Se incontrate un French Bulldog Poppi…

Immagine-1.pngSe, aggirandovi per il Fidenza Outlet (vicino Parma), vi trovate accerchiati da un branco di cani, non vi spaventate. Sono i French Bulldog Poppi, le colorate sculture dell’artista Felipão, che riproducono alla perfezione i nostri amici a quattro zampe, ma «agghindati» in chiave pop. Con il suo tocco eclettico, il creativo madrileno presenta nei centri del circuito internazionali Chic Outlet Shopping l’installazione Fashion & Chic con tredici pezzi unici, mentre una linea di t-shirt, con il ritratto di un cucciolo, viene venduta per raccogliere fondi a favore della onlus animalista National Friends of Animals Association.

C’è aria di Natale invece nei Designer Outlets McArthurGlen di Barberino del Mugello (Firenze), Castel Romano (Roma), Marcianise (Caserta), Noventa di Piave (Venezia) e Serravalle Scrivia (Alessandria), che danno il via al conto alla rovescia per le feste accendendo il grande albero al centro della piazza principale dei rispettivi centri. Si farà shopping tra giochi di luce, cori gospel e soprattutto, prezzi scontati. E visto che a Natale è tempo di doni, Castel Romano Designer Outlet regalerà dieci Fiat 500, La Reggia di Marcianise premierà con abiti e accessori i vincitori del concorso Win your Christmas Style (mcarthurglen.it) e Serravalle offre la consulenza di cinque fashion-blogger per chi venisse colto dal panico da compere. E per non perdere la pazienza tra fiocchi e nastri, un apposito team penserà poi a fare i pacchi. (micol passariello)

 

Il venerdì Repubblica, 25.11.2011

 

French Bulldog Poppi?

Il creativo madrileno?

Fashion & Chic

fashion-blogger?

Panico da compere?

Un team apposito per fare i pacchi?

Shopping tra giochi di luce, cori gospel?

 

Favoletta di Natale

 

Me ne andavo un giorno passeggiando per Fidenza

quando vidi per strada una credenza:

che ci faceva tutta soletta,

abbandonata accanto a un voltafieno,

così lontana dal fiume Reno?

Per fortuna spuntò un creativo madrileno

che sogghignando mi disse,

sbarrando tanto d’occhi:

“E’ tutta colpa dei French Bulldog Poppi!

Tutti presi dai fashion blogger con tanto di tacchi

si son scordati del team apposito per i pacchi!”

Fui preso e travolto dal panico di compere supreme,

che mi scosse il cor e insiem le vene,

Fashion & chic non fanno male,

festeggiam pure il Natale,

ma come fare shopping tra giochi di luce, cori gospel e tante merde

se ancora una volta son rimasto al verde?

Sensazioni

navefolli.jpgNon sono scomparso, tranquillizzo i miei affezionati 25 lettori. Sono stato tranquillo in questi giorni, qui a Fortezza Bastiani il sole è ancora tiepido, il cielo è blu, tempo giusto per rimettersi a studiare e leggere. Ma soprattutto ho avuto spesso delle idee che non condivido e allora mi sono trattenuto dal battere tasti a caso o a (troppo) sentimento. Oggi, tornato dal funerale di Laila, una rocciosa ragazza partigiana, riprendo questo piccolo spazio per provare a condividere qualche sensazione ormai di fine anno.

Sensazione numero uno (o del senso del dopo). Un amico mi ha messo in guardia dall’usare il termine vecchio suino per il nostro EX-presidente del Consiglio. Forse per l’aggettivo vecchio? Qui in Emilia il suino è una animale nobile, anzi è “L’animale” (àl nimèl) per antonomasia. Quale insulto, dunque? No, è che il dopo-suino ci ha lasciati come svuotati, con un gusto amarognolo in bocca. Come la mattina dopo una nottata di bisboccia ci si alza intontiti, un po’ vergognosi di essersi ridotti in quello stato, vengono in mente scene della nottata che vorremmo evitare di ricordare, un mal di testa a suggello degli eccessi. Dopo anni di fango, volgarità, nani e troie non ci viene spontaneo librarci leggeri nel cieli futuri. Il fango si secca e resta appiccicato alle scarpe, ai vestiti, la volgarità è un peso che trascina in basso i pensieri. E’ stato facile sentirci grandi di fronte ai nani e puri in confronto alle troie. Adesso si tratta di altro, di rimettere in fila le priorità, di non pensare che tutto tornerà a posto, perchè l’ordine infranto si sana soltanto inventando un nuovo ordine, non rattoppando quello che è stato abbattuto, anche perchè i nani non sono cresciuti e le troie stanno solo cercando nuovi clienti.

Sensazione numero due (o della difficoltà del cambiamento). Il governo Monti era in carica da una settimana, non aveva fatto ancora nulla ed ho sentito il grido fatidico “sciopero!” Contro cosa? La Goldmansachs, la trilaterale, Pippoplutopaperino? Non importa. Sciopero. Per che cosa? Forse per giustificare l’esistenza in vita di chi lo proclama? Per solleticare l’ego di qualche leaderino? Piazze piene, urne vuote, as usual? Siamo nel XXI secolo e usiamo metodi e sistemi di due secoli prima. Compriamo l’i-Pad ma sembriamo personaggi di Pellizza di Volpedo. Lo sciopero? Il corteo? La manifestazione? Ma in 150 anni non siamo riusciti ad inventare null’altro per affermare i nostri diritti/doveri che non siano riti incartapecoriti e autolesionisti? Nelle piazze si gridava “La fantasia al potere”, finora l’abbiamo avuta nella versione oscena del berlusconismo, non riusciamo a pensare nulla di meglio? Perchè viviamo in un paese dove la paura dominante è quella di cambiare. Basta proporre la riforma dei moscerini e salta su l’Associazione dei parabrezza a dire che no, non si può, non si deve, il Sindacato dei vetrai che difende i diritti acquisiti, l’Ordine dei tergicristalli che grida all’attacco alla libertà di spazzola. A Reggio ri riorganizza la struttura scolastica e il Sindacato scende in campo a difendere i privilegi, le nicchie consolidate, le scuole di “eccellenza”. Soluzione? Fermi tutti per un anno. Poi si vedrà. Intanto ne parleremo. Stop alla vita. Entriamo tutti nella moviola e auguri.

Sensazione numero tre (o del rischio di scherzare con il fuoco). Siamo in crisi, siamo alla frutta, lo spread, il default etc.. Bene. No, anzi, mah. Leggo sulla stampa la sapida economista aperta per turno: l’Italia è fallita, torniamo alla lira. Non mi ero accorto che l’uso di sostanze dopanti fosse così diffuso. Ma ci rendiamo conto di cosa stiamo dicendo. Non siamo leghisti da Bar Sport. Tornare alla lira? E poi? Ah, ah, faremo come l’Argentina. Che bello, signora mia, quest’anno le gonne vanno corte, lei che fa? Mette l’euro o la lira? Il doblone o il sesterzio? E simili demenze non sparate dal miliardario all’estero che, tanto, a lui euro, lira o tallero cambia solo la letterina puntata prima della cifra. No, boiate cosmiche sparate dalla “sinistra” che davvero sinistra è, agghiacciante quasi. L’irresponsabilità che abbiamo vissuto/subito per 14 anni e che qualche bello spirito ha battezzato “leggerezza” ci ha fatto davvero perdere il senso delle cose. Quos vult perdere Deus dementat. Dio toglie il senno a chi vuole mandare in rovina, così mentre il Titanic farà gluglu canteremo allegri e saremo felici “finalmente tanti cubetti di ghiaccio per i nostri coktails!!”

L’inverno del mio scontento

 

gericault%20la%20zattera.jpgIl vecchio suino se n’è andato, lo spread delle escort è in caduta libera, è arrivato un governo di marziani. Non sono verdi ma non sono terrestri, o almeno italiani. Laureati, competenti, bruttini. Dopo il circo che ci ha governati per tanti anni (senza dimenticare quello che ha seppellito due volti Prodi) il salto è forte.

Ma naturalmente già si alzano i primo distinguo-mugugni-pirlate. Non parlo della leeeegha -che non merita nemmeno la maiuscola-che tenterà di far dimenticare di essere stata per 3 anni e mezzo il mangiatore di fuoco del circo Berlù (e qualche fesso ci crederà pure), o degli “artisti” del circo rimasti a spasso, ma delle teste fini(te) della cosiddetta sinistra.

Passi per i ragazzini incazzati o indignati che propongono il ritorno al baratto e l’abolizione della moneta ma anche fra i “compagni” si mugugna contro le banche, i “poteri forti”, il complotto demo-pluto-giudaico-massonico-BCE. Ma, soprattutto, -ahimè-, si scimmiotta la gerarchia vaticana e ci si trincera sui “principi non negoziabili”, tipo articolo 18 e pensioni. Come insegnava il gen.Beuttler “chi si trincera è perduto” perché, prima poi, se non sarà con un attacco frontale, il nemico ti aggirerà e tu resterai lì, col tuo fuciletto in mano, le piazze piene, gli scioperi fatti, tanti bei cortei ma con il classico cetriolo volante già arrivato a destinazione. Confesso: quando sento Cremaschi mi viene voglia di invadere (di nuovo) l’Iraq.

Non si impara mai niente: il conflitto per il conflitto è come la pippa giovanile, piacevole ma poco produttiva. O si esce dal conservatorismo in cui è caduta la sinistra in questi anni oppure i cetrioli diventeranno una pioggia. Non esistono principi non negoziabili a priori, non possiamo rifiutare ogni cambiamento solo perché non siamo stati in grado noi di proporre un cambiamento prima degli altri. Il riformismo è (stato) innovazione e le innovazioni significano cambiamento, fine di privilegi, nicchie calducce e comode, consolidate gestioni del potere. Roba scomoda per tutti, ma indispensabile.

Non ci sono trincee eterne. Le trincee eterne diventano fosse in cui verremo, giustamente, seppelliti.

Il governo Monti non commissaria la democrazia, il Parlamento esiste e vota, semplicemente si prende atto del fallimento della intera classe politica italiana e con l’acqua alla gola si cerca di trovare una via di uscita, cercando di applicare non tanto le regole della BCE quanto quelle di buona amministrazione, buon senso e rigore (parola ormai desueta a destra come a sinistra). Rigore per noi tutti. Possiamo provarci oppure possiamo scendere in piazza, fare sciopero, sentirci nuovi e rivoluzionari, auspicare anche il default nazionale, cazzeggiare allegramente sul rovesciamento del capitalismo. Si può far tutto, tanto la colpa è sempre degli altri, del complotto internazionale, dei poteri forti, delle banche, di Voldemort, basta crederci e poi-forse-si può essere anche felici…pezze al culo permettendo.

Rigore

Abbiamo aspettato tanto ed il momento è arrivato. Avevamo temuto uscite di scena stile Caimano, invece, come nei regimi ridicoli –e per fortuna-non c’è stato nessun dramma. Solo il grottesco fuggire dalla porta secondaria del Quirinale mentre una folla festante intonava l’Halleuiah di Händel. Come il 26 luglio tutti spariti i nani, le puttane, i faccendieri. Nascosti a casa magari attaccati al telefono in cerca di un nuovo protettore.

Finiscono 17 anni con Berlusconi, i peggiori mai vissuti. Certo neppure il più ottimista può pensare che questo basti, che i problemi siano risolti. E non parlo di quelli economici, quelli mi spaventano meno. Lui non è più Presidente del Consiglio, non avremo più i SacconiBrunettaLaRussaGelmini a farci nascondere il passaporto all’estero. Ma sono tutti ancora lì. Non è mai accaduto che qualcuno lasci il potere spontaneamente, viene un bel giorno e quello dica “ho fatto gli affari miei, un mucchio di craxate, scusate, arrivederci…”. Mai. Ci sono volute sempre guerre, rivoluzioni, invasioni, carestie e simili delizie. E a volte non sono bastate neppure quelle, pensiamo ai fascisti riciclati dopo il 25 aprile. E per fortuna che quelli di Dongo e Piazzale Loreto non ce l’hanno fatta.

No. Anche adesso sono tutti lì, lautamente pagati da noi, pericolosi ancora come prima. Resteranno acquattati e poi chissà.

Il cavalier Mussolini non avesse incontrato il mitra di “Valerio” (o chissà chi, l’importante è che quel mitra l’abbia incontrato) ce lo saremmo trovati negli anni cinquanta o sessanta, magari sostenuto dagli alleati. In tempi di guerra fredda, in fondo, ci si poteva fidare di lui, no? Possiamo fare ben poco in questa situazione. Certo non pensare ad elezioni (con questa legge? Ci ritroveremmo a destra come a sinistra i soliti nominati, no, grazie) ma pensare a noi, a ciascuno di noi.

Al berlusconismo che è dentro di noi, quello che ci ha corrotto tutti in questi anni. Le vergini sono finite, morte, dipartite. Anche noi abbiamo accettato il primato del denaro, dell’incompetenza fatta regola, del farsi i piccoli affari propri in attesa del luminoso avvenire. Bene, quel luminoso avvenire inizia oggi. Partendo da noi, ognuno, il percorso è semplice, difficile ma semplice. Si chiama rigore, non accettare più l’inaccettabile. Non ho formule: ognuno ci pensi e capirà di cosa sto parlando. O ripartiamo dai fondamentali etici e morali, i soli che possono selezionare una classe dirigente nuova, fatta non di santi ma di persone dignitose, serie e all’altezza, o comunque non avremo risolto nulla. Avremo tolto un vecchio porco per sostituirlo con qualcun altro, magari giovane e carino ma senza altro scopo che quello solito, vecchio come il mondo: il potere

Certo bisogna farne di strada per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”, ci diceva il poeta che cantiamo sempre e ricordiamo come un gran genio (e lo era) ma tradiamo ogni giorno. Non ci sono poteri buoni, ma uomini che accettano di servire la propria comunità|paese non per guadagnare qualcosa ma perché quello che fanno è già il miglior premio.

Virtus ipsa premium est”, ricordiamocelo in questo inizio di luminoso avvenire.

Dopo il 25 luglio viene l’8 settembre

“Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà” ci ricorda il poeta e noi, ovviamente, noi italiani ci siamo arrivati per contrarietà. Non riusciamo neppure a festeggiare la caduta del vecchio suino, i tappi di spumante sono rimasti nella gabbietta perché non si sa se potremo permetterci un’altra bottiglia domani.

Ora, speriamo, arriverà SuperMario Monti, l’uomo giusto al posto giusto. Ma il suo arrivo, che speriamo riesca a frenare la caduta, testimonia soprattutto della fine della nostra classe dirigente. Tutta. Il buon Napisan l’ha coperto con il laticlavio di senatore a vita (a proposito, ricordate quando il suino ventilò la nomina di Mike Buongiorno? Tempi spensierati quelli…) quasi ad attutire la dimostrazione del fallimento della politica rappresentata da questa classe dirigente. L’8 settembre ci fu chi se la diede a gambe (quelle corte di Sciaboletta), chi si chiuse in cantina, chi finì nel lager e chi pensò che era ora di cambiare, ma cambiare davvero.

La strada è quella, cambiare davvero. Bisogna arrivare sempre all’orlo del disastro per capire? Bisogna che ci sia Caporetto, l’8 settembre, Mani Pulite?

Dopo l’8 settembre si trattava di ripulire un paese corrotto e complice del fascismo, la Resistenza ci provò, poi la continuità ebbe la meglio sulla rottura e il “vento del nord” uscì al casello di Orte. Ora si tratta di cercare le fondamenta del nostro essere un paese europeo, non di blaterare di democrazia ferita perché qualcuno viene-per fortuna- a guardarci i casa dopo anni di libero cazzeggio morale ed economico. C’è da riprendere una dignità distrutta, sono stanco delle pacche sulle spalle degli amici stranieri, delle loro occhiate fra il pietoso e il divertito. L’Italia è stata fra i fondatori dell’Europa unita, riusciamo a ricordarcene?

Siamo finiti dove siamo per colpa di tutti, alcuni più di altri, ovvio, ma nessuno era in esilio in questi anni. E non solo sul piano politico ma-soprattutto-su quello etico e civile. Ci siamo abituati all’eccezione abiurando le regole.

Quante volte ci è capitato (e capita), di fronte a un dirigente/onorevole/preside/assessore/sindaco/direttore di pensare “ma questo qua chi lo ha messo qui?”, di fronte alla sua inadeguatezza, incapacità, sublime mediocrità. Abbiamo selezionato il peggio e ora ci lamentiamo? Ci siamo illusi che la macchina andasse avanti sui binari, chiunque fosse alla guida. Non è così, non lo è mai stato e adesso siamo su un aereo alla guida del quale, ancora per qualche giorno, sono seduti suini, puttane (per me l’Escort era solo quella della Ford), nani, socialdemoscoppiati. Riuscirà SuperMario ad attaccarsi alla cloche e “tirar su” il muso del nostro aereo?

Il mio consiglio sarebbe prima di buttare giù la zavorra, come si fa in questi casi. Far prendere una boccata d’aria a 3000 m. agli idioti. Vasto programma, come disse il buon De Gaulle.

E intanto la nostra bella sinistra che fa? Discetta di elezioni?! Invoca il primato della politica (?!), si abbandona a trip lisergici (Berlusconi sarebbe caduto grazie alla manifestazione del 5 a Roma..), litiga su Cicciobello Renzi, fonda correnti e movimenti “riformisti” (roba che se Camillo tornasse li prenderebbe a calcinculo) o dichiara che voterà contro Monti. Bene, bravi, è il miglior complimento che potete fargli, però poi dopo, uscite in silenzio per sempre e spegnete la luce. Grazie.

 

 

 

 

No, la valorizzazione no!!! Lasciate in pace S.Tommaso (il carcere non il santo)

Leggo sulla stampa odierna locale (Resto del Carlino) che si torna a parlare dell’ex carcere di S.Tommaso (“Per l’ex carcere c’è l’ipotesi dismissione del Demanio“). Nel quadro delle dismissioni previste nel maxi emendamento del governo (si fa per dire), beni demaniali sarebbero messi in vendita, fra questi il carcere (ora deposito dell’Archivio di Stato) e l’archivio notarile di via Emilia S.Stefano.

Il nostro SonderAssessore Spadoni ci informa che il comune aveva”..inoltrato richiesta di concessione all’ente locale per un progetto di valorizzazione...”.

E qui mi vengono i brividi, giù per la schiena e oltre. No, la “valorizzazione” no, tutto ma la “valorizzazione” no. Cos’è questa “valorizzazione”? Consiglio la lettura del suddetto lemma nel dizionario “Parole e pirlate dell’Italia contemporanea“, edito da Scureletture, Budrio 2011.

Valorizzazione“: s.f. a. Come prendere un bene pubblico e regalarlo ai privati; b. Come prendere un luogo storico e farci outlet, boutique del pene, piadinerie e negozi di calzature; c. Come prendere un luogo storico e di memoria e cancellarlo accuratamente dal patrimonio comunitario.

Il Carcere di S.Tommaso (già convento del Corpus Domini) è l’unico luogo di memoria giunto INTATTO a noi: da lì sono passati i Cervi prima di essere fucilati (la loro cella è ancora come quella mattina del dicembre 1943), tutti gli antifascisti reggiani arrestati negli anni ’30 e ’40, i dieci ebrei reggiani finiti ad Auschwitz furono tenuti lì (e i registri del carcere lo confermano). Davanti al carcere il 26 luglio 1943 la folla chiese e ottenne la liberazione dei detenuti politici. E tutto è-per fortuna-ancora lì. Un luogo di memoria unico, nel centro della città, ci è giunto miracolosamente e che noi che pensiamo di farne? Valorizzarlo???

No. Basta. non ne posso più di queste valorizzazioni. Ci raccontano di sapere, cultura e poi? Appena si diffonde nell’aria il profumo del mattone questi qua vanno in trance, hanno orgasmi multipli e via che partono gli incarichi-progetti a architetti penici e penosi che costano talleri su talleri e rimangono (per fortuna!!) sulla carta. Carte costose, ma meglio carta che cemento, signora mia!!

Vogliamo parlare dei Civici Musei? Dello sventramento operato? Dei dieci anni di cantiere che hanno trasformato il palazzo S.Francesco nella biblioteca di Serajevo? E Dio benedica il patto di stabilità e Tremonti (sfpd) che impedisce che parta il progetto Rota (con funghetti e onanistiche stanze del tempo..).

Valorizzazione? Svendita, cancellazione, lucro.

eingang_dokuzentrum.jpgMa è così difficile capire che un luogo di memoria è una risorsa non solo culturale ed etica ma anche economica? Fatevi un weekend a Norimberga e andate a vedere cos’hanno fatto sui luoghi delle adunate nazi. Pensate quante villette, maisonette, direzionali, outlet, svincoli e rotonde avrebbero potuto metter giù i norimberghesi (roba che Malagodj sarebbe andato a vivere là di corsa..), invece no.

Hanno fatto una VERA scelta di valorizzazione, culturale, etica ed eco-no-mi-ca. Investimento in sapere, luoghi di memoria, centri di documentazione dove migliaia di persone ogni anno vanno (portando eurini). http://www.museums.nuremberg.de/documentation-centre/

Qui si fanno le gallerie commerciali, petali, fiori e genialate varie, loro fanno altro.

Noi, illusi patetici, a Reggio rompiamo i cabasisi da anni per avere la “Memoria della città“, un luogo significativo dove che viene a Reggio possa trovare la nostra storia dell’ultimo secolo. Ogni città europea delle nostre dimensioni l’ha fatto o lo sta facendo. Loro pensano a “valorizzare” con outlet e negozi (senza tener conto del livello da terzo mondo dei nostri commercianti..).

Allora, appello ai potenti: non “valorizzate” S.Tommaso. Lasciatelo lì, con la sua polvere, i suo gatti/topi, le carte d’archivio. NON fate niente, fate finta, lasciatelo sciogliere, crollare dolcemente, tenete fuori le coop, gli immobiliaristi che hanno già devastato tutto. Fategli costruire ancora un po’ negli ultimi prati che restano case che nessuno compra più, ma S.Tommaso lasciatelo stare. Grazie.

p.s. visto che ormai sono vecchio e so come va (male) il mondo, a chi toccherà S.Tommaso lancio la maledizione dell’eremita Gualberto di Monforte (sec.XI): “Che ti si attacchino le dita alla matita che stai temperando nel temperino elettrico e che si temperino indice e pollice fino all’osso, che manchi la luce nel bagno e tu possa scambiare carta vetrata per la morbidosa carta igienica profumata, che tu possa restar chiuso in ascensore per sei ore con un petomane e un fumatore di toscano, che ti giunga alfine il caghetto a spruzzo fulminante mentre stai ascoltando l’ennesima conferenza dell’archistar di turno e-logicamente-la sala conferenze non sia dotata di alcun servizio igienico funzionante“. Amen.

Memorie dall’abisso dell’umanità. Il diario dai campi di sterminio nazisti di Carl Schrade

Già un caso editoriale in Francia, esce anche in Italia per Donzelli “Il veterano. Undici anni nei campi di concentramento (1934-1945)” di Carl Schrade. Come scrive Alessandro Portelli nella prefazione che qui pubblichiamo, questa straordinaria testimonianza è “uno studio su che cosa può l’umanità in condizioni estreme”.

il-veterano.jpgArrestato nel 1934 all’uscita di un caffè berlinese per aver pronunciato alcune frasi critiche sul regime hitleriano, il giovane commerciante svizzero Carl Schrade diventerà un «veterano» dei campi di concentramento nazisti, trascorrendovi undici anni della sua vita e passando per una impressionante, penosa serie di luoghi, dai nomi tristemente noti: Lichtenburg, Esterwegen, Sachsenhausen, Buchenwald, Flossenbürg. Dopo la liberazione e il processo di Dachau, nel quale si troverà a testimoniare contro i responsabili delle atrocità cui aveva assistito, in particolare quelle commesse ai danni dei malati da parte dei medici nazisti, Schrade comincia a trasferire sulla carta i suoi terribili ricordi.

Questo documento, affidato all’amico Jehan Knall-Demars, figura storica della Resistenza francese, che ospitò Schrade nella sua casa di Nizza, resterà sepolto per settant’anni, prima di vedere la luce oggi, diventando in Francia un vero e proprio caso editoriale. Nel libro Schrade segue fin dall’origine la lunga evoluzione del sistema concentrazionario, osservando in tutte le sue fasi, il cambiamento nella logica dei campi e nella provenienza dei prigionieri e degli internati. Lavori logoranti, umiliazioni, violenze gratuite, malattie, epidemie, rapporti umani retti nella maggior parte dei casi dalla negazione dell’umanità stessa: la radiografia di Schrade non risparmia niente. Come osserva acutamente Alessandro Portelli nella sua prefazione, la scrittura di Schrade, incredibilmente precisa e lucida, conserva una rara capacità di riconoscere anche nelle vittime gli effetti del degrado e della corruzione: a sottolineare come «il rischio di essere aguzzini o complici è parte di noi in quanto esseri umani».

Carl Schrade nasce nel 1896 a Zurigo. Dopo la prima guerra mondiale intraprende l’attività di commerciante, e spesso si reca in Germania per lavoro. È qui che una sera, in un locale berlinese, si lascia andare a una critica del regime nazista. Verrà arrestato e da quel momento inizierà la sua odissea, fino alla liberazione. Nel 1946 testimonia nel processo di Dachau contro il medico nazista Heinrich Schmitz, responsabile di terribili crimini nell’ospedale del campo di Flossenbürg, dove Schrade aveva lavorato mettendo a rischio la propria vita per salvare prigionieri e malati. Il ritorno in Svizzera non sarà facile, e Schrade troverà rifugio in Francia, presso gli amici con cui aveva condiviso gli anni di internamento. Schrade muore nel 1974 dopo una lunga malattia.
Per gentile concessione dell’editore proponiamo la prefazione di Alessandro Portelli a “Il veterano. Undici anni nei campi di concentramento (1934-1945)” di Carl Schrade, in questi giorni in libreria per Donzelli.

di Alessandro Portelli

Nei primi capitoli della sua autobiografia, l’ex schiavo americano Frederick Douglass descrive la gerarchia della piantagione e le figure degli overseers, i sorveglianti che la facevano funzionare: «Il signor Plummer era un miserabile ubriacone, uno spergiuro, e un mostro fatto e finito. Circolava sempre armato di uno scudiscio di pelle di bue e di un pesante bastone…». «Mr. Severe si chiamava per quello che era: un uomo crudele. L’ho visto frustare una donna da farle colare il sangue per mezz’ora». La grandezza dell’autobiografia di Douglass sta nella capacità di rovesciare lo sguardo: gli over-seers, coloro che, letteralmente, «vedono dall’alto» e sanno tutto, sono guardati dal basso e giudicati per quello che sono da chi non dovrebbe sapere niente. E il mero fatto di saper vedere e giudicare conferma quello che l’intera istituzione della schiavitù pretende di negare: la soggettività, la capacità di giudizio morale, di esseri umani trattati disumanamente come subumani.

Ubriaconi brutali armati di frusta e bastone circolano anche nei campi di concentramento nazisti dove Carl Schrade ha trascorso gli undici anni che descrive in questo libro. Anche Schrade guarda la gerarchia del campo e la descrive in termini non molto diversi da quelli di Douglass. Il comandante del campo di Flossenbürg, «il tenente-colonnello SS Karl Künstler, alto, snello ed elegante, ha due passioni: il cavallo e l’alcol»; come gli aristocratici padroni delle piantagioni, non picchia mai nessuno ma lascia fare ai suoi subalterni, il capitano SS Aumeier («un genio del male»), il sergente capo SS Schirmer («un vero e proprio bruto pieno di fiele»), il sottotenente SS Tromer («un macellaio molto rispettabile, un boia di talento»).

Parole come «schiavi» e «schiavitù» ricorrono spesso nel racconto di Carl Schrade sui suoi undici anni di prigionia nei campi di concentramento nazisti («le SS non avevano affatto bisogno di rispettare il detenuto-schiavo. Così come non rispettavano alcun essere estraneo alla loro casta e al loro “onore”»). Non è solo una metafora: il campo di concentramento prepara il campo di sterminio, anche se non ha ancora come fine la morte delle sue vittime, ma piuttosto condivide con la piantagione schiavista l’intento di estrarne il massimo di lavoro e sottoporle a una subalternità totale, mettendone in conto tranquillamente la distruzione e la morte se servono alla produzione o alla disciplina. Le gerarchie del campo, come quelle della piantagione, si legittimano con la convinzione di sentirsi esseri superiori preposti a creature senza alcun diritto («Voi, i detenuti, siete esclusi dalla comunità nazionale. Non siete più uomini», dice l’aiutante SS Reinicke, che Schrade bolla come «megalomane»).

Come vede bene Frederick Douglass, è anche per rinforzare in se stessi questa persuasione di onnipotenza che si accaniscono a disumanizzare le loro vittime e a distruggerle a casaccio: l’onnipotenza lascia libero il sadismo, il piacere in sé di fare male, di umiliare, di uccidere «per ridere». Tanto più che, a differenza degli schiavi, i detenuti del campo non hanno neppure quel valore commerciale che, nelle piantagioni, poteva indurre a pensarci due volte prima di sprecare inutilmente le vite di quegli utili e costosi animali da lavoro che erano gli schiavi. Per il regime concentrazionario del Terzo Reich, la fornitura gratuita di sempre nuovi detenuti-schiavi sembra, dall’inizio del regime fino alla fine della guerra, praticamente inesauribile.

L’acutezza dello sguardo dal basso si conferma, in Schrade come in Douglass, anche nella capacità di continuare a distinguere, di vedere i loro aguzzini come individui uno diverso dall’altro. Douglass scrive che il nuovo sorvegliante, Mr. Hopkins, era «meno crudele, meno empio, meno chiassoso… frustava, ma non pareva ci provasse gusto. Gli schiavi lo giudicavano un sorvegliante umano». E Schrade menziona l’aiutante SS Mayrl, che «non era un tipo cattivo» («n’était pas mauvais bougre»); il tenente SS Petz, «uomo calmo e corretto»; il «brav’uomo di nome Seiz, del quale non abbiamo niente di male da dire». Sia in Douglass che in Schrade, la relativa umanità di alcuni si misura non sul possesso di qualità positive, ma sulla mancanza o attenuazione dei tratti di crudeltà di tutti gli altri. L’unica vera eccezione è Max Demmel, il sottufficiale addetto alla sorveglianza nell’infermeria, che non si limita a essere meno crudele ma è positivamente buono: «ci dà il suo aiuto e il suo caritatevole appoggio. Anche lui commette furti per soccorrerci. Ma non traffica, non intasca niente. Quello di cui dispone, lo dà sinceramente e senza secondi fini […]. Tutto quello che vede qui, tutto quello che sente, gli suscita disgusto e ripugnanza. Si capisce che è sincero e onesto […], è talmente dolce e umano che i detenuti ne riconoscono la naturale bontà e lo soprannominano “l’Angelo”» – l’unico che Schrade incontra in undici anni d’inferno.

C’è ironia implicita in questa definizione, «angelo», in un luogo che è ripetutamente descritto come un «inferno». E infatti: «I collaboratori di Loritz, il capo del campo degli internati Schmitt e il Rapportführer Terrey, erano angeli devoti al padrone. Operarono talmente bene che, grazie all’unione dei loro talenti, quel campo fu chiamato l’“Inferno della foresta”». Con Frederick Douglass, infatti, Schrade condivide un altro procedimento retorico: l’uso dell’ironia, del sarcasmo, dell’ossimoro. Nel mondo alla rovescia della piantagione e del campo, ogni cosa diventa il proprio contrario e il significato delle parole si capovolge, e gli angeli sono demoni. Per Douglass, il terreno principale dell’ironia e dell’ossimoro è la «religione schiavista» dei «pii aguzzini cristiani», come Mr. Covey, «anima pia» e «domatore di schiavi»; in Schrade, i luoghi dove si verifica più stridente la contraddizione sono il patriottismo e la professionalità.

«Recht oder Unrecht, mein Vaterland», nella ragione o nel torto, è il mio paese: questo «motto stupefacente» ossessiona Schrade anche più del ben noto «Arbeit macht Frei», perché fa del «torto» una virtù patriottica. Più si accaniscono sulle proprie vittime, più inventano nuovi modi di privarle dei loro diritti, e più gli aguzzini affermano di stare servendo il loro paese. E per servire il loro paese, devono mettere a frutto tutte le loro capacità: «Meravigliosi strumenti nelle mani di un Padrone feroce, i Kaiser avevano davanti a loro un brillante avvenire: nel 1936», con i loro collaboratori, «per le eccezionali qualità dimostrate, furono assegnati al campo di Dachau, dove perseguirono fino al limite estremo il loro compito, benedetto dal Führer». Così, Koch, il comandante di Buchenwald, è descritto sarcasticamente come «un uomo integro, circondato da consiglieri virtuosi». Il campo stesso diventa la materializzazione di questo paradosso, a partire dal bucolico nome assegnato a questo inferno, «foresta di faggi». Buchenwald è il prodotto dell’ingegno e del lavoro umano: «A Buchenwald ci sarebbero volute milioni e milioni di ore di lavoro consumate da migliaia e migliaia di esseri umani per innalzare quel gigantesco monumento che in capo a qualche anno avrebbe raggiunto la perfezione quanto a ordine, armonia, solidità e resistenza».

Il dottor Schmitz, capo dell’infermeria di Flossenbürg, «un giorno dichiarò a uno di noi che 10-12 000 cadaveri in un anno erano un “bel risultato”». Il capovolgimento del senso e delle parole culmina negli ospedali dei campi: il sapere medico e scientifico non serve a curare ma a torturare e a uccidere. Il tenente SS Tromer, medico a Flossenbürg, «aveva sbagliato vocazione. Sarebbe stato un macellaio molto rispettabile, un boia di talento» che amava l’arte, la musica, i fiori e massacrava le persone. Il dottor Schmitz è l’incarnazione più estrema di questo rovesciamento del senso: «chirurgo dotato di un vero talento, quest’uomo privo di ogni senso morale, che si avvale di un’intelligenza pronta e vivace», fa dell’infermeria un regno di «terrore e follia». E niente meglio dell’implicito ossimoro di una follia retta da una viva intelligenza e da un vero talento dà conto della qualità dello sguardo che Schrade getta sulla macchina concentrazionaria e sui suoi amministratori.

In questo libro pieno di episodi drammatici e scene spaventose, forse l’episodio più «commovente», «toccante» e infine semplicemente «bello» è l’incontro con la donna che vedendo passare per il suo villaggio la colonna dei prigionieri, supplica il capo degli aguzzini di fermarsi, «per l’amor del Cielo e dei suoi figli». L’immagine che ne resta negli occhi delle vittime, di lei spinta via a forza e inginocchiata al bordo della strada, è il momento più alto di umanità. Ma proprio la compassione di questa donna diventa anche il più duro atto d’accusa nei confronti di tutti gli altri, di tutta la gente che li vede passare e non fa e non dice niente, per paura, per indifferenza, per complicità.

La donna di Hottelstedt e l’angelico infermiere Max Demmel sembrano, a prima vista, varianti della grande narrazione sul «tedesco buono» (pensiamo al Disperso di Marburg di Nuto Revelli) che spicca fra i suoi sanguinari camerati a dimostrazione del fatto che «non tutti i tedeschi erano cattivi». Spesso questa figura, in parte reale e in parte mitica, è stata evocata con funzioni assolutorie: tutto sommato le SS non erano poi così cattive, anche la piantagione manteneva tratti di umanità, e così via. In realtà, significa il contrario: il fatto che alcuni membri della gerarchia si distinguessero perché mantenevano tracce della propria umanità non fa che sottolineare le responsabilità di tutti gli altri. L’esistenza del sorvegliante caritatevole mette in risalto la malvagità del medico assassino.

Vedere le SS come individui sottolinea il fatto che le responsabilità sono anche responsabilità personali: si poteva anche provare a essere un po’ diversi. Anche per questo, oltre che per motivi di accuratezza e verificabilità storica, è importante il fatto che Schrade ci tenga a ricordare il più possibile i nomi, le storie, gli atteggiamenti: fanno tutti parte dello stesso sistema, della stessa macchina, ma non sono meri meccanismi intercambiabili, ci stanno dentro ognuno a proprio modo e con le proprie scelte.

Schrade mantiene la stessa lucidità, la stessa capacità di distinguere, anche nei confronti dei propri compagni di sofferenza: riconosce gli eroi, i santi, i martiri; e riconosce i traditori e le spie. Mostra come il campo fosse in grado di produrre degrado e corruzione anche tra le stesse vittime (il capitolo sulla sessualità è tra le pagine più insolite e tristi di tutta la letteratura concentrazionaria), e come la gerarchia nazista fosse in grado di sfruttare le loro divisioni e le loro debolezze. Ma è tutto il libro che diventa, infine, uno studio su che cosa può l’umanità in condizioni estreme: «È certo che in nessun’altra situazione ci sarà possibile studiare e comprendere meglio l’uomo, la sua natura biologica e psicologica, che in un contesto di sofferenze e di prove quale è un campo di concentramento come quello di Flossenbürg», scrive Schrade. È un altro modo di dire, con Primo Levi, che «è avvenuto, quindi può accadere di nuovo». Il rischio di essere aguzzini o complici è parte di noi in quanto esseri umani. Schrade ci chiama alla vigilanza su noi stessi.