Presentazione a Bologna

Copertina_Il primo.jpgIeri presentazione di “Il primo giorno d’inverno” alla biblioteca “Borges” di Bologna. Il sole grande al tramonto in autostrada, il verde del parco attorno. Le parole e i silenzi di chi ha ancora tempo (e voglia) per discutere un libro.

Un grazie ad Adriano Bertolini per l’invito e a Luca Alessandrini per l’introduzione.

Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà.

Giordano Cavestro (Mirko)

Di anni 18 – studente di scuola media – nato a Parma il 30 novembre 1925 -. Nel 1940 dà vita, di sua iniziativa, ad un bollettino antifascista attorno al quale si mobilitano numerosi militanti – dopo l’8 settembre 1943 lo stesso nucleo diventa centro organizzativo e propulsore delle prime attività partigiane nella zona di Parma -. Catturato il 7 aprile 1944 a Montagnana (Parma), nel corso di un rastrellamento operato da tedeschi e fascisti – tradotto nelle carceri di Parma -. Processato il 14 aprile 1944 dal Tribunale Militare di Parma – condannato a morte, quindi graziato condizionalmente e trattenuto come ostaggio -. Fucilato il 4 maggio 1944 nei pressi di Bardi (Parma), in rappresaglia all’uccisione di quattro militi, con Raimondo Pelinghelli, Vito Salmi, Nello Venturini ed Erasmo Venusti.

Parma, 4-5-1944

Cari compagni, ora tocca a noi.                                                               

Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d’Italia.                                                                                     
Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella.                                                                     
Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile.                             
Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care.                   
La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio.       

Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà.

25 aprile, ora e sempre Resistenza (A.D’Orsi)

25aprile1945.jpgIl 25 Aprile non può, nemmeno a 65 anni di distanza, essere considerata una tra le tante date celebrative: oggi più che mai quella data vibra di passione civile, e non soltanto di memoria storica. In fondo, è un quindicennio che la vittoria sul nazifascismo è ritornato ad essere un momento essenziale della battaglia politica, oltre che culturale, in questo sfortunato Paese. Bisogna, paradossalmente, dire grazie a Silvio Berlusconi, e ai suoi alleati-succubi, se ora noi crediamo di nuovo, con forza, nell’importanza della «celebrazione» del 25 Aprile. E non è un caso che in tante parti d’Italia, le vecchie sezioni dell’Anpi (la gloriosa associazione dei partigiani), siano state rivitalizzate da manipoli di giovani, mentre via via scomparivano, ad uno ad uno, i reduci di quella guerra fondativa della nostra Repubblica. Negli ultimi tre giorni, personalmente, sono stato invitato a parlare, da circoli Anpi, a Carpi, a Viterbo, ad Avellino. E in tutti i casi, si tratta di circoli nei quali i giovani – trentenni – hanno raccolto il testimone dai vecchi combattenti, e tentano, ben oltre la data canonica, di difendere princìpi, valori, e ideali dell’antifascismo.

Dopo i decenni dell’azione prima sotterranea, poi via via più palese del revisionismo, giunto negli ultimi anni a trasformarsi in «rovescismo», volto non solo a delegittimare i risultati politici della lotta partigiana, ma a rovesciare la verità acclarata dei fatti, siamo giunti alla resa dei conti finale. L’attacco prima storiografico, poi scopertamente ideologico, infine direttamente politico, alla Resistenza, è diventato attacco alla Costituzione Repubblicana, e ai fondamenti stessi dello Stato di diritto. Il Piano Gelli, in sostanza, con Berlusconi, è giunto alle soglie della sua piena realizzazione, e se la banda che si è impadronita del potere non è ancora riuscita a portare a termine il suo disegno di scasso istituzionale, ciò è dovuto anche alla mobilitazione permanente che, pur tra enormi difficoltà, si è manifestata e si manifesta ogni giorno, dovunque in Italia, dalle Isole alle Alpi, dal Sud che resiste alla mafia, alla camorra e alla ‘ndrangheta, al Nord che non vuole saperne di indossare la camicia verde, e men che meno di sfilare adunato in «ronde padane».

La guerra che si combatté in Italia fra l’8 settembre del ’43 e il 25 aprile del ’45 contenne, come ormai è noto, tre distinte guerre. Innanzi tutto, si trattò di una guerra di liberazione nazionale: non a caso parliamo di «liberazione», come sinonimo di Resistenza. La guerra contro un alleato trasformatosi nemico, occupante il suolo della patria. Guerra nazionale, dunque, anche se combattuta da un esercito di irregolari, anzi da un non esercito, contro due eserciti regolari, quello nazista e quello repubblichino, egualmente feroci.

In secondo luogo, una guerra sociale: lotta di classe, per un altro genere di liberazione, non più dal nemico esterno, ma dal nemico interno, il nemico di classe: fu l’improvviso ritorno, dopo le avvisaglie del marzo ’43, del protagonismo di vasti strati di ceti subalterni che, dopo un ventennio di compressione, si riaffacciavano, potentemente, a reclamare diritti sociali, economici e politici. In questa guerra emergeva l’ansia di una giustizia dei poveri, gli oppressi, coloro che erano rimasti senza voce per troppo tempo; c’era la speranza del cambiamento politico e sociale. Questo fu «il vento del Nord», espressione oggi compromessa da un improprio uso leghista: e la «Resistenza tradita» significò la mancata realizzazione di quegli obiettivi sociali, come per decenni la Sinistra, quando faceva il suo mestiere, denunciò.

Infine, una guerra civile: italiani contro italiani, antifascisti contro fascisti, guerra di ideali e di interessi insieme, di valori e di opzioni politiche. Sottesa a questo scontro c’era la necessità di individuare e combattere i nemici anche tra i connazionali (di lingua e di suolo), ma non nel senso della nazione democratica, come scelta condivisa di valori e ideali.

Le tre guerre si mescolarono. Nella guerra civile vi era la guerra di classe, nella guerra nazionale la guerra civile: i fascisti difendevano interessi padronali, perlopiù, ed erano alleati (subordinati) dei tedeschi: dunque combattendo i fascisti si combatteva il padronato e il nazismo. E combattendo i padroni si combattevano i tedeschi e i fascisti; mentre combattendo contro l’invasore tedesco (dunque per la patria italiana) si combatteva contro il regime fascista, che invano tentava di rinascere dalle proprie ceneri, proprio grazie al poco disinteressato aiuto tedesco.

Più che alle pure pregevolissime ricerche storiche, ci sono dei testi d’altro genere a cui occorrerebbe sempre ritornare, per capire la nuda essenza del 25 Aprile, e la sua luminosa bellezza: le Lettere dei condannati a morte della Resistenza (esistono in commercio sia quelle della Resistenza italiana, sia quelle della Resistenza europea). Vi possiamo trovare quanto basta per non perdere di vista il senso profondo di quella guerra. Difficile resistere alla commozione davanti alla semplicità innocente di quei ragazzi e ragazze, donne e uomini maturi, che si sono battuti, immolati, o hanno sacrificato affetti, beni, tempo, carriera, vita, per difendere un bene che oggi è di nuovo a rischio: la libertà di tutti. Da questo punto di vista, con un pizzico di retorica, vorrei ribadire forte e chiaro che nessun “rovescismo” può cancellare il significato della Resistenza, atto davvero di liberazione, di creazione di un nuova Italia, che cercava di ribaltare tutto quanto, dal punto di vista prima di tutto etico, aveva significato il fascismo e il suo regime.

Se oggi possiamo discuterne liberamente come liberamente possiamo discutere e litigare di politica e di qualsiasi altro tema (almeno finché ce lo lasceranno fare i nuovi padroni, che gli spazi di libertà cercano diuturnamente di comprimere e limitare), lo dobbiamo anche e, almeno sul piano morale, innanzi tutto a quegli eroi perlopiù sconosciuti, eroi ora per caso, ora per scelta, ora per necessità, i cui nomi a stento si leggono sulle sbiadite targhe delle nostre strade, davanti alle quali le amministrazioni comunali o le locali sezioni e i nuovi circoli dell’Anpi mettono un fiore pietoso ad ogni ricorrenza del 25 Aprile, aggiungendo magari un tricolore, a sottolineare che la Repubblica è il frutto di quel sangue. Ad esse gettiamo un’occhiata distratta e rapida, specie quando quei fiori sono freschi: e la prima cosa che ci colpisce è la varietà di collocazione sociale, con una netta prevalenza dei ceti popolari: operaio, tipografo, tramviere, impiegato, studente, insegnante, ferroviere, artigiano, manovale… Il secondo elemento che balza all’occhio pur distratto, è l’età: ad essere «barbarmente trucidati» – come spesso si esprime il canonico stile marmoreo – sono fanciulli (dai 14 anni in su) o poco più che tali; gente semplice, umile, ma determinata e forte.

Davanti a quelle pietre, come davanti ai testi dei condannati, scritti sovente su materiali di fortuna, prima che il boia giungesse a prelevarli dalle celle per portarli al patibolo, abbiamo il dovere morale non soltanto del rispetto e della memoria solidale, ma quello civile, ciascuno nel suo ambito, di raccogliere il testimone – come i giovani che animano le sezioni dell’Anpi, oggi – per le nuove battaglie che premono, a cominciare dalla strenua difesa della Costituzione Repubblicana, sottoposta a un attacco incessante, tendenzialmente devastante. Al cospetto di quei martiri, e dinnanzi alla necessità di questa battaglia (che difende tutti, anche coloro che la pensano diversamente), nessuno potrà dire, domani, che non aveva capito.

Angelo d’Orsi

Il primo giorno d’inverno

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M.Storchi-I.Rovali, Il primo giorno d’inverno. Cervarolo 20 marzo 1944. Una strage dimenticata, Aliberti Editore 2010. €17,50.

 

La strage di Cervarolo (20 marzo 1944)
Nel marzo 1944 furono condotte dalle truppe tedesche, con l’appoggio di reparti della GNR fascista, una serie di operazioni sull’Appennino reggiano-modenese con l’intento di distruggere le nascenti formazioni partigiane.
Il 18 marzo l’obiettivo fu il versante modenese del Dragone-Secchia con l’attacco, sostenuto anche dall’artiglieria, ai paesi di Monchio, Susano e Costrignano. I reparti della Divisione Hermann Göring rastrellarono il territorio uccidendo civili inermi. Le vittime furono 132.
Sul versante reggiano l’azione, condotta ancora da altre unità della Divisione Hermann Göring prese avvio il successivo giorno 20, quando Civago e Cervarolo furono investite da una preordinata azione di rastrellamento, condotta nonostante fosse noto ai comandi tedeschi e fascisti che non c’erano più reparti partigiani nella zona, scioltisi nei giorni successivi alla vittoriosa battaglia di Cerrè Sologno (15 marzo). Sulla mulattiera per Civago i paracadutisti della Göring uccisero un giovane pastore e ferirono gravemente un vecchio, giunti in paese uccisero altre due persone; poi si diedero al saccheggio, bruciando una ventina di case e danneggiandone trenta.
La milizia fascista rimase fuori dall’abitato a presidiare le uscite affinché i tedeschi potessero compiere indisturbati la loro azione. Carichi di bottino, i tedeschi tornarono poi sui loro passi, per unirsi agli altri paracadutisti che intanto stavano saccheggiando Cervarolo, sempre con la complicità dei militi fascisti. Ammassarono nel recinto di un’aia del paese, sorvegliandoli con le armi puntate, tutti gli uomini che poterono catturare. Due ne uccisero in mattinata, padre e figlio, nella loro abitazione.
Si recarono anche dall’anziano parroco Don Battista Pigozzi, obbligandolo a firmare un foglio in cui avrebbe dovuto dichiarare che gli arrestati erano tutti partigiani. Il sacerdote resistette alle minaccie e rifiutò ogni collaborazione, tanto da essere denudato, picchiato e lasciato all’addiaccio per ore, poi condotto anch’esso nell’aia insieme ai suoi parrocchiani prigionieri. Erano uomini di tutte le età, compresi tra i 17 e gli 84 anni, persino un povero paralitico, posti di fronte alle armi automatiche. Dopo aver derubato quanto potevano dal paese, i tedeschi fecero allontanare le donne e mitragliarono gli uomini; quindi le case vennero date alle fiamme. Furono 24 i civili trucidati a Cervarolo e tra loro anche il parroco G.Battista Pigozzi, in quella tragica giornata. Solo tre persone scamparono alla morte.
Per oltre 50 anni non è stato possibile individuare le responsabilità individuali della strage. Solo dopo il 1994 con l’apertura dell’”Armadio della vergogna” a Roma, ove erano stati occultati-negli anni sessanta- i fascicoli relativi alle indagini compiute nell’immediato dopoguerra il percorso di giustizia è stato riavviato con le indagini condotte dalla Procura Militare di La Spezia che hanno condotto al processo che ha preso il suo avvio nel novembre 2009 presso il Tribunale Militare di Verona.

Grande Stanley!

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Dieci anni di ricerche, la catalogazione di migliaia di negativi originali per arrivare a un grande risultato: le fotografie del geniale Stanley Kubrick, una sorta di racconto in immagini, inedito. È la prima volta, che una mostra indaga un aspetto finora poco conosciuto della carriera del regista noto al mondo per i suoi film. Dal 16 aprile al 4 luglio 2010, a Palazzo della Ragione di Milano saranno esposte 300 fotografie, suddivise in 12 storie, stampate dai negativi originali, realizzate da Stanley Kubrick dal 1945 al 1950 quando, a soli 17 anni, venne assunto dalla rivista americana Look. L’esposizione, presentata a Milano dal curatore Rainer Crone, realizzata dal Comune di Milano e da Giunti Arte Mostre Musei, in collaborazione con la Library of Congress di Washington e il Museum of the City of New York (che custodiscono un patrimonio ancora sconosciuto di oltre 20.000 negativi di Kubrick giovanissimo), testimonia la sua capacità di raccontare la vita quotidiana dell’America dell’immediato dopoguerra, attraverso le storie di celebri personaggi come Rocky Graziano o Montgomery Clift, le inquadrature fulminanti e ironiche nella New York che si apprestava a diventare la nuova capitale mondiale, o ancora la vita quotidiana dei musicisti dixieland.

(Stanley Kubrick, Autoritratto)