Question time. Cos’è l’Italia

Cover_Blog.jpgMa che paese è questo?

Un libro nasce spesso da un altro libro e così è anche per questo Question time. Cos’è l’Italia, che trae le sue origini dal saggio “Il sangue dei vincitori” uscito nel 2008. Un libro che mi ha regalato un’esperienza umana e professionale straordinaria con le oltre 50 presentazioni (per l’esattezza 58) tenute in giro per l’Italia del centro-nord nel corso di un biennio.
Certamente il ricordo di sale affollate, di aule scolastiche attente, di piazzette e luoghi all’aperto diventati sede di appassionate discussioni è già una ricompensa sufficiente al lavoro dello storico ma anche altri elementi mi hanno colpito in quei mesi di incontri con tante centinaia di persone. Mi trovavo fuori dall’ambito territoriale di riferimento del saggio (le violenze fasciste nei venti mesi di occupazione tedesca e la mancata giustizia del dopoguerra nel reggiano) eppure ovunque ritrovavo due aspetti sorprendenti che superavano il mio ormai radicato pessimismo sulle sorti del nostro paese.
In primo luogo un diffuso interesse  dei presenti alle presentazioni a svolgere un ruolo civile e culturale attivo. Da tanti trapelava il desiderio di tornare alla storia “vera”, fondata su fatti e fonti, dopo tanti presunti scoop giornalistici e propaganda spiegata a reti unificate, un desiderio quasi mai ripiegato sul desiderio di ritrovare antiche e infrante certezze ma, al contrario, pronto a spingere la discussione al limite spesso dell’autocritica più rigorosa.
Il secondo elemento era quello che sta più direttamente alla base della genesi di questo libro. Nella quasi totalità dei casi le presentazioni si concludevano con una serie ininterrotta di domande, di chiarimenti, di informazioni che non si limitavano solo alle tematiche del volume appena discusso ma andavano oltre, a toccare tanti aspetti della storia del nostro paese, dall’Unità d’Italia fino alla nostra difficile contemporaneità.
Era come se, messi di fronte allo storico, tante persone, di diversa età, estrazione sociale e formazione culturale, cogliessero l’occasione per ritrovare un aggancio alla realtà storica troppo spesso confusa e riscritta dai mezzi di informazione dei nostri giorni.
Questi dialoghi esprimevano chiaramente non solo un’interesse per la narrazione storica ma un bisogno di chiedersi il “perché” delle cose. Qualità queste non frequenti oggi nel Belpaese, dove, come abbiamo dolorosamente verificato negli ultimi anni, anche il confine fra “vero” e “falso”, in campo storico come in ambito politico ed etico, è andato lentamente sfumando, in tempi in cui ormai è sufficiente ripetere più volte una qualunque cosa sui media per renderla vera e consegnarla alla consapevolezza collettiva.
Emergeva in fondo una domanda di conferma di un’identità messa in crisi da troppi anni di fumoso e sgangherato dibattito sulla storia comune, era un continuo chiedersi “Ma che paese è questo?”, capace di combattere per i valori che la Costituzione ha sancito ma anche troppe volte passivamente esposto a progetti autoritari o pronto a chiudersi nel proprio “particolare” accettando tanti compromessi etici prima ancora che politici.

Come è stato possibile arrivare al nostro oggi, alla «libertà dei servi», partendo dalle speranze per una «libertà di cittadini» che aveva animato, pur fra tante debolezze, la nostra storia dal processo di unificazione fino ai mesi della lotta di Liberazione? Questa un’altra domanda che, mi rendo conto – né poteva essere altrimenti – è rimasta in sospeso.
Da quegli interrogativi e dai tanti incontri che ho avuto in questi anni con giovani italiani (e non) sono nate queste domande (e relative risposte) che ho voluto raccogliere in occasione dei primi 150 anni di storia unitaria.
Nessuna pretesa di risposte definitive o di completezza da questi dialoghi fra storico e cittadini, soltanto un piccolo contributo a mantener viva l’ostinata speranza che esista la possibilità di un’Italia migliore, che riesca, finalmente a recuperare, anche attraverso una seria riflessione sulla sua storia, il proprio ruolo nel panorama europeo.

Un affettuoso ringraziamento alle capacità di Gianluca Foglia (Fogliazza) che ha saputo cogliere, con la consueta ironia (anche nei confronti dell’autore), con le sue illustrazioni il senso dei vari capitoli di questa raccolta.

Massimo Storchi,
Migliara, 19 agosto 2010

(dalla introduzione dell’autore)

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Domani sarà in libreria Question time. Cos’è l’Italia. Cento domande (e risposte) sulla storia del Belpaese Aliberti Editore.

In questa nuova avventura mi accompagna Fogliazza, che sarà di Parma, ma è proprio bravo e coraggioso, visto che ha accettato la mia proposta di illustrare un libro di storia. In compenso si è preso la sua piccola vendetta, trasformandomi in un fumetto. Acc.., stavolta non posso neppure dire il classico “ogni riferimento a persone o avvenimenti è puramente casuale”!

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L’Italia è stata fatta contro la Chiesa cattolica?
Mazzini può essere definito un terrorista?
Cosa successe a Pontelandolfo? E a Debrà Libanòs?
Chi erano gli IMI (Internati militari italiani)?
La Resistenza è stata un fenomeno nazionale?
I partigiani comunisti volevano instaurare un regime stalinista?
Cosa c’entra la Resistenza con la Costituzione?
Alla fine della guerra c’è stata la mattanza dei fascisti?
Cos’è stato il “boom economico”?
Cos’era “Gladio”? E la P2?
Cos’è la Padania?

Cento domande (e risposte) per rispondere all’interrogativo che sempre più si diffonde “Ma che paese è questo?”. Un paese capace di combattere per i valori che la Costituzione ha sancito ma anche troppe volte passivamente esposto a
progetti autoritari o pronto a chiudersi nel proprio “particolare” accettando tanti compromessi etici prima ancora che politici. Un percorso storico attraverso 150 anni di storia unitaria, un contributo a mantenere viva l’ostinata speranza che esista la possibilità di un’Italia migliore, che riesca finalmente a recuperare, anche attraverso una seria riflessione sulla sua storia, il proprio ruolo nel panorama europeo.

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Mancano 3 giorni all’arrivo in libreria del nuovo libro del sottoscritto.

Lo so, lo sanno i miei 25 lettori: l’attesa è spasmodica, catafrastica, iperallergenica.

Ma non solo sotto i nostri cieli azzurri. Qualche anticipazione dalla stampa estera:

“Tres bòn!” (L’echo de Bergerac)

“Ein klein pinzimonie wunder matrimonie krauten und erbeeren und patellen und arsellen” (Der Stürmer, Koln)

Per i soliti 25 lettori: il libro sarà nelle librerie il 19 maggio. Presentazione il 31 del corrente anno domini.

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Mancano 4 giorni all’uscita in libreria del mio nuovo libretto. L’attesa è tanta, già si organizzano le code per l’acquisto delle prime copie. Una prima recensione uscirà sull’autorevole “Zeri i Popullit” mitico organo del Partito Comunista Albanese.

Una preoccupazione: visto che nell’aureo volumetto ci sono anche delle illustrazioni (dell’ottimo Fogliazza), sta a vedere che lo comprerà anche qualche politico…

Zagrebelski:Berlusconi scapperà come Craxi

Qualcuno in Piemonte – oltre a presunte fidanzate di cavalieri inesistenti – guarda con attenzione alle evoluzioni dell’inchiesta milanese sul presidente del Consiglio: Gustavo Zagrebelsky, presidente dell’associazione Libertà e giustizia, che ha pubblicamente chiesto le immediate dimissioni del premier. Professore, nell’appello scrivete: “In nessun altro Paese democratico un primo ministro, indagato per così gravi capi di accusa, rimarrebbe in carica”. La situazione è esplosiva: si confrontano nel Paese due contendenti ed entrambi fanno leva sulla parola democrazia. Da una parte chi pensa che il presidente del Consiglio debba dimettersi, dall’altra chi pensa sia in atto una congiura antidemocratica ai danni del premier. L’Italia è spaccata.

Come può accadere?
Qualcuno fa un uso privato della parola democrazia.

Cioè?
Da una parte c’è un’idea di democrazia secondo cui chi è eletto è sotto la legge. Gli altri pensano che chi viene eletto sia sopra la legge.

Il consenso elettorale sarebbe uno scudo giudiziario automatico?
Volendo semplificare, è la vecchia antitesi di Aristotele tra governo delle leggi e governo degli uomini. Nel secondo caso, chi detiene il potere produce le leggi che gli fanno comodo. La differenza tra queste due concezioni di democrazia che oggi albergano, fronteggiandosi, in Italia è che una corrisponde alla democrazia liberale – ed è una conquista delle due Rivoluzioni, francese e americana –; l’altra può avere una pericolosa deriva autocratica. Berlusconi non a caso ha evocato, in un discorso a proposito di un suo processo, il giudizio dei ‘pari’: lui può essere giudicato solo dagli eletti in Parlamento e non dai magistrati.

C’è un modo per conciliare le parti?
Mi pare che il presidente della Repubblica stia cercando di far dialogare queste posizioni estreme.

Nell’appello di Libertà e giustizia si chiede un intervento tempestivo da parte del Quirinale.
È il ruolo del Colle, secondo la nostra Costituzione. Napolitano può far sentire la sua voce per denunciare questo scollamento. Che è preoccupante.

Siamo arrivati all’ultimo atto?
O vince uno o vince l’altro.

Vede rischi?
Questa situazione è destinata ad andare avanti fino allo scontro finale, che non esclude prove di forza. Ma certo queste non saranno a opera dei giudici.

Che significa “prove di forza”?
Manifestazioni, boicottaggi. D’altra parte il presidente del Consiglio dice di non riconoscere i giudici.

Il ministro Mara Carfagna in tv ha detto: “La Procura di Milano è un nemico politico da 16 anni”. Discorso eversivo?
Certo. Ed è pericoloso perché queste cose all’inizio si dicono timidamente. Poi, a furia di ripeterle, diventano verità assolute. Goebbels diceva: una menzogna ripetuta mille volte diventa verità. È la propaganda. Un deputato del Pdl ha detto che l’iniziativa della Procura di Milano è un golpe.

Passano per certezze di rango costituzionale bufale incredibili. Tipo la competenza del Tribunale dei ministri.
Sì, qualcuno si è inventato questa tesi e l’ha messa in giro da qualche giorno. Bisognerebbe dimostrare che intervenire nella procedura di affidamento di un minore fermato rientra nelle funzione del presidente del Consiglio dei ministri. Non basta che il reato sia commesso mentre l’indagato è in carica come Primo ministro. La Costituzione sennò sarebbe stata formulata così: “Per tutti i reati commessi durante il mandato dei ministri e del presidente del Consiglio…”. Invece si parla di “esercizio delle proprie funzioni”. Vuol dire che, durante il mandato, i membri del governo possono commettere due tipi di reato: comuni e afferenti alle competenze. Ma l’esercizio delle funzioni del presidente del Consiglio consiste in atti politici. Non in atti finalizzati a coprire le proprie magagne personali.

Torniamo a Napolitano. Ha detto: si faccia chiarezza in fretta.
Il senso del suo discorso credo sia: si smetta di alimentare lo scontro istituzionale. Deve essere la Cassazione a dire se l’iniziativa dei pm è sbagliata. Mi pare che Napolitano sia preoccupato, perché il fine di questo scontro sembra la prevalenza di una parte sull’altra. Non può essere così.

Se il presidente della Repubblica è così preoccupato del tentativo di elusione della legge, avrebbe potuto esercitare il potere di rinvio delle varie leggi ad personam.
Sono due cose diverse. Questa vicenda va oltre, perché al fondo ha semplicemente il tentativo di una persona di sottrarsi ai giudici. Del resto è la ragione di fondo della ‘discesa in campo’ di Berlusconi. La sorte di questo signore, nel momento in cui non fosse più presidente del Consiglio, sarebbe segnata non politicamente, ma giudiziariamente.

È l’anomalia italiana.
La democrazia è un sistema in cui, quando un Primo ministro cessa di essere tale, torna a casa sua. Tutti gli altri regimi implicano che la fine di una carriera politica sia traumatica.

Come se ne esce?
Si aspetta che si creino degli anticorpi all’interno della maggioranza. E si continua a insistere: non esistono due democrazie, ma una sola. Che ha due gambe: il diritto e il consenso degli elettori.

Ci sarà un redde rationem?
Non vedo una via di uscita tranquilla. Immagino qualcosa di simile alla vicenda Craxi. Il regime personalistico non prevede alternative. Leo Strauss e Alexandre Kojève nel loro Sulla Tirannide riportano un dialogo di Senofonte tra Gerione, tiranno di Siracusa, e il poeta Simonide. Gerione dice: non ho nemmeno la possibilità di ritirarmi a vita privata, perché sarei inseguito da tutti coloro verso i quali ho commesso soprusi. Posso solo scegliere di sparire.

Il Fatto Quotidiano, 20 gennaio 2011

Silvia Truzzi

Indignatevi! (2 p.)

1664635698.jpgDue visioni della storia

Quando provo a comprendere ciò che ha causato il fascismo che ha fatto sì che fossimo invasi dallo stesso e da Vichy, mi dico che i possidenti, col loro egoismo, hanno avuto terribilmente paura della rivoluzione bolscevica. Essi si sono lasciati guidare dalle loro paure. Ma se, oggi come allora, una minoranza attiva si drizza, ciò basterà, avremo il lievito affinché la pasta gonfi. Certo, l’esperienza di uno molto anziano come me, nato nel 1917, si differenzia dall’esperienza dei giovani di oggi. Io chiedo spesso ai professori dei licei di poter dialogare con i loro alunni, e dico loro:  voi non avete le stesse ragioni evidenti di impegnarvi. Per noi, resistere, era non accettare l’occupazione tedesca, la disfatta. Era relativamente semplice. Semplice come ciò che ne è seguito, la decolonizzazione. Poi la guerra dell’Algeria. Occorreva che 1’Algeria diventasse indipendente, era evidente. In quanto a Stalin, abbiamo applaudito tutti alla vittoria dell’armata rossa contro i nazisti, nel 1943.

Ma già da quando si ebbe consapevolezza dei grande processi stalinisti del 1935, anche se bisognava mostrare attenzione verso il comunismo per controbilanciare il capitalismo americano, la necessità di opporsi a questa forma insopportabile di totalitarismo si impose come un’evidenza. La mia lunga vita mi ha dato una sequela di ragioni per indignarmi. Queste ragioni sono state prodotte più da una volontà di impegno che da un’emozione. Il giovane normale che ero, era stato molto segnato da Sartre, un compagno maggiore. La Nausea, Il Muro, non L’Essere e il nulla, sono stati molto importanti nella formazione del mio pensiero. Sartre ci ha insegnato a ricordare: Voi siete responsabili in quanto individui. Era un messaggio libertario. La responsabilità dell’uomo che non può affidarsi né ad un potere né ad un dio. Al contrario, bisogna impegnarsi in nome della propria responsabilità di persona umana. Quando sono entrato alla scuola normale di via d’Ulm, a Parigi, nel 1939, io ci entravo come fervente discepolo del filosofo Hegel, e seguivo il seminario di Maurice Merleau-Ponty. Il suo insegnamento esplorava l’esperienza concreta, quella del corpo e delle sue relazioni col senso, grande singolare espressione al plurale dei sensi. Ma il mio ottimismo naturale, che vuole che tutto ciò che è augurabile sia possibile, mi portava piuttosto verso Hegel. La filosofia hegeliana interpreta la lunga storia dell’umanità come avente un senso: è la libertà dell’uomo che progredisce tappa dopo tappa.

La storia è fatta di shock successivi, è la messa in conto di sfide. La storia delle società progredisce, e finalmente, quando l’uomo raggiunge la sua piena espressione, abbiamo lo stato democratico nella sua forma ideale.

Esiste certamente un’altra concezione della storia

I progressi fatti nella libertà, la competizione, la corsa al “sempre di più”, tutto questo può essere vissuto come un uragano distruttivo. Così lo rappresenta un amico di mio padre, l’uomo che ha diviso con lui il compito di tradurre in tedesco À la Recherche du temps perdu di Marcel Proust. È il filosofo tedesco Walter Benjamin. Egli aveva tratto un messaggio pessimista da un quadro del pittore svizzero, Paul Klee, l’Angelus Novus, dove la figura dell’angelo apre le braccia come per contenere e respingere una tempesta che identifica col progresso. Per Benjamin che si suiciderà nel settembre 1940 per sfuggire al nazismo, il senso della storia è l’avanzamento irresistibile di catastrofe in catastrofe.

L’indifferenza: il peggiore degli atteggiamenti

È vero, le ragioni di indignarsi possono sembrare oggi meno nette o il mondo troppo complesso. Chi comanda, chi decide?  Non è sempre facile distinguere tra tutte le correnti che ci governano.

Non si tratta più di una piccola elite di cui comprendiamo chiaramente l’operato. È un vasto mondo che sappiamo bene essere interdipendente.

Viviamo in una interconnettività come non era mai esistita. Ma in questo mondo, ci sono delle cose insopportabili. Per vederle, bisogna bene guardare, cercare. Dico ai giovani: cercate un poco, andate a trovare. Il peggiore degli atteggiamenti è l’indifferenza, dire “io non posso niente, me ne infischio”. Comportandovi così, perdete una delle componenti essenziali che ci fa essere uomini. Una delle componenti indispensabili: la facoltà di indignazione e l’impegno che ne è la diretta conseguenza.

Si possono identificare già due grandi nuove sfide:

1. L’immensa distanza che esiste tra i molto poveri e i troppo ricchi, che non cessa di aumentare. È una mutamento del XX e del XXI secolo. I molto poveri nel mondo d’oggi guadagnano appena due dollari al giorno. Non si può lasciare che questa forbice si allarghi ancora. Questa sola constatazione deve suscitare un impegno.

2. I diritti dell’uomo e lo stato del pianeta. Ho avuto la fortuna dopo la Liberazione di essere associato alla redazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Organizzazione delle Nazioni unite, il 10 dicembre 1948, a Parigi, al palazzo di Chaillot. Nella funzione di capo di gabinetto di Henri Laugier, segretario generale aggiunto dell’ONU, e di segretario della Commissione dei Diritti dell’uomo, assieme ad  altri, sono stato ammesso a partecipare alla redazione di questa dichiarazione. Non potrei dimenticare, nella sua elaborazione, il ruolo di René Cassin, commissario nazionale alla Giustizia e all’educazione del governo della Francia libera, a Londra, nel 1941,  premio Nobel della pace nel 1968; né quello di Pierre Mendès France in seno al Consiglio economico e sociale cui i testi che elaboravamo erano sottoposti, prima di essere esaminati dalla Terza commissione dell’assemblea generale, responsabile delle questioni sociali, umanitarie e culturali.

Essa contava i cinquantaquattro Stati membri, all’epoca, delle Nazioni unite, ed io ne assicuravo la segreteria.

Per l’appunto a René Cassin dobbiamo il termine di diritti “universali” e non “internazionali” come proponevano i nostri amici anglosassoni. Perché è proprio lì la scommessa a uscire dalla seconda guerra mondiale: emanciparsi dalle minacce che il totalitarismo ha fatto pesare sull’umanità.

Per emanciparsi, bisogna ottenere che gli Stati membri dell’ONU si impegnino a rispettare questi diritti universali. È un modo di sventare l’argomento della piena sovranità che uno Stato può fare valere mentre si dedica ai crimini contro l’umanità sul suo suolo. Questo fu il caso di Hitler che si stimava padrone di se stesso ed autorizzato a provocare un genocidio. Questa dichiarazione universale deve molto alla repulsione universale contro il nazismo, il fascismo, il totalitarismo, e inoltre, per la nostra presenza, allo spirito della Resistenza. Sentivo che bisognava fare rapidamente, non lasciarsi ingannare dall’ipocrisia che c’era nell’adesione proclamata dai vincitori a questi valori che non tutti avevano l’intenzione di promuovere in modo leale, ma che noi tentavamo di imporre loro.

Non resisto alla voglia di citare l’articolo 15 della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo: ogni individuo ha diritto ad una nazionalità”; l’articolo 22: “Ciascuno, in quanto membro della società, ha diritto alla Sicurezza sociale; essa è intesa a garantire ad ogni uomo la soddisfazione dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità, grazie allo sforzo nazionale ed alla cooperazione internazionale, tenuto conto dell’organizzazione e delle risorse di ciascun paese”. E se questa dichiarazione ha una portata dichiarativa, e non giuridica, non ha giocato un ruolo meno rilevante dopo 1948; si sono visto popoli colonizzati impadronirsene nella loro lotta di indipendenza; ha inseminato gli spiriti nella lotta per la libertà.

Constato con piacere che nel corso degli ultimi decenni si sono moltiplicate le organizzazioni non governative, i movimenti sociali come Attac (Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie), il FIDH (Federazione internazionale dei Diritti dell’uomo), Amnesty… che sono attive e ad alto rendimento. È evidente che per essere efficaci oggi, bisogna agire in rete, approfittare di tutti i mezzi moderni di comunicazione.

Ai giovani, dico: guardate intorno a voi, voi ci troverete i temi che giustificano la vostra indignazione – il trattamento riservato agli immigrati, agli illegali, ai Roms. Troverete delle situazioni concrete che vi portano a dare corso ad un’azione civica forte. Cercate e troverete!

(…)segue

Indignatevi! (Stephan Hessel)

1664635698.jpgPer gli amici e i 24 lettori: L’inizio di Indignez vouz!

Indignatevi!

93 anni. È un po’ l’ultima tappa. La fine non è più lontana. Quale fortuna potere approfittare per ricordare ciò che ha servito di zoccolo al mio impegno politico: gli anni della resistenza ed il programma elaborato sessantasei anni fa per il Consiglio Nazionale della Resistenza! Dobbiamo a Jean Moulin, nella cornice di quel Consiglio, la riunione di tutti i componenti della Francia occupata, i movimenti, i partiti, i sindacati, per proclamare la loro adesione alla Francia combattente ed al solo capo che si riconosceva: il Generale de Gaulle. Da Londra, dove lo avevo raggiunto nel marzo 1941, apprendevo che questo Consiglio aveva messo a punto un programma, l’aveva adottato il 15 marzo 1944 e proposto per la Francia liberata un insieme di principi e di valori sui quali sarebbe stata riposta la democrazia moderna del nostro paese.

Di questi principi e di questi valori, abbiamo oggi più che mai bisogno. Dobbiamo badare tutti insieme che la nostra società resti una società di cui possiamo essere fieri: non questa società dei clandestini, delle espulsioni, dei sospetti al riguardo degli immigrati, non questa società dove si rimettono in discussione le pensioni, le conquiste della Sicurezza sociale, non questa società dove i media sono nelle mani dei benestanti, tutte cose che avremmo negato di garantire se fossimo stati i veri eredi del Consiglio Nazionale della Resistenza.

A partire dal 1945, dopo un dramma atroce, le forze presenti in seno al Consiglio della Resistenza si dedicano ad una ambiziosa risurrezione. Ricordiamolo, allora fu creata la Sicurezza sociale come la Resistenza la prefigurava, come il suo programma la definiva: “Un piano completo di Sicurezza sociale, mirante ad assicurare a tutti i cittadini i mezzi di sussistenza, in tutti i casi in cui sono incapaci di procurareseli con il lavoro”; “Una  pensione che permetta ai vecchi lavoratori di finire dignitosamente i loro giorni”. Le fonti energetiche, l’elettricità e il gas, le miniere di carbone, le grandi banche sono nazionalizzate. È ciò che questo programma raccomandava ancora,.. “il ritorno alla nazione dei grande mezzi di produzione monopolizzata, frutto del lavoro comune, delle sorgenti di energia, delle ricchezze del sottosuolo, delle compagnie di assicurazione e delle grandi banche”; “L’instaurazione di una vera democrazia economica e sociale, implica l’esclusione dei grandi feudi economici e finanziari dalla direzione dell’economia”.

L’interesse generale deve prevalere sull’interesse particolare, l’equa distribuzione delle ricchezze create dal mondo del lavoro prevalere sul potere del denaro. La Resistenza propose “un’organizzazione razionale dell’economia che assicuri la subordinazione degli interessi particolari all’interesse generale,  affrancata dalla dittatura professionale instaurata sull’esempio degli Stati fascisti”; ed il Governo provvisorio della Repubblica se ne fece portavoce.

Una vera democrazia ha bisogno di una stampa indipendente; la Resistenza lo sa, lo esige, difendendo “la libertà della stampa, il suo onore e la sua indipendenza rispetto allo Stato, al potere del denaro e alle influenze straniere”. Questo è ciò che riferiscono ancora le ordinanze sulla stampa, fin da 1944. Ora è proprio questo che oggi è in pericolo.

La Resistenza ci chiamava alla “possibilità effettiva per tutti i bambini francesi di beneficiare dell’istruzione più avanzata”, senza discriminazione; ora, le riforme proposte nel 2008 vanno contro questo progetto. Dei giovani insegnanti di cui sostengo l’azione, si sono rifiutati di applicarle ed hanno visto i loro stipendi mutilati per punizione. Si sono indignati, hanno “disubbidito”, hanno giudicato queste riforme troppo lontane dall’ideale della scuola repubblicana, troppo al servizio di una società del denaro e non più in grado di sviluppare lo spirito creativo e critico.

È tutto lo zoccolo delle conquiste sociali della Resistenza che è rimesso oggi in discussione.

Movente della resistenza è l’indignazione

C’è chi ha il coraggio di sostenere che lo Stato non può assicurare più i costi di queste misure civili e sociali. Ma come può mancare oggi il denaro per mantenere e prolungare queste conquiste dal momento che la produzione di ricchezze è aumentata considerevolmente dalla Liberazione, periodo in cui l’Europa era in rovina? Se non perché il potere del denaro, così combattuto dalla Resistenza, non è stato mai tanto grande, insolente, egoista, coi suoi propri servitori fino alle più alte sfere dello Stato. Le banche oramai privatizzate si mostrano in primo luogo preoccupate dei loro dividendi, e dei cospicui stipendi dei loro dirigenti, non dell’interesse generale. La distanza tra i più poveri e i più ricchi non è stata mai tanto rilevante; e la corsa al denaro, la competizione, tanto incoraggiata.

Il motivo di base della Resistenza era l’indignazione. Noi, veterani dei movimenti di resistenza e delle forze combattenti della Francia libera, chiamiamo le giovani generazioni a far rivivere, trasmettere, l’eredità della Resistenza ed i suoi ideali. Diciamo loro: prendete il testimone, indignatevi! I responsabili politici, economici, intellettuali e l’insieme della società non devono disorientarsi, né lasciarsi impressionare all’attuale dittatura internazionale dei mercati finanziari che minaccia la pace e la democrazia.

Auguro a tutti voi, a ciascuno di voi, di avere il vostro motivo di indignazione. È una cosa preziosa. Quando qualche cosa vi indigna come mi sono indignato io per il nazismo, allora si diventa militante, forte ed impegnato. Si raggiunge la corrente della storia e la grande corrente della storia deve proseguire grazie a ciascuno. E questa corrente va nel senso di una maggiore giustizia, di più libertà ma non questa libertà incontrollata della volpe nel pollaio.

Questi diritti di cui la Dichiarazione universale ha redatto il programma nel 1948, sono universali. Se incontrate qualcuno che non ne beneficia, compiangetelo, aiutatelo a conquistarli.
(…)

Ebbene sì, lo confesso..!

libro-luca-costalonga-recensioni.jpgEbbene sì, lo confesso, l’ho fatto ancora!

Ho scritto un altro libro. So bene che, come diceva Longanesi, è più facile scrivere un libro che NON scriverlo ma, cosa volete, la scrittura è come il tunnel della droga, ci entri poco alla volta e quando ci sei dentro uscire è difficile.

Però voglio tranquillizzare i miei 24 lettori: stavolta non ho raccontato di Reggio, di stragi, di fascisti ammazzati e simili amenità. Sono stato più modesto: ho raccontato solo 150 anni di storia del nostro povero bel paese! Del resto con i chiari luna che abbiamo ormai ogni giorno, ho pensato che fosse di qualche utilità ripartire dai “fondamentali”. Di fronte alla marea trionfante di caxate, bufale, vespate e belle pansate, forse rimettere a posto qualche nome, data e fatto, servirà a qualcuno.

Certamente è servito a me: ignorante come sono, mi sono fatto un bel ripassino di tante vicende (da Pontelandolfo alla P2) che la fretta quotidiana aveva un po’ scolorito, per arrivare a capire che l’Italia è davvero quello che descriveva con efficacia Carlo Levi:

“l’Italia è davvero come un grande, mitologico, carciofo, un fiore verde e viola, dove ogni foglia ne nasconde un’altra, ogni strato copre un altro strato, gelosamente nascosto. Chi sappia staccare le foglie esterne scoprirà cose impensate, in un difficile viaggio nello spazio e nel tempo”

Lo storico: «Costruiamo una Nuova Italia mite e civile»

«Il dibattito odierno sul Risorgimento è surreale e strumentale. Si nega il valore storico dell’unità italiana, mirando alla frantumazione territoriale e corporativa. Oppure c’è indifferenza, nell’assenza di una religione civile all’altezza di un paese moderno».

Parla dell’oggi Giovanni De Luna, 67 anni, salernitano, storico contemporaneo a Torino, e studioso di Lega, antifascismo e Novecento di massa (Il corpo del nemico ucciso, Feltrinelli). La sua tesi suona: l’Ottocento è lontano. E l’ identità italiana va costruita su nuovi paradigmi di cittadinanza. Non più su quello classico dello «stato-popolo-nazione». Vediamo in che senso.

Professor De Luna, tra apatia istituzionale, boicottaggio della Lega e disinteresse, l’anniversario dell’Unità d’Italia non pare coinvolgere gli italiani. Come mai? «Intanto c’è grande differenza con i precedenti anniversari. Nel 1911 ci si specchiava nello sviluppo industriale dell’era giolittiana, e nell’orgoglio dinastico dell’Italia sabauda assurta a potenza. Nel 1961 c’era il boom economico di un paese ricostruito dopo la guerra, e la fierezza di Torino divenuta metropoli. Due celebrazioni che alimentavano ottimismo e anche dibattiti storiografici molto accesi, sui limiti del Risorgimento dall’alto, etc. Stavolta, 150 anni dopo, c’è una crisi gravissima che travolge ogni possibile orgoglio. E poi c’è al governo la Lega che contesta l’Unità d’Italia in sé, una cosa senza precedenti».

Non esiste più uno straccio di borghesia nazionale con ambizioni europee e che tenga al «valore Italia»? «C’è stata una deriva mercantile totale del sentimento nazionale, visto al più come mero passaporto per il benessere, così come fu per i tedeschi dell’est dopo il crollo del Muro. Come se l’essere italiani fosse un logo, una tessera “spesa amica”, per accedere ai consumi. Il mercato ha strutturato e saturato ogni emozione, e se l’Italia non è una cosa che si mangia…».

Non è che nel Risorgimento non vi fosse il mercatismo, accusato anzi di travolgere il meridione… «Certo, ma il dibattito sul Risorgimento riguarda solo uno spicchio della nostra storia. Ci sono stati il fascismo, le guerre, la prima repubblica e poi la cosiddetta seconda. Nessuno si interroga sullo straripante Novecento e ci si accapiglia sull’Unità d’Italia solo per demonizzarla, come fomite di tutti i mali successivi. Hanno inciso sul paese molto più il fascismo, peculiarità italiana, e la violenza di massa di due guerre mondiali».

Davvero il Risorgimento, censitario e classista, non anticipò nessuno dei mali a seguire? «Sì, ma è come confrontare capre e cavoli. L’Ottocento non dice più nulla all’oggi. Salvo, ovviamente, prendere atto delle tante anime risorgimentali: neoguelfa, mazziniana, sabauda, repubblicana, monarchica. Come per la Resistenza: radicale, azionista, moderata, comunista. Discussione sacrosanta, che non revoca in dubbio il valore positivo dell’Unità d’Italia, che tutte quelle anime perseguivano e che tale resta».

Cosa ci abbiamo guadagnato e ci guadagniamo con quel valore? «Senza il Risorgimento saremmo restati un’espressione geografica, una congerie di staterelli tagliata fuori dalla competizione internazionale: politica, militare ed economica. Ci voleva uno stato per l’accumulazione industriale. Oggi il problema è un altro. È la religione civile che manca. E per colpa di una classe dirigente che negli ultimi venti anni non ha costruito nessuna etica civile».

Ha vinto la religione incivile del populismo privatistico? «Appunto: tutti figli del benessere, la ricchezza come unico riferimento. Nutrito di rancore e aggressività. Competizione e maledizioni. Eccolo il fallimento. Con una eccezione: il Quirinale. Unico luogo coesivo di religione civile, con limiti e affanni. E senza partecipazione vera. In più, con un sistema politico privo di interesse al riguardo. Dall’aziendalismo di Berlusconi, all’etnicismo leghista, alla fragilità di una sinistra che ha smesso di avere un’idea di nazione, dopo aver buttato a mare il suo passato ingombrante».

Più che un vuoto, c’è stata una catastrofe identitaria? «Crollato il patto della memoria, stabilito tramite l’antifascismo nel dopoguerra, non è rimasto nulla. La politica non è stata capace di recintare alcuno spazio pubblico della memoria. Con l’eccezione della Presidenza della Repubblica, da Ciampi a Napolitano. Troppo poco».

Non c’è confronto con altri paesi. Ad esempio con gli Usa, che celebrano convinti il loro stato nazione… «Negli Usa il valore della religione civile americana è persino sacrale, basta ascoltare il linguaggio di Obama».

Restando all’identità, lo storico Alberto Maria Banti ha contestato come criptorazzista la retorica risorgimentale. Basta dunque col popolo-nazione? «Ripeto, l’Ottocento è lontanissimo e una certa eredità nazionale identitaria non è più spendibile. Lo stato-nazione è imploso, incapace di fare religione civile, e non solo in Italia. Anche Francia e Spagna non riescono più a governare unitariamente la memoria, tra querelle sul colonialismo e patti di pacificazione sul Franchismo che saltano. Occorre trovare altri valori per ricostruire un Pantheon repubblicano».

Da dove ricominciare, visto che Ciampi e Napolitano non bastano? «Non credo alla memoria condivisa, ma a una tavola di valori repubblicani universali. Purtroppo l’unico valore proposto al momento è la memoria delle vittime: della mafia, della Shoah, foibe, terrorismo, catastrofi naturali. Ma le vittime non pacificano. Gridano rancore, vendetta, sovrastandosi con la voce a vicenda. Qui il fallimento della nostra classe dirigente: l’incapacità di costruire un’alternativa».

Allora, se le cose stanno così, hanno ragione quelli che vogliono rottamare un’identità nazionale ormai inutile e invisibile? «Inutile nella sua dimensione ottocentesca, non in quella post-novecentesca. Che deve confrontarsi con l’integrazione dei cittadini non italiani. Problema ignoto allo stato-nazione risorgimentale. Goffredo Mameli può rappresentare un valore per i cittadini extracomunitari? Semmai vanno recuperate le virtù positive di Mameli. L’eroe dolce e tollerante descritto da Garibaldi, non il guerriero nazionale».

Anche gli Usa includono nel nocciolo ideologico «wasp» il pluralismo etnico, non le pare? «Loro hanno il giorno del Ringraziamento e la festa di San Patrizio per gli irlandesi…».

La Lega nella Provincia di Padova cancella 25 aprile e Primo Maggio, e include la Festa di San Marco. «Cancellano le date più inclusive e fanno capire bene chi vogliono includere: la loro gente».

In conclusione, si può vivere senza un’idea d’Italia pur nell’eclisse dello stato-nazione? «No, ma ci vuole una nuova costellazione valoriale. Lontana dalla retorica nazionale ottocentesca e dalla temperie vittimaria delle catastrofi di massa novecentesche, che hanno inciso sulla nostra identità ben più degli anni risorgimentali. E in tal senso, penso alla virtù civile della “mitezza”, come la evocava l’ultimo Bobbio. Significa essere contro prepotenza e arroganza e per l’inclusione fraterna. Esempi? Tanti: Colorni, Willy Jervis, Pietro Chiodi, laici o valdesi, gente perseguitata ma non vittimista. Patrioti repubblicani e italiani davvero diversi».

Unità, 8 gennaio 2011