Il mio nuovo libro: “Il patto di Khatarine” (Aliberti, 2012)

Per i miei 25 lettori: come annunciato, da ieri è in libreria (ma anche su Amazon e IBS per i lettori telematici) il mio nuovo volume. “Il patto di Katharine”. Un romanzo.

Il patto_cover.jpgHo già accennato al perchè si può passare dalla storia alle “storie” (e viceversa) e di come anche scrivere un romanzo sia, per me, parte di un percorso di comunicazione della storia. Del resto (si parva licet componere magnis..) per capire il seicento e “vivere” la peste del 1629, cosa c’è di meglio che seguire le vicende di Renzo e Lucia?

Così, per chi vorrà, seguendo le vicende di un “ragazzaccio” come Dario Lamberti, reggiano classe 1920, potrà ripercorrere trentacinque anni di storia, non con la pesantezza di un saggio ma (spero) con  l’interesse agli “strani casi” del personaggio. In questo primo episodio si potrà conoscere “Katharine”, alias Margherita, una signora molto speciale, nella Reggio del 1941.

Se Dario (e il suo modesto autore) saranno riusciti in questo primo episodio a suscitare l’interesse dell’inclito pubblico altri ne seguiranno. Altrimenti il mondo girerà come prima e il miei 25 lettori si saranno persi una occasione fondamentale di conoscenza e divertimento (infotainment per i colti cosmopoliti). Scherzi a parte attendo con curiosità le prime impressioni. Tranquilli, si legge in un weekend sotto l’ombrellone o all’ombra di una bella quercia.

A differenza dei miei libri precedenti, ponderosi saggi, “Il patto di Khatarine” lo presenterò fra qualche settimana, iniziando-logicamente-dalla montagna, dove questo e gli altri romanzi sono stati materialmente scritti.

Per quelli che vorranno poi approfondire la conoscenza di Dario possono andare su: //glistranicasididariolamberti.myblog.it, il blog fratello di FB dove ho inserito (e inserirò) foto dei luoghi, dei personaggi, testi e, perchè no, anche ricette, per consentire anche ad un lettore calabrese di prepararsi una buona zuppa inglese.

Buona lettura.

Vittorio Emiliani sul problema dei Musei Civici di Reggio Emilia

aaaaaa.jpgSALUTO DI VITTORIO EMILIANI *
Cari amici,
ho visitato la prima volta i Musei Civici di Reggio Emilia quando capitai nella vostra città da inviato del Giorno di Italo Pietra. Altre volte sono entrato nel Palazzo di san Francesco proprio per la ricchezza e la varietà delle collezioni che mi avevano colpito nella prima visita. Anni fa realizzai per l’IBC presieduto dal reggiano Giuseppe Gherpelli un video sui Musei Civici regionali. Anche per questo la notizia di un progetto quanto mai singolare per la ristrutturazione di quegli spazi non poteva lasciarmi indifferente. E così abbiamo deciso di lanciare un appello come Comitato per la bellezza. Che cosa ci ha spinto a questo passo? L’inconsistenza culturale del progetto, che sembra più un gesto d’artista che non un intervento meditato con un piano di riallestimento in grado di valorizzare le collezioni. E ci ha sorpreso non poco apprendere che un’operazione così importante sia priva di un comitato scientifico. Anche noi siamo convinti che i Musei Civici abbiano bisogno di un rinnovamento, non a caso abbiamo usato proprio questo termine nel nostro appello, ma questo rinnovamento non può raggiungersi con un malinteso concetto di contemporaneità. Ma c’è una questione anche più importante e avete fatto bene a sollevarla: mi riferisco alla domanda, certo fondamentale, se la sorte di un museo civico sia o no un problema della città. Certo che lo è. Ed è sorprendente che tutto invece si svolga all’insegna del privato: non c’è stato un bando di concorso, e il progetto non è mai stato presentato integralmente. E sorprende ancor più che ciò avvenga in una città dove la partecipazione ha una lunga e illustre storia. Noi continueremo a seguire questa vicenda, convinti come voi che un intervento così impegnativo sui Musei civici riguarda la città e quindi non può essere
imposto. Sotto questo profilo la questione reggiana è nazionale. Come era nazionale la questione della Data sulle mura di Urbino manomessa dall’ultimo progetto di Giancarlo De Carlo destinato a “lasciare il segno” sotto i Torricini lauraneschi e rimasta lì, costosamente inutilizzata e forse inutilizzabile. E, proprio ringraziandovi per aver sollevato in chiave nazionale la questione dei Musei Civici reggiani, vi mando gli auguri di buon lavoro.
Vittorio Emiliani
Roma, 20 giugno 2012

 

*Presidente del Comitato per la Bellezza

La bicicletta uno strumento contro l’astrazione (intervista a Marc Augè di G.Glossi)

negozio-biciclette.jpgSono passati vent’anni dalla pubblicazione in Francia di Nonluoghi di Marc Augé, libro che ha segnato gli studi antropologici e vero e proprio manifesto dell’antropologia del quotidiano. In occasione di questo anniversario Elèuthera, suo storico editore italiano, manda alle stampe una nuova edizione del volume con una lunga e inedita prefazione in cui Marc Augé delinea e distingue i nuovi nonluoghi che si sono imposti nella società contemporanea. Marc Augé, già giovanissimo tifoso di Fausto Coppi e di Jean Robic, è anche un grande appassionato di ciclismo, tanto da dedicargli il pamphlet Il bello della bicicletta (Bollati Boringhieri). Con il suo aiuto proviamo quindi a decifrare l’importanza dell’uso della bicicletta nella scoperta, non solo dell’ambiente che ci circonda, ma anche di noi stessi.
 
 
Come muta la percezione di un luogo se attraversato in bicicletta?
 
Credo che l’importanza della bicicletta non sia solo una questione tecnica, quale mezzo di trasporto, ma che stia nella capacità di rivelare la relazione che noi abbiamo rispetto al tempo e allo spazio. La bicicletta ci aiuta a prendere coscienza delle due dimensioni. Dello spazio è evidente perché pedalando il paesaggio circostante muta davanti ai nostri occhi mentre del tempo perché ciascuno di noi ne percepisce uno diverso a seconda della preparazione atletica e dell’età. Esiste quindi un rapporto concreto tra spazio e tempo. Gli altri mezzi di circolazione e di comunicazione danno invece una percezione astratta, così come il mondo delle immagini dentro cui siamo immersi, tendendo a farci ignorare la sostanza di questo rapporto. L’uso della bicicletta ci riporta all’evidenza del nostro corpo, della nostra età e dell’ambito che ci circonda. è così un modo sano per ritrovare se stessi, il proprio tempo e il proprio spazio. La bicicletta è uno strumento contro l’astrazione.
 
Come si caratterizza l’uso della bicicletta nello spazio metropolitano, in particolare al tempo di una crisi economica che tende a disgregare e a impoverire le città?
 
In primo luogo siamo di fronte ad esigenze di tipo strettamente economico, ovviamente, ma anche di natura ecologica. La crisi ha vari aspetti e forme, ma io direi che va interpretata principalmente come un’occasione di ricostruzione di uno spazio sociale all’interno della città. I ciclisti hanno tra di loro un rapporto fortemente solidale. Ad esempio a Parigi, dove vivo, quando ho voluto provare per la prima volta una Vélib’ senza conoscerne le modalità di funzionamento del noleggio, ho trovato una solidarietà delle persone anche più giovani che mi hanno spiegato il sistema, ed è stata un’occasione per scambiare opinioni e per chiacchierare. Attorno a questo c’è infatti una socialità molto ben strutturata. Dunque il paradosso è che la bicicletta appare come uno strumento individuale, ma in realtà sviluppa una coscienza condivisa tra coloro che la utilizzano al punto da porsi apertamente come esempio e in un certo senso soccorso per gli altri.
 
Quale è l’aspetto più interessante di un sistema di noleggio pubblico di biciclette come il Vélib’ di Parigi?
 
Principalmente direi l’aspetto contrattuale, che è decisamente più seducente dell’ordinario sistema tipico del consumo. Con Vélib’ ciò di cui si ha bisogno lo si misura in termini di tempo, si prende la bicicletta per un’ora o per tutto il giorno. C’è quindi sia un principio economico che di reciprocità. C’è un’etica, ossia un codice di buona condotta che fa sì che gli utenti del servizio si prendano cura dello strumento e questo è a beneficio di tutti. Nel caso generale, ovviamente poi vi sono sempre persone che distruggono le cose, ma nella media funziona bene. E quindi credo che Vélib’ rappresenti una forma di consumo particolare, che tiene conto delle esigenze anche degli altri. Anche in questo caso la bicicletta si pone come un oggetto d’uso e di consumo non strettamente individuale, che coinvolge anche i bisogni altrui.
 
Come è possibile immaginare un utilizzo utopico della bicicletta e quale la sua forza?
 
Immaginiamo che tutti utilizzino la bicicletta. Se così fosse vivremmo in un mondo profondamente diverso, e non solo tecnicamente o tecnologicamente, ma socialmente e nelle relazioni tra gli uni e gli altri. Vediamo bene che tutto ciò che esiste oggi come mezzo di comunicazione non è segnato dalla preoccupazione del benessere di tutti.
In particolar modo a Parigi, a partire da una certa età o se si è portatori di handicap prendere la metropolitana non sempre è possibile, in alcuni casi ci sono scale o altri tipi di barriere che lo rendono impossibile. Quindi la metropolitana non adempie completamente al proprio ruolo sociale. Diversamente, per le biciclette si potrebbe immaginare che abbiano, per esempio, dei motori elettrici che non inquinino utilizzabili da chiunque. Ma si è ancora lontani da questo per il momento. Di certo rimango colpito da come in Francia e a Parigi in particolare l’handicap come l’età avanzata siano degli ostacoli reali per circolare liberamente in città, al punto da ostracizzare alcuni individui. L’utopia della bicicletta sarebbe quindi una generalizzazione delle possibilità in modo che ciascuno possa andare per strada prendendo una bicicletta, partire e lasciarla nuovamente dove gli pare, in maniera totalmente naturale. Sartre parlava della naturalezza con cui ci si scambia il fuoco, da sigaretta a sigaretta, e così dovrebbero essere l’uso diffuso della bicicletta. Così immagino l’utopia della bicicletta.
 
L’uso della bicicletta è un modo per riappropriarsi di un’idea di futuro?
 
Nella misura in cui la si consideri una sorta di utopia sociale, sì. Detto questo non bisogna sognare. Il futuro dell’umanità è il futuro della scienza e penso d’altra parta che più la scienza potrà svilupparsi, più potrà esser compatibile con la vita di tutti i giorni. Se vi è una finalità umana, questa è quella della conoscenza. La conoscenza dell’universo come la conoscenza intima ed esterna di noi stessi. Certamente la bicicletta è una forma di accesso alla conoscenza, ma una volta che vi sono saliti sopra, gli scienziati devono pur sempre scendere e tornare nei loro laboratori per lavorare e per sperimentare.
 
Cosa ricorda con più piacere di quando ha imparato ad andare in bicicletta?
 
I miei ricordi di bicicletta sono soprattutto ricordi di adolescenza. Sono andato parecchio in bicicletta, a partire dagli undici anni quando andavo via da Parigi per raggiungere i miei nonni in vacanza in Bretagna. La bicicletta era una meraviglioso mezzo di scoperta capace di allargare gli orizzonti e di farmi vivere vere e proprie avventure. Non che ci si allontanasse molto dal villaggio, al massimo una trentina di chilometri, ma l’eccitazione e l’emozione della scoperta erano comunque forti. Piccole scoperte, ma pur sempre tali. La bicicletta è stata per me il desiderio di andare a vedere altrove, di scoprire e cercare oltre.
 
Ha sempre mantenuto l’uso della bicicletta?
 
Molto onestamente non in maniera sistematica, ma quando hanno installato Vélib’ a Parigi ho avuto la curiosità di capirne il funzionamento e un po’ l’ho utilizzata. Solo che Parigi è un po’ problematica, alcune strade sono un po’ pericolose, spesso si è obbligati a percorrere le medesime corsie degli autobus e dei taxi e ci sono stati anche alcuni incidenti. E spero che la situazioni migliori, che si facciano più piste ciclabili e che s’investa nella sicurezza dei ciclisti, ma in generale non posso definirmi un praticante inveterato della bicicletta.
 
Cosa si scopre andando in bicicletta?
 
Prima di tutto l’uso della bicicletta invita alla scoperta dell’esterno, del paesaggio che ci circonda. In bicicletta non siamo obbligati all’interno di itinerari prefissati come capita in città circolando con la metropolitana o con gli autobus. In bicicletta si scoprono percorsi nuovi, scenari inediti appaiono al nostro sguardo, la bicicletta è sì uno strumento di scoperta, ma principalmente di riscoperta geografica. Ma in senso più ampio possiamo dire che andare in bicicletta è un modo per conoscere se stessi. Si fa esperienza della propria forza in modo molto concreto, il rapporto con il proprio corpo può aiutare a capirlo e quindi a migliorarlo. E infine credo che la cosa più positiva sia il poter prendere coscienza della propria età e delle possibilità che questa ancora ci lascia.

http://www.doppiozero.com/materiali/speciali/dueruote-intervista-marc-auge

Dalla storia alle storie. Noterelle di uno storico di strada.

Cover.jpgFra una settimana sarà il libreria un mio nuovo libro. Il settimo (come unico e solingo autore). Ma stavolta c’è qualcosa di nuovo, insieme a qualcosa di solito. Il nuovo è che, chi vorrà, si troverà fra le mani un romanzo (“Il patto di Katharine”), il primo di quella che aspira ad essere una serie (“Gli strani casi di Dario Lamberti”). Il solito è che si parla ancora di storia, 1941 per la precisione, Reggio Emilia per l’esattezza.

Perchè passare dalla storia alle storie? Qualcuno, con il pennacchio sul cappello, storcerà il naso e penserà “Ecco, ve l’avevo detto: Storchi non è una storico serio, si mette a scrivere romanzi…”. Devo dire che di questi pennacchiuti ne ho pieni i cabasisi e che mi fanno ormai l’effetto di un Cicchitto alle due del pomeriggio. Leggera nausea e totale indifferenza. Tranquillizzo i pochi affezionati tossici: continuerò a far ricerca e a pubblicare i saggi con note, citazioni, glosse e quant’altro. Però. Però non posso nascondermi dietro a un dito e negare la crisi profonda della storiografia italiana contemporanea. Escono saggi perfetti, frutto di approfondite ricerche e rigorose meditazioni e…nessuno li legge. Salvo beninteso la ristrettissima cerchia degli addetti ai lavori, loro famigli compresi. Saggi perfetti che rimangono muti, incapaci di formare una consapevolezza pubblica. Editi magari da editori che non diffondono il prodotto oltre i confini comunali. Così l’opinione pubblica rimane ferma in convinzioni assolutamente fallaci (dalle colpe partigiane per le Fosse Ardeatine, al “mito” delle foibe o i presunti “crimini” partigiani del dopoguerra) e giorno per giorno la domanda “ma noi storici che ci stiamo a fare…?” diventa sempre più scomoda.

Io sono uno storico di strada, non sono un uomo di cultura, raccolgo pezzi di vita e cerco di rimetterli insieme. Tutto qui. Non avrò mai una cattedra universitaria o, se dovessi averla, sarebbe quella da bidello magari alle elementari di Fortezza Bastiani. Non sono abbastanza bravo, complesso, profondo. Ma, peggio di tutto, pare che riesca a farmi capire. Imperdonabile. Perchè interpreto il mio essere storico come un impegno etico e culturale, perfino politico. Non pubblico 3 saggi all’anno per avere 1,38 punti per il prossimo concorso, peraltro già assegnato a tavolino. Scrivo e parlo perchè la gente capisca, non perchè rimanga affascinata (o mortalmente annoiata) dal mio scrivere/parlare ma perchè porti a casa o trovi nei miei libri una sola nota in più di quanto conosceva prima. Lo so, è sbagliato, in un paese dove anche fra gli storici la gara è spesso(mi scusino le signore) a chi ce l’ha più lungo.

Qualche anno fa proposi una mia ricerca a un sommo editore che la valutò, la soppesò e poi rispose “no, grazie, è troppo locale..”. Al suo posto editò un sontuoso saggio accademico che vendette ben 78 copie. La mia ricerca, (il volume si chiamò “Sangue al Bosco del Lupo”) pubblicata dall’amico Francesco Aliberti vide andare esaurite due intere edizioni, con una pagina intera sul “Corriere della Sera”. Fortuna, certamente, ma anche la dimostrazione di quanto antico e autoreferenziale sia il mondo dell’editoria che quello dell’accademia. Tutto normale e risaputo.

Allora perchè le storie? Perchè la storia è fatta di storie e dove lo storico (anche quello di strada) deve arrestarsi per rigore metodologico può continuare il narratore. Riprendere quei materiali e andare avanti. La storia che racconto ne “Il patto di Katherine” è ambientata nell’ottobre 1941. Avrei potuto fare una saggio-so come si fa-con note, dati e citazioni. Quanti l’avrebbero letto? Quanto sarebbe servito a dare almeno una informazione in più al malcapitato lettore?

Parafrasando von Clausewitz, il racconto è solo la storia fatta con altri mezzi. Così inizio a raccontare Reggio e il nostro paese in 35 anni di storia, dal 1941 al 1975, attraverso “gli strani casi” di Dario Lamberti, classe 1920, borghese, reggiano, eroe suo malgrado, partigiano, professore di lettere antiche fino alla pensione. Io mi sono divertito, spero che qualcun altro si diverta insieme a me.

Per chiarire (forse) queste confuse noterelle faccio seguire la “Nota dell’autore” del nuovo libro, di cui ringrazio ancora l’Editore Aliberti per la fiducia, al limite dell’incoscienza.

Nota dell’autore

Perché passare dalla storia alle “storie”? In tempi in cui la storia diventa oggetto di riscritture, di spettacolarizzazione, di amnesie più o meno ragionate, anche il confine fra storia e “storie” diventa più sottile. Le opinioni diventano indipendenti dai fatti e tutto tende a confondersi in una drammatizzazione spesso al limite del grottesco.

Ogni ricerca storica tende alla sovrabbondanza, di ipotesi, di percorsi ma soprattutto di materiali della più diversa specie. Materiali che finiscono in un cassetto, su un nastro magnetico, su appunti presi e lasciati inutilizzati. Scrivere “storie” consente di rimettere in circolo questi materiali. Di riciclarli. Una forma di uso ecologico di materiali storici. Storie, vite, episodi, luoghi, ritrovano un loro spazio e, forse, un nuovo senso, fuori dalla gabbia rigida della ricerca storiografica codificata.

Come in un mosaico crollato a terra, si raccolgono le tessere e si ricompone un nuovo disegno. Ogni tessera è originale, un brandello di realtà, ma l’insieme ricostruito non è più storia ma una “storia” possibile fra le tante, uno strumento per raccontare anni lontani e diversi.

Anni lontani e diversi di una città e della sua gente. Una provincia e una terra complicata, con tanta, troppa storia, come qualche amico estero ci ricorda, e dentro uomini e donne, passioni e sentimenti.

Un racconto che inizia con questo primo episodio e che diviene un percorso dal dopoguerra alla vigilia della nostra (post)modernità, attraverso le vicende di Dario Lamberti, professore del Liceo Classico Ludovico Ariosto. Un percorso che non pretende di ridare un senso a 35 anni di storia (le vicende di Dario spaziano tra il 1941 e il 1976) ma, aggirandosi fra quei “sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli” che Montale ci racconta, vuole essere un altro punto di vista, il punto di vista di un reggiano che forse è sfuggito a quella “rete a strascico” ma che, come ci conferma il poeta, non solo non è particolarmente felice ma, probabilmente, ignora la sua fortuna.

 Migliara, 19 gennaio 2012

Verso l’estate, terremoti e nuovi libri…

parmigiano-terremoto-emilia_650x447.jpgMi scuso con i miei 25 lettori se ho marinato FB per qualche settimana. Ma credo che sia giusto scrivere se e qualora si abbia qualcosa da dire e le cose intorno non erano (e tali restano) particolarmente stimolanti. Cose vecchie, quasi antiche, un paese che non riesce a cambiare, dove tutti si dicono riformisti purchè le riforme inizino sempre un po’ più in là. Una continua e ripetuta fuga dalla realtà, come se non fossimo ancora sull’orlo di un precipizio, tutti presi (loro) a discettare su alleanze, percento, in un perpetuo moto immobile che coinvolge tutti gli schieramenti, o almeno quelli che conoscevamo finora.

E in più il terremoto che ha preso tutti alla gola, anche qui che, per fortuna, ne abbiamo subìto solo la paura. Un terremoto che ha svelato tutte le debolezze e l’avidità di questa terra ricca, la mia/nostra terra, che però vediamo sotto una nuova luce, più ambigua e complessa. Case squarciate ci mostravano arredamenti lussosi, cucine hi-tech su solai vecchi e fragili, capannoni tirati su in sette (7) giorni afflosciati come la casetta dei tre porcellini. Ma qui la favola non c’entra e persone ci sono rimaste sotto. Niente da ridere.

Ma il crollo nei magazzini del grana mi sembra, come dicono quelli colti, archetipico. Scaffalature alte 10 metri, cariche di tonnellate di “grana” (non a caso noi lo chiamiamo così il Parmigiano-Reggiano) lasciate libere, senza ancoraggi, senza sicurezza. Pronte a oscillare ad innescare un drammatico domino che ha sfondato muri e abbattuto colonne. Nessun s’è fatto male, bene, meglio. Però. Anche nelle scatole di montaggio Ikea per uno scaffale Billy, altro nemmeno due metri, viene inserito l’apposito gancetto di fissaggio alla parete. Non per le tonnellate di grana? Se non siamo in grado di tutelare il nostro “grana”, cosa pretendere? E il terremoto c’entra poco, è la minima sicurezza che si richiede. In archivio se vado oltre i 2,50m. devo ancorare, fissare, legare. Logico. Ma costoso e allora, risparmiamo, ottimizziamo, razionalizziamo, etc…E le chiese, torri rovinate a terra? Ci fidavamo nella non sismicità emiliana? Non sismicità? Ma gli architetti del Duca d’Este nel XVI secolo lo dissero a chiare lettere: “Il terremoto non è un disastro, è un fenomeno naturale, è l’uomo che lo trasforma in disastro”. Tutti presi nel gioco del mattone, a tirar su villette in stile geometrile (che, ahimè, sono rimaste su quasi tutte), condomini postmoderni et similia, abbiamo lasciato andare in malora un patrimonio che avevamo ereditato senza meritarlo.

Poi, è vero, siamo emiliani, un po’ matti e con tanta voglia di fare, sempre. In fondo il nostro motto potrebbe essere “Pochi bàli, sò ch’andòm!”, siamo gente strana, come è stato scritto sul web: se vogliamo costruire auto noi facciamo le Ferrari e la Lamborghini, se vogliamo della musica abbiamo Verdi, se vogliamo un formaggio facciamo il grana (ancorato però la prossima volta). Ce la faremo, è la nostra storia che ci ha insegnato a non aspettare gli altri ma a lavorare noi, e bene. Ma riflettiamo su questo evento, riprendiamo a lavorare sul nostro presente/futuro, uscendo dagli slogan dell’Emilia felix, meraviglioso paradiso. Oggi un po’ meno meraviglioso.

Ma la mia assenza da FB è stata motivata anche da un’altra questioncella: ero impegnato in un altra impresa editoriale. Confesso: ho scritto un altro libro! Che volete farci: “è capitato ed è quello che so fare”, dice il poeta.

Un altro libro. Ma stavolta è una cosa diversa. Lascio per un po’ la storia e racconto storie. Curiosi? Spero di sì.