Famolo strano (Enrico Maria Davoli)

Nel numero di marzo-aprile 2011 di Reggio Comune, il periodico dell’Amministrazione Comunale di Reggio Emilia, è riprodotto il bozzetto con cui l’architetto Italo Rota  ridisegna l’ingresso dei Musei cittadini. Nessun commento, solo una didascalia che recita I Civici Musei secondo Italo Rota. Da ricordare che nel 2010 una proposta di riordino delle collezioni dei Musei Civici di Reggio Emilia era già stata commissionata a Rota in forma di mostra temporanea. Titolo: L’amore ci dividerà. Prove generali di un Museo, Reggio Emilia, Musei Civici, 15 maggio – 13 giugno 2010.

Italo Rota (Milano 1953) è una delle firme più note dell’architettura italiana d’oggi. Suo è il progetto del Museo del Novecento di piazza Duomo a Milano, inaugurato alla fine del 2010 negli spazi completamente sventrati di uno dei due palazzi gemelli dell’Arengario, il complesso costruito fra il 1939 e il 1956 su progetto di Griffini, Magistretti, Muzio e Portaluppi. Se l’Arengario fosse stato ultimato solo qualche anno prima, i cinquant’anni necessari per legge a scongiurarne lo sventramento sarebbero scattati in tempo utile. Ma di solito chi sventra è più tempista di chi costruisce.

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A tutt’oggi, poco o nulla si sa dei dettagli tecnici del progetto Civici Musei. Difficile dire se tanto silenzio sia da interpretare come segno di approvazione (“Chi tace acconsente”), di sgomento (“Oddio, che roba è?”), di entusiasmo (“Questa è l’architettura contemporanea, bellezza!”), o di uno starsene alla finestra cercando di sondare gli umori della popolazione (“Tiriamo il sasso e vediamo un po’ cosa succede”).

Proviamo a descrivere cosa si vede nel bozzetto pubblicato da Reggio Comune. Il cortile situato nell’angolo nord-ovest del Palazzo del Musei viene lastricato a somiglianza del tratto stradale antistante e piantumato di giganteschi funghi metallici (elementi ombreggianti di giorno e lampioni di notte?). Sotto ciascun fungo si vede l’immagine di un animale: rapace, trampoliere, pesce, rettile eccetera. Le due pareti che fanno da sfondo vengono ricoperte di un manto vegetale, un rettangolo verde grande come un campo da tennis.

Sineddoche è la figura retorica che serve a indicare una cosa nominando una sua parte (esempio: albero al posto di nave), o la materia di cui è fatta (ferro al posto di spada), o con altre sostituzioni (il felino al posto de il gatto). Ebbene, se si dovesse giudicare l’operazione di Rota in termini di eloquio, di Retorica appunto, si dovrebbe dire che l’architetto milanese ha forgiato una gigantesca sineddoche. Cioè ha usato il nesso vegetazione-animali per rappresentare la vasta gamma di forme viventi raccolte nelle stanze del Museo.

Brillante intuizione? Non esageriamo. L’architettura è sempre stata il luogo della Retorica, delle tessiture, delle polifonie. Gli elementi costitutivi degli ordini classici – colonna, capitello, architrave, timpano – le marmorizzazioni, le tinteggiature, le cornici, le mensole, i marcapiani, le balaustre, sono sempre serviti a produrre poemi figurati, spartiti musicali ricchi di variazioni. Non avendo né tempo né voglia di scrivere qualcosa che somigliasse a un poema o anche solo a una canzonetta, Rota ha pensato bene di accontentarsi di un cartello con su scritto Vietato dar da mangiare agli animali / Vietato calpestare le aiuole. Forse per questo il manto vegetale si arrampica sui muri. Per estrinsecare il divieto. La sua manutenzione in verticale sarebbe molto più costosa di quella del campo centrale di Wimbledon, e non lo si potrebbe calpestare nemmeno per le due canoniche settimane l’anno.

Siamo nel campo del copia-e-incolla, del famolo strano alla Carlo Verdone spacciato per il colpo d’ala di un artista spericolato. E’ l’architettura dei giochi di prestigio che si sostituisce all’architettura del decoro, della durata, del giusto rapporto costi-benefici. E’ l’architettura delle riletture che riletture non sono, non foss’altro perché denotano una condizione di analfabetismo, una totale incapacità di interrogarsi sul perché un edificio sia quello che è – nella fattispecie un Museo – anziché un Ospedale o una Centrale del Latte o un Autogrill.

E’ un’architettura che ha ormai così bene assimilato la nozione di “non-luogo” da non avere più alcun ritegno nel farsene scudo. E nel dire che, in fondo, il mondo intero è un unico, grande “non-luogo”. E che dove ancora non lo è, occorre dargli una mano a diventarlo.

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Famolo strano (Enrico Maria Davoli)ultima modifica: 2011-06-09T19:40:08+02:00da pelikan-55
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Un pensiero su “Famolo strano (Enrico Maria Davoli)

  1. Il museo del Novecento a Milano: forse è opinabile gran parte del contenuto, ma il contenitore da solo è una bellezza.
    Sui musei di Reggio e Rota per ora non metto lingua.

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