Lodevoli siti kattolici

Ci sono lodevoli siti web kattolici che fanno diventare, ipso facto, come minimo valdesi. I “più caldi” (Attenzione! Roba hard come “Pontifex”) devono ricevere congrui finanziamenti da AlQaeda: un credente ne legge 5 righe e subito vaì a comprarsi il Corano che è più moderato di quella roba lì…

Segnalo invece un sito più soft ma non per questo meno interessante: si chiama “La Bussola quotidiana”. Da questo riporto l’articolo seguente che mi sembra rispondere alla domanda diffusa “Ma come abbiamo fatto a finire così? E la Chiesa non dice niente?”. No, la Chiesa (pardon la gerarchia), fino a 3 giorni fa non ha detto nulla, l’egregio articolista ci fa capire il perchè (i grassetti sono nell’originale):

In politica domina il partito dei vizi pubblici

di Tommaso Scandroglio
29-09-2011
 
 
Siamo tutti d’accordo. Sacrosanto indignarsi per una politica che getta nel cestino dei rifiuti il decoro istituzionale barattandolo con sordidi piaceri venerei. Dal politico non ci aspettiamo solo che non delinqua e che amministri la res publica al meglio, ma che, rispolverando un’espressione che suona un po’ vetusta, brilli per dirittura morale. Ce lo ricorda persino la Costituzione all’articolo 54.
Ecco però, il problema sta proprio nella dirittura morale. Per alcuni si arresta al punto vita. Solo sotto la cintura si agita il nero mare della riprovazione sociale. In questa prospettiva degne di vesti stracciate sono unicamente le intemperanze sessuali. Tutt’al più accanto a queste il biasimo si potrebbe estendere a condotte anti-ecologiche e a giudizi un po’ fuori dal coro su temi quali omosessualità e islam. Per il resto ognuno faccia come creda.
E così a leggere la trinità laica della carta stampata – Corriere, Repubblica e La Stampa – il sesto comandamento è un po’ come se fosse la summa di tutte le turpitudini peggiori che possa commettere il politico di professione. Se l’abitazione privata di quest’ultimo si trasforma in alcova, la smorfia di disgusto è assicurata dalle anime belle del politically correct. Se invece nella casa di tutti gli italiani, che è il Parlamento, quello stesso politico vara una legge contro la vita, allora il disgusto si trasforma in plauso.
In parole povere il doppiopesismo è pratica ben rodata in alcune redazioni e dunque non infrequente che la penna che un giorno ha fustigato il premier per i suoi scivoloni a luci rosse sia poi la stessa che il giorno dopo verghi parole di lode per aborto, fecondazione artificiale, eutanasia e divorzio. Queste condotte oggettivamente sono più gravi e perciò dovrebbero meritare maggior censura. Dunque è assai più riprovevole che un politico voti una legge per favorire l’aborto che vada a prostitute. Anche perché una vita dongiovannesca inquina il bene comune molto meno che una norma che permetta a tutti di uccidere il proprio bambino che si porta in grembo o di staccare la spina al nonno morente. Le pratiche amatorie fuori dal talamo nuziale per quanto oscene possano essere recano un danno molto minore alla collettività rispetto a norme che rendono legittime condotte assai più nefaste a “maleficio” di un numero ben maggiore di persone. In definitiva e per far nostre le categorie del sessualmente corretto: cosa è più lascivo e sconcio, la fornicazione o produrre essere umani in provetta? Cosa più impudico e disdicevole, il bunga-bunga o le pratiche abortive?
Non sono queste affermazioni assolutorie di oggettive e indecenti bassezze morali. Infatti occorre rammentare che la cartina tornasole del buon governo non è dato dall’indice di scabrosità della vita privata dell’onorevole, ma dalle scelte compiute da questo per il bene comune. Una manciata e più di escort non valgono sulla bilancia della moralità come un solo comma della legge 194 che ha legalizzato l’aborto nel nostro paese. Beninteso: anche la vita privata del politico incide sul bene collettivo – lo scandalo è da evitarsi – ma ha minor peso di altre scelte. E’ quindi da preferire un politico non irreprensibile nelle condotte private ma che non cede sulle grandi questioni della vita pubblica, piuttosto che uno integerrimo tra le mura domestiche ma firmatario di leggi che mandano nella fossa i principi non negoziabili, quali vita, famiglia, educazione e libertà religiosa. Nella prospettiva politica le virtù pubbliche pesano di più che i vizi privati.
Ma forse sotto sotto i sostenitori della presente campagna contro la trivialità personale sono con molta ipocrisia ben coscienti di tutto ciò. E portano avanti la loro battaglia al calor bianco perché semplicemente strumentale all’abbattimento del nemico, infischiandose in cuor loro delle notti brave ad Arcore.
Il puritanesimo è dunque arma vincente in politica, dove vale più l’etichetta che l’etica, dove il bon ton è l’unità di misura del lecito, dove una pagliuzza lasciata sul letto dell’amante pesa di più di una trave che ha colpito a morte milioni di innocenti come nel caso della legge sull’aborto.

http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-in-politica-dominail-partito-dei-vizi-pubblici-3178.htm 

Poche note di commento:

Non sapevamo che nel Vangelo fosse previsto il principio “il fine giustifica i mezzi”: dovendo salvare i famosi “principi non negoziabili” accettiamo tutto il resto.

Il “puritanesimo” non c’entra una beata cippa. Le critiche al satiro plastificato non sono rivolte alla sua condotta sessuale privata: uno che si fa installare una protesi solo per proseguire a soddisfare la sua patologia già si qualifica da solo. La questione nasce dall’aver utilizzato (lasciar utilizzare) rapporti sessuali a pagamento come viatico per posti pubblici, appalti e similia. In parole povere: se uno va a puttane (riportiamo la lingua italiana alla sua realtà, grazie), pagando di tasca propria la cosa resta nel privato, se uno va a puttane e poi fa di quelle puttane ministri, consiglieri regionali, favorisce affari a chi le puttane gliele fornisce, la cosa è pubblica e, in un paese civile, comporterebbe le dimissioni del puttaniere dopo 20 minuti.

L’articolista sintetizza il suo pensiero in “E’ quindi da preferire un politico non irreprensibile nelle condotte private ma che non cede sulle grandi questioni della vita pubblica, piuttosto che uno integerrimo tra le mura domestiche ma firmatario di leggi che mandano nella fossa i principi non negoziabili, quali vita, famiglia, educazione e libertà religiosa. Nella prospettiva politica le virtù pubbliche pesano di più che i vizi privati”.

Bene, chiaro, comunque sia chiaro “NOT IN MY NAME”. Lo stesso valga per questa bella pensata dei “principi non negoziabili”. Osservo, ammettendo la mia ignoranza di fronte alle batterie di teologi che si saranno dannati (nomen omen)  in Vaticano a produrre questa geniale idea, che se un principio diventa negoziabile cessa di essere un principio. Quindi ora mi aspetto la pubblicazione della versione aggiornata (e selezionata) dei Vangeli, con una diversa colorazione magari delle pagine dove si racconta di “principi non negoziabili”, un concetto-come noto già ad Aristippo di Legolandia-che si ritrova numerose volte nel corso della predicazione del Cristo.

E poi il solerte Scarfoglio (Stramaglio? Farfulio?) non ci spiega come mai, da 3 giorni la misura sia colma anche per la gerarchia. Forse perchè l’aria del 24 luglio ha valicato il Tevere?

p.s. amici mi hanno chiesto: “Ma chi te lo fa fare di leggere simile robaccia?”. Ragazzi, è un lavoro sporco ma qualcuno deve pur farlo, o no?

Il sangue innocente del Risorgimento (Normanna Albertini)

Sul numero di Tuttomontagna in edicola l’articolo recensione-intervista a “Question Time”

297365_2263012508054_1630737040_2305070_2091925295_n.jpgSono passati soltanto 150 anni e del Risorgimento, dopo un’iniziale ondata di partecipazione, si parla ormai con poco slancio, mentre fioriscono decine di volumi d’ogni genere: dai romanzi ai saggi storici, sociologici, di costume, alle raccolte fotografiche. Opere più o meno serie, più o meno imparziali, talune contraddittorie, altre chiaramente revisioniste. Nel filone si avventura anche Massimo Storchi, storico reggiano che ha alle spalle diverse pubblicazioni sulla Resistenza, dando alle stampe “Question time. Cos’è L’Italia – Cento domande (e risposte) sulla storia del Belpaese” (Aliberti editore, 2011), nel quale ripercorre oltre un secolo e mezzo di storia della nostra nazione tramite cento domande e relative risposte. Con spiegazioni e stimolanti punti vista, dallo Statuto Albertino del 1848 alla Seconda repubblica, Storchi invita a rivedere la storia provando anche a ridimensionare alcuni luoghi comuni. E svelando i retroscena taciuti e rimossi di un Risorgimento che è stato, comunque, una guerra, quindi un massacro. Come la carneficina del 14 agosto 1861 a Casalduni e Pontelandolfo, nel Beneventano, quando, su ordine del generale Enrico Cialdini (il cui busto troneggia oggi all’ingresso del Comune di Reggio Emilia), la colonna del maggiore Melegari e la colonna del colonnello Negri invasero i due paesi. Lo scopo deliberato era di raderli al suolo come rappresaglia per la fucilazione di pochi giorni prima di 40 militari piemontesi, avvenuta al culmine di una serie di episodi di insubordinazione. Fu un eccidio: uccisioni a sangue freddo, stupri e saccheggi ai danni della popolazione inerme. Lo scempio non è mai stato accertato dallo Stato italiano e ancora non ne sono chiari i contorni: dai 13 morti ufficialmente riconosciuti all’epoca, agli almeno 400 attribuiti da tutti gli storici moderni, agli oltre 1000 che le ultime ricerche storiografiche stanno facendo venire a galla. Una tragedia di proporzioni bibliche, per la quale lo Stato non si è mai scusato. Nel Beneventano, come nel resto del Sud Italia, quelli furono giorni difficili: il brigantaggio aveva fatto presa sui ceti popolari, delusi dai Piemontesi che trattavano i meridionali alla stregua di “terroni africani” e ne saccheggiava i territori; tutto a vantaggio dell’espansione del Nord Italia. Si ponevano le basi per quella “questione meridionale” che sopravvive anche ai nostri giorni, ma che, all’epoca, si tingeva di drammatici contorni fatti di fucilazioni, agguati e rappresaglie. Il sindaco di Reggio Emilia aveva palesato, qualche tempo fa, il suo solidale pensiero rispetto ai fatti di quel 14 agosto, così, in occasione delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, aveva invitato il Sindaco di Pontelandolfo a Reggio per ricevere il Primo Tricolore. Mercoledì 3 agosto, nella Sala del Tricolore di Reggio Emilia, la cerimonia di consegna, a cui ha invece  partecipato il vicesindaco della città beneventina, Donato Addona: “Non vogliamo – ha detto Addona – che Pontelandolfo sia ricordato come un covo di briganti contrari all’Unità d’Italia, perché così non fu. Ma riteniamo giusto che a distanza di 150 anni venga finalmente alla luce la verità su un eccidio ingiustamente compiuto”. Il 14 agosto, durante la “Giornata del ricordo”, il primo vessillo nazionale donato da Reggio ha sventolato a Pontelandolfo al cospetto di alte cariche istituzionali e dell’ex premier Giuliano Amato. Questo, dunque, uno dei tanti episodi su cui Storchi si sofferma con il puntiglio e l’accuratezza dello storico che conosciamo. L’idea del libro l’ha avuta durante le presentazioni in giro per l’Italia del suo saggio “Il sangue dei vincitori”, imperniato sull’azione delle “Corti di Assise straordinaria” che dovevano perseguire i crimini compiuti dai fascisti nel corso dei venti mesi di occupazione tedesca. Ogni presentazione si chiudeva con tante domande che non riguardavano soltanto i temi trattati dal libro, ma anche tutto il novecento italiano e più. Insomma: una grande voglia di “vera storia” non snaturata e piegata a fini politici: “Ormai noi siamo, in Italia, in una situazione molto particolare, – spiega Storchi, – si allarga la forbice tra storiografia seria e quel che la gente pensa sia la storia. Una volta in televisione andavano le trasmissioni di Zavoli; oggi, in programmi come Voyager, si mettono insieme la Sindone, Hitler, i Templari, gli Alieni e gli Ufo e tutto ciò, se va bene, crea solo una grande indifferenza. Se va bene. Faccio lo storico perché sono convinto che la mia sia un’operazione etica, nobile. Un cittadino che non conosce la propria storia è dimezzato e cade facilmente nei cortocircuiti, nelle trappole della storia. In uno Stato convivono necessariamente diverse memorie, che non sono memorie condivise, ma che, in democrazia, è corretto che escano e che si confrontino nel dialogo. Tutto ciò diventa però pericoloso quando chi ha il potere politico ha anche il potere mediatico. ” Partendo dall’unificazione nazionale, il volume passa per le guerre, la Resistenza e il dopoguerra per arrivare alla contemporaneità che Storchi definisce “difficile”; l’ultima domanda verte infatti sul mito della Padania, ma ce n’è anche per il falso mito degli “italiani brava gente”.

Per uscire dai vincoli stretti dell’ambito storiografico e potenziare la comunicazione del libro, Storchi ha voluto inserire diverse illustrazioni satiriche di Gianluca Foglia (Fogliazza), autore satirico, fumettista, illustratore, autore teatrale. Foglia collabora con l’Anpi nazionale (on line ogni lunedì una vignetta in home page), con IlFattoQuotidiano.it, e narra la Resistenza a fumetti in teatro, portando a spasso per l’Italia il suo “Memoria Indifferente”, dove parla anche di cinque partigiane dell’Appennino Reggiano. “Un giorno Massimo mi scrive, – racconta Foglia, –  mi dice che ha trovato molto interessanti le vignette che settimanalmente pubblico sul sito nazionale dell’Anpi e che ha un’idea: il suo ultimo libro illustrato da una mano satirica. Per me l’onore è stato immediato: ho fatto finta di pensarci un quarto d’ora poi ho accettato (ma solo dopo che ha offerto lui il caffè). Quindi l’idea è stata di Massimo (comunicatore della memoria anch’egli alla ricerca di nuovi veicoli comunicativi) e l’editore l’ha accolto con favore da subito. Il protagonista è Massimo; l’altro, nell’idea originale, è lo studente col quale lo storico dialoga. Il libro doveva essere un dialogo tra un ragazzo perfettamente italiano, ma di genitori stranieri, che interroga Storchi. Un’idea per non rendere il libro didascalico.” Perché Massimo Storchi come protagonista delle vignette? “Serviva illustrare, impreziosire le vignette, farle diventare illustrazioni.– spiega Foglia. –  E Massimo è uno storico non solo bravo, ma atipico, brillante, tanto che bisognerebbe presentare ‘Fortezza Bastiani’, il suo blog, prima ancora dei suoi libri. L’ironia di cui è capace graffia come quella di un autore satirico, spesso è dissacrante. Volevo inoltre sorprenderlo facendolo diventare un personaggio illustrato (chissà che non ci sia un seguito…), volevo che la sua scrittura proseguisse anche nell’immagine a matita e credo che l’operazione sia riuscita. Lui si è piaciuto moltissimo e io mi son sbizzarrito!” Sfogliando il libro e soffermandosi sui disegni, ci si chiede se la loro elaborazione sia stata anche una scusa per ridere delle nostre disgrazie: “A dir la verità c’è poco da ridere! – continua Fogliazza. –  Son tutte situazioni che più che ridere inducono una riflessione, anche se questa è più impegnativa di una risata. In genere le mie vignette, la mia satira, preferisce scavare per smuovere un pensiero per non limitarsi alla battuta che lascia il tempo che trova. Le risate ce le siamo fatte guardando Massimo come si presta ad essere un vero protagonista disegnato: il primo storico che diventa un personaggio disegnato. Cavoli, se non è rivoluzionario questo! Le maledizioni e le imprecazioni ce le siamo tenute per noi, nel senso che con uno sguardo ci siamo intesi anche su quelle, ma i tempi per condividerle non conciliavano con quelli di consegna per Aliberti: abbiamo dovuto correre, ma avevamo i polmoni per farlo. Comunque adesso abbiamo tutto il tempo per imprecare con comodo: chi comincia?” Nel progetto di Gianluca Foglia, il disegno di copertina doveva avere lo stesso stile delle illustrazioni interne, ma l’editore ha deciso diversamente. Quindi: ecco una leggera prospettiva con Garibaldi (immancabile e doveroso), poi un balilla e la Repubblica Italiana. Da notare quello che sembra un errore di profondità, ma assolutamente voluto: il balilla è “dietro” la Repubblica Italiana, ma il suo moschetto si trova “avanzato” rispetto alla Repubblica. È  la nostalgia che fa capolino, è la minaccia che torna, è un passato che non è mai passato del tutto; sono le responsabilità italiane con le quali non abbiamo mai fatto i conti.

 

Il conte Max..(tranquilli, non sono io..)

Pino Corrias per “il Fatto Quotidiano”

Ammirando la squisita eleganza di Massimo D’Alema, ci chiedevamo da anni da dove gli venisse tutta quella spocchia. La risposta l’abbiamo trovata in Vaticano dove dal 2006 custodiscono con perfidia il segreto di averlo nominato nobile. Non conte, come chiedeva lui, ma vice. Il vice-conte Max. Per l’esattezza: Nobiluomo. In sigla latina NH, tutto maiuscolo. Per le plebi: Eccellenza.

A forza di scalare riservatamente i privilegi del potere, quel lieto evento ce lo aveva tenuto nascosto. É invece il più commovente, il più istruttivo, venendo lui dalla piccola borghesia comunista, e perciò persuaso che l’accuratezza di un paio di scarpe, o l’investimento societario in una barca a vela, fossero indispensabili per frequentarlo. Figuriamoci un titolo nobiliare. Intriso dall’ambitissimo borotalco papale.

Al punto – raccontano i maligni – da molestare il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, per ottenere quella preziosa nomina: telefonate , perorazioni, inchini. Fino a ottenerla. E poi a esibirla il 20 novembre dell’Anno Domini 2006. La storia si compie durante il secondo governo Prodi. D’Alema è ministro degli Esteri. Sta preparando, per il neo eletto presidente Napolitano , la sua prima visita di Stato in Vaticano. É l’occasione che aspettava per farsi nominare conte, si è incapricciato.

I monsignori gli spiegano che conte è troppo, lo vieta il regolamento che dispensa nobiltà con scala millimetrica e conte può diventarlo solo il titolare del Quirinale, cioè Napolitano. E allora cosa? Gli offrono la qualifica di Nobiluomo, di regola riservata agli ambasciatori. Vada per Nobiluomo. Che poi sarebbe un mezzo conte che è sempre meglio di un doppio nulla. Quando finalmente arriva il corteo d’auto dello Stato italiano in visita a quello Pontificio, il suo sogno radioso si è compiuto.

Il presidente Giorgio Napoletano incede per primo tra le alabarde schierate e tutti i pennacchi pettinati. Lui segue con passo cadenzato, i baffi, l’involucro di un frac da cerimonia con i reverse a punta di lancia, il petto in fuori. E sul petto tre placche, due vecchie, una nuova. La prima dell’Ordine Cileno, ottenuta l’anno prima a Santiago. La seconda della Legion d’Onore concessagli dal governo Francese . E finalmente la terza, lo stellone di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Piano che emana i santi bagliori della nobiltà pontificia.

L’anno prima il ministro degli Esteri, Gianfranco Fini, che accompagnava l’allora presidente, Carlo Azeglio Ciampi, nella prima visita di Stato a Benedetto XVI non ha ricevuto un bel niente, a parte la benedizione. D’Alema invece ce l’ha fatta. Oro zecchino emana il suo viso nelle molte foto di quel giorno.

È il definitivo addio dal suo passato di giovane pioniere temprato dalle nevicate moscovite, dai tetri Comitati centrali, dal fil di ferro dell’ideologia che gli ha tenuto dritta l’andatura e salda la cornice dello specchio che lo precede. Si è lasciato alle spalle le plebi della politica, i Fassino , i Bersani, il detestato Veltroni che si nutrono di chiacchiere ornamentali e onori in spiccioli.

Lui vola assai più alto. Si è scrollato di dosso le trattorie dei compagni, i pedalò della Romagna, il vino cattivo delle feste popolari, il fiato amaro delle lotte intestine, dai tempi in cui il grande Luigi Pintor veniva radiato e irriso, fino al siluramento di Romano Prodi, rovesciato nel 1998 e rimpiazzato a Palazzo Chigi per finalmente respirare l’ossigeno del potere in compagnia di quei due capolavori di Velardi & Rondolino, scelti con cognizione di causa.Si trattò di un immenso sforzo.

Per cosa? Niente di cui andar fieri: il bombardamento alla Serbia, più qualche affaruccio telefonico. L’avventura naufragò. E in quel naufragio lo stratega raddoppiò la sua impazienza. Che finì per sfigurarlo persino nella sua celebrata intelligenza, nel suo fiuto diventato infallibile a sbagliarle tutte, ma sempre credendo fermamente nel contrario. Convinto della propria intrinseca superiorità. E tuttavia incompreso.

È stato certamente il Cavaliere di Arcore a irretirlo nel vortice, anche psicologico, che gli ha dissolto la vecchia identità del militante intelligente, smagrito dal rigore, per trasformarlo – tempo una dozzina d’anni di rancori, recriminazioni e regate – in questo nobiluomo vaticano, il malinconico vice conte Max.

È da allora che D’Alema cominciò a concedersi in sogno quello che la realtà ostinatamente gli negava. A pretendere un risarcimento al suo narcisismo ferito. A ostentare consumi per non sentirsi consumato. A nutrire quella spocchia tanto necessaria agli insicuri. Perché sempre gli mancava qualcosa. Una corona, un trono, o almeno un pennacchio da esibire. Fino a quella aristocratica intuizione. Si trattava di scegliere il miglior giacimento di placche. Per questo ha chiesto aiuto al cardinale che alla terza risata – come un diavolaccio che gli compra l’anima – l’ha fatto Nobiluomo.

L’inverno del nostro scontento

Siamo qui, bloccati in questo infinito 24 luglio, un po’ raggomitolati a incollare i nostri pezzetti sparsi di vita quotidiana, arrivati-mai l’avremmo creduto-a chiederci “come sarà lo spread oggi?”. Intanto, come logico in ogni 24 luglio che si rispetti, intorno le cose vanno a pezzi travolte dal ridicolo prima ancora che dal buon senso. Una sedicente ministra parla di tunnel fra Svizzera e Abruzzo (magari pensava fosse una delle grandi opere post-terremoto?), un altro cosiddetto ministro gragnola frasi smozzicate sulla secessione. Quanti governi ci vorranno per ridare dignità alla parola “ministro”, così spregiata da questi buffoni?

Nella terra dell’amato Crostolo in compenso un giovane e pimpante amministratore si pone il problema “vecchietti o teatro? Bambole non c’è una lira…”. Ci volevano 66 anni di amministrazione di sinistra per partorire un pensiero così profondo?

dalema-moglie-ratzinger-vice-conte-300x219.jpgIn compenso c’è una notizia che, se confermata sarebbe clamorosa, il nostro povero Sindaco sarebbe stato stoppato dal carissimo Aureliano Buendia di Gallipoli che farà eleggere alla presidenza dell’ANCI il suo Emiliano. Dolore per Graziano ma una “ola” per il nostro Aureliano che, finalmente, dopo 333 rivoluzioni perse, una l’avrebbe azzeccata, beh che dire? Da un genio del centrocampo come lui, un maradona dell’intrigo, un Rommel dei retrobottega, non ci aspettavamo di meno. Peccato che la vittima sia stato il nostro povero Graziano che però può consolarsi, essere fregato da un simile genio, oltretutto insignito anche di onorificenze pontificie (Dio, com’era bello con il tight e la fascia da uovo di pasqua a tracolla!) alla fine è quasi un onore…

“Scusate il silenzio, stiamo lavorando per NOI”

Lo strano silenzio della Chiesa (B.Spinelli)

IL SOSTEGNO che i vertici della Chiesa continuano a dare a Berlusconi è non solo uno scandalo, ma sta sfiorando l’incomprensibile. Che altro deve fare il capo di governo, perché i custodi del cattolicesimo dicano la nuda parola: “Ora basta”? Qualcosa succede nel loro animo quando leggono le telefonate di un Premier che traffica favori, nomine, affari, con canaglie e strozzini? Non sono sufficienti le accuse di aver prostituito minorenni, di svilire la carica dimenticando la disciplina e l’onore cui la Costituzione obbliga gli uomini di Stato? Non basta il plauso a Dell’Utri, quando questi chiamò eroe un mafioso, Vittorio Mangano? Cosa occorre ancora alla Chiesa, perché si erga e proclami che questa persona, proprio perché imperterrita si millanta cristiana, è pietra di scandalo e arreca danno immenso ai fedeli, e allo Stato democratico unitario che tanti laici cattolici hanno contribuito a costruire?

Un tempo si usava la scomunica: neanche molto tempo fa, nel ’49, fu scomunicato il comunismo (il fascismo no, eppure gli italiani soffrirono il secondo, non il primo). Se Berlusconi non è uomo di buona volontà, e tutto fa supporre che non lo sia, la Chiesa usi il verbo. Ha a suo fianco la lettera di Paolo ai Corinzi: “Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello, ed è immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro; con questi tali non dovete neanche mangiare insieme. Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete il malvagio di mezzo a voi!”.

Anche l’omissione è complicità. Sta accadendo l’intollerabile dal punto di vista morale, in politica, e i vertici della Chiesa tacciono: dunque consentono. Si può scegliere l’afonia, certo, o il grido inarticolato di disgusto: sono moti umani, ma che bisogno c’è allora di essere papa o vescovo? (avete visto, in Vaticano, Habemus Papam?). Dicono che parole inequivocabili son state dette: “desertificazione valoriale”, “società dei forti e dei furbi”, “cultura della seduzione”. Ma sono analisi: manca la sintesi, e le analisi stesse son fiacche. D’un sol fiato vengono condannati gli eccessi dei magistrati, pareggiando ignominiosamente le condanne. Da troppo tempo questo è, per tanti laici cattolici scandalizzati ma non uditi, incomprensibile. Quasi che il ritardo nella presa di coscienza fosse ormai connaturato nella Chiesa. Quasi che l’espiazione (penso ai mea culpa di Giovanni Paolo II, nobili ma pur sempre tardivi) fosse più pura e santa che semplicemente non fare il male: qui, nell’ora che ci si spalanca davanti.

Un gesto simile a quello di Cristo nel tempio, un no inconfondibile, allontanerebbe Berlusconi dal potere in un attimo. Alcuni veramente prezzolati resterebbero nel clan. Ma la maggior parte non potrebbero mangiare insieme a lui, senza doversi ogni minuto giustificare. Non è necessario che l’espulsione sia resa subito pubblica, anche se lo sapete, uomini di Chiesa: c’è un contagio, del male e del malaffare. Forse basterebbe che un alto prelato vada da Berlusconi, minacci l’arma ultima, la renda nota a tutti. Questa è l’ora della parresia, del parlar chiaro: la raccomanda il Vangelo, nelle ore cruciali.

Sarebbe un’interferenza non promettente per il futuro, lo so. Ma l’interferenza è una prassi non disdegnata in Vaticano, e poi non dimentichiamolo: già l’Italia è governata da podestà stranieri in questa crisi (Mario Monti l’ha scritto sul Corriere: “Le decisioni principali sono prese da un “governo tecnico sopranazionale”), e Berlusconi d’altronde vuole che sia così per non assumersi responsabilità. Resta che gli alleati europei possono poco. E una maggioranza che destituisca Berlusconi ancora non c’è in Parlamento. Lo stesso Napolitano può poco, ma la sua calma è d’aiuto, nel mezzo del fragore di chi teme chissà quali marasmi quando il Premier cadrà. Il marasma postberlusconiano è fantasia cupa e furba, piace a chi Berlusconi ce l’ha ormai nelle vene. Il marasma, quello vero, è Berlusconi che non governa la crisi ma si occupa di come evitare i propri processi: tanti processi, sì, perché di tanti reati è sospettato. L’Italia è un battello ebbro, il capitano è un simulacro. Non ci sono congiure di magistrati, per indebolire la carica. Il trono è già vuoto. Il pubblico ministero, organo dello Stato che rappresenta l’interesse pubblico, deve per legge esercitare l’azione penale, ogni qualvolta abbia notizia di un reato, e in molte indagini Berlusconi è centrale: come corruttore o vittima-complice di ricatti.

Gli italiani non possono permettersi un timoniere così. Se sono economicamente declassati, la colpa è essenzialmente sua. Berlusconi non farà passi indietro, gli oppositori si ridicolizzano implorandolo senza mai cambiare copione. Oppure vuole qualcosa in cambio, e anche questo sarebbe vituperio dell’Italia. Il salvacondotto proposto da Buttiglione oltraggia la Costituzione. Casini lo ha smentito: “Sarebbe tecnicamente e giuridicamente impossibile perché siamo in uno Stato di diritto”.

Perché la Chiesa non dice basta? Si dice “impressionata” dalle cifre dell’evasione fiscale, ma la vecchia domanda di Prodi resta intatta: “Perché, quando vado a messa, questo tema non è mai toccato nelle omelie? Eppure ha una forte carica etica” (Famiglia cristiana, 5-8-07). E come si spiega tanta indulgenza verso Berlusconi, mentre Prodi fu accusato di voler essere cristiano adulto? Pare che sia la paura, ad attanagliare i vertici ecclesiastici: paura di perdere esenzioni fiscali, sovvenzioni. Berlusconi garantisce tutto questo ma da mercante, e mercanti sono quelli che con lui mercanteggiano, di quelli che Cristo cacciò dal tempio rovesciandone i banchi. E siete proprio sicuri di perdere privilegi? Tra gli oppositori vi sono persone a sufficienza, purtroppo, che non ve li toglieranno. Paura di un cristianesimo che in Italia sarebbe saldamente ancorato a destra? Non è vero. Non posso credere che lo spauracchio agitato da Berlusconi (un regime ateo-comunista)abbia ancora presa. Oppure sì? Penso che la Chiesa sia alle prese con la terza e più grande tentazione. Alcuni la chiamano satanica, perché di essa narra il Vangelo, quando enumera le prove cui Cristo fu sottoposto: la prova della ricchezza, del regno sui mondi: “Tutte queste cose ti darò, se prostrandoti mi adorerai”. La Chiesa sa la replica di Gesù.

Il Papa ha detto cose importanti sulla crisi. Che agli uomini vengon date pietre al posto del pane (Ancona, 11 settembre). La soluzione spetta a politici che arginino i mercati con la loro autorevolezza. Non saranno mai autorevoli, se ignorano la quintessenza della decenza umana che è il Decalogo. Ma neanche la Chiesa lo sarà. Diceva Ilario di Poitiers all’imperatore Costanzo, nel IV secolo dC: “Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro”.

 La Repubblica, 20.9.2011

Difficile rispondere al quesito sollevato dalla Spinelli. Azzardo qualche ipotesi: la Gerarchia (Chiesa è un’altra cosa) è in passaggio difficile e imbarazzante. Come in ogni cambiamento epocale deve giocare le sue carte per rimanere non solo in sella, ma se possibile, migliorare le posizioni. E per raggiungere l’obiettivo sta lavorando freneticamente. Grazie all’azione del card.Ruini (che Dio lo perdoni) la gerarchia ha lucrato col berlusconismo come mai prima, benedicendo l’impossibile e contestualizzando l’incredibile. E’ diventata più ricca e potente che mai, mentre le Chiese si vuotavano e si diffondeva fra i fedeli quello che i teologi hanno chiamato “lo scisma silenzioso”. Costretti al silenzio, i credenti ascoltano, riflettono e poi decidono e agiscono secondo la propria coscienza (cosa del resto prevista dallo stesso magistero, si veda la Lumen Gentium) indipendentemente da CEI, Vaticano e Papa. In nome dei presunti “principi non negoziabili” la gerarchia ha agito secondo la tattica del “fine giustifica i mezzi” che con il Vangelo c’entra tanto quanto io con le danze caraibiche. Si è preferito un puttaniere e la sua banda di delinquenti abituali ma che garantissero quei principi (e favori economici e fiscali), a un cattolico come Prodi, con il quale però bisognava discutere e negoziare. Adesso dopo l’estate si avvicina l’autunno, che fare, ora che il puttaniere è ormai defunto, anche se nessuno della sua corte ha il coraggio di dirlo? Dove trovare la sponda per il futuro che garantisca ancora i privilegi e le comodità? Berlusconi trascinerà a fondo con sè tutto e tutti, anche la Lega con la quale pure (vomitevolmente) la gerarchia si era trattenuta in piacevoli conversari. Casini? Profumo? Montezemolo? Monti? Troppo indefinita ancora la situazione per aprire bocca. Salvo le rivoluzionarie affermazioni del Pontefice “Bisogna essere buoni, bisogna essere onesti…”. Ma dai! Davvero? Nessuna profezia, nessun gesto che apra la strada, che mostri ai credenti un percorso. Questa è la gerarchia della solitudine del credente, abbandonato se non accetta una pedissequa e anacronistica obbedienza. E poi perchè la gerarchia dovrebbe parlare, muoversi? E’ il convitato di pietra della storia di questo povero paese. Cavour, Mussolini, De Gasperi, Craxi, Berlusconi, prima o poi tutti si sono dovuti sedere a tavola e chinare il capo e trovare un accordo/appoggio. E’ l’Italia che passa il Tevere mai il contrario. Quindi il silenzio continuerà, salvo le solite chiacchierine retoriche (tanto per salvare l’apparenza), ma state tranquilli noi del futuro non sappiamo nulla, loro (la gerarchia) sì. Anzi, sulla loro porta potrebbero mettere un cartello così concepito: “Scusate il silenzio, stiamo lavorando per NOI”.

Abituarsi alla vergogna

 

acqua-fango_71846.jpgCi si abitua a tutto (o quasi) e ormai ci siamo abituati alla vergogna quotidiana. Ogni giorno la soglia aumenta un po’ e facciamo finta di niente. Come quando da piccoli si cade in una pozza di fango, subito ci viene da piangere, poi tratteniamo le lacrime, sentiamo che il fango non è così terribile e finiamo per rivoltarci nella melma felici e contenti, come fosse un gioco nuovo.

Quante volte abbiamo pensato “stavolta è troppo! Succederà qualcosa…” e invece nulla. Un altro splash nella fanghiglia e via. Senza trovare un’isoletta non dico linda ma almeno con meno fanghiglia. Politica e affari anche a sinistra, perché non lo sapevamo? Abbiamo assistito per lustri alla selezione al peggio della nostra classe dirigente nazionale e locale e ora ci accorgiamo che non ci sono vie di uscita.

Abbiamo assistito al massacro della cultura nazionale e locale, allo svilimento dello studio, dell’impegno, pronti all’ascolto del primo intellequale di passaggio, abbiamo dilapidato risorse mentre crollavano i tetti e i muri (e non in senso figurato, ahimè), abbiamo dovuto accettare l’inaccettabile per disciplina o perché troppo deboli per opporci davvero e adesso ci guardiamo attorno e riusciamo solo a sognare, neppure a sperare, che tutto finisca, ben sapendo che non sarà così.

Forse i cinesi compreranno i nostri debiti, forse la Gelmini sarà centrata da un meteorite, forse anche a Reggio tornerà un po’ di lucidità oltre l’arroganza di questi anni, forse…

Mancuso: il primato della coscienza contro la chiesa dell’Obbedienzatolo del post

 
jpg_2160012.jpgE’ un libro che farà discutere il nuovo saggio di Vito Mancuso, “Io e Dio” (Garzanti), dove lo studioso sostiene la libertà del credente verso i dogmi. Il passo decisivo è il rifiuto di un Dio che comanda, giudica, condanna esercitando un potere esterno.

di Gustavo Zagrebelsky, Repubblica, 9 settembre 2011

Su questo libro non mancheranno discussioni e polemiche. Che sia ignorato è impossibile, se non altro perché esprime intelligenza e sensibilità che è di molti nel mondo cattolico, più di quanti si palesino. Le sue tesi si sviluppano dall’interno del messaggio cristiano, della “buona novella”. Vito Mancuso, che tenacemente si professa cattolico, cerca il confronto, un confronto non facile. Lui si considera “dentro”; ma l’ortodossia lo colloca “fuori”. Tutto si svolge con rispetto, ma l’accusa mossa al discorso ch’egli va svolgendo da tempo è radicale. La sua sarebbe, negli esiti, una teologia confortevole e consolatoria, segno di tempi permissivi, relativisti e ostili alle durezze della verità cristiana; nelle premesse, sarebbe la riproposizione di un, nella storia del cristianesimo, mai sopito spirito gnostico. Uno “gnostico à la page”?

Il motivo conduttore del libro Io e Dio (Garzanti) è il primato della coscienza e dell’autenticità sulla gerarchia e sulla tradizione, nei discorsi sul “divino”. Siamo nel campo della “teologia fondamentale”, cioè dell’atteggiamento verso a ciò che chiamiamo Dio e delle “vie” e dei mezzi per conoscerlo: in breve, delle ragioni a priori della fede religiosa. Ma, la teologia fondamentale è la base di ogni altra teologia. La teologia morale, in particolare, riguarda l’agire giusto, ovunque la presenza di Dio possa essere rilevante: la politica, l’economia, la cultura, il tempo libero, l’amore e la sessualità, la scienza… La teologia aspira alla totalità della vita. Si comprende così la portata del rovesciamento, dall’autorità che vincola alla coscienza che libera. Quella di Mancuso vuole essere, tanto nel conoscere quanto nell’agire, una teologia liberante, non opprimente. Le sue categorie non sono il divieto, il peccato e la pena, ma la libertà, la responsabilità e la felicità. Sullo sfondo, non c’è il terrore dell’inferno ma la chiamata alla vita buona.

Il passo decisivo è forse il rigetto dell’idea di un dio come “persona”: un Dio che comanda, giudica, condanna, cioè esercita un potere esterno, assoluto e irresistibile. Il sacrificio di Isacco (Dio ordina ad Abramo di sgozzare il figlio, vittima sacrificale; Abramo non obbietta; Dio all’ultimo ferma il coltello) è di solito presentato come esempio di fede perfetta, ma Mancuso ne prova disgusto, sia per l’immagine d’un dio spietato (la mano omicida, comunque, viene trattenuta in tempo), sia per la disumanità d’un padre capace di tanto delitto. Quel padre, però, è immagine della perfetta fedeltà al “divino”, lodata nei secoli da una tradizione in cui fede e violenza si danno facilmente la mano. Quando poi sulla parola di Dio (il “Dio lo vuole”) si crea il potere d’una chiesa, la violenza sulle coscienze è sempre di nuovo possibile da parte di “uomini di Dio”. La perfezione cristiana per Ignazio di Loyola – se vedo bianco e la Chiesa dice nero, è nero – nasce da una concezione del divino che, invece di ravvivare, spegne.

«Il mio assoluto, il mio dio, ciò che presiede la mia vita, non è nulla di esterno a me», dice Mancuso. Vuol dire che è dentro di me, nel senso ch’io sono dio per me stesso? Per nulla. «Credendo in Dio, io non credo all’esistenza di un ente separato da qualche parte là in alto; credo piuttosto a una dimensione dell’essere più profonda di ciò che appare in superficie […], capace di contenere la nostra interiorità e di produrre già ora energia vitale più preziosa, perché quando l’attingiamo ne ricaviamo luce, forza, voglia di vivere, desiderio di onestà. Per me affermare l’esistenza di Dio significa credere che questa dimensione, invisibile agli occhi, ma essenziale al cuore, esista, e sia la casa della giustizia, del bene, della bellezza perfetta, della definitiva realtà». Credere in Dio, allora, non è lo “status del credente”; non è dire: “Signore, Signore” a un deus ex machina che ci salva dai pericoli – qui Mancuso è Bonhöffer –. È agire per colmare lo scarto tra il mondo, così com’è, e la sua perfezione, alla cui realizzazione la fede chiama i credenti. Con un’espressione di Teilhard de Chardin, credere è amouriser le monde. È un modo di ridire le parole di Gesù che chiama i suoi discepoli a essere “sale della terra” Si può essere sale sacrificando la libertà? Al più, si può essere soldati di Cristo.

Questa teologia è insieme gioiosa e tragica: gioiosa perché indica, come senso della vita, il bene – sintesi di giustizia, verità e bellezza –; tragica, perché è consapevole dell’enormità del compito. Dice Mancuso: «Conosco il dramma e talora la tragedia che spesso attraversa il mestiere di vivere. Per questo io definisco il mio sentimento della vita come “ottimismo drammatico’”: vivo cioè nella convinzione fondamentale di far parte di un senso di armonia, di bene, di razionalità, e per questo parlo di ottimismo, ma sono altresì convinto che tale armonia si compie solo in modo drammatico, cioè lottando e soffrendo all’interno di un processo da cui non è assente il negativo e l’assurdo». È questa un’accomodante e confortevole giustificazione delle coscienze, l’autorizzazione alla creazione di “dei di comodo”? Per nulla. Al contrario, è un appello al rigore morale come risposta onesta, autentica, al senso del divino che sta nell’essere umano. Ma qui viene la seconda accusa: gnosticismo.

La teologia di Mancuso sarebbe una riedizione dell’orgoglio di chi si considera “illuminato” da una grazia particolare che lo solleva dalla bruta materia e lo introduce al mondo dello spirito e alla conoscenza delle verità ultime, nascoste agli uomini semplici. La Chiesa ha sempre combattuto la gnosi come eresia, peccato d’orgoglio luciferino. Nelle pagine di Mancuso non mancano argomenti per replicare. Dappertutto s’insiste sull’intrico di materia e spirito e sulla loro appartenenza a quella realtà (che aspira a diventare) buona, cioè vera, giusta e bella, che chiamiamo creazione o azione che va creando. Se mai, il dubbio che potrebbe porsi è se, in quest’unione, non vi sia una venatura panteista: Dio come natura. Punto, probabilmente, da approfondire.

Dal rigetto del dualismo materia-spirito, deriva il rifiuto d’una fede di élite ,contrapposta alla fede di massa. Certo, se il turismo religioso del nostro tempo si scambia per manifestazione di fede, si può pensare che la seria introspezione di coscienza che chiama al vero, bello e giusto sia cosa per pochi. Questa tensione è il carattere della moltitudine degli “uomini di onesto sentire” (gli ánthropoi eudokías dell’angelo che annuncia ai pastori la nascita di Gesù, in Lc 2, 14). La teologia di Mancuso non è affatto da accademia, per pochi iniziati. Il suo libro, al contrario, distrugge il pregiudizio che la teologia sia questione astrusa, per ciò stesso riservata a una cerchia di iniziati, sospetti di astruseria, fumisteria, esoterismo, presunzione. Parliamo di quei teologi che costruiscono sul nulla, a partire da cose inconoscibili, immense cattedrali di pensieri che si arrampicano gli uni sugli altri fino ad altezze inarrivabili, oltre le quali essi stessi, presi dalla vertigine, cercano la salvezza si rifugiano nel mistero. Al contrario, se c’è una materia che dev’essere aperta a tutti, secondo coscienza, questa è la teologia.

Nella “vita buona” di Mancuso, il primato è della coscienza; nella “vita buona” della Chiesa il primato è dell’ubbidienza. Libertà contro autorità: una dialettica vecchia come il mondo. Scambiare la libertà di coscienza con la gnosi è un artificio retorico. Vale per persistere nell’accantonare i molti problematici aspetti della vita della Chiesa impostati su dogmi e gerarchia. Non solo: rende difficile il rapporto con i credenti di altre fedi, religiose e non. Riporta in auge il prepotente principio extra Ecclesiam nulla salus. La teologia di Mancuso consentirebbe di tracciare nuovi e sorprendenti confini, non più basati sull’obbedienza e sulla disciplina. Così, si scoprirebbe forse che molti, che si dicono dentro, sono fuori; e molti, che si dicono fuori, sono dentro. “Dentro” vuol dire: in una comune tensione verso quel logos del mondo che è la giustizia, appannaggio di nessuno e compito dei molti “di onesto sentire”, secondo l’insegnamento di G. E. Lessing, l’Autore di Nathan il saggio, al quale Mancuso di frequente ricorre.

Ora, si tratta del passo ulteriore: la “teologia sistematica”, cioè la rilettura d’insieme del messaggio cristiano alla stregua di queste premesse. Dimostrare che una tale rilettura sia possibile è la sfida che Mancuso, con questo libro, dichiara di accettare.

I have a dream

titanic.jpg(ANSA). Nella notte fra il 8 e 9 settembre è stato segnalato un corteo che viaggiava a luci spente sul GRA di Roma, diretto a Civitavecchia. Ne facevano parte le auto del Presidente del Consiglio, del dott.Letta, on. Cecchitto, on. Gasparri e due pulmann che ospitavano un centinaio di “consulenti” del premier stesso. Il corteo aveva tentato di raggiungere l’aeroporto dell’Urbe dove erano in attesa alcuni jet executive ma era stato fermato più volte da posti di blocco delle forze dell’ordine che controllavano masse crescenti di indignati, divenuti incazzati dopo la notizia-diffusasi nel pomeriggio- dell’avvenuto blocco dei conti bancari italiani su ordine della BCE e dell’annullamento de “Il grande fratello” edizione 2012

A Civitavecchia attendeva il corteo la corvetta della Marina Militare “Baionetta”, pronta a fare rotta sulla Sardegna. “Non è un fuga-ha commentato Cecchitto-è un momento di ripensamento”, “Sono partita senza neppure rifarmi la pressione alle tette”-ha commentato dispiaciuta Loriana, 23 anni-consulente del Ministero. “Torneremo!”, ha dichiarato Salvatore La Mottola, cugino di Valter Lavitola, addetto alla pressione senale delle consulenti.

Da fonti del Ministero della Difesa, il “Baionetta” è salpato alle ore 23,45. L’ultimo contatto radio risale alle 01,26 quando il comandante Ghislanzoni ha comunicato: “Tutto bene, c’è un bel movimento qui…”. Da quel momento ogni appello radio è caduto nel vuoto. Non risulta sia stato lanciato alcun messaggio SOS.. Alle prime luci dell’alba gli elicotteri del Soccorso aereo si sono levati alla ricerca della corvetta scomparsa, ma finora nulla è stato ritrovato: sulla superficie del Mediterraneo segnalate solo chiazze di nafta e qualche pezzo di silicone.