Don Pasquino e i “suoi”

jpg_3210397.jpgLunedì 30 gennaio ho commemorato don Pasquino Borghi e gli altri otto antifascisti fucilati dai fascisti il 30 gennaio 1944. Questo il testo del mio intervento (a stampa sul prossimo Notiziario Anpi).

Beati i miti perché erediteranno la terra

Non è facile parlare in questo luogo, prima della celebrazione ho passeggiato attorno a queste mura pensando alle parole più adatte a ricordare fatti di 67 anni fa e ho pensato di iniziare raccontandovi degli incontri, tre incontri avvenuti in quei mesi dell’autunno inverno 1943-1944.

Il primo incontro si svolge il 24 ottobre 1943, i giorni sono quelli dell’autunno dopo l’armistizio. Il nostro Appennino era diventato il crocevia di ragazzi in fuga, alleati dai campi tedeschi e italiani, italiani abbandonati dopo il disastro dell’8 settembre. Cercavano un rifugio, una casa, un luogo dove fermarsi, chi una notte, chi giorni e settimane. Sul nostro Appennino sono le canoniche ad aprirsi per prime. In quel 24 ottobre Don Pasquino prende possesso della sua parrocchia. Don Pasquino ha quaranta anni e arriva in quella parrocchia sperduta dopo un lungo viaggio, non solo interiore ma anche geografico: dall’Italia al Sudan, dal Sudan di nuovo in Italia, alla Certosa di Farneta, fino a Canolo. Don Pasquino arriva in quella montagna e incontra altri sacerdoti, un disegno della Provvidenza per chi crede, un caso fortunato per gli altri. Lo accoglie don Paolino Canovi, parroco di Gazzano, che sarà arrestato la vigilia di Natale per aver ospitato soldati inglesi, portato ai Servi e torturato; lo accoglie don Mario Prandi che ha già avviato a Fontanaluccia quell’esperienza eccezionale di carità che è giunta fino ad oggi; lo accoglie don Vasco Casotti, parroco a Febbio, che  nasconderà, dopo lo scontro di Cerrè Sologno, “Miro” e “Barbolini” feriti nella sua canonica che sarà poi la sede del Comando Unico della formazioni partigiane reggiane; lo accoglie don Venerio Fontana, arciprete di Minozzo che sfuggirà, il 1 agosto, alla strage dove cadranno sei dei suoi; lo accoglie il più anziano di quei sacerdoti: don Battista Pigozzi che cadrà il 20 marzo sull’aia di Cervarolo con 23 dei suoi parrocchiani. A poca distanza poi don Enzo Bonibaldoni, parroco di Quara, riconosciuto “Giusto fra le nazioni”, per l’aiuto dato alla salvezza di fratelli ebrei. Quella era la montagna reggiana, dove la “via delle canoniche” offriva soccorso e difesa ai più poveri di quelle tragiche giornate.

Il secondo incontro si svolge il 10 gennaio 1944, il luogo è la canonica di S.Pellegrino, don Angelo Cocconcelli, Giuseppe Dossetti incontrano don Pasquino che è già “in fuga”, dopo la lettera del 27 dicembre al vescovo Brettoni dove scrive “sembra di essere tornati alla catacombe”. Don Angelo e Dossetti lo invitano alla prudenza, la sua attività di aiuto ai fuggitivi e ai primi nuclei partigiani (i Cervi) ormai è nota ai fascisti. Quei ragazzi che ospita dovrebbero cercare altri rifugi, “ma dove li mando con trenta centimetri di neve gelata, se nessuno li vuole!”-obietta don Pasquino. Il buonsenso dei due amici incalza: “Ma è un pericolo mortale!”, ma lui taglia corto: “Ma si può dare anche dare la vita per la patria libera!”

Il terzo incontro, quello finale, si svolge nella notte fra sabato 29  e domenica 30 gennaio, carcere dei Servi (un luogo di memoria che abbiamo cancellato). Don Pasquino, che era stato imprigionato a Scandiano, viene unito ai “suoi”. Incontra Romeo Benassi, 40 anni, muratore; Umberto Dodi, 49 a., operaio alle “Reggiane”; Dario Gaiti, 47 a,  muratore; Destino Giovannetti, 53 a., operaio “Reggiane”; Enrico Menozzi, 53 a., piccolo proprietario; Contardo Trentini, 42 a., cordaio; Ferruccio Battini, 32 a, falegname; Enrico Zambonini, 51 a., anarchico, di Secchio. Vite diverse, lontane che si incrociano per finire insieme.
Qui al Poligono arrivano insieme alle 6,30, muoiono insieme alle 7,18 di quelle domenica mattina di gennaio.

Oggi noi siamo qui, dopo 67 anni, per commemorare, cioè per ricordare insieme, per fare memoria comune di quei fatti. Da poco abbiamo celebrato la “Giornata della memoria” per ricordare le vittime della Shoah, e usiamo molto questo termine “memoria”, ma cos’è la “memoria”? Dei tanti contenuti ne voglio sottolineare alcuni.

Ricordare è una forma di giustizia: nessuno dei 9 uccisi qui il 30 gennaio ha avuto giustizia. I 4 responsabili non hanno mai pagato per le loro azioni: due uccisi ancora in guerra, altri due, pur processati (contumaci) nel 1946 e condannati a 24 anni di carcere, hanno visto cancellata la loro giusta condanna dall’amnistia. Ricordare don Pasquino e i suoi è dare loro un po’ di giustizia.

Ricordare è una forma di educazione: “Noi siamo quello che ricordiamo” (M.Luzi) e, aggiungo io, noi diventiamo anche quello che abbiamo dimenticato. Oggi ce la prendiamo con gli immigrati: e ci scordiamo di essere stati un popolo di migranti (26 milioni di italiani hanno lasciato l’Italia nei 150 anni dell’Unità), costruiamo i CPT, moderni lager e ci scordiamo Ellis Island, a New York, dove i nostri migranti erano rinchiusi e schedati.
Il 27 gennaio siamo a commemorare la Shoah e dimentichiamo i nostri campi di concentramento in Libia, ad Arbe. Infatti, per meglio dimenticare, non abbiamo voluto aggiungere un’altra data per il giorno della Memoria da affiancare al 27 gennaio: ad esempio il 16 ottobre, memoria della razzia del ghetto di Roma.
Ce la prendiamo con gli zingari e i rom e dimentichiamo che furono i primi ad essere arrestati e sterminati perché di loro nessuno si curava. E la forza di una democrazia si misura sulla tutela che si dà ai più deboli non ai più forti della società.

Oggi siamo a commemorare un evento, parliamo di “dovere” della memoria, ma dobbiamo stare attenti, istituzioni e cittadini, che il “dovere” non si trasformi in “obbligo”, qualcosa da soddisfare una volta all’anno perché si “deve”, e basta. Se la memoria è educazione la memoria si costruisce sempre, non basta una giornata, si costruisce con un lavoro continuo, con i “Viaggi della memoria”, con le scelte culturali e amministrative.
Oggi si parla di “devastazione antropologica” ma se noi diventiamo quello che ricordiamo e non ricordiamo niente cosa diventiamo? Diventiamo il “nulla” che conduce, appunto, alla “devastazione antropologica”, un processo che è passato, silenzioso nel tempo, anche attraverso l’oblio, la riscrittura della storia, la sua cancellazione.
Oggi poi ci troviamo in un passaggio storico decisivo con la scomparsa dei testimoni. Noi abbiamo avuto la fortuna di ascoltare don Cocconcelli, Romolo Fioroni, Placido Giovannetti (il figlio di Destino che veniva qui al Poligono portando in tasca l’ultima lettera del padre ucciso) ma i nostri figli?
Senza testimoni come potremo ancora “fare memoria”? Certo tocca a ciascuno di noi adempiere all’invito biblico “Quello che avete visto e udito ditelo ai vostri figli”, ma non basta.
Dopo la scomparsa dei testimoni due elementi sono diventati decisivi per trasmettere memoria: i luoghi e le fonti, i documenti.
Allora perchè le parole non restino solo buoni propositi diamoci delle scadenze per il prossimo Giorno della Memoria, il Ghetto aspetta da 15 anni segni concreti che dicano al passante che lì è esistita per secoli una comunità che è stata cancellata; collochiamo le “pietre di inciampo” davanti alle case dove vissero i dieci ebrei reggiani finiti ad Auschwitz; in montagna segniamo le canoniche di Tapignola, di Febbio, di Quara come luoghi di coraggio e di salvezza.
Don Pasquino diceva che per la patria libera si può anche morire, a noi non è chiesto tanto, è chiesto però un impegno concreto e quotidiano per difendere quei valori, per trasmetterli ai nostri figli, per essere, in fondo, cittadini migliori.

Don Pasquino e i “suoi”ultima modifica: 2011-02-03T19:29:19+01:00da pelikan-55
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Un pensiero su “Don Pasquino e i “suoi”

  1. “E la forza di una democrazia si misura sulla tutela che si dà ai più deboli non ai più forti della società.”
    Bravo Max, questo da solo dovrebbe bastare per far tacere e vergognare le pletore di coatti che santificano il loro imperatore.
    Ma non è così: gli italiani sono disposti alle peggiori meschinità per partito preso.

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