Grazie ai miei 25 lettori (forse qualcuno in più..)!

NUMERI.jpgPreso da mania classificatorie e quantitativa ho voluto verificare i dati di accesso e lettura a questo modesto blog quasi montano. Il bello di questi nuovi strumenti di comunicazione è che sono impietosamente precisi, redigono statistiche complesse e dettagliate.

Ho compulsato le tabelle, sommato i numerini, diviso, calcolato e sono rimasto davvero sorpreso. Ho ricalcolato e ri-compulsato. Niente. I dati restano quelli. Pare che i miei 25 lettori siano qualcuno in più.

Per l’esattezza negli scorsi 12 mesi Fortezza Bastiani ha avuto 64.206 visite per un totale di 169.644 pagine lette. Con una media di 5350 visite/mese e 14.137 pagine lette/mese.

Che dire? Grazie a tutti gli amici, conoscenti, seguaci, ignoti apprezzatori e disprezzatori, la cosa mi riempie ovviamente di egoistica soddisfazione. Magari rifletto sul disagio diffuso socio-culturale (se tante persone si riducono a leggere queste “bagatelle” sparse), ma poi ripenso al buon vecchio Oscar Wilde (“Se mi esamino sono perplesso, se mi confronto esulto”) e quindi tirerò avanti, anche se il periodo non è certo dei migliori per nessuno.

Quindi ancora un “grazie” per la paziente attenzione e appuntamento alla prossima “bagatella”!

Sabato 10 Rai Radio 3

Sabato 10 ore 10,50 RADIO 3 RAI Rubrica “Passioni”. Intervista a Massimo Storchi (Resp.scientifico Polo Archivistico) e Alessandro di Nuzzo (Dir.Editoriale Aliberti) sulla storia e la cultura a Reggio Emilia.

Per gli appassionati disponibile in podcast sul sito Radio 3 da Lunedì.

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http://edicola.linformazione.com/archivio//20111209/43_RE0912.pdf

L’emergenza e il rispetto della carta (Ugo de Siervo)

La formazione del Governo presieduto da Monti e la larghissima fiducia che ha conseguito in Parlamento hanno suscitato un dibattito sulle caratteristiche costituzionali di ciò che è avvenuto.
Dal punto di vista del nostro sistema costituzionale non è mutato nulla di sostanziale: siamo dinanzi ad un Governo di tipo parlamentare, che ha conseguito una ampia fiducia dalle due Camere e che è sorto dopo le dimissioni volontarie del precedente Governo, evidentemente consapevole di essere inadeguato dinanzi alle dure prove che attendono il nostro Paese, anche in relazione ai confronti che si svolgono a livello europeo. Certo, vi è stato un palese impegno del Presidente della Repubblica ad evitare le elezioni anticipate, che avrebbero prodotto un pericoloso vuoto di potere in una fase non poco convulsa; così pure vi è stata una manifesta indicazione da parte del Presidente della persona di Monti come presidente del Consiglio, evidentemente ritenuto decisamente preferibile, nell’attuale contingenza, per le sue qualità professionali.

Nulla di straordinario, anzi è quasi da manuale la situazione attuale per illustrare il ruolo impegnativo a cui può essere chiamato ad operare un Presidente di una Repubblica parlamentare in situazioni difficili, se non eccezionali: più i partiti politici ed i gruppi parlamentari di maggioranza si dimostrano impotenti dinanzi a grandi ed impellenti situazioni di crisi, più il Presidente della Repubblica deve contribuire ad aiutare il sistema parlamentare a trovare vie d’uscita.

Vie d’uscita condivise e capaci di far superare le difficoltà, anche attingendo – ove occorra – al patrimonio di personalità estranee alle dirette responsabilità parlamentari. Né una scelta del genere potrebbe essere negata in nome del rispetto degli esiti delle ultime elezioni, ormai lontanissimi e contraddetti dal progressivo e pubblico disfacimento del largo schieramento maggioritario allora esistente, nonché dalla dimostrata inadeguatezza del Governo dimissionario ad operare in modo efficace sul piano della crisi finanziaria. Il punto fermo è che l’azione del Presidente della Repubblica deve essere fatta propria dal sistema parlamentare attraverso il conferimento della fiducia al nuovo Governo.

Quindi ciò che è avvenuto non è altro che una (pur impegnativa) applicazione della relativa elasticità della forma di governo quale opportunamente configurata dalla nostra Costituzione: le buone Costituzioni non devono, infatti, prevedere un particolareggiato sistema di rapporti giuridici fra i vari organi rappresentativi sulla base del sistema politico esistente in un dato momento; al contrario, tenendo conto della inevitabile e continua mutabilità dei sistemi politici e partitici, devono permettere di far funzionare al meglio il sistema parlamentare attraverso le tante diverse fasi. D’altra parte, occorre ancora un volta ripetere che non ogni problema che si manifesti nel funzionamento delle nostre istituzioni può essere risolto pensando a ipotetiche riforme costituzionali (che potrebbero essere improvvisate e quindi pericolose, come dovrebbe insegnarci l’esperienza degli ultimi anni), allorché potrebbe largamente bastare un miglior funzionamento del nostro sistema politico.

Occorre quindi anche assolutamente evitare di parlare di Parlamento «commissariato» dal Presidente della Repubblica, se la grande maggioranza dei nostri parlamentari ha liberamente dato la fiducia al nuovo Governo, evidentemente nella speranza che possa riuscire ad eliminare o almeno a ridurre la situazione di grave difficoltà nella quale siamo.

Certo, c’è una evidente anomalia nel fatto che quasi tutti i componenti del Governo Monti si caratterizzino per le loro professionalità e non, invece, per la loro adesione ai movimenti politici che hanno espresso la fiducia. Ma qui pesa evidentemente l’eredità delle forti contrapposizioni che esistevano intorno al precedente Governo ed il conseguente rifiuto di passare ad una compagine governativa in cui potessero lavorare insieme esponenti politici che si erano tanto a lungo duramente contrapposti; quest’ultima scelta non ha certo resa più semplice la prossima vita del nuovo Governo, che dovrà impegnarsi molto per instaurare e mantenere buoni rapporti con i diversi gruppi parlamentari che hanno dato la fiducia, ma che restano non poco estranei alle concrete determinazioni governative. Ma il Governo ha però dalla sua la situazione del rilevante stato di necessità nel quale si opera, che diventerà argomento forte per ridurre le contrapposizioni, più o meno strumentali, fra i gruppi parlamentari ed il Governo.

Semmai l’esistenza di un Governo caratterizzato dalla presenza di tanti tecnici e specialisti e sul quale si fa tanto affidamento, dovrebbe rendere consapevoli i dirigenti dei diversi partiti che nelle loro organizzazioni gli specialisti sembrano invece mancare o contare troppo poco; ma soprattutto questi dirigenti politici dovrebbero essere consapevoli che negli attuali partiti sono rari coloro che sono riconosciuti come capaci di porre al vertice gli interessi generali e che di conseguenza – ove ve ne sia la necessità – sono assolutamente determinati a farli prevalere su tutti gli altri interessi.

La Stampa, 1.12.2011

Mancuso: il primato della coscienza contro la chiesa dell’Obbedienzatolo del post

 
jpg_2160012.jpgE’ un libro che farà discutere il nuovo saggio di Vito Mancuso, “Io e Dio” (Garzanti), dove lo studioso sostiene la libertà del credente verso i dogmi. Il passo decisivo è il rifiuto di un Dio che comanda, giudica, condanna esercitando un potere esterno.

di Gustavo Zagrebelsky, Repubblica, 9 settembre 2011

Su questo libro non mancheranno discussioni e polemiche. Che sia ignorato è impossibile, se non altro perché esprime intelligenza e sensibilità che è di molti nel mondo cattolico, più di quanti si palesino. Le sue tesi si sviluppano dall’interno del messaggio cristiano, della “buona novella”. Vito Mancuso, che tenacemente si professa cattolico, cerca il confronto, un confronto non facile. Lui si considera “dentro”; ma l’ortodossia lo colloca “fuori”. Tutto si svolge con rispetto, ma l’accusa mossa al discorso ch’egli va svolgendo da tempo è radicale. La sua sarebbe, negli esiti, una teologia confortevole e consolatoria, segno di tempi permissivi, relativisti e ostili alle durezze della verità cristiana; nelle premesse, sarebbe la riproposizione di un, nella storia del cristianesimo, mai sopito spirito gnostico. Uno “gnostico à la page”?

Il motivo conduttore del libro Io e Dio (Garzanti) è il primato della coscienza e dell’autenticità sulla gerarchia e sulla tradizione, nei discorsi sul “divino”. Siamo nel campo della “teologia fondamentale”, cioè dell’atteggiamento verso a ciò che chiamiamo Dio e delle “vie” e dei mezzi per conoscerlo: in breve, delle ragioni a priori della fede religiosa. Ma, la teologia fondamentale è la base di ogni altra teologia. La teologia morale, in particolare, riguarda l’agire giusto, ovunque la presenza di Dio possa essere rilevante: la politica, l’economia, la cultura, il tempo libero, l’amore e la sessualità, la scienza… La teologia aspira alla totalità della vita. Si comprende così la portata del rovesciamento, dall’autorità che vincola alla coscienza che libera. Quella di Mancuso vuole essere, tanto nel conoscere quanto nell’agire, una teologia liberante, non opprimente. Le sue categorie non sono il divieto, il peccato e la pena, ma la libertà, la responsabilità e la felicità. Sullo sfondo, non c’è il terrore dell’inferno ma la chiamata alla vita buona.

Il passo decisivo è forse il rigetto dell’idea di un dio come “persona”: un Dio che comanda, giudica, condanna, cioè esercita un potere esterno, assoluto e irresistibile. Il sacrificio di Isacco (Dio ordina ad Abramo di sgozzare il figlio, vittima sacrificale; Abramo non obbietta; Dio all’ultimo ferma il coltello) è di solito presentato come esempio di fede perfetta, ma Mancuso ne prova disgusto, sia per l’immagine d’un dio spietato (la mano omicida, comunque, viene trattenuta in tempo), sia per la disumanità d’un padre capace di tanto delitto. Quel padre, però, è immagine della perfetta fedeltà al “divino”, lodata nei secoli da una tradizione in cui fede e violenza si danno facilmente la mano. Quando poi sulla parola di Dio (il “Dio lo vuole”) si crea il potere d’una chiesa, la violenza sulle coscienze è sempre di nuovo possibile da parte di “uomini di Dio”. La perfezione cristiana per Ignazio di Loyola – se vedo bianco e la Chiesa dice nero, è nero – nasce da una concezione del divino che, invece di ravvivare, spegne.

«Il mio assoluto, il mio dio, ciò che presiede la mia vita, non è nulla di esterno a me», dice Mancuso. Vuol dire che è dentro di me, nel senso ch’io sono dio per me stesso? Per nulla. «Credendo in Dio, io non credo all’esistenza di un ente separato da qualche parte là in alto; credo piuttosto a una dimensione dell’essere più profonda di ciò che appare in superficie […], capace di contenere la nostra interiorità e di produrre già ora energia vitale più preziosa, perché quando l’attingiamo ne ricaviamo luce, forza, voglia di vivere, desiderio di onestà. Per me affermare l’esistenza di Dio significa credere che questa dimensione, invisibile agli occhi, ma essenziale al cuore, esista, e sia la casa della giustizia, del bene, della bellezza perfetta, della definitiva realtà». Credere in Dio, allora, non è lo “status del credente”; non è dire: “Signore, Signore” a un deus ex machina che ci salva dai pericoli – qui Mancuso è Bonhöffer –. È agire per colmare lo scarto tra il mondo, così com’è, e la sua perfezione, alla cui realizzazione la fede chiama i credenti. Con un’espressione di Teilhard de Chardin, credere è amouriser le monde. È un modo di ridire le parole di Gesù che chiama i suoi discepoli a essere “sale della terra” Si può essere sale sacrificando la libertà? Al più, si può essere soldati di Cristo.

Questa teologia è insieme gioiosa e tragica: gioiosa perché indica, come senso della vita, il bene – sintesi di giustizia, verità e bellezza –; tragica, perché è consapevole dell’enormità del compito. Dice Mancuso: «Conosco il dramma e talora la tragedia che spesso attraversa il mestiere di vivere. Per questo io definisco il mio sentimento della vita come “ottimismo drammatico’”: vivo cioè nella convinzione fondamentale di far parte di un senso di armonia, di bene, di razionalità, e per questo parlo di ottimismo, ma sono altresì convinto che tale armonia si compie solo in modo drammatico, cioè lottando e soffrendo all’interno di un processo da cui non è assente il negativo e l’assurdo». È questa un’accomodante e confortevole giustificazione delle coscienze, l’autorizzazione alla creazione di “dei di comodo”? Per nulla. Al contrario, è un appello al rigore morale come risposta onesta, autentica, al senso del divino che sta nell’essere umano. Ma qui viene la seconda accusa: gnosticismo.

La teologia di Mancuso sarebbe una riedizione dell’orgoglio di chi si considera “illuminato” da una grazia particolare che lo solleva dalla bruta materia e lo introduce al mondo dello spirito e alla conoscenza delle verità ultime, nascoste agli uomini semplici. La Chiesa ha sempre combattuto la gnosi come eresia, peccato d’orgoglio luciferino. Nelle pagine di Mancuso non mancano argomenti per replicare. Dappertutto s’insiste sull’intrico di materia e spirito e sulla loro appartenenza a quella realtà (che aspira a diventare) buona, cioè vera, giusta e bella, che chiamiamo creazione o azione che va creando. Se mai, il dubbio che potrebbe porsi è se, in quest’unione, non vi sia una venatura panteista: Dio come natura. Punto, probabilmente, da approfondire.

Dal rigetto del dualismo materia-spirito, deriva il rifiuto d’una fede di élite ,contrapposta alla fede di massa. Certo, se il turismo religioso del nostro tempo si scambia per manifestazione di fede, si può pensare che la seria introspezione di coscienza che chiama al vero, bello e giusto sia cosa per pochi. Questa tensione è il carattere della moltitudine degli “uomini di onesto sentire” (gli ánthropoi eudokías dell’angelo che annuncia ai pastori la nascita di Gesù, in Lc 2, 14). La teologia di Mancuso non è affatto da accademia, per pochi iniziati. Il suo libro, al contrario, distrugge il pregiudizio che la teologia sia questione astrusa, per ciò stesso riservata a una cerchia di iniziati, sospetti di astruseria, fumisteria, esoterismo, presunzione. Parliamo di quei teologi che costruiscono sul nulla, a partire da cose inconoscibili, immense cattedrali di pensieri che si arrampicano gli uni sugli altri fino ad altezze inarrivabili, oltre le quali essi stessi, presi dalla vertigine, cercano la salvezza si rifugiano nel mistero. Al contrario, se c’è una materia che dev’essere aperta a tutti, secondo coscienza, questa è la teologia.

Nella “vita buona” di Mancuso, il primato è della coscienza; nella “vita buona” della Chiesa il primato è dell’ubbidienza. Libertà contro autorità: una dialettica vecchia come il mondo. Scambiare la libertà di coscienza con la gnosi è un artificio retorico. Vale per persistere nell’accantonare i molti problematici aspetti della vita della Chiesa impostati su dogmi e gerarchia. Non solo: rende difficile il rapporto con i credenti di altre fedi, religiose e non. Riporta in auge il prepotente principio extra Ecclesiam nulla salus. La teologia di Mancuso consentirebbe di tracciare nuovi e sorprendenti confini, non più basati sull’obbedienza e sulla disciplina. Così, si scoprirebbe forse che molti, che si dicono dentro, sono fuori; e molti, che si dicono fuori, sono dentro. “Dentro” vuol dire: in una comune tensione verso quel logos del mondo che è la giustizia, appannaggio di nessuno e compito dei molti “di onesto sentire”, secondo l’insegnamento di G. E. Lessing, l’Autore di Nathan il saggio, al quale Mancuso di frequente ricorre.

Ora, si tratta del passo ulteriore: la “teologia sistematica”, cioè la rilettura d’insieme del messaggio cristiano alla stregua di queste premesse. Dimostrare che una tale rilettura sia possibile è la sfida che Mancuso, con questo libro, dichiara di accettare.

Quasi ritornato..

Lo so che per i miei 25 lettori è stata dura la mia assenza. Ma le ferie sono ferie e le Dolomiti, Dolomiti. Del resto non è successo nulla, o quali: l’Italia è quasi fallita, il vecchio suino è ancora lì (anche se nascosto sotto un tavolo da qualche parte), i vecchi bonzi della sinistra se le sgodacchiano come prima, il concerto del mio dirimpettaio è stato un trionfo.
Tutto bene. Io mi godo ancora un giorno di fresco dall’alto di Fortezza Bastiani. Domani mi unirò a una delle carovane che scendono in pianura, bello fresco, ritemprato e pronto alla pugna…

Intanto, grazie Reggio!

Scrivo ad urne ancora aperte. Vedremo. Noto però due cose: una buona, l’altra un po’ meno.

La prima: Reggio ieri è stata la prima per affluenza (54,6%), come a dire: quando ci si deve muovere noi ci siamo. Saranno i comunisti, saranno i temporali ma siamo andati a votare in maniera compatta. Sarebbe bello che chi ci amministra anche in sede locale si ricordasse più spesso del patrimonio umano-politico costituito dai nostri concittadini e, anzichè continuare a menarsela con giochi, giochini e giochetti, desse spazio alle “risorse umane” disponibili, ascoltando, lasciando perdere l’atteggiamento di superiorità spocchiosa che spesso ci troviamo di fronte in tante cose della nostra vita di cittadini.

La seconda (ma è una bubboletta in una giornata come questa): conosciamo bene la “sindrome del convertito”, che spinge a trasformare il soggetto in uno scatenato promoter dell’idea che aveva avversato fino a due settimane prima. Succede. Però. Devo dire che Magdi Cristiano Allam sta superando la resistenza alla frantumazione dei miei poveri cabasisi: passi che si sia voluto ribattezzare Cristiano, passi che sia diventato più silviano di Silvio ma che ci ammannisca lezioncine su tutto e di più…Oggi su Il Giornale (un quotidiano che deve aver scelto quel titolo per convincerci di cosa sia..) rimprovera il povero Napo perchè, dando l’esempio, ha confermato che il voto sia un “dovere” morale come la Costituzione sancisce. Il pezzullo si salda con articolini dei giorni scorsi contro i rom e il buonismo dei cattolici (quelli antichi, un po’ comunisti, mica buoni elucide come lui..) e cosette simili. Ci vuol pazienza, che dire?

Annozero (Massimo Gramellini)

Ieri in Italia sono finiti gli Anni Ottanta. Raramente nella storia umana un decennio era durato così a lungo. Gli Anni Ottanta sono stati gli anni della mia giovinezza, perciò nutro nei loro confronti un dissenso venato di nostalgia. Nacquero come reazione alla violenza politica e ai deliri dell’ideologia comunista. L’individuo prese il posto del collettivo, il privato del pubblico, il giubbotto dell’eskimo, la discoteca dell’assemblea, il divertimento dell’impegno. La tv commerciale – luccicante, perbenista e trasgressiva, ma soprattutto volgarmente liberatoria – ne divenne il simbolo, Milano la capitale e Silvio Berlusconi l’icona, l’utopia realizzata. Nel pantheon dei valori supremi l’uguaglianza cedette il passo alla libertà, intesa come diritto di fare i propri comodi al di fuori di ogni regola, perché solo da questo egoismo vitale sarebbe potuto sorgere il benessere.

Purtroppo anche il consumismo si è rivelato un sogno avvelenato. Lasciato ai propri impulsi selvaggi, ha arricchito pochi privilegiati ma sta impoverendo tutti gli altri: e un consumismo senza consumatori è destinato prima o poi a implodere. Il cuore del mondo ha cominciato a battere altrove, la sobrietà e l’ambientalismo a sussurrare nuove parole d’ordine, eppure in questo lenzuolo d’Europa restavamo aggrappati a un ricordo sbiadito. La scelta di sfidare il Duemila con un uomo degli Anni Ottanta era un modo inconscio di fermare il tempo. Ma ora è proprio finita. Mi giro un’ultima volta a salutare i miei vent’anni. Da oggi si guarda avanti. Che paura. Che meraviglia.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=41

Presentazione di “Question Time. Cos’è l’Italia?”

Cover_Blog.jpgMARTEDI’ 31 MAGGIO ORE 18

LIBRERIA ALL’ARCO

PRESENTAZIONE DI

MASSIMO STORCHI

QUESTION TIME. COS’E’ L’ITALIA.

CENTO DOMANDE  (E RISPOSTE) SULLA STORIA DEL BELPAESE.

Aliberti Editore 2011

 

Partecipano all’incontro con l’autore
MIRCO CARRATTIERI
Presidente Istoreco
e
“FOGLIAZZA”
Autore satirico

Se i miei 25 lettori vorranno farsi vivi sono previsti ricchi premi e cotillons…

Intervista all’autore:

http://reggio24ore.netribe.it/reggio24ore/Sezione.jsp?titolo=Le+cento+risposte+di+Storchi+sulla+storia+d%27Italia&idSezione=25507