Quando i leghisti erano statisti (Marco Travaglio)

Facile prendersela oggi con Bossi e il suo clan. Come prendersela col duce nel 1945 e con Craxi nel 1993. Sono almeno dieci anni che della Lega delle origini, quella che contribuì ad abbattere la prima Repubblica e a salvare Mani Pulite da sicuro affossamento, s’è perso persino il ricordo. Eppure fior di intellettuali e opinionisti “indipendenti” hanno fatto finta di niente sino all’ultimo. Ancora nel 2008, ultima vittoria elettorale di Bossi e Berlusconi, davano mostra di credere alle magnifiche sorti e progressive del “federalismo”, ciechi e sordi dinanzi alla satrapia dell’anziano leader menomato e agli scandali della Credieuronord, dell’amico Fiorani e delle quote latte.

Stefano Folli predicava il 15 aprile 2008 sul “Sole-24 ore”: “Silvio Berlusconi è il leader che riesce a rappresentare la sintesi di un Paese moderato, ma voglioso di modernità… e sempre più insofferente verso i vincoli, i freni e le incongruenze di chi diffida del cambiamento. Ma non si comprende il senso della vittoria berlusconiana… se si sottovaluta il dato politico che l’accompagna: vale a dire l’impronta nordista che l’affermazione della Lega porta con sé… La Lega è un partito leale agli accordi di coalizione, anche perché ha tutta la convenienza a esserlo. La lealtà paga, visto che oggi tra Lombardia e Veneto abbiamo quasi una seconda Baviera, con Bossi nei panni che furono di Strauss e Stoiber. E la “questione settentrionale”, anche quando significa timore della globalizzazione e inquietudine verso gli immigrati, è incarnata dalla Lega… Bossi ha citato la priorità del federalismo fiscale. Ecco un esempio di riforma, certo urgente, che tuttavia esige un alto senso di responsabilità politica per non danneggiare una parte del Paese”. Sappiamo com’è poi finita, la seconda Baviera. Ma Folli è sempre lì a spiegare come va il mondo.

Un altro folgorato sulla via di Gemonio fu Andrea Romano, già direttore del samizsdat dalemiano Italianieuropei, poi editor della berlusconiana Einaudi, ora testa d’uovo della montezemoliana Italia Futura e columnist prima de “La Stampa”, poi del “Riformista”, infine del “Sole”, lo stesso che l’altra sera pontificava in tv sull’ineluttabile fine del bossismo. Ecco cosa scriveva sulla “Stampa” il 16 aprile 2008: “La Lega potrebbe diventare il motore riformatore del governo Berlusconi… è un movimento politico ormai lontano dalla rappresentazione zotica e valligiana… ha accantonato definitivamente il teatrino secessionista… giustamente Stefano Folli sul “Sole-24ore” rimanda all’esempio della Csu bavarese”: insomma la Lega è un modello di “buona amministrazione locale”, piena di “giovani preparati come il piemontese Roberto Cota” (l’attuale catastrofico governatore del Piemonte), ergo sarà “il reagente indispensabile a una vera stagione di rinnovamento”. Certo, come no: vedi alla voce cerchio magico.

Se Romano citava Folli, Angelo Panebianco l’indomani sul “Corriere” citava Romano che citava Folli, in una travolgente catena di Sant’Antonio, anzi di Sant’Umberto: “Come ha osservato Andrea Romano, non si capisce la Lega Nord se non si tiene conto della capacità che Bossi ha avuto nel corso degli anni di fare crescere una classe dirigente locale, di giovani amministratori, spesso abili, e capaci di tenersi in sintonia con le domande dei loro amministrati”. Tipo Belsito, per dire.
L’altro giorno, sul “Corriere”, Antonio Polito rivelava di aver capito tutto da un pezzo (ovviamente all’insaputa degli eventuali lettori): “Già da tempo la Lega aveva dato segni evidenti di essersi trasformata da movimento in regime, con i tratti sovietici dell’inamovibilità del gruppo dirigente… Ma nessuno aveva immaginato che il regime fosse diventato una satrapia. Nemmeno Berlusconi”. Che strano: lo stesso Polito, direttore del “Riformista”, nell’aprile 2008 invitava il centrosinistra a rifuggire da un’opposizione severa e intransigente contro il nuovo governo Berlusconi-Bossi, e ad “aprire il dialogo con l’Italia berlusconiana” e naturalmente bossiana. È grazie a simili illuminazioni che Polito ha guadagnato la prima pagina del “Corriere”.

(L’Espresso, 13 aprile 2012)

Quando i leghisti erano statisti (Marco Travaglio)ultima modifica: 2012-04-20T17:20:44+02:00da pelikan-55
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Un pensiero su “Quando i leghisti erano statisti (Marco Travaglio)

  1. di Piergiorgio Odifreddi

    Finalmente esce di scena, travolto dagli scandali, uno dei tribuni del popolo più rozzi e imbarazzanti che abbia mai avuto il nostro paese, che pure ci ha fatto ripetutamente vergognare per la levatura personale, morale e politica della sua classe dirigente.

    Umberto Bossi ha incarnato per venticinque anni l’anima più rudimentale, ignorante e becera dell’italiano medio. E la Lega Nord ha rappresentato gli interessi più provinciali, conservatori e qualunquisti di una piccola (anzi, piccolissima) borghesia, degnamente rappresentata dal suo indegno leader.

    Quello che molti indicavano come un “politico finissimo” era ed è, in realtà, soltanto una persona sgradevole e volgare, i cui unici argomenti dialettici non andavano oltre il dito medio continuamente alzato verso l’interlocutore, e il vaffanculo continuamente biascicato come un mantra.

    Il cosidetto “programma politico” della Lega, d’altronde, era all’altezza di questa bassezza, e si limitava al protezionismo nei confronti dei piccoli commercianti e dei piccoli coltivatori e allevatori diretti, condito da anacronistici proclami per la secessione e l’indipendenza di una fantomatica Padania.

    Le patetiche cerimonie a Pontida, e le ridicole simbologie solari o guerriere, rimarranno nella storia del kitsch, a perenne ricordo delle camicie verdi: versione di fine secolo delle camicie nere o brune della prima metà del Novecento, e ad esse accomunate dall’ottuso odio razziale e xenofobo.

    Che un movimento e un leader di tal fatta abbiano potuto raccogliere i consensi di una parte consistente della popolazione del Nord Italia, era ed è un’ironica smentita della sua supposta superiorità nei confronti di “Roma ladrona” e del “Sud retrogrado”, oltre che una testimonianza significativa del suo imbarbarimento.

    Come se non gli fossero bastati luogotenenti quali Borghezio, Calderoli o Castelli, negli ultimi tempi Bossi aveva lanciato e imposto in politica il proprio figlio degenere. E’ un degno contrappasso, il fatto che proprio le malefatte del rampollo abbiano contribuito alla caduta del genitore. E, speriamo, anche del suo movimento.

    Padre e figlio possono ringraziare la fortuna che li ha fatti nascere in Italia, e non in Iraq o in Libia, anche se entrambi hanno contribuito a far regredire il nostro paese al livello di quelli. Non li vedremo dunque trascinati nella polvere, e giustiziati sommariamente: ci acconteremo, o accontenteremmo, di vederli sparire con ignominia dalla politica e dalle nostre vite. Anche se le grida di “tieni duro” da parte dei loro sostenitori ci fanno temere parecchio al riguardo.

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