“Ma il mito sono io”. Presentazione del volume di Laura Artioli, Roma, 21.9.2013

Presentazione a:

 

Laura Artioli, “Ma il mito sono io. Storia delle storie di Lucia Sarzi: il teatro, la Resistenza, la famiglia Cervi.” Aliberti Editore, Roma, 2012.

Palazzo Valentini, Roma, 21.9.2013

 

(testo provvisorio)

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MA_IL_MITO_SONO_IO_fronte_LOW.jpgNon è facile ricostruire-in breve tempo- un percorso ventennale che va dal 1922 al 1943, un percorso che, a differenza di una lettura “epica” che ci è stata proposta in passato, fu invece difficile, articolato e spesso contradditorio.

 

Per prima cosa definiamo l’ambito territoriale: quegli spazi di pianura emiliana-lombarda e piemontese, a cavallo del Po, dove più profonda era stata la penetrazione ideale del riformismo socialista di fine ottocento e dove più si era estesa la costruzione di un “contromondo” fatto di leghe sindacali, Camere del lavoro e Case del popolo. Il tutto sostenuto economicamente dall’organizzazione cooperativa che aveva accompagnato e sostenuto il lento processo di riscatto delle grandi masse bracciantili non solo verso condizioni di vita migliori ma anche verso il proprio ingresso nella pur incompleta cittadinanza, con l’acqusizione, attraverso l’alfabetizzazione e l’istruzione, del diritto di voto.

Un percorso lento e faticoso che culminava non nell’abbattimento delle strutture padronali ma nella conquista delle amministrazioni locali. Significativamente Reggio Emilia è il primo capoluogo di provincia ad avere un’amministrazione socialista eletta, nel dicembre 1899.

Nel giro di nemmeno vent’anni si era passati dai moti contadini del “La Boje” (che riprendevano i moti del macinato di quasi vent’anni prima) all’insediamento nei consigli comunali di maggioranze decise a cambiare, passo per passo ma dall’interno, quella società di diversi in una società di uguali. Un percorso di crescita dove, a fianco dell’affermazione crescente del movimento socialista (che agiva sulla scorta del dibattito già attivo in Francia, Germania e Belgio) trovavano spazi anche le prime organizzazioni cattoliche, nate sulla spinta della Rerum Novarum di Leone XIII ed anche, piccole per dimensioni ma dal non trascurabile influsso ideale, anche le prime comunità evangeliche.

Erano gli anni in cui si arrivò a “municipalizzare” i principali servizi  delle città padane, ancora immerse nella campagna. Acqua, gas, illuminazione ma anche farmacie e persino costruzione di linee ferroviarie (in forma cooperativa), dove lo stato, dopo la costruzione della linea Milano-Rimini, non era in grado di rispondere al bisogno di collegamenti per le prime strutture produttive protoindustriali che si stavano sviluppando nelle province.

 

Ma le pianure emiliane e lombarde a cavallo del Po furono anche la culla del fascismo quando, dopo la guerra, le borghesie agrarie si trovarono a fronteggiare non solo l’accresciuto bisogno di un nuovo ruolo sociale ed economico delle masse contadine che volevano vedere realizzate le promesse ricevute nelle trincee dopo la rotta di Caporetto, ma anche-e soprattutto-l’incubo della rivoluzione bolscevica che nel 1917 aveva travolto la Russia zarista e che stava sostituendo, soprattutto nelle masse giovanili, la progressività del processo riformista con il “tutto e subito” della rivoluzione fatta sule canne dei fucili.

La sconfitta del riformismo, già entrato in crisi alla vigilia del conflitto sulle guerre coloniali nazionali, fu anche, in quelle condizioni una crisi generazionale. Il crollo degli iscritti giovani, segnalato da Giovanni Zibordi nel 1921, ne era solo il segnale più evidente.

In quello scontro il fascismo, che fu creazione italiana, non dimentichiamolo, seppe anche introdurre un elemento devastante di modernità : l’uso della violenza nel conflitto politico, un portato decisivo della I guerra mondiale che fu, a tutti gli effetti, la vera incubatrice di tutti gli-ismi (fascismo, nazismo, comunismo) che hanno devastato l’Europa nel secolo scorso.

La vittoria del fascismo in queste terre fu inaspettatamente (per gli stessi fascisti) rapida e definitiva. Di fronte alla violenza delle squadre fasciste l’organizzazione trentennale riformista andò rapidamente in pezzi. L’analisi sulla novità-fascismo, ancora di Zibordi nel 1922, non si tradusse in azione politica. La divisione interna del partito, ulteriormente indebolito dalla nascita nel 1921 del PcdI, il rifiuto (culturale prima ancora che politico) ad utilizzare la medesima violenza dell’avversario e la frattura nel fronte antifascista impedirono la costruzione di una resistenza di fronte all’attacco squadrista e al collaborazionismo delle strutture dello stato liberale.

 

L’antifascismo socialista sconfitto scelse la via dell’esilio (il caso della comunità reggiana ad Argenteuil ne è l’esempio più concreto) o quella del silenzio e del ritiro.

La crisi  del riformismo si tradusse proprio, negli anni, in un passaggio generazionale sul fronte dell’opposizione al regime che si andava affermando dopo le Leggi speciali del 1925. Alla generazione sconfitta dei padri lentamente e faticosamente iniziò a sostituirsi quella dei figli che trovarono, inevitabilmente, nel partito comunista clandestino l’unico luogo ove iniziare il proprio percorso di formazione.

Ma non fu un passaggio facile si trattò di una rottura spesso drammatica, tanto più difficile in territori dove le figure di riformisti come Camillo Prampolini avevano assunto valenze non solo politiche ma quasi mitiche e messianiche. Il riformismo diventava, per il movimento comunista, uno dei nemici da combattere, dopo il”tradimento” operato che aveva spalancato le porte ai fascisti.

Il tutto calato in una società rurale che il regime cercava di ricondurre nuovamente ad un controllo completo da parte delle classi proprietarie con la progressiva cancellazione di tutte le conquiste che erano maturate nel “biennio rosso” del 1919-1920.

L’antifascismo si ricostruisce nelle campagne, sotto la nuova prospettiva comunista che trova però proprio nella storia di quei territori sia un elemento di forza che di contraddizione. In province dove l’industrializzazione era ancora agli albori (le Reggiane nascono solo nel 1903 e solo dopo la prima guerra mondiale assumono dimensioni rilevanti) sono i contadini ad organizzare un’azione politica di resistenza, fatta di diffusione di stampa clandestina, di aiuto ai compagni incarcerati o al confino (il “Soccorso rosso”).

E’ comprensibile e significativo, rileggendo la relazione di Teresa Noce “Estella” nel 1932 sulla sua lunga permanenza in quelle campagne emiliane, la sorpresa e quasi lo sconcerto dei dirigenti comunisti in esilio a Parigi di fronte alla situazione politica trovata. Una provincia, quella reggiana, dove gli iscritti al Pci clandestino, erano oltre un migliaio, un terzo di tutta la Regione e la federazione (clandestina) di Reggio la prima in Italia. Una relazione, quella di “Estella” che sarà poi attentamente valutata e commentata da Togliatti e che sarà una delle “fonti” per il suo discorso “Ceti medi ed Emilia rossa”, tenuto a Reggio nel settembre 1946.

Ma era un  partito clandestino quasi “di massa”, fatto di contadini (in gran parte), poco avvezzo alle regole della clandestinità e dove rimanevano aperte le porte a quelli che erano stati i giovani di Prampolini. Un Partito comunista dove la egemone classe operaia aveva ben poco ruolo e dove la socialdemocrazia non era uno dei nemici da sconfiggere ma una fase ormai trascorsa da superare.

Un Pci poco incline alla clandestinità e che per questo, pur continuando la crescita diffusiva favorita anche dalla crisi economica degli anni ‘30, venne colpito ripetutamente dagli apparati repressivi fascisti. Nei 17 anni di attività del Tribunale speciale per la difesa dello Stato furono 214 i reggiani condannati, 206 quelli inviati al confino, 260 gli ammoniti, 196 i vigilati, nella quasi totalità comunisti. La grande fabbrica Omi Reggiane, militarizzata dal 1937 con l’avvio della produzione aeronautica, fu periodicamente colpita da retate poliziesche, l’ultima delle quali proprio nella primavera 1943, a pochi mesi dalla caduta del regime.

 

In questo contesto Lucia Sarzi si muove fino all’incontro con i Cervi in quell’autunno 1941, quando a pochi chilometri da Campegine le donne di Cadelbosco svolsero la prima manifestazione di aperto dissenso contro la guerra e la mancanza di generi di prima necessità.

 

Guerrino Franzini, autore della fondamentale “Storia della Resistenza a Reggio Emilia” (1967), inizia la sua monumentale ricostruzione con una frase significativa: “La Resistenza non nacque armata dal cervello di Giove”, ma, aggiungo, fu un processo lento, doloroso e difficile, come la vicenda dei Cervi e di don Pasquino e dei suoi testimoniano drammaticamente.

Non fu facile, infatti, la transizione fra quell’antifascismo guidato dal Pci, antifascismo politico, fatto di diffusione di stampa clandestina, di aiuto alle famiglie dei carcerati, di riunioni politiche di formazione di piccolissimi gruppi, sempre agite nell’ossessione della presenza di spie ed infiltrati, a quello che la nuova situazione dopo l’8 settembre richiedeva: la lotta armata.

E se la decisione di passare alla nuova fase (con la costituzione dei cosiddetti “Gruppi sportivi”) fu immediata (con la riunione alle Scampate di Quattro Castella già il 9 settembre), la realizzazione del progetto richiese tempi bel più lunghi.

Nelle stesse settimane in cui si compiva la vicenda politica e umana dei Cervi, venne inviato a Reggio l’Ispettore “Berto” che si dovette confrontare, dieci anni dopo, con una situazione non troppo diversa da quella incontrata da “Estella”.

La lotta armata stentava ad iniziare (il primo attentato fu compiuto solo il 15 dicembre), nella grande fabbrica in primo luogo, mentre era nelle campagne che si potevano ritrovare i primi segnali concreti di una volontà di azione, come i Cervi avevano confermato seppur con troppo anticipo sulle reali condizioni di lotta e con modalità e obiettivi non del tutto coincidenti con quelle del partito.

Dopo quella visita ispettiva furono avvicendati i vertici del Pci reggiano, sostituendo figure che poi nel corso della Resistenza avrebbero svolto, altrove, ruoli decisivi come Osvaldo Poppi “Davide” e Sante Vincenzi, ma che in quel difficile contesto non erano riusciti a mettere a sistema il disperso reticolo clandestino che era sopravissuto per tutti gli anni trenta e dopo lo scoppio della guerra.

Solo con gli inizi del 1944, con i primi gruppi reggiani e modenesi sugli appennini e la grande fuga dei giovani in maggio per evitare bandi di arruolamento inizierà a svilupparsi, anche grazie alla collaborazione alleata, il movimento partigiano che riuscirà a radicarsi così profondamente nell’esperienza popolare da riuscire a diffondersi anche nelle terre dei Cervi, terre di pianura e, secondo logica, le più inadatte ad una lotta clandestina.

Ma questa, come si dice, è un’altra storia…

“Ma il mito sono io”. Presentazione del volume di Laura Artioli, Roma, 21.9.2013ultima modifica: 2013-09-26T15:21:00+02:00da pelikan-55
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