Lectio magistralis arch. Italo Rota

sextans_04.jpgPer chi vuole sapere qualcosa in più sul progetto del nostro Museo (in particolare da 00:34:00 in poi) il video da cui è stato tratto l’articolo di ieri del Carlino:
 
 
e per ridere (ma non troppo):
 
 
Logicamente ogni riferimento è puramente causale…

“Palazzo anonimo in una città anonima: l’oggetto chiave? Una balena asfaltata”

Reggio Emilia, 23 febbraio 2012 – «Sono intervenuto in un palazzo anonimo in una città anonima». «Reggio Emilia è una città in cui ci sono più maiali e mucche che umani». Due passaggi, scissi dal proprio contesto, di una conferenza nella quale Italo Rota illustra ad una indefinita platea il suo progetto dei Musei Civici di Reggio insieme a un altro suo intervento sul lungomare di Palermo. Il tutto è liberamente consultabile online e si trova in calce ad una intervista realizzata a Rota il 6 luglio 2010. L’architetto, pur contattato, non si è reso disponibile.

«È un progetto di un museo estremamente sofisticato — dichiara l’architetto —, una collezione scientifica perversa. Molti mostri, molti gemini, storie di ogni genere». Ci sono «veri e propri capolavori dell’arte oceanica e africana confrontati con un raccolta di pittura locale di croste. Un tema straordinario: ci sono tre sculture dell’Isola di Pasqua, capolavori assoluti che non ha nemmeno il British Museum, ma i quadri… delle croste».
La fauna reggiana. «L’altro tema era il rapporto di queste collezioni con l’ambiente. Penso che oggi tutte le cose che stiamo facendo debbano porre un tema fondamentale: come noi ci arricchiamo per sottoscrivere il nuovo contratto con la natura. Ovviamente Reggio Emilia sta nella pianura, circondata da un ambiente quasi anonimo, quasi in assenza di animali, però i più grandi numeri di abitanti sono i maiali e le mucche, in numero superiore agli umani. Un fatto abbastanza raro». 
Rota, il collega Calatrava e il tunisino. «Abbiamo però un elemento di contemporaneità straordinario. I tre grandi ponti di Calatrava che hanno posto un grosso problema alla cittadinanza ma hanno dato una consapevolezza identitaria. Senza pezzi contemporanei di grande qualità non scattano i nuovi processi identitari. Non possiamo vendere a un tunisino il nostro passato. Possiamo solo condividere con lui presente e futuro». Nel corso della conferenza, utile anche perché Rota descrive con precisione il futuro allestimento delle sale, l’architetto si sofferma anche sulla Balena Valentina. «Abbiamo alcuni oggetti feticci, il primo è una grande balena, del 1600. Il materiale per conservarla era l’asfalto, e quindi l’ingresso e tutto un piano è realizzato in asfalto. Ma l’oggetto chiave è la balena. Asfaltata».

Il processo decisionale: «Come avviene che un Comune decide di fare questo? Con una procedura democratica. Se questa cosa interessa si fa. Come avviene? Chiamano uno come me che fa un concept, prepara dei documenti comunicabili per le persone e si fanno tante riunioni nei quartieri dove si discute questa cosa. La cosa interessante è che alla gente interessa». Il video della conferenza è utilissimo per comprendere la visione retrostante la futura sistemazione dei Musei Civici. «Il massimo che possiamo sperare in un museo — afferma Rota — è che una volta che ci mostra la collezione in un certo modo faccia scattare nel visitatore un processo di conoscenza» in base al quale «vedrà tutto quello che ha visto prima in modo molto diverso».

http://www.ilrestodelcarlino.it/reggio_emilia/cronaca/2012/02/23/671709-reggio-emilia-museo.shtml

Una sera Ettore Petrolini stava recitando in teatro. Dal loggione partì un fischio. L’attore si interruppe, andò in proscenio e poi rivolto al pubblico del loggione stesso: “Non ce l’ho con te che mi fischi, ce l’ho con quello che ti sta di fianco che non ti butta di sotto!”.

Ecco, io non mi arrabbio per le cose dette dall’arch. Rota, nota archistar, (voglio anche pensare che il giornalista non sia stato del tutto fedele a quanto detto dall’illustre professionista) mi arrabbio non tanto con chi l’ha chiamato a Reggio dietro ricco compenso, ma con quelli che non hanno spiegato all’inclito cos’è Reggio, a quelli che non l’hanno preso per la manina e l’hanno portato in giro in una città che di anonimo non ha nulla. Una città e un territorio che ha una sua storia, una sua memoria, una sua identità ben precisa e riconosciuta in tutto il mondo. Avrebbe scoperto, ad esempio, che la prevalenza di animali (maiali e mucche) sugli umani non è un “fatto abbastanza raro” ma è una delle radici della nostra ricchezza (si chiama settore agroalimentare). Fosse stato magari davvero nei “quartieri” qualcuno glielo avrebbe potuto spiegare.

Quei signori non l’hanno fatto non per cattiveria, ma per banale ignoranza e relativa arroganza. Perchè non solo non ne sanno nulla, ma saperlo non interessa loro neppure una briciola del loro tempo che dedicano a meravigliose e spettacolari imprese (fallite). Non mi interessa (per ora) se il progetto che l’archistar ha partorito e che è stato contestato da un gruppo di intellettuali reggiani sia buono o no, certamente è un’occasione perduta. Una città che non ha un luogo di memoria sul novecento, che non sente (nella sua classe dirigente) la necessità di averlo è un problema politico prima che culturale. Avere la collaborazione di un professionista di fama come Rota poteva essere l’inizio di un percorso interessante e produttivo, bastava avere delle idee, proprie e/o raccolte in città e metterle in relazione con l’archistar. Invece, con una tipica operazione provinciale, di fronte al vuoto progettuale (basti leggere la relazione Farioli sull’ultimo numero di “Taccuini d’arte”) si è scelto di chiamare l’archistar che, novello demiurgo, risolvesse il problema-reale-di come ridiscutere e riprogettare il nostro Museo, e, in qualche modo, risolvesse lui le questioni con un colpo di “genio”.

Reggio ha un disperato bisogno di luoghi di memoria proprio perchè attraversa una fase di grande espansione simboleggiata dai ponti di Calatrava. Ma come spiegare ai reggiani stessi, prima che a quanti a Reggio vengono/passano, il senso di un percorso storico, civile e sociale che ha in quegli archi un punto di arrivo se proprio il secolo decisivo, il ‘900 viene bellamente ignorato? Matilde, il Tricolore, tutto bello, ma l’identità reggiana in sè e nel mondo si è formata nel secolo scorso e su questo non esiste nulla se non la narrazione orale, ostinata e ripetuta di quanti credono sia indispensabile ragionare proprio sul secolo scorso. Certo la gran Contessa e l’epopea tricolore sono miti facili, semplici e rassicuranti, ragionare sul novecento è problematico ma assolutamente più stimolante e produttivo per il nostro futuro.

Abbiamo luoghi storici originali e sopravissuti, come le Reggiane, il carcere di S.Tommaso, il Poligono di tiro che sono destinati al degrado defintivo o, peggio, alla “valorizzazione” edilizia. Ma per nessuno dei nostri amministratori (che pure avremmo eletto a rappresentarci) rappresentano non solo una priorità ma neppure un valore. Preferiscono investire cifre cospicue o in eventi o in progetti che non affrontano i veri nodi del dibattito culturale. E’ anche questo un segno, non secondario, della crisi delle classi dirigenti, sempre più distaccate dai bisogni e dal sentire dei cittadini, autoreferenziali e autoriproducentesi, in assoluta rottura con la tradizione di un forte legame fra eletti ed elettori che ha costruito il senso della nostra cittadinanza negli ultimi 60 anni.

Non si tratta di essere conservatori, di rifiutare il “nuovo”, semplicemente si vuole valutare quanto quel “nuovo” risponda al bisogno di senso storico e di memoria che ancora manca alla nostra città. Il desiderio di innovazione è forte ma deve essere un vera innovazione e non la scimmiottatura di format già predisposti a scaffale dall’esperto di turno.

Ma in fondo cosa si può pretendere da una città “anonima”?

Caselli buono o cattivo? Dalla parte della legalità. (M.Travaglio)

logo-big-beta.gifFacciamo finta, per un momento, di non conoscere Gian Carlo Caselli. Di non sapere che vive sotto scorta da 40 anni, prima per le sue indagini a Torino sulle Br e poi a Palermo sulla mafia. Di ignorare che ha fatto processare uomini potentissimi come Andreotti, Contrada, Dell’Utri e che l’altro giorno era in prima fila al processo Eternit in veste di procuratore capo. Di non avere la più pallida idea di come la pensa sulla Costituzione, sulla legge uguale per tutti, sui diritti dei più deboli. Anzi, chiamiamolo Pippo.

Mesi fa il procuratore Pippo riceve dalle forze dell’ordine una chilometrica denuncia contro 42 attivisti e infiltrati No Tav per svariati episodi di violenza, veri e presunti, che hanno portato al ferimento di 211 agenti. Siccome la Procura non è la fotocopiatrice delle forze dell’ordine, esamina la denuncia vagliando caso per caso. E si convince che solo 25 di quelle persone vadano arrestate per evitare che ripetano il reato, o inquinino le prove, o si diano alla fuga, in presenza dei “gravi indizi di colpevolezza” richiesti dalla legge. Il gip condivide e la polizia giudiziaria esegue le misure.

I destinatari fanno ricorso al Riesame, che analizza caso per caso e, per alcuni, le conferma, per altri le revoca, per altri le attenua (oggi in carcere ne restano 9). Contro il Riesame c’è ancora il ricorso in Cassazione: su ogni singola misura cautelare, si pronunceranno una decina di magistrati di sedi e funzioni diverse. Si può criticare il loro operato? Certo. Si valutano a uno a uno i loro provvedimenti, si confrontano con le prove e si esprime un’opinione. Noi abbiamo criticato il rinvio a giudizio di Genchi e De Magistris per Why Not. Ma non ci siamo mai sognati di teorizzare una congiura ai loro danni.

Oggi contestiamo la sentenza del Tribunale di Torino che ha condannato la Rai e Formigli a risarcire la Fiat con la cifra spropositata di 7 milioni (5 solo per “danno morale”, cioè per il dispiacere subìto) per un servizio di 50 secondi in cui si affermava che un’auto Fiat va un po’ più lenta di altre due. Mai ci sogneremmo di dire che c’è una congiura giudiziaria per “criminalizzare il giornalismo”. Invece questo sta capitando a Pippo-Caselli: l’accusa assurda, indimostrata e indimostrabile di aver voluto, arrestando i 25, “criminalizzare il movimento No Tav”. Un movimento composto da decine di migliaia di persone che non farebbero male a una mosca, si dissociano persino da chi imbratta i muri nei cortei e hanno in tasca una sola arma: quella della ragione contro una “grande opera” irragionevole, inquinante, costosa, inutile, anzi dannosa (oggi pubblichiamo l’intervento di Mercalli con le ragioni di 250 tecnici che i “tecnici” di governo seguitano a ignorare).

Ma alcuni leader del pacifico movimento, anziché dissociarsi dai pochi violenti e ringraziare i giudici che li hanno isolati, preferiscono associarsi alla campagna contro Caselli e arrampicarsi in distinguo molto berlusconiani sul Caselli buono (quello che combatte le Br e la mafia) e il Caselli cattivo (quello che “arresta” i violenti No Tav). In realtà di Caselli ce n’è uno solo: quello che, davanti a una notizia di reato, procede come gli chiedono la Costituzione e il Codice penale senza guardare in faccia nessuno.

Il risultato di questa campagna, alimentata in certi siti e giornali addirittura da ex magistrati, è che Caselli non può più mettere il naso fuori di casa, nemmeno per presentare il suo libro: roba mai vista nemmeno negli anni plumbei della Torino anni 70 e della Palermo anni 90. Prendere le distanze dai violenti non significa dare ragione sempre e comunque alla magistratura, né tantomeno alle forze dell’ordine (quelle che a Milano fanno ritirare le bandiere tricolori per non provocare i leghisti, mentre vengono mandate da politici scriteriati a militarizzare la Valsusa provocando la popolazione). Significa restare, sempre, dalla parte della legalità. E combattere meglio la follia del Tav: cioè vincere una battaglia sacrosanta che, se passa l’equazione truffaldina “No Tav uguale violenti”, è perduta in partenza.

il Fatto quotidiano, 22 febbraio 2012

«E’ di un museo-spettacolo che ha bisogno la città?»

Con una lettera al sindaco Delrio, un nutrito gruppo di intellettuali s’interroga sui Civici Musei: è giusto investire cifre consistenti per un maquillage esteriore?

Una lettera aperta al sindaco Graziano Delrio per aprire una riflessione sul “nuovo” Museo di Palazzo San Francesco ma anche per interrogarsi su quale deve essere, oggi, la funzione dei Musei Civici a Reggio. A firmarla trenta intellettuali (docenti, critici d’arte, artisti) da Marco Belpoliti ad Alfredo Gianolio, da Ivan Levrini a Mauro Cremaschi.
«Dopo anni di annunci sporadici su giornali o televisioni locali – così inizia la lettera aperta indiririzzata al sindaco Graziano Delrio – in mancanza fino ad ora di una chiara e organica presentazione alla città, finalmente un articolo di Elisabetta Farioli, direttrice dei musei civici (“Taccuini d’arte”, 5), illustra pensiero e forme del progetto di Italo Rota per il “nuovo” Museo di Palazzo S. Francesco. Per la verità anche in questo caso non si entra tanto nel dettaglio, ma si coglie bene lo spirito dell’intervento. Il testo è inoltre corredato da immagini che descrivono l’aspetto di alcuni ambienti e che si possono integrare con i rendering presenti anche sul sito web dell’architetto (http://www.studioitalorota.it/pages-projects/museo_reggio_emilia.html).

Rota.jpgAlcuni di essi – come quello in cui una moquette (?) con giungla, scimpanzé ed elefantino corre lungo il corridoio in cui è disposta la collezione settecentesca di Lazzaro Spallanzani – sollevano dubbi circa le finalità, ma anche la sostanza, dei lavori previsti».
«Che obiettivi si propone il riallestimento di alcune sale, così come illustrato dalle immagini fino ad ora rese disponibili? – si chiedono i trenta firmatari -. Quale valore aggiunge al museo e quali costi comporta per la comunità (si parla di oltre 4 milioni di euro)? Quanto ci si è confrontati con i fruitori del museo, che dovrebbero essere gli interlocutori privilegiati di eventuali azioni di modernizzazione dello stesso? E ancora quando e quanto il progetto è stato condiviso con la cittadinanza? Tutti siamo d’accordo sul concetto di patrimonio storico-artistico e di museo come “eredità vivente” (citando l’articolo di Farioli), ma occorre poi vedere come concretamente vengono declinate idee pur condivisibili in astratto. Chi può non applaudire l’idea di un “approccio che parte dall’oggi, dai problemi della contemporaneità e intende leggere nelle testimonianze del passato possibili stimoli a una lettura del presente in vista di future possibili visioni del mondo” (Farioli)? Sono frasi ottime per qualsivoglia allestimento, che solo rinnovi un po’ le cose. Il punto è: in quale direzione?».
«Soluzioni come quella appena citata – prosegue la lettera – sono in realtà emergenze di una visione che l’architetto applica anche in altri ambienti, quella cioè di un museo-spettacolo. Idea ben comprensibile dove si stia progettando un museo nuovo, da applicare invece con cautela dove un’istituzione esiste già; un’istituzione storica, nata nell’Ottocento grazie all’impegno di più studiosi, alcuni dei quali di risonanza internazionale, come Gaetano Chierici. Alquanto fumosi risultano poi i benefici che dovrebbero derivare dal progetto Rota, laddove si legge che esso “tocca anche da vicino il tema dei confini, sempre più incerti, tra il ruolo dell’architetto e il ruolo del direttore o responsabile del museo, in una visione nuova in cui l’ambito della museografia e quello della museologia tendono a confondersi, o meglio a presupporsi a vicenda, in una sempre più avvertita esigenza della molteplicità di competenze necessarie alla vita di una moderna istituzione museale e del complesso quadro di relazioni che ne presiede la conduzione” (Farioli).

In realtà, nel dibattito museografico e museologico attuale – quello più serio ed aggiornato perlomeno – la preoccupazione cui Farioli si riferisce va di pari passo con l’individuazione e la distinzione, il più possibile chiare e rigorose, dei ruoli e delle competenze tra coloro che a vario titolo “fanno” il museo, tanto più se questo, come nel nostro caso, non viene creato ex novo, ma ha una lunga storia alle spalle. In altre parole: una cosa è aderire a concetti quali interdisciplinarietà, collegialità, reciprocità. Tutt’altra cosa è far passare l’idea, arbitraria e ingiustificata, che la sovrapposizione e addirittura la confusione tra competenze professionali diverse – fortunatamente diverse, aggiungiamo noi – siano il prezzo da pagare al rinnovamento del museo, anzi, alla sopravvivenza dell’idea stessa di museo».
«A queste considerazioni – e a questo punto si tocca inevitabilmente il tema dei tagli – si deve infine aggiungere una doverosa riflessione sull’attuale congiuntura economica. È più che giusto investire in cultura e quindi anche nel museo, ma, in un momento come questo in cui anche a Reggio Emilia si acuiscono i segni della crisi, ci chiediamo se sia opportuno investire cifre consistenti in operazioni che – anche al di là dei giudizi di valore – costituiscono una sorta di maquillage esteriore. Per farsi un’idea di quanto viene proposto, basterà soffermarsi con attenzione sul rendering che ritrae l’esterno del museo (visibile anche nei totem che illustrano gli interventi del Comune). Esso prevede un ingresso con giardino verticale (operazione già vista e con alti costi di manutenzione) e “alte strutture di acciaio specchiante che riflettono immagini tratte dai materiali dei musei”.

Va fatto notare che questi “funghi” verticali sono già stati realizzati nel 2007 da Rota nella sua sistemazione della chiesa di Sant’Elena a Palermo (http://mimoa.eu/projects/Italy/Palermo/Library%20Interior). Non ci sembra che il complesso di San Francesco e i civici musei meritino copia-incolla come questi. Ma anche ammesso che si tratti del modo migliore per prolungare nel presente la “vitalità eterna del passato” (Farioli), ci domandiamo se questo sia il momento giusto per farlo, riducendo i finanziamenti ad altri aspetti della vita culturale della città».
«La preghiamo allora, signor Sindaco – e così si conclude la corposa lettera – di prendere in considerazione le molte perplessità che il progetto suscita in chi è interessato a esso come cittadino, come semplice fruitore, come studioso, e di riconsiderare complessivamente le scelte compiute finora. La forma e il ruolo del museo civico vanno rinnovati, ma è di un museo-spettacolo che ha bisogno la città? O, piuttosto, di conoscere e comprendere la propria storia anche recente nel suo depositarsi nelle cose e nelle immagini? I musei reggiani oggi lasciano scoperto quasi per intero il secolo scorso. Non è forse ora di pensare a una sezione del museo capace di presentare un quadro organico del Novecento nella nostra città, nei personaggi, nella topografia, negli avvenimenti, nelle manifatture, nei mutamenti culturali?».

Gazzetta di Reggio, 20 febbraio 2012

Cari colleghi storici, meno lati oscuri (Sergio Luzzatto)

Bene ha fatto Filippo La Porta, sull’ultimo numero di questo supplemento domenicale, a sottolineare quanto sia criptica la “teoria critica” nostrana, lanciando un appello: Critici italiani, parlate chiaro! Ha fatto talmente bene che viene voglia di estendere il suo appello, oltre i confini della critica letteraria e filosofica, a un altro campo della nostra produzione saggistica: il campo della storia. Dove il problema dello «scrivere oscuro» (secondo i termini di una magnifica riflessione di Primo Levi) è tanto più grave in quanto non viene neppure riconosciuto per tale: dove la malattia dello scrivere oscuro è talmente diffusa da somigliare a un’inavvertita pandemia.
Ha ricordato La Porta la battuta di un grande storico del primo Novecento, Gaetano Salvemini, che, docente a Harvard, aveva interiorizzato lo scrivere chiaro degli anglosassoni e preso in uggia l’oscurità delle lettere italiane fino al punto di affermare che nulla sarebbe rimasto neppure della Scienza nuova di Vico, se soltanto la si fosse tradotta in inglese… Concedendo meno alla facezia, è da ricordare qui la battuta di un grande storico del secondo Novecento, Carlo Ginzburg, lui pure aduso all’accademia anglosassone. Il più internazionalmente noto degli storici italiani ha spiegato di sottoporsi quando scrive a un’autoverifica preventiva. Per ogni frase della sua prosa, Ginzburg si domanda se sarebbe in grado di redigerla anche in inglese e in francese. Se la risposta è positiva, procede nella scrittura in italiano. Se la risposta è negativa, preferisce lasciar perdere…
Battute a parte, il caso di Ginzburg vale a porre la questione del rapporto fra trasparenza e influenza: cioè della correlazione – almeno nel campo degli studi storici – fra una prosa letterariamente scorrevole e un profilo scientificamente autorevole. Vuoi vedere che, facendoti leggere, riesci persino a farti tradurre, e addirittura a farti riconoscere all’estero? La cosa è di particolare rilievo nell’ambito delle discipline umanistiche, per le quali (a differenza di quelle scientifiche) l’inglese non rappresenta necessariamente la lingua veicolare. Nelle humanities, il criterio della traduzione all’estero appare tendenzialmente probante. Se un editore americano o francese o tedesco o polacco o giapponese o brasiliano affronta il rischio economico di investire sulla traduzione di un saggio storico scritto in italiano, ci sono buone probabilità che quel saggio abbia un valore aggiunto per la ricerca internazionale. Se, viceversa, i libri di uno storico italiano restano confinati al Bel Paese dove il sì suona, ci sono buone probabilità che non meritino un destino migliore.
Naturalmente, come tutte le generalizzazioni, anche questa ammette eccezioni. In linea di massima, è ultrasensato supporre che i rari storici italiani tradotti all’estero valgano di più delle legioni di storici italiani la cui produzione non supera la barriera delle Alpi (a volte, in realtà, neppure la barriera degli Appennini). Ma sarebbe ultrasbagliato elevare la ragionevole supposizione sino a farne una legge universale. A fronte del caso di Carlo Ginzburg stanno numerosi controesempi di storici italiani che non hanno avuto mai o quasi mai l’onore di una traduzione, e che pure sono stati maestri della disciplina internazionalmente riconosciuti.
Limitiamoci a evocare quattro nomi e cognomi, fra i primi che vengono a mente come campioni della storiografia italiana nel Novecento: Delio Cantimori, Marino Berengo, Rosario Romeo, Renzo De Felice. È impressionante constatare come nessun libro dei primi tre autori sia mai stato tradotto né in inglese né in francese, e come gli studi di De Felice stesso siano stati tradotti poco e male. Il che, evidentemente, non ha impedito a Cantimori, Berengo, Romeo, De Felice, di influenzare in maniera decisiva il dibattito storiografico sulla storia moderna e contemporanea d’Italia: anche perché i cultori stranieri di tale storia – com’è ovvio – leggevano correntemente l’italiano.
Vale tuttavia la pena di chiedersi quanto il gusto accademico nostrano dello scrivere oscuro abbia contribuito (e contribuisca) ad alimentare un paradosso: il paradosso di una cultura storica italiana insieme felicemente cosmopolita e infelicemente provinciale. Felicemente cosmopolita, perché gli editori italiani traducono libri di storia con una generosità ben superiore a quella dei colleghi stranieri. Infelicemente provinciale, perché la storiografia italiana anche più meritevole, non circolando abbastanza all’estero, rimane spesso esclusa dal dibattito internazionale.
Anche qui saltano agli occhi esempi concreti, concretissimi. Come l’esempio del Risorgimento. È questo un campo in cui la storiografia italiana ha compiuto notevoli progressi nell’ultima dozzina d’anni, in particolare grazie agli studi di Alberto M. Banti. Ma fuori d’Italia, il tono del dibattito sul Risorgimento italiano continua a venire dettato da oltre Manica. Dopo Denis Mack Smith cinquant’anni fa, adesso sono Lucy Riall e Christopher Duggan che illustrano urbi et orbi la storia del nostro Risorgimento, senza che gli studiosi italiani riescano a farsi sentire se non quando pubblicano direttamente in inglese (il che pur càpita, per fortuna, complice la famosa fuga dei cervelli).
Dovremmo forse concludere – memori delle battute di Salvemini e di Ginzburg – che l’italiano è lingua non grata alla storia? No: dovremo concludere piuttosto che gli storici italiani restano gravemente malati, e pandemicamente malati, di scriveroscurite. «Chi parla male pensa male», protestava il Nanni Moretti di Palombella rossa. Primo Levi, lui, era stato anche più severo di così: «Chi non sa comunicare o comunica male, in un codice che è solo suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. Se comunica male deliberatamente, è un malvagio, o almeno una persona scortese, perché obbliga i suoi fruitori alla fatica, all’angoscia o alla noia».
Il Sole 24 Ore, 19.2.2012

Un paio di cose su Sanremo (Luca Sofri)

18232760_sanremo-tutto-il-festival-minuto-per-minuto-0.jpgLa prima serata di Sanremo ha fatto i record di ascolti, e mi permetto di dire che me l’ero immaginato. Ieri sera, vedendone pochi sprazzi e leggendo i feedback su Twitter, capivo sì che era uno spettacolo straordinariamente deprimente e imbarazzante, ma capivo anche che lo stavano guardando quasi tutti. E mi veniva da pensare, dei miei amici quelli con l’alibi “Sanremo fa così schifo che va visto”, e che ora twittavano che non ci potevano credere, a quanto faceva schifo; mi veniva da pensare: ma non guardiamo la tv praticamente mai, l’abbiamo abbandonata con soddisfazione a un pubblico poco esigente o senza possibilità di scelta, o disabituato a qualunque qualità, e poi quando la accendiamo ci meravigliamo che quel che troviamo sia di totale mediocrità? Che vi aspettavate, Sorkin? Nanni Moretti?

Questo è il disastro dei contenuti editoriali italiani, dall’informazione all’”intrattenimento”: tutti si sono dedicati per anni a battaglie politiche sull’”indipendenza”, sulla “libertà”, sul “pluralismo”, come se ci fossero i cattivi da una parte e i buoni sconfitti dall’altro.

Protestavamo contro l’eliminazione di Santoro e accettavamo le trasmissioni pomeridiane, Miss Italia e la povertà di Porta a porta. Protestavamo contro gli editoriali di Minzolini ma ci limitavamo a sorridere dei servizi sui cagnolini o i banchetti di natale al telegiornale. E intanto infatti il disastro vero era lo scadimento della qualità delle cose da ogni parte, compresa quella dei “buoni”, il fine che giustificava i mezzi, l’informazione fatta male da ogni parte e l’intrattenimento idem, con poche eccezioni.

Là fuori è pieno di combattivi difensori della democrazia e della libertà che fanno le cose male, con metodi e risultati pessimi e diseducazione di tutti. Con la straordinaria sanzione di ieri sera: quando i temi presunti della difesa della libertà, dell’indipendenza e della democrazia popolare sono diventati oggetto del peggiore prodotto di intrattenimento televisivo mai visto: scopa. Nel senso del gioco di carte. E noi tutti lì a guardare e dire che schifo.

http://www.wittgenstein.it/2012/02/15/un-paio-di-cose-su-sanremo/

 

Seminario ed emergenza freddo (d.E.Landini)

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Leggo sulla “Libertà” l’intervento di don Emilio Landini (“Seminario ed emergenza freddo”) e mi sovvengono due brevi osservazioni.

La prima: i tre quarti dell’articolo sono dedicati a considerazioni tecniche circa la inadeguatezza del Seminario di viale Timavo. Nato in altri tempi e costruito come segno tangibile di una rivendicazione politica forte, oggi è sovradimensionato nelle strutture ma, nel contempo, inadatto ad accogliere le necessità della chiesa locale. Considerazione tecniche tutte corrette, fondate sul buon senso, sulle vigenti norme edilizie e sulla constatazione della mancanza di risorse per interventi risolutivi. Manca soltanto la logica e necessaria conclusione che proporrebbe ogni saggio amministratore: la struttura è del tutto inadatta e va alienata. Una scelta che andava presa già in passato, magari-come fatto in altre diocesi-vincolando la cessione del bene ad un suo uso a favore della comunità (Università, etc..).

Capisco che per una generazione di sacerdoti e laici il Seminario rappresenti il simbolo di una stagione di duri scontri ideologici ma questo non dovrebbe trattenere dalla sua sollecita dismissione a favore della comunità.

La seconda: nelle considerazioni finali l’autore (figura auterevole della chiesa reggiana) si ispira ad un “crudo realismo”, ricordando come “vengono ridotti gli ambienti” dagli immigrati e clochard, rendendo così sconsigliabile un loro utilizzo a fini assistenziali. E qui non posso che concordare: i poveri sono sporchi, puzzano, sono maleducati e danneggiano le nostre belle parrocchie (sempre più deserte e meno vitali). Abbiamo avuto un parroco che ha rifiutato un presepe, oggetto di diffusa devozione, proprio perché sottraeva spazio alle sue “attività” parrocchiali (rivolte non certo a poveri ed immigrati), ed è ormai normale che le nostre parrocchie siano chiuse all’accoglienza per “motivi igienico-sanitari” mentre volenterosi parrocchiani di quelle stesse parrocchie siano impegnati al di fuori nel volontariato, con la Caritas e le altre organizzazioni confessionali e non a mettere in pratica quel Vangelo che nelle loro chiese non trovano più.

Ho inserito questo articolo non per polemica ma per testimoniare la sofferenza di un credente “affaticato” di fronte ad una gerarchia sempre più lontana dai problemi reali, specchio doloroso della crisi delle classi dirigenti che devasta questo paese da troppi anni.

“La Libertà”, 11.2.2012

Ciò che è accaduto non si può cambiare (R.Pupo)

 Intervento di Raoul Pupo al Quirinale in occasione del Giorno del Ricordo

L’odierna celebrazione cade ormai dopo sette anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo, e non sono anni passati invano. Abbiamo assistito ad eventi che solo poco tempo fa erano impensabili, come l’incontro a Trieste nel 2010 fra i presidenti di Italia, Slovenia e Croazia e quello del 2011 a Pola fra i presidenti di Italia e Croazia. Si è trattato di gesti a lungo attesi per  imprimere una svolta non solo alle relazioni fra stati, ma al rapporto dei tre popoli con il loro passato conflittuale. Ciò non modifica l’intento fondamentale della legge, che vuol segnare il riconoscimento pieno, da parte delle diverse componenti della comunità nazionale, dei sacrifici patiti dai giuliano-dalmati in nome dell’italianità, ma certamente apre prospettive nuove per le genti di frontiera e consente anche di guardare con maggior serenità alle vicende del secolo Ventesimo, accompagnando la memoria, per sua natura partecipe e dolente, con la storia, il cui sguardo è critico anche quand’è commosso.

Che cos’è dunque che oggi ricordiamo? Le vittime, certo, di quegli anni così terribili; i fatti di cui parla la legge istitutiva della giornata, alcuni chiamandoli per nome – come le foibe l’esodo – ed altri in maniera implicita. Ma al fondo, ciò che costituisce la sostanza del ricordo è un fenomeno che comprende vittime e fatti: è la parabola drammatica dell’italianità adriatica, vale a dire di quella forma della presenza italiana nell’Adriatico orientale che era cresciuta nel XIX secolo sulle fondamenta poderose della tradizione romana e veneziana e che si poneva  come massima aspirazione, anzi, come unico possibile orizzonte di vita, lo stato nazionale. Quel tipo di italianità si è mantenuto nel piccolo lembo di Venezia Giulia sul quale dopo il secondo conflitto mondiale ha continuato ad esercitarsi la sovranità dello stato italiano, mentre invece altrove si è estinto. Naturalmente, ciò non impedisce che ancor oggi nelle terre adriatiche vi siano altre forme di presenza italiana, costituite non solo dalle tracce illustri del passato, ma anche da comunità vive, se pur minuscole. Ma certo, un filo si è spezzato.

Se teniamo gli occhi bassi, quella che oggi vogliamo ricordare può sembrare solo una storia minore, che riguarda qualche centinaio di migliaia di persone vissute nel fondo di uno dei tanti golfi del Mediterraneo. Se invece abbiamo la capacità di levare lo sguardo ai contesti nei quali le vicende adriatiche si sono svolte, ed al cui interno soltanto queste trovano spiegazione, ci accorgiamo che quella piccola storia costituisce una sorta di laboratorio, in cui si trovano condensati su di una scala geograficamente circoscritta alcuni dei grandi processi della contemporaneità nell’Europa di mezzo: contrasti nazionali intrecciati a conflitti sociali, effetti devastanti della dissoluzione degli imperi plurinazionali, oppressione totalitaria, guerre di aggressione, scatenamento delle persecuzioni razziali e creazione dell’universo concentrazionario, violenze di massa, spostamenti forzati di popolazione, conflittualità est-ovest lungo una delle frontiere della guerra fredda.

All’interno di quella visione larga, noi vediamo subito che la parabola dell’italianità adriatica non si è svolta nel vuoto, ma si è intrecciata con un’altra traiettoria, quella dello slavismo. Le due identità si sono formate quasi simultaneamente e si sono definite in buona misura per differenza l’una dall’altra nel corso della seconda metà dell’Ottocento. Così, quella che prima era una società regionale di origini assai varie, caratterizzata da un notevole grado di plurilinguismo – anche se la lingua d’uso veneta risultava prevalente – si è divisa rapidamente lungo linee di frattura nazionali sempre meno permeabili. E’ un esempio classico di quei processi di nazionalizzazione di massa parallela e competitiva, che hanno caratterizzato la storia dell’Europa centrale fra la metà dell’Ottocento e quella del Novecento: una storia finita male, proprio in applicazione dei principi fondanti del nazionalismo, come l’intolleranza nei confronti dell’altro e la concezione perversa secondo la quale la terra che tutti ospita appartiene ad un solo popolo, mentre gli altri vengono considerati ospiti sgraditi, quando non invasori da cui liberarsi ad ogni costo, per via di assimilazione o di espulsione. Un dramma dunque, nel senso che non vi era altra soluzione prevista per il conflitto se non la crisi di una delle identità nazionali presenti nei territori plurali.

Ciò è accaduto anche nelle terre adriatiche e lungo questo percorso, un momento di svolta è costituito dalla prima guerra mondiale: alla sua conclusione infatti, la regione Giulia ha cessato di appartenere ad un impero pre-nazionale e multiculturale, per entrare a far parte di uno “stato per la nazione” – prima di quello degli italiani e poi di quello degli slavi del sud – cioè di una forma di stato creata da un’élite nazionale allo scopo di realizzare senza alcun limite tutte le potenzialità della nazione di appartenenza. Nei territori misti è cambiata quindi radicalmente la natura dei conflitti nazionali: se prima la competizione si concentrava sui poteri locali e lo stato cercava di mediare, in maniera più o meno equilibrata, fra le nazioni sorgenti, dopo la finis Austriae i gruppi nazionali vincitori potevano giocare tutta la forza del loro stato per sbaragliare la nazionalità avversa. In cima all’Adriatico la differenza si è vista subito, con l’avvio dei primi esodi incrociati:sloveni e croati dai territori assegnati all’Italia, italiani dalla Dalmazia assegnata alla Iugoslavia.

Anche altre parti d’Europa hanno vissuto dinamiche simili, che lungo le sponde adriatiche sono state inasprite dal succedersi di due regimi, quello fascista italiano e quello comunista jugoslavo, impegnati entrambi, se pur con diverse capacità e risultati, a realizzare le proprie ambizioni totalitarie. Per loro natura, i due regimi esprimevano forti cariche di violenza, che in parte si richiamavano, in parte rispondevano a logiche diverse: è naturale infatti che quanto accade prima condizioni quel che viene dopo, ma all’interno di una rete causale in cui agiscono soggetti e progetti autonomi. L’elemento decisivo è stato in ogni caso l’esperienza delle due guerre mondiali.

Il primo conflitto ha insegnato l’uso sistematico della violenza come strumento della lotta politica e in Italia – e quindi anche nella Venezia Giulia – il soggetto che nel dopoguerra ha imparato meglio la lezione, è stato il fascismo. Gli anni Venti e Trenta quindi sono stati la stagione dello squadrismo, con il suo portato di sopraffazioni, devastazioni e uccisioni, che poi si è trasformato in violenza repressiva dello stato ed ha generato la risposta terrorista. Si trattava del massimo di violenza concepibile in quel momento e in quel contesto, di più non ne serviva ed a nessuno poteva venire in mente.

Ben più tragiche, per proporzione e capacità distruttiva, sono state le dinamiche sprigionate dalla seconda guerra mondiale, che ha spostato  in maniera radicale i confini del pensabile. E’ stata guerra totale, in cui i civili sono diventati obiettivo specifico di operazioni belliche. Sul fronte orientale è stata fin dall’inizio guerra senza regole, divenuta ben presto guerra di sterminio. Qui dunque si è affermata una nuova logica, quella della strage, e sul quel fronte è stata coinvolta anche l’Italia dopo l’aggressione alla Jugoslavia e, soprattutto, dopo le occupazioni e le annessioni, che hanno scatenato l’inferno in quel Paese: guerra di liberazione, guerra civile, guerra rivoluzionaria, repressione da parte delle forze dell’Asse. L’esplosione cumulativa di violenza è stata massima e di quel fronte nelle terre giuliane sono progressivamente cominciati a giungere gli echi degli orrori perpetrati non solo nei lontani boschi balcanici, ma nella contigua provincia di Lubiana. Poi, la Venezia Giulia è divenuta essa stessa fronte di guerra e l’8 settembre 1943 ha segnato un momento di svolta: con la temporanea presa del potere da parte dei movimenti di liberazione sloveno e croato e con l’occupazione germanica, diversa rispetto a quella del resto d’Italia, la regione Giulia, che è sempre stata area di cerniera tra mondo mediterraneo e danubiano, è entrata in pieno nelle logiche estreme dell’Europa orientale, nella storia cioè di quelle che Timoty Snyder ha chiamato le “terre di sangue”.

In tal modo, in cima all’Adriatico si sono saldate la propensione nazista allo sterminio e le pratiche estreme di lotta bolsceviche e staliniane. E’ all’interno di quel contesto che si collocano crimini come il campo di morte della risiera e le stragi delle foibe. Queste ultime rappresentano l’estensione alla Venezia Giulia dei criteri d’intervento che il movimento di liberazione jugoslavo correntemente applicava nella lotta senza quartiere contro gli occupatori, i loro collaboratori ed ogni tipo di avversario politico, come pure nella presa del potere della primavera del 1945. Ciò spiega come mai a cader vittima della repressione nella Venezia Giulia non siano stati soltanto collaboratori dei nazisti e fascisti veri e presunti, responsabili o meno di precedenti angherie nei confronti degli slavi, uomini delle istituzioni e rappresentanti a vario titolo del potere italiano, militari e membri delle forze di polizia, ma anche semplici cittadini di sentimenti patriottici e sloveni anticomunisti, come pure antifascisti e resistenti che si battevano per la conservazione della sovranità italiana sulla regione, tutti accomunati nella categoria di “nemici del popolo”, dai quali la nuova società doveva venir epurata.

Più ancora però che i picchi della violenza, a trasformare completamente gli assetti dell’area giuliana sono stati gli esiti delle politiche delle minoranze applicate prima dal regime fascista italiano e poi da quello comunista jugoslavo. Ben visibili sono le loro differenze, che non riguardano solo i presupposti ideologici, ma anche lo scarto fra i propositi enunciati e i risultati raggiunti: il fascismo si è  impegnato a realizzare la “bonifica etnica”, ma quel che ha ottenuto, è stato di decapitare, impoverire ed umiliare le comunità slovene e croate che nella loro maggioranza sono rimaste salde sul territorio. Il regime di Tito invece ha proclamato la “fratellanza italo-slava”, ma gli italiani sono stati costretti ad andarsene al 90%.

Più utile invece, per leggere meglio le contraddizioni, è partire dalle somiglianze. Entrambe, quella fascista italiana e quella comunista jugoslava, erano politiche di integrazione selettiva, ovviamente non rispettose della volontà dei singoli.Il meccanismo è sempre lo stesso: la leadership dominante individua, all’interno del gruppo minoritario, componenti diverse: alcune sono giudicate compatibili – se pure a certe condizioni – con il nuovo ordine, altre no.

In concreto, il regime fascista isolava all’interno della società slovena e croata una minoranza che riteneva assolutamente irriducibile, costituita dalla classe dirigente slava. Sparita questa, si riteneva che la maggioranza della popolazione potesse venir assimilata  grazie alle tradizionali   politiche di nazionalizzazione, irrobustite dalla forza repressiva e dalle capacità di penetrazione di un regime che voleva essere totalitario.

Il regime comunista jugoslavo ha applicato il medesimo meccanismo, ma il profilo sociale della popolazione italiana era diverso e quindi l’esito ne è uscito rovesciato: quelle che in omaggio all’ideologia venivano chiamate le “masse popolari”,  costituivano in realtà solo una minoranza  all’interno del gruppo nazionale italiano. Questa componente comunque veniva ritenuta jugoslavizzabile e per farlo venne costruita la politica  della “fratellanza”. Invece il resto della popolazione italiana, che era la parte più consistente, subì in pieno  il peso di una rivoluzione nazionale e sociale nel cui ambito stava dalla parte sbagliata.

L’applicazione di tali strategie ha rivelato non poche sorprese. La classe dirigente slovena e croata è stata in effetti in buona misura spazzata via dal fascismo, ma il giudizio in base al quale le masse culturalmente inermi sarebbero state facilmente italianizzate, è risultato clamorosamente sbagliato. Qualche successo hanno avuto le politiche fasciste di sostegno selettivo all’emigrazione, ma neanche queste sono riuscite a risolvere il problema nel senso della prevista nazionalizzazione integrale dei territori di frontiera.

Sull’altro versante, la duplice rivoluzione – comunista e nazionale – jugoslava ha creato effettivamente per la componente italiana considerata “borghese” – e quindi tradizionale depositaria dei sentimenti di italianità – condizioni di invivibilità tali da spingerla all’esodo. Invece, i destinatari della politica della “fratellanza” si sono rivelati assai meno numerosi del previsto, per due motivi. In primo luogo, perché le maggiori concentrazioni di classe operaia – cioè quelle di Trieste e Monfalcone – dopo una breve parentesi nella primavera del 1945 sono rimaste fuori dai confini dello stato jugoslavo. In secondo luogo,  perché tutti gli strati popolari ma non proletari (contadini, pescatori, marittimi) sono restati fedeli ai valori ed alle appartenenze tradizionali (lingua, patria, Chiesa, proprietà) e son quindi confluiti anch’essi nella vasta schiera dei “nemici del popolo”. Ma non basta, perché la stessa classe operaia di lingua italiana, dopo una fase di entusiasmo iniziale, ha finito per trovare inaccettabili le condizioni dell’integrazione, percependo – in buona parte già prima della crisi del Cominform del 1948 – un eccessivo sbilanciamento del regime jugoslavo in senso nazionalista.

Il risultato cumulativo è stata la generalizzazione di un duplice rifiuto: rifiuto dello stato e del regime jugoslavo da parte della stragrande maggioranza della popolazione italiana; rifiuto degli italiani, considerati – se pur per ragioni diverse – di fatto non integrabili, da parte delle autorità jugoslave, specialmente da quelle più vicine al territorio. L’esito ultimo quindi è stato l’esodo della quasi totalità della popolazione italiana, cui si sono agganciate anche aliquote non indifferenti di popolazione di madrelingua croata e slovena, perché l’esodo è stato un fenomeno che ha sconvolto come un sisma la società locale, generando uno smarrimento generale. Così, anche sulle sponde adriatiche è arrivata l’onda lunga della grande semplificazione che in un breve volger di tempo ha distrutto la maggior ricchezza dell’Europa di mezzo, il suo essere il luogo della diversità di lingue, culture, tradizioni.

Ma questa è una storia di molti anni fa. Da quella stagione terribile sono trascorse generazioni e sono mutati completamente gli assetti internazionali. In Italia la memoria del sacrificio dei giuliano-dalmati è stata salvata ed ora le diverse memorie di frontiera cominciano a riconoscersi e rispettarsi, nella loro insopprimibile soggettività. Molti fra gli studiosi di confine, già araldi delle storia delle nazioni, parlano ormai di “sguardo congiunto” e sperimentano percorsi di storia post-nazionale. Le comunità italiane giuliano-dalmate in esilio e quelle che ancor vivono sulla loro terra di origine hanno avviato un dialogo sempre più intenso. Le istituzioni degli stati si sono spese al massimo livello per la riconciliazione fra i popoli. La prospettiva dell’integrazione europea è largamente condivisa, anche se il percorso è per tutti faticoso.

Ciò che è accaduto non si può cambiare, ma si può cominciare una storia nuova, non dimentica di quanto di positivo – e non è poco, in termini di cultura e di consuetudine civile – i secoli passati hanno prodotto. In questo senso, l’inizio di un millennio ancora incerto sulla direzione da prendere, propone una sfida di alto profilo: andar oltre la semplice tolleranza di gruppi minoritari in perenne affanno e far crescere invece i semi di diversità che ancora sopravvivono sulle rive adriatiche per ricostruire, se pur in misura assai più limitata che un tempo, un tessuto plurale, certo più adatto, rispetto all’esclusivismo nazionale, a reggere l’impatto della globalizzazione.

Salinger, lettera a Hemingway “Sono un idiota (ma resti tra noi)”

 

Jerome David Salinger (1919-2010) e Ernest Hemingway (1899-1961)

 
Coppia improbabile nella Parigi del 1944 appena liberata dagli Alleati, quella del celebre scrittore Ernest Hemingway che offriva champagne al Ritz e si pavoneggiava come se la guerra l’avesse vinta lui, e lo schivo soldatino J. D. Salinger, scrittore anche lui ma semisconosciuto, e reduce da due durissimi anni di guerra combattuta davvero, durante i quali aveva partecipato allo sbarco in Normandia ed era stato tra i primi a subire lo shock di entrare in un campo di concentramento. Queste esperienze gli avrebbero procurato un forte esaurimento nervoso e il ricovero in un ospedale militare in Germania. Da qui il futuro autore del Giovane Holden (nome che aveva già usato in un racconto) scrisse nell’estate del 1946 la lettera ora riemersa a «Papa», il quale era stato generoso con lui, tra l’altro leggendo i suoi scritti ed essendogli prodigo di lodi, nonché certo incoraggiandolo a adottare nella corrispondenza con lui un tono amichevole se non addirittura confidenziale.

Anche Salinger ovviamente ammirava Hemingway e conosceva bene i suoi libri, vedi l’allusione a Catherine Barkley, che è l’infermiera di cui si innamora il protagonista di Addio alle armi. Tra gli altri punti della lettera che possono richiedere un’illustrazione: la madre iperprotettiva che accompagnò a scuola Salinger fino a ventiquattro anni (ma è un’ovvia esagerazione) non era ebrea di nascita come Salinger padre, però si era convertita alla religione ebraica e aveva abbracciato le tradizioni dell’etnia. Gli arresti a cui Salinger allude hanno a che fare con il suo impiego negli interrogatori durante il processo di denazificazione messo in atto dagli alleati nella Germania occupata, attività alla quale lo qualificava la sua ottima conoscenza del tedesco. Gary Cooper aveva interpretato Per chi suona la campana, discussa trasposizione del romanzo di Hemingway, il quale a differenza di altri scrittori aveva l’abitudine di disinteressarsi degli adattamenti dei suoi libri.

A Vienna Salinger era stato mandato dal padre nel quadro delle attività della sua ditta di importatore di carne; era ripartito subito prima dell’annessione dell’Austria da parte di Hitler. L’interesse di Salinger per il teatro può essere messo in rapporto anche con la sua infatuazione per Oona, la giovane figlia di Eugene O’Neill, che poi scandalosamente sposò Charlie Chaplin; Salinger le scrisse molte lunghissime lettere nel 1941. Journey’s End è la commedia dell’inglese R. C. Sheriff, probabilmente la più famosa di quelle ispirate dalla Grande Guerra. Il genuino e ben motivato giudizio su Scott Fitzgerald da parte di Salinger, e indubbiamente condiviso dal suo interlocutore, infine, mostra come due grandi scrittori americani sapessero apprezzare l’autore del Grande Gatsby, da poco scomparso, in un momento in cui le sue fortune presso la critica e il pubblico sembravano in declino.

La lettera di Salinger a Hemingway, ritrovata nella biblioteca John F. Kennedy di Boston, sarà pubblicata su www.satisfiction.me, il sito del bimestrale ideato da Gian Paolo Serino e specializzato negli inediti dei maggiori scrittori italiani e internazionali. Di Satisfiction è ora in libreria il numero 13, con inediti, tra gli altri, di Doctorow, Foucault e Vonnegut.

Caro Papa,
Ti scrivo da un ospedale di Wurmberg. Qui c’è una certa carenza di Catherine Barkley, devo dire. Mi aspetto di essere dimesso domani o dopodomani. Non avevo niente di grave, ma ero in uno stato di avvilimento quasi costante e mi sono detto che mi avrebbe fatto bene parlare con qualcuno di sano. Mi hanno chiesto della mia vita sessuale (che non potrebbe essere più normale – per fortuna) e della mia infanzia (normalissima: mia madre mi ha accompagnato a scuola fino ai ventiquattro anni – ma conosci le strade di New York), e alla fine mi hanno domandato se mi piaceva o no l’Esercito. Mi è sempre piaciuto l’Esercito.
Ho conosciuto Lester Hemingway prima che la Quarta Divisione tornasse negli States. È venuto nella nostra casa di Weissenburg e ha bevuto e chiacchierato con me. È un tipo a posto.
Rimangono pochissimi arresti da fare, nella nostra divisione. Adesso stiamo prendendo tutti i bambini sotto i dieci anni che hanno un’aria sprezzante. Bisogna concedere all’Esercito i suoi arresti vecchio stampo, bisogna gonfiare il Rapporto.
Il Capitano Ollie Appletton, il precedente CO del reparto, ha ottenuto il Congedo attraverso la Croce Rossa, tornando negli Stati Uniti sotto una pioggia di stelle di bronzo. Prima di andarsene, in nome dei vecchi tempi, ha passeggiato intorno alle foto dei suoi possedimenti in Scarsdale. Per molti di noi è stato un momento maledettamente toccante.
Come sta venendo il tuo romanzo? Spero che tu ci stia lavorando sodo. Non venderlo al cinema. Sei un tipo ricco. Come Presidente dei tuoi tanti fan club, so di parlare a nome di tutti quando dico Abbasso Gary Cooper. Perché stai davvero lavorando a un nuovo romanzo, no? Mi rendo conto che a Cuba le macchine non sono sicure.
Ho chiesto al CIC di mandarmi a Vienna, finora senza successo. Nel 1937 ci sono stato quasi per un anno intero, e ho voglia di mettere di nuovo un pattino da ghiaccio al piede di qualche bella ragazza viennese. Non mi sembra di chiedere troppo all’Esercito.
Ho scritto un altro paio di racconti incestuosi, diverse poesie e parte di una commedia. Se riuscirò a uscire dall’Esercito, potrei finire la commedia e chiedere a Margaret O’Brien di interpretarla con me. Con un taglio di capelli militaresco e una fossetta di Max Factor sull’ombelico, potrei recitare io stesso la parte di Holden Caulfield. Una volta ho fatto un’interpretazione molto sensibile di Raleigh, in Journey’s End. Molto sensibile.
Darei il mio braccio destro per andarmene dall’Esercito, ma non con un biglietto psichiatrico del tipo quest’uomo-non-è-adatto-alla-vita-militare. Ho in mente un romanzo molto sensibile, e non permetterò che l’autore passi per un idiota nel 1950. Io sono un idiota, ma non voglio che la gente sbagliata lo sappia.
Mi piacerebbe che mi mandassi due righe, se ci riesci. Lontano dalla scena, è molto più facile pensare chiaramente. Con il tuo lavoro, voglio dire.
La prossima volta che sarai a New York, spero di essere in giro e riuscire a vederti, se avrai tempo. I discorsi che abbiamo fatto qui sono stati gli unici momenti di speranza in tutta la faccenda.
Sinceramente,
Jerry Salinger

P.S. Se c’è qualcosa che possa fare per te, qualche messaggio da portare a qualcuno, ne sarei lieto.
Il progetto del mio libro di racconti è andato a pezzi. Il che è un gran bene, e non sto indorando la pillola. In questo momento sono ancora troppo legato da bugie e affetti, e vedere il mio nome stampato su una copertina polverosa rimanderebbe qualsiasi vero miglioramento di svariati anni.
Edmund Wilson ha pubblicato una specie di album di ritagli su F. Scott Fitzgerald (che cosa sporca), chiamandolo The Crack Up. Malcolm Cowley lo ha recensito per il New Yorker, o ha recensito Fitzgerald stesso in maniera dannatamente superiore rispetto ai critici medi che recensiscono uomini morti. È così facile scrivere una «buona» recensione di Fitzgerald. Le sue imperfezioni saltano agli occhi, e se un paio non lo fanno, è Fitzgerald stesso a puntarle col dito. È stupido da parte dei critici lamentarsi del fallimento di Fitzgerald di «sviluppare» le sue storie. Mi sembra ovvio che chiunque scriva un libro come Gatsby non potrebbe mai «sviluppare» un bel niente. La sua arte, o la sua bellezza, era applicabile soltanto alle sue debolezze, non ti sembra? Diversamente da molti critici, non penso che Gli ultimi fuochi sarebbe stato il suo libro migliore. Era lì lì per incasinare tutto. Lì lì per dare al libro un twist alla Gatsby. In effetti, è meglio che non l’abbia finito, credo.
Buone cose.
J.

MASOLINO D’AMICO
La Stampa, 8.2.2012

L’occasione perduta (G.Zagrebelsky)

nazisti.jpgIn Italia e in Grecia nel corso degli Anni 90 sono state introdotte davanti ai giudici italiani delle azioni civili per ottenere il risarcimento dei danni subiti dalle vittime di stragi commesse dalle truppe del Reich tedesco contro la popolazione civile tra il 1943 e il 1945 e, in un caso diverso, il risarcimento dei danni subiti da un militare italiano internato e costretto a lavoro forzato.
Le azioni civili sono state rivolte nei confronti della Repubblica Federale di Germania. Sia in Italia che in Grecia i giudici, fino alla Corte di Cassazione, hanno affermato che la Germania doveva rispondere civilmente di quei fatti e l’hanno condannata a versare un risarcimento.
L’esecuzione di quelle sentenze ha portato all’iscrizione di ipoteca su un bene immobile di proprietà dello Stato tedesco in Italia. La stessa cosa è avvenuta anche in esecuzione della sentenza greca, che è stata dichiarata esecutiva in Italia. Le sentenze italiane e greche hanno suscitato speranze nelle vittime delle atrocità naziste ed anche molto interesse tra i giuristi per il loro carattere innovativo. Ora la Corte internazionale di giustizia ha giudicato che
l’Italia, ammettendo che la Germania venisse convenuta in giudizio davanti ai giudici italiani e poi dando esecuzione alle loro sentenze e a quella greca, ha violato il diritto internazionale, che prevede l’immunità degli Stati dalla giurisdizione di uno Stato diverso, quando si tratti di atti che, come quelli delle forze armate, sono espressione di poteri pubblici statali.

Le sentenze italiane e greche avevano ritenuto che le ragioni della immunità consuetudinaria degli Stati dalla giurisdizione altrui dovessero cedere in casi gravi di violazione del diritto internazionale umanitario o, più in generale, di fronte al cosiddetto jus cogens, il nocciolo
duro, non derogabile, del diritto internazionale. Ed è questa la tesi che, senza successo, hanno in sostanza sostenuto davanti alla Corte internazionale il governo italiano ed anche quello greco intervenuto.
La sentenza della Corte internazionale, organo giudiziario delle Nazioni Unite, competente a giudicare le controversie tra gli Stati fondate sul diritto internazionale, è, come sempre, estesamente e dettagliatamente argomentata. La Corte ha ricostruito la ragione e la portata del principio d’immunità degli Stati ed ha concluso che, allo stato attuale, il diritto internazionale non prevede l’eccezione che il governo italiano (e i giudici italiani e greci) ritenevano invece sussistente.

Il fondamento dell’immunità degli Stati è legato al principio di parità e sovranità, nel senso che nessuno Stato, per i suoi atti sovrani, riconosce la giurisdizione di un altro Stato. Inoltre si ritiene che nei rapporti tra gli Stati l’intervento dei giudici, per sua natura, non sia adatto e opportuno, mentre la soluzione dei problemi e conflitti reciproci sarebbe meglio cercata a livello politico. Se si considera l’estrema varietà dei casi, la loro gravità e la serietà delle conseguenze che possono derivarne, è difficile non ammettere che la duttilità e varietà delle soluzioni politiche le facciano preferire. Ed in effetti tra Italia e Germania (che ha riconosciuto
la sua responsabilità per gli atti delle truppe naziste in Italia) sono intervenuti trattati diretti a consentire risarcimenti. Trattati però che hanno avuto limitatissime applicazioni. E la Germania ha versato allo Stato italiano un indennizzo. Molte, e anzi la maggior parte delle vittime sono però rimaste senza risarcimento. Vero è che la Corte internazionale ha avuto cura di chiarire che la questione di cui era investita era soltanto quella riguardante la giurisdizione e non invece quella sostanziale del diritto dei singoli a ottenere un risarcimento. Ma è difficile pensare che la soluzione procedurale adottata non si rifletta sulle possibilità concrete dei singoli di ottenere il risarcimento cui aspirano.

La prima lettura della sentenza della Corte internazionale di giustizia impressiona per la cura impiegata nella vasta ricerca delle tracce – nei documenti internazionali, nella giurisprudenza internazionale e in quella interna degli Stati – della maturazione di un diverso contenuto della
consuetudine internazionale. Ne risulta che effettivamente la posizione assunta dalle giurisdizioni italiana e greca è isolata nel quadro internazionale. Ma il diritto internazionale consuetudinario evolve per mezzo dei comportamenti degli Stati e anche delle sentenze dei giudici che, nel riconoscere un’evoluzione del diritto, in realtà lo creano o almeno lo consolidano. E’ quello che la Corte internazionale di giustizia, massimo organo giurisdizionale nella materia, non ha fatto. Per la verità non da sola, poiché in casi analoghi, quanto alla
questione giuridica, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha concluso nello stesso senso.
Si può riconoscere la serietà delle argomentazioni che la Corte internazionale ha svolto e al tempo stesso esprimere rammarico per l’occasione persa di imprimere al diritto internazionale un’evoluzione che avrebbe potuto dare ai diritti fondamentali delle persone, e alla possibilità di farli valere efficacemente in giudizio, il peso che dal dopoguerra essi in altri campi hanno conquistato.
Rammarico ed anche preoccupazione, perché gli effetti non riguardano solo la storia tragica del passato, ma anche ciò che avviene ora nel mondo, attorno e durante le tante operazioni militari che gli Stati compiono fuori del loro territorio. Il principio riaffermato dalla Corte
internazionale di giustizia fissa una regola che sarà ormai per molto tempo immutabile.

La Stampa, 4/2/2012