Il mezzo qualifica il fine

Ritorno ancora sulla riflessione sul terrorismo, riproposto dalle vicende degli ultimi giorni. L’amico Gianni così ha commentato il pezzo di B.Tobagi “Il carceriere di Moro trasformato in eroe” di pochi giorni fa:

Credo che il valore di quest’articolo stia nella frase
“La retorica del “dovere” e del “valore” della memoria è vacua, se prescinde da una riflessione che riconosca l’esistenza di letture del passato e della società profondamente divergenti (laddove riconoscere, ovviamente, non è giustificare), s’interroghi sulle motivazioni dei conflitti,…”
e di conseguenza nella firma di un figlio di vittima del terrorismo.
Altrimenti sarebbe un articoletto.
Così invece è proprio l’articolo ad uscire da beceri visioni di parte ed elevarsi nella più aperta delle considerazioni che fanno della storia un intreccio di protagonisti che comunque la storia ufficiale solitamente semplifica.

Personalmente non mi è capitato di ascoltare mitizzazioni su Gallinari al di là di quelle che leggo qui.
Ha fatto scelte, sicuramente perdenti e comunque sbagliate col senno del poi, visto la reazione a destra che ha avuto il paese.
Lui ne ha preso atto senza abiurare ma solo dichiarandosi sconfitto.
Ha cercato di mantenere una coerenza difficile perché in questi casi la si paga sulla propria persona, altri han fatto come lui, tanti invece han scelto percorsi più accomodanti. Ciò non fa di lui un eroe, ma sicuramente raccoglie il rispetto anche dei suoi nemici.
In questo blog ha senso fare anche un’altra considerazione di fantasia: se avesse vissuto nell’epoca della Resistenza sarebbe stato un Sintoni, un Toscanino, un Eros o in chiave più operativa un Robinson. Come loro, finito la guerra, non avrebbe fatto carriera, lasciando posto ai Sacchetti.
Invece è vissuto in un altro tempo e la storia ci dice che ha sbagliato, tragicamente per lui, per le vittime e per il paese.
Ma poi ne ha preso atto.

Il mezzo qualifica il fine, come ci ricorda Todorov, e parlando di terrorismo e anni di piombo l’osservazione mi sembra estremamente opportuna. Non si parla solo e soltanto di politica ma di uomini, di innocenti assassinati, di dolore sparso in nome di una ideologia che, proprio per i mezzi usati, ha dimostrato tutta la sua follia e potenziale criminogeno.

In questi giorni sono rimasto gelato nel ri-vedere interviste di brigatisti in cui si parlava di omicidi a sangue freddo descritti freddamente come “attacchi”. Attacco all’avv. Croce, 76 anni, partigiano, presidente dell’Ordine degli avvocati, freddato nell’androne di casa sua per aver voluto fare il proprio dovere fornendo-come previsto dalla legge- avvocati di ufficio agli imputati al processo contro le BR. Attacco? Sparare 3 colpi di pistola a una persona indifesa? Attacco? Catturare e uccidere a sangue freddo Roberto, il fratello di Patrizio Peci, per punirlo in via trasversale per il suo pentimento? Attacco uccidere Carlo Casalegno e Walter Tobagi? Eroico sparare a una persona indifesa?

Mantenere la propria coerenza. Bene, ma aggiungiamo l’aggettivo indispensabile: coerenza criminale, perché uccidere a sangue freddo persone, in nome di una qualunque ideologia, quello è e resta. Azione criminale. Poi la pietà ai morti copre tutto, come è giusto. Ma come ripetiamo da anni nel caso degli uccisi della guerra e dopoguerra: tutti i morti sono uguali, ma i vivi non sono stati tutti uguali e mi sembra moralmente inaccettabile mettere insieme Casalegno e Tobagi e i loro assassini. Per motivi etici e per rispetto della memoria storica.

Il parallelo Resistenza-terrorismo ha goduto purtroppo di buona fama e stampa, ma credo sia uno dei peggiori anacronismi mai concepiti sotto l’italico cielo. La Resistenza nacque e sviluppò in una situazione, oggettiva, di guerra aperta (si parla della Seconda Guerra Mondiale). Gli antifascisti prima dell’8 settembre per 20 anni presero bastonate e carcere (e peggio) ma non spararono mai un colpo di pistola. La violenza la portò Salò, fu la RSI a scatenare la guerra civile, i partigiani scelsero la violenza (subendone tutte le conseguenze) come mezzo inevitabile in una situazione di occupazione straniera e collaborazionismo fascista.

Negli anni 70 non c’era nessuna guerra, nessuna occupazione, nessun collaborazionista, se non nel delirio ideologico di chi dichiarò guerra allo Stato, di chi, nel chiuso di qualche stanza, per troppe e cattive letture o per troppa ignoranza e fanatismo, decise che era ora di fare la “rivoluzione”, imponendo una stagione di assassini e sofferenza a civili, alle loro famiglie e atutto il paese. Non sbagliarono con il senno di poi. Sbagliarono e basta. I partigiani fecero la scelta giusta, non con il senno di poi, ma con il senso profondo di quella scelta, fatta allora. Quindi nessun parallelo è possibile fra brigatisti e partigiani, salvo insultarne  la memoria e stravolgere il senso della loro scelta che ci ha portato alla democrazia.

Immaginando un assurdo “what if” domandiamoci cosa sarebbe accaduto se avessero vinto le BR: possiamo pensare ad una Italia divenuta “socialista” come uno qualunque dei disgraziati paesi dell’est e governata da una classe dirigente espressa dalle fila dei “coerenti” combattenti delle BR? La risposta è già nella domanda.

Il mezzo qualifica il fineultima modifica: 2013-01-17T11:24:00+01:00da pelikan-55
Reposta per primo quest’articolo

3 pensieri su “Il mezzo qualifica il fine

  1. “Il parallelo Resistenza-terrorismo ha goduto purtroppo di buona fama e stampa, ma credo sia uno dei peggiori anacronismi mai concepiti sotto l’italico cielo”
    Condivido la resistenza non c’entra nulla con gli asassini del terrorismo brigatista.. Allego un’intervista che Gallinari rilasciò nel 1993 all’allora direttore dell’unità Veltroni.
    «Quando Gallinari mi disse
    “non ero un burattino”»

    Gli ho chiesto: «È vero quello che ha detto la Faranda, che lei ha pianto quando ha parlato l’ultima volta con Aldo Moro?» Lui mi ha risposto: «Non entro in quella cosa. Ma chi faceva la lotta armata era un uomo, non una bestia assatanata di sangue. E di fronte alla fine della vita di un uomo ciascuno prova il suo dolore». Gli ho chiesto: la Faranda ha detto che ad eseguire l’assassinio di Aldo Moro non è stato lei ma Moretti e Maccari. E vero?

    Mi ha detto: «Le rivelazioni della Faranda, siano vere o no, sono la conferma della nostra posizione. lo non ho mai detto che gli uomini delle Br impegnati nella operazione di Moro erano 5, 10 o mille. L’unica cosa che ho detto, sempre, è che erano brigatisti, solo brigatisti. Chi ha sparato non conta, dal punto di vista politico». Gli occhi fondi che mi guardano sono gli stessi che hanno impresso nella retina le immagini, le uniche reali, dei cinquantacinque giorni più terribili della storia italiana del dopoguerra. Quest’uomo dimesso che mi sta davanti, in un grande stanzone del braccio G8 del carcere di Rebibbia ha partecipato al rapimento in Via Fani, alla detenzione, al processo, alla sentenza che ha posto fine alla vita del presidente della Dc. Lui sa la verità. l’ha vista con quegli occhi, Prospero Gallinari. Ma per lui non ce ne è un’altra da quella fin qui emersa. Non c’è niente da cercare ancora. Tutto è già stato scritto, tutto definito, dal punto di vista politico. Il resto, sono dettagli. (…) «Ho visto rosso e nero, mi è rimasta dentro una grande rabbia e una grande amarezza. Vedo la Di Rosa. Lei parla di fatti reali, il rapporto tra Stato e servizi segreti. Noi siamo nati, abbiamo combattuto per venti anni contro queste cose. E invece vedo che si cerca di dimostrare che noi eravamo un colabrodo di infiltrati, che il gioco era sporco. Un esperto ha persino citato il fatto che Moretti era andato a Catania come prova che qualcosa non andava». E Gallinari aggiunge. «Se noi eravamo al servizio dello Stato avevamo fatto un bel capolavoro. Siamo stati oggetto della più dura repressione subita da un movimento politico dal dopoguerra ad oggi. Cinquemila militanti delle Br nei carceri speciali. Ergastoli a grappoli. La verità storico politica è una sola, quella dei fatti (…)».

    DEPISTAGGI E «PUPARI»

    Ma l’Italia è cambiata dopo i cinquantacinque giorni. Ed è cominciato, con via Fani e Via Caetani, un lungo inverno, nel quale si è costruito il mostruoso edifìcio che ora è stato sventrato dalla caduta dei muri e dalla questione morale. Come potete escludere che qualcuno abbia giocato la sua partita in quel passaggio drammatico? Come potete chiudere gli occhi di fronte al lago della Duchessa, un depistaggio coi fiocchi? E vi siete chiesti perché, a cosa serviva? E via Gradoli, scoperta con una seduta spiritica? E gli uomini della P2 che non cercavano e non trovavano? Credete davvero che tutti, in Italia o all’estero, fossero entusiasti dell’idea che il Pci di Berlinguer andasse al governo? «(…)Per noi il compromesso storico era un disegno di normalizzazione, era l’imbrigliamento delle masse, era il tentativo di narcotizzare la conflittualità sociale. Allora c’era una grande domanda di cambiamento, c’era nelle fabbriche, tra i lavoratori. Voi avete sempre pensato che le Brigate rosse fossero solo una organizzazione terroristica. E invece no. Penso alle fabbriche del mio Nord. Il cinquanta per cento degli operai sapeva chi erano i loro colleghi che appartenevano alle Br. Ma non li denunciavano». Mentre sento queste parole mi viene in mente Guido Rossa, che aveva denunciato. Gallinari continua: «Noi consideravamo intrinseco al sistema capitalistico la reazione di Stato, avevamo visto le stragi, non conoscevamo Gladio ma ne conoscevamo l’esistenza. Forse anche il Pci sapeva che la tensione tra la domanda sociale e il potere ad un certo punto si sarebbe fatta insopportabile. Noi scegliamo la strada di continuare a combattere con la lotta armata. Berlinguer sceglie, non per caso partendo dai fatti del Cile, la prospettiva dell’intesa con la Dc». Ciò che non accetta, Gallinari, è pensare che qualcuno li possa avere utilizzati. Porta la biografia sua e degli altri a sostegno, vite cresciute nella sinistra storica e non. Ma questo ancora non basta. In questi anni, in Italia, abbiamo appreso sulla pelle che non si è mai dietrologi abbastanza. (…) Gallinari si scalda. «Nessuno mi ha coperto, se no non sarei qui. Siamo stati usati? lo so che nessuno mi ha costretto a fare quello che ho fatto, nessuno mi ha condizionato. Certo, sono uno sconfitto, sono qui. Ho perso la mia partita. Ma è stata la mia partita, la partita delle Br».

    (…) Non sono venuto qui per convincere nessuno ad aderire alla sinistra democratica. Voglio ascoltare la loro verità, capire le ragioni che li hanno portati fin qui. Niente di più, niente di meno. Loro sostengono che l’unico che ha capito è Francesco Cossiga. Lo dicono come a indicare il paradosso, ma neanche tanto. «È assurdo che quelli da cui ci dobbiamo attendere il riconoscimento storici della verità di quegli anni siano quelli con cui ci siamo sparati addosso. Cossiga ha detto che la Brigate rosse erano solo loro stesse, che il sistema allora fu costretto a far passare per pazzo Moro. Cossiga ha detto delle verità storiche coraggiose. Il Pds no. Ha lasciato da parte la cultura del conflitto. Proprio come il Pci. Ha pensato che Berlinguer e Moro fossero le fiaccole del mondo nuovo, come Kennedy e Giovanni XXIII. Balle».

    GLI SCRITTI DI MORO

    Gli chiedo perché, secondo loro, gli scritti di Moro furono improvvisamente ritrovati a via Montenevoso. Mi rispondono che loro per primi hanno dichiarato che delle carte erano sparite, quando furono scoperti dei covi. E che tutto quello che era a loro disposizione è stato reso noto. Sono stati distrutti gli originali, le registrazioni, i nastri. E non esistono videocassette di nessun genere. In quegli interrogatori Moro parlava della Dc e della struttura che ora sappiamo essere la Gladio. Dice Gallinari: «Noi chiedevamo di fare i nomi, ma Moro non li faceva. E le cose che diceva per noi erano abbastanza ovvie. Le Brigate rosse nascevano dalla consapevolezza che esisteva una specie di Super stato, capace di stragi. lo sono di Reggio Emilia, la notte in quegli anni chi dirigeva il Pci dormiva fuori casa per paura del golpe. Io andavo a vedere le luci delle caserme. Ed io, aggiunge quasi divertito Pancelli, difendevo addirittura le sedi del Psi». Gli chiedo di Moro, della sua detenzione, dei ricordi personali che Gallinari ha della tragedia di quell’uomo solo. «Non entro nel dramma umano. È stato informato di tutto, passaggio per passaggio. Capì che non c’era nulla più da fare, che non c’era prospettiva né possibilità per una trattativa dopo il messaggio del Papa. Bisogna rileggere oggi i suoi scritti, si possono capire meglio. La partita che si giocò era a tre: le Br, Moro e il fronte della fermezza. Moro era una persona di massimo rispetto. Conosceva la classe politica italiana. Chi legge i suoi scritti capisce il suo dramma politico ed umano. Scriveva lettere per mettere in moto le trattative e riceveva risposte negative. Sapeva di avere molti nemici, ma pensava di avere molti amici. Sbagliava».

    LE ULTIME ORE

    Gli chiedo se Moro capì subito cosa ali stesse accadendo. Mi risponde: «Sì, gli dicemmo: siamo le Brigate rosse». Per Gallinari non conta, politicamente, chi abbia materialmente premuto il grilletto. «Moro è stato ucciso dalle Br, questa è l’unica cosa che conta. Quando noi venivamo arrestati dicevamo di essere prigionieri politici e rivendicavamo tutto quello che l’organizzazione aveva fatto. Le Br sono state una organizzazione collettiva, le responsabilità erano comuni». Io capisco, anche se disapprovo, la vostra scelta di non raccontare ciò che può chiamare in causa altri. Ma io credo che Gallinari abbia una sorta di dovere morale. Dire che cosa sono stati per Aldo Moro, per la persona di Aldo Moro, i giorni della sua detenzione nel carcere delle Br. (…) «Sarebbe svilire la natura politica della nostra scelta. Di quella scelta che ti ha portato ad uccidere e a rischiare di essere ucciso (…)». Insisto, voi dovete almeno la verità umana che avete strappato alla famiglia Moro. Gallinari mi guarda: «Ci sono stati molti morti in questa storia. Ma io non ho sparato a quella famiglia, ho sparato contro quello che Moro rappresentava. Non ha senso raccontare nulla, sarebbe una specie di penitenza» (…)

  2. Caro Massimo, permettimi di rientrare nel merito.
    Ci sono due aspetti del tuo commento che mi mettono in disaccordo con te.
    Il primo è la condanna tout court a Gallinari e al brigatismo in forma di anatema che non risparmia neanche la dignità della persona.
    Il secondo è la distorsione della storia resistenziale.
    Procedo per ordine.
    La fantasia che ho voluto usare ipotizzando Gallinari alle prese con la lotta al nazifascismo serve per inquadrare la sua buona fede e l’abnegazione alla causa che lo muoveva, ma anche per rimarcare la tragicità dei suoi errori nell’aver abbracciato invece cause sbagliate.
    Seppur i brigatisti reggiani si sentissero continuatori di una lotta resistenziale, ciò non fu perché quella lotta finì, pur con tutti i suoi strascichi e malumori, nel 45 con l’adesione alla dialettica del sistema democratico.
    Per quanto marcio possa essere un sistema democratico (basta pensare all’oggi) è sempre un sistema da preferire rispetto a modelli che privano la libertà individuale; inoltre al suo interno contiene la possibilità di rivoluzionare le cose con gli stessi strumenti della democrazia.
    Il risultato di quegli anni di lotta armata è devastante in tutti i suoi aspetti umani e politici, ed oggi ne continuiamo a pagare le conseguenze con una Italia ed una sinistra spostate a destra.
    Il dramma quindi è un dramma politico.
    Il secondo aspetto riguarda il tentativo di qualificare come criminali senza dignità Gallinari ed i brigatisti come lui, attraverso l’esercizio della retorica della “non violenza” e con paragoni falsificati con le lotte resistenziali.
    E’ verissimo che molti fatti compiuti fossero disumani, quelli da te citati e altri.
    Ma è sbagliato il teorema che li vuole criminali perché “…uccidere a sangue freddo persone, in nome di una qualunque ideologia, quello è e resta”, sottraendo al medesimo giudizio la lotta armata della Resistenza ed avvertendo che ogni paragone sarà trattato come oltraggio alla memoria.
    La Masini che ha solo responsabilità politiche può permettersi di imbracciare il bastone e mettere tutti in riga dalle colonne del Carlino di ieri, semplificando il paragone delle due lotte armate attraverso la elevazione di quella resistenziale a insurrezione di popolo.
    Tu no, per il tuo lavoro scientifico di storico specializzato nel periodo resistenziale che conosce bene i fatti ed ha scritto libri come “Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra. Reggio Emilia 1943-1945”.
    In esso tu descrivi con precisione come in un primo tempo c’era chi era contrario ad imbracciare la lotta armata e chi invece voleva un salto di qualità dell’antifascismo proprio attraverso l’innesco della violenza.
    Tu ben descrivi le difficoltà che incontrarono i dirigenti comunisti locali nel trovare le persone che andassero a colpire a sangue freddo, e quando ciò iniziò il primo caso successe davanti agli occhi della figlia della vittima. Per non parlare poi delle esecuzioni fra le proprie fila, come testimoniato da libri quali “Il Commissario” di Osvaldo Poppi, o dalle vicende riguardanti il comandante Facio.
    Inoltre per lunghi mesi la Resistenza non fu insurrezione popolare ma cospirazione. Fu una opzione alternativa e un riparo per i giovani che volevano sottrarsi all’arruolamento forzato e per i militari allo sbando.
    Ma fu anche gesto eclatante di “sicariaggio” ad opera di persone inquadrate nei GAP, corpi “scelti” della Resistenza, che rimandano ai corpi speciali di un esercito.
    Non possiamo trasformare e sterilizzare la storia cruda e reale in una favola retorica, quanto meno non lo puoi fare tu.
    Se vuoi puoi giudicare e condannare fatti, mezzi e persone, se credi puoi dividere la Resistenza in buona e cattiva, ma non puoi trasfigurare le cose ad uso di una propaganda moralizzante e normalizzatrice.
    Io Massimo non ti so dire se il fine viene o meno qualificato dal mezzo, se l’uccisione a freddo di uomini simbolo sia un assassinio o un atto di guerra.
    Però so che se i partigiani avessero perso, il potere che si sarebbe consolidato non gli avrebbe dato l’onore delle armi considerandoli combattenti di un esercito (già erano chiamati terroristi nella RSI) e sarebbe stato loro negato ogni valore di scopo per il quale combattevano, relegandoli a criminali sanguinari.
    Questo perché il giudizio del potere non è necessariamente la verità e non è neanche il giudizio della storia, ma può essere invece la propaganda di chi ha vinto.

    Prospero Gallinari ha perso la guerra che ha combattuto, ha ammesso di aver perso e ciò forse ha significato per lui aver capito l’errore tragico di averla intrapresa. Non ha abiurato scegliendo così la strada scomoda del non cercar sconti dal sistema che ha combattuto. Ha evitato di render pubblico il suo travaglio interiore e nulla ha fatto per scagionarsi dall’accusa più infamante di essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio Moro.
    Non ha cercato attenuanti nell’opinione pubblica attraverso il pietismo. Forse perché le contraddizioni erano troppo devastanti da dirimere o forse perché ha così rivendicato il suo ruolo di combattente.
    Tutto ciò non fa di lui un eroe, ma suscita rispetto anche nei suoi nemici, nonostante l’enormità dei suoi errori.
    Gallinari ha riconosciuto nel nemico Cossiga che li ha combattuti, l’unico che riconoscesse loro l’onore delle armi e, proprio perché consapevole e determinato antagonista, anche l’unico che poi operò per chiudere la guerra degli anni di piombo con la liberazione dei detenuti, al pari dell’amnistia di Togliatti dopo la Liberazione.
    Oggi, alla distanza di tanti anni dai fatti e dall’epilogo voluto da Cossiga, quale senso ha combattere e denigrare l’uomo Gallinari dopo aver combattuto e vinto il Gallinari politico e militare?
    E’ solo un eccesso di preoccupazione democratica o la polemica è utile per aprire una nuova ulteriore fase di revisione storica?
    Verso il brigatismo o verso la Resistenza? O verso una parte di quest’ultima?

    In quest’epoca maleodorante evitiamo di offrire ai giovani polpette sterilizzanti, volte a innestar loro una morale di plastica ed il controllo delle loro emozioni; parlando di brigatismo spieghiamo loro il valore ed il primato della democrazia.

  3. Dal Carlino del 20-1-2013, di MIKE SCULLIN

    DON DANIELE Simonazzi e don Ercole Artoni si sono incontrati per caso, ieri alle 11, fuori dalla camera ardente dov’era esposta la bara di Gallinari avvolta da un telo rosso, con sopra la falce e martello e la stella a cinque punte del comunismo. «Come mai qui?» si sono detti reciprocamente. Entrambi avevano validi motivi per esserci: don Artoni, il fondatore della comunità di recupero Giovanni XXIII, perchè Gallinari era stato suo parrocchiano e, quando l’ex br venne scarcerato, prese a frequentarlo con una certa assiduità; don Simonazzi, il cappellano dell’Opg, perchè Gallinari andava a cena da lui nella parrocchia che il sacerdote regge a Pratofontana. Don Daniele, sul registrato ha lasciato scritto con la sua firma: «Che Dio ti dia pace».
    E’ UN ASPETTO non irrilevante della «terza vita» di Gallinari – il ritorno alla normalità del lavoro, alla famiglia e all’impegno contro il mal di cuore dopo la lotta armata e il carcere – la frequentazione della religione cattolica e della religiosità, lui irriducibile comunista e quindi, si suppone, ateo. Un comunista – non sarà il primo nè l’ultimo – che deve aver sentito, perlomeno nell’ultima parte della sua esistenza, il richiamo della trascendenza.
    A RIVELARLO è don Artoni. «E’ stato mio parrocchiano – ha raccontato il sacerdote 82enne di cui, curioso destino, fece scalpore negli anni Ottanta la sua adesione politica al Pci – Io ho fatto la prima comunione a Prospero. La famiglia abitava nella parrocchia di Mancasale, poi si trasferì in San Prospero Strinati. Ricordo che l’arciprete mi avvertiva: quelle famiglie comuniste non vogliono la benedizione delle case. Io ci andavo lo stesso e avevano appesi nelle camere i quadri di Prampolini e Gesù Cristo». Quando Gallinari finì in carcere, il papà disse a don Artoni di non andarlo più a trovare, «non venga che rischia, non ci vuole più vedere nessuno, sembriamo dei lebbrosi», il prete ricorda così le parole di quel padre, «un uomo molto aperto».
    NATURALMENTE don Artoni continuò a frequentare la famiglia. E pure Prospero Gallinari, quando uscì dal carcere. Almeno tre volte uscirono insieme la sera a cena, «ricordo la prima volta, andammo a mangiare il pesce. In carcere lo avevo visitato due volte, gli avevo portato la Bibbia. E quando ci siamo rivisti, lui mi ha detto: ‘La sto leggendo, è interessante’». Chiediamo a don Artoni se pensa che Gallinari stesse per convertirsi. «Non lo so – risponde e poi rivela – Con me ha detto che aveva una relazione stupenda con Moro, quand’era suo carceriere Aveva grande stima di lui, diceva che era un uomo ricco, dialogante, profndo». E don Artoni – che va specificato, condanna «i mezzi usati» – è convinto che non solo non sia stato Gallinari a uccidere lo statista; ma che Gallinari fosse contrario alla sua uccisione: «Non me l’ha mai detto esplicitametne, ma me l’ha fatto capire. Ma ora non voglio forzare la volontà di chi è andato. Il fatto è che loro si sentivano in guerra».

I commenti sono chiusi.