Che cos’è la verità storica (Miguel Gotor)

magritte-la-verita-negata.jpgLa disputa tra realisti e antirealisti interroga anche gli storici invitandoli a selezionare una serie di strumenti critici con cui affrontare il relativismo concettuale tipico degli anti-realisti radicali e la critica alla nozione di fatto promossa dai post-modernisti. Il primo strumento è costituito dalla documentalità come resistenza, che usa la filologia a guisa di arma. I fatti saranno pure interpretazioni come sostenuto da Nietzsche, o sacchi vuoti che non stanno in piedi come scritto da Pirandello; e avrà anche ragione Borges nelle Ficciones, quando, commentando il capitolo IX del Don Chisciotte, quello in cui Cervantes definiva la storia la «madre della verità» sostiene: «L’ idea di Cervantes è meravigliosa: non vede nella storia l’ indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica per lui non è ciò che avvenne, ma ciò che giudichiamo che avvenne». D’ accordo, ma dai tempi di Lorenzo Valla, grazie alla rivoluzione umanistica, si è affermata un’ irriducibilità dell’ analisi del testo e una sua autonomia che connotano la disciplina storica e le consentono, attraverso la critica delle fonti e le relazioni con il contesto, di accertare l’ autenticità di un documento e la verità o la falsità del suo contenuto. Ciò avviene attraverso un metodo filologico che è il migliore antidoto allo scetticismo integrale e che fa della storia una disciplina laica che sottopone a ragione critica i discorsi istituzionali e istituzionalizzanti del potere e si fonda, come ha insegnato Marc Bloch, sul modo del relativo e degli uomini al plurale. Il secondo strumento respinge l’ identità tra storia e memoria che devono vivere nella loro reciproca autonomia. Se la verità storica dipendesse solo dal racconto dei testimoni oculari o dal ricordo dei protagonisti degli avvenimenti, sarebbe davvero poca cosa. Anzi, sia gli uni sia gli altri, non aiutano a capire perché – come ha insegnato Primo Levi in I sommersi e i salvati – la testimonianza oculare e la memoria individuale sono necessarie, ma non sufficienti alla comprensione storica. Entrambe, infatti, sono determinate da un impasto vivacemente umano di interessi, dimenticanze, censure, passioni, paure, ambiguità, dolori, segreti, rimpianti, fedeltà e obbedienze che costituiscono l’ inevitabile porto da cui si salpa, ma non il punto di arrivo di ogni avventura di conoscenza. La storia non può limitarsi a raccogliere e inventariare le testimonianze dei reduci, bensì deve criticarle nella loro emotività costitutiva, altrimenti rischia di diventare una disciplina della rappresentazione dei sentimenti e delle percezioni, incapace di mettere in relazione i discorsi tenuti con la posizione sociale di chi li tiene e i rapporti di forza entroi quali avvengono. Naturalmente, non si tratta di riproporre un neo-positivismo ingenuo dal carattere sociologico-documentario, indifferente al travaglio ermeneutico che ha attraversato la soggettività occidentale negli ultimi decenni.
Piuttosto, bisogna partire da quella consapevolezza per riflettere anche in ambito storiografico e non solo letterario sulla fecondità di una sorta di “realismo isterico” caratterizzato dal gusto maniacale per il dettaglio (Dio è nel particolare), dalla digressione che rivela il problema quanto più sembra allontanarsi dal suo oggetto e dalla fluvialità della trama che serve a proteggere con i suoi argini la sempre fragile e spesso tragica complessità della verità storica come ricerca. Il terzo strumento riguarda la dimensione civile della ricerca storica. In questi ultimi anni il mestiere di storico è stato caratterizzato da una deriva ermeneutica sempre più specialistica e parcellizzata direttamente proporzionale alla crisi del carattere etico-politico della disciplina.

La principale ragione di questo moto tendenziale credo sia comune ai principali saperi umanistici. Penso alla rielaborazione del trauma costituito da Auschwitz, che, trascorsi solo settant’ anni dall’ evento, ancora condiziona lo sviluppo dei modelli culturali. Tutte le discipline umane, ancora oggi, stanno provando a rispondere, ciascuna in base alla propria specificità, alla domanda che fu per primo formulata da Theodor Adorno: dopo Auschwitz è ancora possibile la poesia? E Dio, e la filosofia, e l’ arte, e il romanzo e la storia? Sono ancora possibili? Per quanto concerne la storia la ferita da ricucire è costituita dal negazionismo, ossia dal rifiuto dell’ esistenza dei campi di sterminio come fatto in sé. La qualità dei problemi sollevati da questa patologia culturale sono più rilevanti dell’effettiva portata quantitativa del fenomeno stesso. Nel negare l’ esistenza di un fatto riducendolo a mera interpretazione c’ è il lascito più concreto del progetto nazista, fondato sulla distruzione della documentalità, un obiettivo che è stato possibile programmare e in parte realizzare proprio in virtù della forza e dell’efficacia di quel programma totalitario. «Tanto non vi crederanno…»: quest’angosciosa provocazione di una SS spinse Levi alla scrittura. Dall’ imperativo di rispondere a una sfida tanto selvaggia si è registrata la condivisibile presa di conquista del centro della disciplina da parte della memoria e della testimonianza. Tuttavia, l’ estensione onnivora di questa prescrizione agli altri ambiti della ricerca, un’ estensione non a caso accompagnata da una messa in discussione dell’ unicità della Shoah come progetto di annientamento totalitario scaturito dal cuore della democrazia europea, ha progressivamente marginalizzato lo spazio della filologia e quello del metodo nella ricostruzione storica: dalla storia alle “storie”, ciascuno con la propria memoria identitaria da difendere e brandire.

Ciò ha favorito l’affermazione della “docufiction”, il cui fulcro è costituito dalla densità emotiva del racconto, qualunque esso sia: basta che quel sacco stia in piedi, anche se a tenerlo non sono più neppure le interpretazioni – che almeno si potrebbero discutere – ma il palcoscenico delle emozioni, il ricatto degli stati d’ animo e il loro consumo pubblicitario dentro una cornice populista che costituisce la malattia della democrazia contemporanea. Un male che si può ancora curare se restituiamo uno spazio critico ai fatti e alla realtà, come istanza culturale da proporre, un percorso in cui dunque il sapere storico, con i suoi metodi, può svolgere un’ importante funzione civile. Il problema sollevato è quello della tendenza al dispotismo della democrazia, già individuata da Tocqueville in pagine famose: forme della rappresentatività in crisi e retoriche della persuasione che vivono invece una stagione tecnologica di straordinario sviluppo e pervasività e che sono sempre più in grado di «degradare gli uomini senza tormentarli», in modo «più esteso e più dolce» che in passato, come scriveva l’ autore della Democrazia in America. In questo squilibrio tipico del nostro tempo tra la lentezza delle forme della politica e la velocità tecnologica della sua comunicazione senza pensiero e cultura e, dunque, in uno stato perenne di demagogia plebiscitaria, c’ è la profonda frattura dei nostri giorni.
Ragionare su come sanarla attiene alla funzione culturale delle discipline umanistiche, alla sfida del realismo con cui avranno la capacità di affrontarla: il nemico, quando è mortale, non è mai un’ interpretazione.

La Repubblica, 5.1.2012

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