Perché ha vinto l’Italia di Matteo (Salvini) di Guido Moltedo

Negli ultimi giorni, prima del referendum, il mio vecchio amico e compagno Samir mi ha tempestato via whatsapp di immagini e video in un crescendo di scherno anti-renziano. Che votasse no e che pensasse che anch’io votassi no, ok, ma che pensasse di poter condividere con me un servizio tv del fascio-leghista Gianluigi Paragone, solo perché antirenziano, be’ mi è sembrato un po’ troppo. Specie, poi, quando l’ho visto, quel servizio tv. E sì, era la solita storia della JP Morgan, la grande banca d’affari, “la vera autrice della riforma costituzionale renziana”. Sì la banca della plutocrazia (mondiale ebraica), come diceva il sottotesto, non dichiarato ma neppure tanto.

Caro Samir, so che hai avversato con limpida convinzione la riforma bocciata, anche con la rabbia di chi immagina Renzi come un pupazzo in una rete internazionale di poteri forti, gli stessi che, dal tuo punto di vista, danno sostegno a Israele contro il tuo popolo. In quest’idea ti sei trovato in numerosa e variegata compagnia. La storia della JP Morgan e dei poteri forti è stata uno dei Leitmotiv della campagna del no, inclusi i suoi evidenti brutti non detti. D’Alema ci ha molto insistito su, anche insinuando incongruamente un’amicizia di Renzi con Benjamin Netanyahu, e perfino facendo sapere in giro, con nonchalance, che dietro Matteo c’è il Mossad.

Pure questo è servito per mandare a casa il premier. Ma, caro Samir, devi sapere che la causa dei popoli oppressi, come il tuo, non conviene consegnarla alla cricca Salvini-Berlusconi-Grillo-Casa Pound, i veri vincitori del referendum uniti dal comune odio verso gli oppressi, specie quelli in fuga da altri paesi, Medio Oriente e Africa.

Su questo hanno costruito la loro vittoria. Sulla paura. Sull’avversione agli immigrati. Sulcombinato disposto, questo sì, vero, di crisi economico-sociale e immigrati.

In un tweet nella notte dei risultati referendari, il politologo americano Chris Cillizza riassumeva così il senso dclle notizie provenienti dall’Italia. Trumpism is everywhere. Il trumpismo è ovunque.

Il trumpismo è americano e l’America influenza il mondo, ma dell’attuale versione italiana del trumpismo parte importante è il precursore riconosciuto di Trump, il Cavaliere. A esso s’aggiungono un pezzo rinnovato della prima coalizione berlusconiana (Salvini che salda il leghismo estremista con il neofascismo) e il movimento 5 Stelle. Una coalizione populista che non aveva certo bisogno di The Donald per mettersi in luce, ma che grazie alla concomitanza con l’avvento di Trump trova triste notorietà oltre confine, come parte di un movimento euro-americano e non solo, teso a imporre un nuovo ordine mondiale fondato sul ritorno alla superiorità e all’egemonia dell’uomo bianco, messe in discussione dalla rivoluzione demografica globale unita a una trasformazione economica anch’essa globale che corrode i tradizionali fondamenti della prosperità medio-borghese occidentale.

Che ci possano riuscire, queste forze reazionarie, è da vedere. Ma che questo tentativo sia in atto, è sotto gli occhi di tutti. Anche in Italia.

Alla globalizzazione reagisce insomma un fronte nazionalista internazionalista che intende portare indietro le lancette dell’orologio della storia, con la demagogia e la manipolazione.

I dati dell’affluenza al referendum di domenica ci parlano di una grande mobilitazione popolare, che con il merito della consultazione aveva poco a che fare, e quel poco era anche subalterno alla voglia di dare una sberla al governo e al suo presidente, che non ferma gli immigrati e neppure la disoccupazione.

Se fosse andata secondo le aspettative, se cioè ci fosse stata un’affluenza ben minore con un risultato vicino al pareggio, la quota di elettorato di sinistra avrebbe potuto essere l’ago della bilancia e giustamente rivendicare il peso dei suoi voti per far vincere il no. L’esito dice invece che la componente di sinistra è stata del tutto ininfluente ai fini del successo del no, un no a valanga giustamente rivendicato da grillini, Salvini e Berlusconi, su una piattaforma di avversione alle politiche del governo, proprio quelle più sociali e aperte.

In un contesto così, che adesso appare più chiaro, in cui si stagliano più nitide le ragioni di uno scontento e di una paura diffuse che hanno fatto da carburante della rivolta elettorale, Matteo Renzi ha compiuto un errore di portata strategica, avventurandosi su un terreno di scontro del tutto a lui socialmente sfavorevole e in un momento sfavorevole, un terreno sul quale avrebbero avuto buon gioco le forze della destra e della demagogia. Una battaglia persa in partenza.

Il quaranta per cento del sì, conquistato grazie al sostegno di Emilia e Toscana, fotografa un perimetro elettorale che nessuno nel centrosinistra è mai riuscito a espandere, vincendo, quando ha vinto, grazie alle divisioni nel fronte avverso, sia nelle consultazioni nazionali sia in molte consultazioni locali. Renzi si era illuso di avere il piglio e la popolarità personale per andare oltre quel recinto, prendendo voti nel campo avverso in nome di un rinnovamento del paese. Molti degli elettori da conquistare, non a torto, hanno interpretato la linea di  Renzi come un’apertura al mondo, alle interrelazioni, agli scambi, quando l’aria che tira è invece quella della chiusura, del ritorno al protezionismo, perfino all’autarchia, come predica Trump. È l’aria dei muri. Della flotta a cui va dato ordine di bloccare i natanti dei profughi, anche sparando.

I tempi sono quelli dell’altro Matteo, di Salvini, non di Renzi. Adesso è chiaro, ma da un talento come Renzi ci si sarebbe aspettati che l’avesse capito prima lui degli altri, e non si fosse buttato in una prova elettorale che, in ogni caso, era l’equivalente di un voto di medio termine e, dunque, per definizione sfavorevole al governo.

Poteva andare in modo diverso se avesse affrontato diversamente la partita? Sulla sua conduzione personalista e solitaria sono piovute critiche e improperi. La dimensione della sconfitta fa pensare che in ogni caso non sarebbe andata diversamente in modo significativo.

Certo, all’errore strategico della battaglia referendaria s’aggiunge quello di aver impegnato gran parte delle risorse in un confronto tutto interno al suo partito, come se l’esito del referendum dipendesse dal regolamento di conti con D’Alema e Bersani, quando tutte le energie avrebbero dovuto essere impiegate fuori del partito, contro Grillo, Salvini e Berlusconi, con nessuno dei quali peraltro ha sostenuto un confronto televisivo (furbescamente si sono sottratti lasciando che si dilaniassero a sinistra). Lo scontro nel Pd è stato ovviamente dilatato dai media, a tutto vantaggio dei più temibili avversari di Renzi.

Adesso che Matteo è ko, i “vincitori” interni del Pd devono spiegare agli elettori del centrosinistra le ragioni politiche più di fondo della loro opposizione, non tanto al referendum, ovviamente legittima. Devono piuttosto dar contro della loro persistente critica a ogni atto e azione del governo Renzi, un’avversione intransigente e incessante – in una fase estremamente delicata per il nostro paese – che si è sommata a quella dell’opposizione parlamentare del centrodestra e grillina. Mai si era visto un presidente del consiglio del centrosinistra – l’unico governo di centrosinistra rimasto in piedi in Europa – così sistematicamente preso di mira da una parte consistente del suo stesso partito, capeggiata da due ex-segretari del partito stesso.

Una guerra civile che adesso rende difficile, se non impossibile, la ricostruzione di un senso di direzione condiviso. E questa è la vera sconfitta.

https://ytali.com/2016/12/05/perche-ha-vinto-litalia-di-matteo-salvini/

Perché ha vinto l’Italia di Matteo (Salvini) di Guido Moltedoultima modifica: 2016-12-06T10:15:56+01:00da pelikan-55
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