono da vigliacchi, lui è stato il vero eroe dell’Occidente. Il mio sentimento è condiviso dalla Granduchessa Carlotta di Lussemburgo”.

Nel 1966 Israele conferì a Sousa il titolo di “Giusto tra le nazioni” per aver salvato la vita a molti ebrei e nel 1988 il parlamento portoghese lo riabilitò ufficialmente promuovendolo al rango di ambasciatore. E non di meno nessuno dei moltissimi libri scritti in Francia sugli avvenimenti del 1940 fa il suo nome.

“Ci sono molte famiglie che non sanno di dovergli la vita”, spiega Hellen Kaufmann. Tra loro c’era Harry Oesterreicher i cui nonni e il cui padre ottennero il visto da Sousa. “Con l’immaginazione si possono vedere i profughi in attesa per la strada e che dormono sulle scale”, dice Oesterreicher. “Mi rivedo nelle orme lasciate sul terreno da mio nonno Jacques”. “L’attuale generazione di nipoti di Sousa Mendes ha finalmente l’occasione di scrivere il lieto fine alla epica tragedia della famiglia di Aristides de Sousa Mendes”, dice Olivia Mattis. Novanta chilometri a sud-est di Porto si trova il paesino di Cabanas de Variato. Tra i vicoli e le case, spicca una villa che i bambini da tempo chiamano ‘villa dei misteri’. Era la casa di famiglia di Sousa Mendes. Fu venduta alla sua morte per pagare i creditori. Nel 2001 la casa è stata restituita dal governo portoghese alla famiglia a titolo di risarcimento unitamente ad una somma in denaro servita a creare la Fondazione. Antonio che ha superato i 60 anni, ricorda ancora la gioviale presenza del nonno nella casa di famiglia. “Avevo quattro anni e mezzo quando morì. Ricordo che gli piaceva ridere e fare scherzi”. Antonio da giovane andò in Canada per non essere inviato con l’esercito in Angola e tornando in patria ha trovato un Paese che porta ancora i segni della dittatura di Salazar. “La casa è un disastro”, dice Antonio. “Il governo portoghese ha deciso di dichiararla monumento nazionale. Ma a parte gli onori, finora non ci hanno dato i fondi per restaurarla e trasformarla in museo”.

Una Fondazione in suo onore
La vita della Fondazione è stata ostacolata dalla pastoie burocratiche. Ma ora stanno per cominciare i lavori. Lo Stato contribuirà a finanziare l’80% dei costi mentre alcuni donatori privati forniranno il resto del denaro.
Ma non sono soli. Lissy Jarvik e Olivia Mattis hanno creato una sede americana della Fondazione e si impegnano attivamente. Il costruendo museo sarà in Portogallo l’unico luogo eretto per commemorare la Seconda guerra mondiale e per ricordare l’importanza dei diritti umani. Ma Sousa Mendes non si riteneva né un eroe né un perseguitato. “Non avrei potuto agire diversamente”, disse quando era ormai anziano. “E quindi accetto con amore tutto quello che mi è capitato”. Forse fu più dura per la sua famiglia.

di Christian House

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/10/31/lo-sconosciutoschindlerdi-bordeaux/74517/

Zygmunt Bauman: “Rom, eterni stranieri. Quindi colpevoli”

Intervista di Maria Serena Natale, Corriere della Sera, 20 ottobre 2010

Precarietà esistenziale, migrazioni incrociate, paura dello straniero. Zygmunt Bauman, l’eminente sociologo polacco teorico della «modernità liquida» nata dalla fine delle «grandi narrazioni», inquadra il caso rom nella riflessione sull’«età delle diaspore e il sentimento d’incertezza che caratterizza le nostre società, diventato fonte di legittimazione alternativa per lo Stato contemporaneo».

Professor Bauman, quali meccanismi vede dietro la linea dura di Sarkozy?
«Additare lo straniero come responsabile del malessere sociale sta diventando un’abitudine globale. Nel caso delle espulsioni è in gioco il conflitto inseriti-outsider esaminato mezzo secolo fa da Norbert Elias: più di amici e nemici, gli outsider sono imprevedibili, il senso d’impotenza che deriva dall’incapacità di intuire le loro risposte ci umilia».

Con i rom la dinamica è amplificata?
«Sì, perché sono percepiti come perpetui stranieri, colpevoli fino a prova contraria, preceduti da storie di criminalità più o meno accertate ma assenti dai luoghi deputati alla formazione delle opinioni, privi di élite capaci di promuovere le ragioni delle comunità».

Le ansie legate ai flussi migratori sono un tratto dominante di quella che lei descrive come una diaspora universale.
«Oggi assistiamo a ondate migratorie organizzate per arcipelaghi planetari e interconnessi di insediamenti etnici, religiosi, linguistici. Ogni Paese è virtualmente bacino di emigrazione e meta di immigrazione, le rotte non sono più determinate da legami imperial-coloniali: queste diaspore frammentate e trasversali ci impongono di ridefinire il rapporto tra identità e cittadinanza, individuo e luogo fisico, vicinato e appartenenza».

Come risponde la politica?
«Lo Stato contemporaneo proclama come primo compito del potere la rimozione dei vincoli alle attività orientate al profitto. Diventa così prioritario per i governi trovare al senso di vulnerabilità dei cittadini cause non riconducibili al libero mercato ma a rischi di altra natura. La priorità è la sicurezza, minacciata da pericoli per la persona fisica, la proprietà e l’ambiente che possono venire da pandemie, attività criminali, condotte anti-sociali di sottoclassi, terrorismo globale ma anche da gang giovanili, pedofili, stalker, mendicanti, regimi alimentari insani».

Uno stato d’allerta permanente.
«Nel quale è impossibile sapere dove e quando le parole diventeranno carne. La mancata materializzazione di una catastrofe paventata è presentata come il trionfo della ragione governativa su un fato ostile, risultato di vigilanza e cura delle autorità».

Come va ridefinito il patto sociale?
«La migrazione universale porta in primo piano e per la prima volta nella storia l’arte del convivere con la differenza. Un’alterità non più concepita come transitoria richiede un ripensamento delle reti sociali, più tolleranza e solidarietà, nuove abilità e competenze».

E come s’innesta questa differenza radicale sul terreno del multiculturalismo?
«Forme di vita antagoniste si fondono e separano in una generale assenza di gerarchie: non valgono più ordini di valori consolidati né il principio di evoluzione culturale ma si sviluppano battaglie per il riconoscimento interminabili e non dirimenti».

In che modo risponde la democrazia?
«Ha abdicato alla funzione di scoraggiare il ritrarsi dei singoli nella sfera privata, rinunciato a proteggere il diritto delle minoranze a una vita dignitosa. La democrazia non può fondarsi sulla promessa dell’arricchimento. Il suo tratto distintivo è rendere servizio alla libertà di tutti. Ha di fronte una sfida senza precedenti: elevare i principi della coesistenza democratica dal livello degli Stati-nazione a quello dell’umanità planetaria».

(20 ottobre 2010)

In fondo ha solo paura di morire (Nicola Fangareggi)

La deriva burlesque che disegna l’epilogo della traiettoria berlusconiana merita altro che una frettolosa analisi fondata su argomentazioni ragionevoli. Disse bene monsignor Fisichella: bisogna contestualizzare.

Non occorre una laurea in psichiatria per essere consapevoli che da tempo Berlusconi evidenzi gravi problemi di equilibrio mentale. Quel che è emerso sinora dalle maglie della censura del cordone sanitario stesogli intorno per attutirne la smania autolesionistica rappresenta in tutta chiarezza la sola classica punta di iceberg. Il soggetto manifesta sintomi diagnostici che secondo i manuali di psicopatologia clinica si riconducono a molteplici forme di disturbo della personalità in chiave istrionica e narcisistica. Ciò va considerato con attenzione e rispetto: si tratta pur sempre di una persona anziana e ammalata, come certificò lo scorso anno sua moglie.

Chi abbia per formazione, passione o interesse culturale frequentato negli anni gli approdi del libertinaggio artistico e letterario non può d’altronde che osservare con benevola simpatia l’estetica decadente di un uomo che ha saputo trasformare la propria biografia in un referendum quotidiano, almeno nei confini del suo Paese, né mancare di riconoscere in quel percorso autodistruttivo il senso tragico di ogni destino nichilista. Dietro la maschera di cerone c’è il vuoto, la dissipazione degli ultimi scampoli di freschezza, la ricerca disperata di un segnale di vita, l’assenza di ogni speranza in qualcosa che possa ricondursi a un dopo. “Amo le donne, amo la vita” dice. Tradotto significa: ho una fottuta paura di morire.

Ma i festini orgiastici a base di carne fresca che ne accompagnano chissà da quanti anni le sere e le notti, lo spandimento costante di denaro e ricchezze, le regalie alle ragazze come ricevuta di buon cuore che svelano un intimo bisogno di redenzione da ciò che si percepisce come peccato morale raffigurano un caso umano che sarebbe come tanti qualora non si trattasse del capo del governo in carica e dell’uomo che più di ogni altro ha segnato l’ultimo trentennio di vita pubblica italiana. E l’ossessione erotica che si traduce in dipendenza non appare che il sintomo più manifesto di un disturbo compulsivo mai affrontato né tantomeno guarito.

Sgravato di incarichi pubblici, Berlusconi emergerebbe come il personaggio di un racconto di Bukowski. Il vecchio porco incipriato e monello, un po’ Tognazzi e un po’ Humbert Humbert, burlone e irresponsabile al punto di rischiare una crisi diplomatica con un grande paese mediterraneo per levare dai guai l’ultima delle adolescenti condotte a corte dall’inesausta pletora di papponi debosciati. Personaggio formidabile da raccontare e mettere in scena, icona pop del presente come certificò una copertina di Rolling Stone, ma appunto unfit to lead, inadatto a governare, secondo l’antica definizione dell’Economist.

I Fede, i Lele Mora, i Ghedini, gli Alfano: le maschere del reality berlusconiano abbassano quotidianamente l’asticella della volgarità percepita faticando a tenere il passo della corsa dissoluta verso l’abisso in un sabba che mescola pubblico e privato, legge e licenza, istituzioni e lap dance. Cortigiani del principe, profittatori, trafficanti e ricattatori sono l’area oscura del luccichìo televisivo a uso delle masse elettrici. Il bunga bunga diviene metafora di un ethos contemporaneo che evoca non per caso la legge della giungla. Vi si colloca uno spazio antropologico elementare: di qui i maschi allupati con le tasche piene, di là le giovani amazzoni raccolte in harem e destinatarie di regalìe pronte a offrirsi in pasto al drago e ai suoi accoliti.

Berlusconi ha reso l’Italia un paese unico al mondo nella percezione dell’etica contemporanea. E’ il paese che ospita il Vaticano e il papa cattolico, ma lo è anche di un capo del governo di 74 anni che organizza festini con minorenni indotte a darsi nella loro freschezza. Pare che il premier dispensi loro, oltre a buste ricche di contanti, ottimi consigli sulla strada da percorrere in futuro: pensa a studiare eccetera. Omette di riconoscere che se le ragazze sono lì è proprio perché la strada dello studio o comunque dell’affermazione nella vita sulla base del merito è considerata dall’illustre ospite un’ingenua sciocchezza da moralisti d’altri tempi. Nessuno più di Berlusconi ha contribuito ad affermare da Drive In in poi la valorizzazione commerciale del corpo femminile. Al netto della propaganda di casa nessuno ricorda una conquista politica, una riforma importante, un risultato concreto della cosiddetta “politica del fare”. Berlusconi è nella storia per le vittorie del Milan e per avere sdoganato a forza di spot e di grandi tette la dipendenza delle famiglie italiane dal tubo catodico. Roba degli anni Ottanta, il resto è pura decadenza.

Provasse a farla davvero Berlusconi, la luce sul suo stile di vita, raccontando con dignità e coraggio come passi il suo tempo libero anziché umiliare l’informazione esigendo di mentire e censurare e nascondere la realtà. Lo dicesse con sincerità agli italiani a reti unificate: sono fatto così, ho i miei limiti, le mie debolezze. Se vi vado bene accettatemi e fatemi lavorare, altrimenti mi farò da parte senza problemi.

Ma non lo può fare. Basterebbe una settimana di televisione pubblica e privata minimamente obiettiva, che rappresentasse le cose per come emergono, e il consenso svanirebbe in fretta. E’ vero che Berlusconi sa parlare agli istinti più profondi di una vasta parte degli italiani. Ma quella parte è minoranza. Perché il libertinaggio è stile di vita impopolare, soggetto a invidie e a moralismi più o meno grossolani, e constatare che il presidente del consiglio sia rincoglionito al punto di non capire che le sue licenze da vecchio satiro erotomane espongano l’immagine del paese al disdoro internazionale gli costerebbe parecchi consensi.

L’Italia è un paese intossicato, a crescita zero, preda di un ceto politico incapace di trovare soluzioni efficaci alla crisi, dove un giovane su quattro è senza lavoro. Il presidente del consiglio organizza festini a luci rosse con bombastiche minorenni in cerca di fortuna, ma non riesce in sei mesi a recarsi a Shanghai per visitare l’Expo del mondo che va avanti.

Berlusconi è il volto peggiore dell’Italia di oggi: vecchia, decadente, senza speranza, immiserita nella rincorsa all’ultima sottana, che tratta le giovanissime immigrate in tacchi a spillo come carne di sollazzo senza capire che presto quella fame di vita si sostituirà alla nostra ribaltando i rapporti di forza e consegnando alle nuove generazioni l’esempio delle nostre debolezze. Si illudono, i concittadini che votano Lega, di essere o poter tornare a sentirsi padroni a casa loro. Prendono voti sulla paura. E’ il riflesso speculare della paura di Berlusconi: il futuro non ci appartiene, il futuro è degli altri, godiamoci gli ultimi scampoli di vita, poi qualcuno arriverà a spegnere la luce e buonanotte.

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