Libertà e diritti della persona: la bussola dei Padri costituenti

di Lorenza Carlassare

Le elezioni del 2 giugno 1946 ebbero come risultato l’emergere in Assemblea Costituente di due gruppi praticamente equivalenti, la Democrazia Cristiana da un lato e i partiti della sinistra (socialisti e comunisti) dall’altro; assai distaccate, alcune formazioni minori. L’elemento tutte comune a tutte, dopo l’esperienza vissuta, era l’antifascismo.
La Costituzione del 1948 ha la sua premessa nella resistenza, nel ripudio dello stato autoritario e dei suoi dogmi, nella volontà di ripristinare la democrazia e i principi dello Stato di diritto. Ciò spiega la forza delle idee liberali, ben superiore alla forza numerica del gruppo. Sulla base dell’idea liberale che vuole il potere regolato e sottoposto a limiti giuridici per garantire diritti e libertà, storicamente congiunto all’idea democratica, s’innestano alcuni elementi propri delle dottrine delle due forze dominanti, cristiano sociale e socialista.
Ma il conto delle forze in campo e il loro confronto numerico, certamente assai rilevante, vale fino a un certo punto; le idee circolavano, in Italia e fuori. La Costituzione va collocata in uno scenario più ampio, addirittura mondiale, traversato da idee e speranze comuni maturate attraverso esperienze tragiche che non si volevano ripetere, aperto o orizzonti diversi e nuovi. Proiettandola in uno scenario meno angusto, meglio si comprendono le forti convergenze e i tra i Costituenti e il loro perché. È giusto, ma riduttivo, vedere nella Costituzione solo il prodotto dell’antifascismo, il rigetto della dittatura come esperienza italiana.
La lotta antifascista si iscrive nell’ampio scenario di una guerra mondiale condotta e vinta contro tutti i ‘fascismi’ dominato dall’intento di costruire un mondo diverso e migliore, che potesse ridare dignità alla persona. Il valore della persona era nella cultura comune dei Costituenti, decisi nell’affermarne i diritti non solo come garanzia di una sfera intoccabile di libertà e di partecipazione politica, ma anche come tutela effettiva dei diritti stessi attraverso l’assicurazione di condizioni esistenziali dignitose.
Riecheggia nel testo della Carta italiana il pensiero espresso al di là dell’oceano nel pieno della seconda guerra mondiale (1941) da Franklin Delano Roosevelt, presidente degli Stati Uniti, nella famosa proclamazione delle quattro libertà, dove a quelle tradizionali – libertà di pensiero e di espressione , di religione – si affiancava la libertà dalla paura e la libertà dal bisogno. Non stupisce dunque che nella Costituente subito si parlasse di dignità della persona e di diritti sociali. Le idee girano.
Tanto è vero che alcuni dei più significativi articoli della Costituzione, ad esempio l’art.3, comma 2, riprendono affermazioni di persone, elette poi alla Costituente, neppure appartenenti alle formazioni politiche maggiori. Penso a Piero Calamandrei del Gruppo autonomista, una piccola formazione che si ispirava al pensiero di Carlo Rosselli, che considerava il problema della libertà individuale e il problema della giustizia sociale “un problema solo”: non basta assicurare al cittadino “teoricamente le libertà politiche, ma bisogna metterlo in condizione di potersene praticamente servire”.

Di libertà politica “potrà parlarsi solo in un ordinamento in cui essa sia accompagnata per tutti dalla garanzia di quel minimo benessere economico”, senza il quale la possibilità di esercitare i diritti viene meno. I tradizionali diritti vanno dunque riempiti di “sostanza economica”, integrati da quel minimo di giustizia sociale, la cui mancanza “equivale per l’indigente alla loro soppressione giuridica”.
Ai diritti sociali “corrisponde l’obbligo dello Stato di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che si frappongono alla libera espansione morale e politica della persona umana”. In termini analoghi si esprimevano Mortati e La Pira, cattolici entrambi.
Si può parlare dunque di una cultura comune dei Costituenti, decisi nell’affermazione dei diritti della persona non solo come garanzia di una sfera intoccabile di libertà e di partecipazione politica, ma anche come tutela effettiva di quelli stessi diritti, attraverso l’assicurazione di condizioni esistenziali dignitose. Fin dal primo articolo si parla del “lavoro”, base della democrazia, condizione prima della dignità umana. Eliminare questo riferimento, è già rovesciare il senso dell’intera Carta.

Da il Fatto Quotidiano del 5 gennaio

Che tristezza quegli outlet (Aldo Cazzullo)

La coda dei milanesi all’outlet di Serravalle, dove i saldi non erano ancora iniziati, con il centro di Milano semideserto tranne corso Buenos Aires e via Montenapoleone, dove i saldi c’erano già, è un dato che va oltre la cronaca. Segna la definitiva trasformazione del centro commerciale in piazza, città, posto non solo di commercio, ma anche di incontro. Non ha più senso chiamarli «non luoghi». Non sono spazi artificiali dove non si depositano memoria e identità. Sono, soprattutto per i giovani, ma ormai pure per le famiglie, i nuovi luoghi della vita, che stanno sostituendo quelli — appunto il centro storico, la piazza, il paese; ma anche la chiesa, lo stadio, il cinema — dove i nostri padri per secoli si sono conosciuti, parlati, amati, magari imbrogliati.

Non a caso, da Fidenza a Valmontone, da Noventa Piave a Mantova, i centri commerciali che hanno fatto i migliori affari d’inizio 2010 si chiamano outlet. Non a caso, sono costruiti come paesi finti, come borghi medievali posticci, con le mura, le porte, le fontane e le botteghe, dove portare il cane a passeggio, i bambini a giocare, e la moglie (o il marito) a prendere con 99 euro il maglione di cachemire che fino a qualche giorno fa in centro ne costava 400. Outlet, che in inglese vuol dire tutt’altra cosa, è parola-chiave dell’Italia di oggi. Non indica solo il centro commerciale divenuto città nuova. È metafora della svendita. Simboleggia la mercificazione dei valori. Può significare il degrado dei rapporti umani, un tempo in cui tutto può essere comprato e venduto, con la rapidità di chi considera la conversazione una perdita di tempo e la cortesia un segno di debolezza.

Non è detto però che questa profonda trasformazione sia negativa. Certo coincide con una perdita. La piazza è un tratto distintivo della nostra civiltà: non esiste nella cultura araba, dove la città prende forma attorno al commercio e i suq sono centro commerciale ante- litteram; né in quella americana, dove i «mall» sono da sempre passatempo preferito e primo luogo di aggregazione. Ma serve davvero a poco rimpiangere il buon tempo andato; anche se va tenuto a mente che i denari spesi nel negozietto sotto casa restano all’interno della comunità anziché finire alle multinazionali. Né è utile ripeterci che le città italiane sono le più belle del mondo; il che è vero, ma dovrebbe essere uno sprone più che una consolazione. Serve di più rendere i centri storici «competitivi» con i centri commerciali: sicuri, facili da raggiungere, attraenti anche il tardo pomeriggio e la sera, grazie a quelle ricchezze — l’arte, la musica, il teatro, financo la preghiera—che nelle nostre città si forgiano da secoli, e che gli outlet (a Serravalle suonano cantautori e jazzisti, a Roma Est la domenica si celebra la messa) possono al più riprodurre. I segnali di vita non mancano. La Bocconi e le vie attorno, la sera dopo il pacco-bomba del 16 dicembre, erano piene di giovani per l’inaugurazione di una mostra. Venezia discute su come salvare le sue botteghe. I commercianti della capitale pensano a saldi più frequenti, a ogni fine stagione. E forse riusciranno anche a risolvere il giallo del maglione di cachemire che ieri costava 400 euro e oggi 99.

http://www.corriere.it/editoriali/10_gennaio_05/editoriale-cazzullo-outlet_eba0a252-f9c2-11de-ad79-00144f02aabe.shtml

Assalto agli outlet (Giuseppe Caliceti)

Assalto agli outlet (Giuseppe Caliceti)

Boretto ore 9, è il 2 gennaio, le porte automatiche di Diffusione tessile si aprono, una marea di donne di ogni età e provenienza entra assatanata nel negozio. Insieme a loro un dieci per cento di maschi dai trenta ai sessant’anni. Io per questa impresa mirabolante sono stato arruolato mesi fa dalla giovane donna che accompagno. Iniziano i saldi, non possiamo lasciarceli scappare. Specie in tempo di crisi.
Inizio a rincorrere la giovane donna da uno scaffale all’altro. Le mie braccia iniziano a riempirsi di abiti. Il mio ruolo è semplice: l’uomo-attaccapanni. Anche gli altri uomini dentro al negozio fanno lo stesso. Gli uomini-attaccapanni rincorrono le loro donne-salvadanaio da uno scaffale all’altro dell’immenso negozio. Le donne palpano i tessuti, passano in rassegna i capi di abbigliamento. Mi metto ad ascoltare le coppie accanto. Lui: “Ma quanti ne prendi?” Lei: “Ma adesso li provo e poi scelgo”. Lui: “Ma non dovevamo risparmiare?” Lei: “Se non è risparmio questo! Costava 400 euro e adesso è a 190”. Lui: “Ma sono sempre 190!”.
Intanto anche le mie braccia si riempiono di abiti, giacche, sciarpe, borsette. E’ arrivato il momento della prova abiti anche per la mia giovane donna. Naturalmente tutti i camerini a disposizione sono occupati. Mi metto vicino ad uno in attesa che si liberi. Mi guardo attorno. Ci sono ragazze senza uomo-attaccapanni al seguito che si mettono addirittura in reggiseno, pur di provarsi camicie e maglioni. Altre avventurose e intrepide mamme che si sono portate dietro carrozzine sgommanti e pupi addormentati da ore. Sono sempre lì ad aspettare che un camerino si liberi. Una signora chiama una commessa e si lamenta perché c’è un’altra signora che ha messo a guardia del camerino suo marito e lei va e viene a far prove vestito.
Finalmente si libera un camerino. Mi avvento. La mia giovane donna si inizia a provare i capi d’abbigliamento selezionati. L’operazione dura un’ora. Al termine si portano i capi scelti alla cassa e lei riprende a girare tra gli scaffali come un barracuda affamato. Io sono stremato. Chiedo di fare una pausa. Alla toilette dei maschi c’è la fila, invece a quella delle donne non c’è stranamente nessuno. Mi metto in turno, aspetto. Torno sul campo di battaglia e continuo a fare l’uomo-attaccapanni. Mi metto ancora a caccia di un camerino. Portiamo un cappotto alla cassa. Ci sono file più lunghe che all’ipercoop alla chiusura.
Chiedo un’altra pausa. Esco all’esterno del negozio a fumare. Di nuovo solo uomini. Uno, sui cinquanta, dice a un altro: “Nella buona e nella cattiva sorte. Compreso a Boretto all’apertura dei saldi”. Tutti hanno la faccia un po’ lunga come me. C’è chi ha detto che la pornografia è per gli uomini quello che sono i cartoni animati per i bambini. Beh, a Boretto ci sono i cartoni animati per le donne. Le guardo in faccia: hanno tutte disegnate addosso un’aria soddisfatta, quella di chi sa di aver fatto un grande affare.
Tre ore, quattro ore. Finisco il pacchetto di sigarette. Torno in bagno. Mi metto in fila per le casse mentre la mia giovane donna sfreccia per gli scaffali per essere sicura di non essersi dimenticata nulla. Sciarpe? Guanti? Cinture? Altri accessori vari? Esco da Diffusione tessile come Babbo Natale. Carico tutto in auto. Accendo il motore. La giovane donna mi chiede: “E gli altri negozi non li guardiamo?”.

http://www.reggio24ore.com/Sezione.jsp?titolo=Saldi&idSezione=9190

Le scarpe nuove (C.De Gregorio)

L’anno scorso di questi tempi facevamo i conti con l’onda d’urto della più grave crisi economica degli ultimi decenni. La grande illusione di un’economia cresciuta non sul moltiplicarsi e sull’equo distribuirsi dei beni, ma sulla speculazione finanziaria finiva chiusa nei cartoni dei manager di Manhattan costretti a lasciare uffici in disarmo. La fine di un lungo ciclo che dagli anni Ottanta in poi aveva accelerato la corsa a far soldi coi soldi o almeno con la promessa che venissero.

Ci saremmo aspettati, avremmo avuto bisogno, dell’ingegno delle migliori menti, delle energie più fresche, della piu saggia lungimiranza per rifondare un nuovo inizio. Non la ripresa dei consumi, non solo. Prima di tutto un progetto per la produzione e il lavoro, un disegno di lungo periodo che desse agli italiani un orizzonte di certezze. Abbiamo avuto invece la social card. Molta propaganda e qualche briciola che i nostri lettori (e noi con loro) giudicarono subito farraginosa e sostanzialmente inutile. È stata infatti usata pochissimo. I poveri sono rimasti poveri e molti altri lo sono diventati. Abbiamo avuto insieme la stagione politica più desolante e grottesca che potessimo immaginare. Gesta da fine impero, titolammo non molto tempo fa quando il capo del governo, travolto dal suo privato stile di vita, rese esplicita una vocazione imperiale del tutto inadeguata ai tempi, al luogo e persino al suo stesso enorme potere.

È stato un anno di bulli e pupe mentre l’Italia scivolava all’indietro perdendo quantità e qualità nel lavoro, la scuola, la salute, la capacità di integrarsi e di progettare il futuro. Un anno di prove di forza giocando a chi e più furbo, più svelto a scappare e a sfruttare l’onda. La minorenne Noemi, le origini della cui amicizia col premier sono tuttora ufficialmente ignote, viaggia ormai maggiorenne verso un futuro da modella, Patrizia D’Addario ha scritto un libro. Fabrizio Corona è stato condannato in un’aula in cui si è presentato a torso nudo dicendo, in sostanza, così fan tutti ma pago solo io. La transessuale Brenda è morta in circostanze misteriose. Storie di sesso e ricatti, sesso comunque sempre a pagamento, hanno tenuto banco sui giornali. Il ministro Alfano ha visto naufragare il suo lodo salva premier, ma non è detta l’ultima. Il pentito Spatuzza ha raccontato con chi la mafia avesse rapporti, ma hanno fatto tutti finta di scambiare un Graviano per l’altro, la pratica per il momento è chiusa. Gli operai sono saliti sulle gru, così almeno qualcuno si è accorto di loro. Una moltitudine di giovani è scesa in strada vestita di viola. Molti altri si arrangiano, espatriano quelli che possono. Chi resta, noi che restiamo, speriamo che lo show sia finito e lavoriamo per questo. Ostinandoci a credere nella ragione, nell’onestà d’intenti, nella giustizia, nella capacita di reagire di un popolo che sa farlo. E nella crescita di un’opposizione ancora inadeguata, divisa e incapace di indicare una rotta che somigli a una speranza. Serve uno scatto di reni in questa corsa, un indice puntato a indicare a tutti l’orizzonte. Il 2010 è l’anno. Forza, mettete le scarpe nuove e andiamo. Sarà una bella maratona se la corriamo insieme.
http://concita.blog.unita.it//Le_scarpe_nuove_869.shtml

Mio zio e mio nonno, uccisi dalla mafia, non avranno mai una via!

“Mio zio e mio nonno, uccisi dalla mafia, non avranno mai una via!”
Con la targa a Craxi vogliono riscrivere la storia del Paese


Pubblichiamo la lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di Benny Calasanzio, giornalista e nipote di Paolo e Giuseppe Borsellino, piccoli imprenditori di Lucca Sicula uccisi dalla criminalità mafiosa nel 1992, lo stesso anno delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio: “Mentre loro fronteggiavano a viso aperto mafia e mafiosi, Craxi rubava e si arricchiva. E questo ora gli frutterà una bella targa”.

di Benny Calasanzio

Gentile Presidente della Repubblica,

le scrivo da semplice cittadino che ha alle spalle un’infanzia segnata, come purtroppo tanti siciliani, dagli omicidi del nonno e dello zio, ammazzati l’uno dopo l’altro per mano mafiosa, per non aver ceduto la loro azienda alle richieste di cosa nostra, pur sapendo che questo sarebbe costato loro ciò che di più prezioso avevano: la vita.
Senza timore essi decisero di barattarla con qualcosa che forse allora valeva di più, la dignità, la capacità di poter guardare negli occhi fino in fondo noi, piccoli nipoti che crescevamo in cattività, lontano dai mostri che attanagliavano la Sicilia. Decisero di morire ma di farlo liberi e portando con loro l’onore, la certezza di aver vissuto a testa alta, e di non averla abbassata mai, nemmeno di fronte alla grande e solenne cosa nostra, che all’epoca, come oggi, decideva su ogni cosa, dall’assegnazione dei lavori pubblici alle nomine ministeriali.

Avevano 32 e 56 anni. Mio zio Paolo Borsellino, omonimo del giudice, aveva due figli, uno di 2 e l’altro di 5 anni. Fu ucciso il 21 aprile del 1992. Mio nonno, Giuseppe Borsellino, di anni ne aveva 52 e di voglia di vivere tanta. Dopo essere riusciti con sacrifici indicibili a mettere in piedi il loro impianto di calcestruzzo a Lucca Sicula (AG), e dopo aver suscitato gli appetiti delle cosche locali, che li minacciarono ripetutamente di morte, incendiando i loro mezzi e i loro frutteti, decisero di non mollare.
Avrebbero potuto cedere, magari entrare nel giro, magari allearsi con il più forte. Avrebbero avuto in cambio denaro, magari potere, beni per loro e per la nostra famiglia. Magari oggi saremmo estremamente ricchi, magari sarebbero amministratori pubblici. Purtroppo o per fortuna andò diversamente, e oggi siamo una famiglia che ha raccolto dal sangue per due volte due nostri cari. Una famiglia che ha visto i fori che nel corpo lasciano i proiettili. Che ha visto come un caricatore intero di mitraglietta può ridurre un uomo in carne e ben messo.
Tutto questo per essere stati corretti, leali e dignitosi. Per aver agito in virtù della legalità, rifuggendo da scorciatoie e compromessi. A loro nessuno ha dedicato una via, una piazza, un giardino. Anzi, nessuno c’ha mai pensato. Nessun sindaco, nessun presidente di provincia o di regione si è mai accorto di questi due morti di serie D.

Ogni tanto, di notte, sogno di essere in una qualche città del mondo e di alzare gli occhi, e leggere su una targa “Giuseppe e Paolo Borsellino, padre e figlio, uccisi dalla mafia ma morti liberi e vincitori”. E mi è successo anche una di queste notti. Solo che all’indomani ho scoperto che quella targa magari ci sarà presto, in una qualche via di Milano, ma al posto del nome dei miei parenti ci sarà quello di Bettino Craxi. Bettino che la mafia non l’ha mai combattuta, ma in compenso ha fatto ciò che di peggio può fare un politico: si è venduto al miglior offerente, ha rubato denaro pubblico per i suoi piaceri e, in minima parte, per il suo partito.
Mio nonno e mio zio non ebbero la fortuna di essere condannati a 5 anni e 6 mesi per corruzione nel processo Eni-Sai e a 4 anni e 6 mesi per finanziamento illecito per le mazzette della metropolitana milanese. Craxi si. Furono degli idioti? O suona meglio coglioni per dirla come la direbbe il premier? Di certo furono illusi. Mi fa un certo senso pensare che mentre loro fronteggiavano a viso aperto mafia e mafiosi, Craxi rubava e si arricchiva. Negli stessi esatti momenti. E questo ora gli frutterà una bella targa, una via, magari un giardino in cui i bambini cresceranno, chiedeno ai genitori chi sia stato Craxi, cosa abbia fatto di così grande di meritarsi un parco. Una via verrà dedicata a chi è morto fuori dall’Italia per non finire in galera. E a chi invece è morto proprio per rimanere nella sua terra, la Sicilia, a lottare da solo di fronte a un esercito? Oblio, maldicenze, infamia.


Se questo è quello che siamo diventati, se una sollevazione pacifica e popolare non fermerà questo orrore, io benedirò quelle armi e quei killer che hanno devastato le nostre vite, perchè hanno fatto si che mio nonno e mio zio non assistano oggi ad un criminale che viene innalzato al rango di eroe, ricordato dal Presidente della Repubblica, e riverito dai compagni di Pio La Torre, che in quegli anni si pulivano la coscienza dopo averlo venduto alla mafia. Loro non possono vederlo, e questo è il mio unico sollievo.

(31 dicembre 2009)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/mio-zio-e-mio-nonno-uccisi-dalla-mafia-non-avranno-mai-una-via/

Cronache contemporanee

25 dicembre 2009
“Trovato neonato in una stalla – La polizia e i servizi sociali indagano”
“Arrestati un falegname e una minorenne”

BETLEMME, GIUDEA –
L’allarme è scattato nelle prime ore del mattino, grazie alla segnalazione di un comune cittadino che aveva scoperto una famiglia accampata in una stalla.
Al loro arrivo gli agenti di polizia, accompagnati da assistenti sociali, si sono trovati di fronte ad un neonato avvolto in uno scialle e depositato in una mangiatoia dalla madre, tale Maria H. di Nazareth, appena quattordicenne.
Al tentativo della polizia e degli operatori sociali di far salire la madre e il bambino sui mezzi blindati delle forze dell’ordine, un uomo, successivamente identificato come Giuseppe H. di Nazareth, ha opposto resistenza, spalleggiato da alcuni pastori e tre stranieri presenti sul posto.
Sia Giuseppe H. che i tre stranieri, risultati sprovvisti di documenti di identificazione e permesso di soggiorno, sono stati tratti in arresto.
Il Ministero degli Interni e la Guardia di Finanza stanno indagando per scoprire il Paese di provenienza dei tre clandestini.
Secondo fonti di polizia i tre potrebbero infatti essere degli spacciatori internazionali,dato che erano in possesso di un ingente quantitativo d’oro e di sostanze presumibilmente illecite.
Nel corso del primo interrogatorio in questura gli arrestati hanno riferito di agire in nome di Dio, per cui non si escludono legami con Al Quaeda.
Le sostanze chimiche rinvenute sono state inviate al laboratorio per le analisi.

La polizia mantiene uno stretto riserbo sul luogo in cui è stato portato il neonato.
Si prevedono indagini lunghe e difficili.
Un breve comunicato stampa dei servizi sociali, diffuso in mattinata, si limita a rilevare che il padre del bambino è un adulto di mezza età, mentre la madre è ancora adolescente.

Gli operatori si sono messi in contatto con le autorità di Nazareth per scoprire quale sia il rapporto tra i due.
Nel frattempo, Maria H. è stata ricoverata presso l’ospedale di Betlemme e sottoposta a visite cliniche e psichiatriche.
Sul suo capo pende l’accusa di maltrattamento e tentativo di abbandono di minore.

Gli inquirenti nutrono dubbi sullo stato di salute mentale della donna, che afferma di essere ancora vergine e di aver partorito il figlio di Dio.
Il primario del reparto di Igiene mentale ha dichiarato oggi in conferenza stampa: “Non sta certo a me dire alla gente a cosa deve credere, ma se le convinzioni di una persona mettono a repentaglio – come in questo caso – la vita di un neonato, allora la persona in questione rappresenta un rischio sociale.
Il fatto che sul posto siano state rinvenute sostanze stupefacenti non migliora certo il quadro.
Sono comunque certo che, se sottoposte ad adeguata terapia per un paio di anni, le persone coinvolte – compresi i tre trafficanti di droga – potranno tornare ad inserirsi a pieno titolo nella società.” Pochi minuti fa si è sparsa la voce che anche i contadini presenti nella stalla potrebbero essere consumatori abituali di droghe.
Pare infatti che affermino di essere stati costretti a recarsi nella stalla da un uomo molto alto con una lunga veste bianca e due ali sulla schiena (!), il quale avrebbe loro imposto di festeggiare il neonato.
Un portavoce della sezione antidroga della questura ha così commentato:
“Gli effetti delle droghe a volte sono imprevedibili, ma si tratta senz’altro della scusa più assurda che io abbia mai sentito da parte di tossicodipendenti.”

grazie all’amico Amos

Un ricordo per…

Un ricordo per due artisti che in queste giornate di festa ci hanno lasciato. Il primo è Giulio Bosetti, attore teatrale e televisivo (chi-over 40-non ricorda La vita di Leonardo da Vinci (1971) o i più giovani la sua interpretazione di Eugenio Scalfari in Il Divo (2008)?).

Il secondo è Giancarlo Sgorlon, autore di Il trono di legno (1973), La regina di Saba (1975), Gli dei torneranno (1977), La carrozza di rame (1979), fino all’ultimo  La penna d’oro (Morganti, 2008). Uno scrittore forte, legato alla sua terra friulana, l’autore italiano forse più vicino a Garcia Marquez.

Il tempo che passa significa anche vedere andar via scrittori e attori senza che nulla di meglio venga a sostituirli, ecco perchè la scoperta di nuovi autori (come è stato per me, recentemente, quella di Safran Foer, classe 1977 o dei fratelli Cohen) lascia un brandello di speranza per il futuro.

Un paese in declino (intervista a Ludovico Einaudi)

“L’Italia è un paese in declino, in preda alla cultura televisiva, a un misto di violenza e sensazionalismo, al gossip sfrenato. Fatico a riconoscermi nell’Italia che conoscevo….” Racconta della domanda ossessiva dei giornalisti stranieri: come fa a sopportare l’Italia di Berlusconi? “E’ mortificante riascoltarla per mesi…anch’io a volte facevo domande su Bush agli americani, ma non tutti erano portatori dei valori di Bush, tanti non vedevano l’ora di liberarsene. Così rispondo: vi sembra incredibile, ma Berlusconi è stato eletto. E’ una pianta spuntata da una terra molto ben concimata. Concimata per anni, bruciando il prato intorno…Il terreno l’ha preparato attraverso la tv commerciale, che è oggi la nuova coscienza culturale italiana. Io non la guardo. La trovo triviale.…La televisione in Italia interpreta lo stesso spirito, greve e maschilista, che berlusconi cavalca da anni: Quest’estate ne abbiamo avuto la massima evidenza con i suoi comportamenti pubblici e privati. Io sono legato a Milano e ai miei figli, ma sto meglio a Londra o a Berlino. Provo un senso di pena per un paese sempre più cialtrone, ripiegato sull’insulto reciproco. Dove anche la sinistra sa solo demolire, incapace di un progetto credibile, senza un leader in cui mi possa riconoscere. Il paese dell’arrangiarsi e del salvarsi improvvisando.”

L’Espresso, 29 dicembre 2009, pp.100-102

“I” come italiano

Quella «I» come «italiano» che la scuola ha trascurato
Un documento della Crusca e dei Lincei lancia l’allarme: i ragazzi ignorano la lingua madre

L’ italiano a scuola è minacciato. Da chi? Da tutti (o quasi): dalla politica, e cioè dalle riforme previste o, meglio, minacciate, dagli allievi che non vogliono saperne di regole in gene rale, figurarsi di quelle grammaticali, persino dai professori, e vedremo per ché. L’insegnamento dell’italiano è minacciato anche (o soprattutto) dalla società, che offre poli di attrazione ben diversi dall’approfondimento della lingua-madre: immagini, tecnologie, internet, l’immancabile televisione eccetera.
La riforma, si diceva: per alcuni indirizzi della scuola superiore prevede una riduzione. Ma non è questo quel che conta davvero: a preoccupare è l’atteggiamento di genera le superficialità con cui si guarda alla nostra lingua. Per esempio, a molti addetti ai lavori è sembrata una provocazione, con questi chiari di luna, la recente crociata leghista per il dialetto nelle scuole. I chiari di luna sono quelli che impietosa mente emergono dalle classifiche internazionali (Ocse-Pisa) riguardanti le competenze linguistiche dei nostri giovani, collocati agli ultimi posti. Per queste buone ragioni, le due maggiori accademie italiane, la Crusca e i Lincei, hanno deciso di lanciare un appello su Lingua italiana, scuola, sviluppo, partendo da un principio solo apparentemente assodato: «una padronanza medio-alta dell’italiano è un bene per il Paese e il suo sviluppo culturale ed economico ». Assodato? Niente affatto, sarebbe meglio non dare niente per scontato. Vi ricordate il famoso slogan delle tre «I» su cui un passato governo Berlusconi fondava la prospettiva di una scuola rinnovata? C’era di tutto (inglese internet impresa) salvo che l’italiano che pure aveva la stessa iniziale.

L’appello degli accademici, steso da Francesco Bruni, sostiene che «una conoscenza della lingua materna sicura e ricca, che non si limiti ai bisogni comunicativi primari, elementari (…) è una precondizione per un Paese civile». Quel che si propone è insomma «un deciso rafforzamento dell’italiano nell’insegnamento scolastico». Con una sottolineatura: che le ore dedicate alla lingua siano tenute ben distinte da quelle riguardanti la lettura dei testi. Il che riduce l’antica prevalenza crociana della letteratura come disciplina regina, per ripartire più terre à terre dalla lingua d’uso. Il paradosso vuole addirittura che studenti Erasmus venuti da noi dopo aver imparato l’italiano all’estero siano più preparati dei nostri sulle strutture morfologiche e sintattiche e persino sul lessico.

Il filologo Cesare Segre, professore universitario di lungo corso, conosce bene le carenze degli studenti: «Sanno poche parole, non sono capaci di costruire frasi complesse e fanno errori di ortografia gravissimi, insomma non sanno usare la lingua: riassumere, raccontare, riferire. Questo significa che non hanno il dominio della realtà, perché la lingua è il modo che abbiamo per metterci in contatto con il mondo: e se non sei capace di esprimerti non sei capace di giudicare. Per di più la civiltà dell’immagine in genere usa la lingua per formulare slogan e non ragionamenti». C’è poi la questione della presunta concorrenza dell’inglese: «Se non possiedi la struttura della tua lingua non sei in grado di imparare le altre, per questo le campagne a favore dell’inglese non hanno senso se non si legano a un miglioramento dell’italiano».

Basterà rivedere i programmi? Aggiungere un’ora? O mantenere le attuali? Il presidente d’onore della Crusca, Francesco Sabatini, punta su un aspetto che definisce paradossale: «Non c’è nessun collegamento tra la formazione universitaria e l’immissione degli insegnanti nella scuola: si richiederebbe una competenza linguistica e tecnico-didattica specifica. Un tempo poteva insegnare italiano nelle superiori anche un laureato in giurisprudenza che aveva fallito la carriera di avvocato oppure un laureato in pedagogia. Ma ancora oggi se io chiedo a cento professori di italiano quanti hanno studiato linguistica o storia della lingua, rispondono positivamente soltanto in dieci. Il predominio della letteratura è un tardo influsso crociano». Non per niente Sabatini ha scritto già un paio d’anni fa un saggio intitolato Lettera sul ritorno alla grammatica. Ma contro la grammatica sembrano schierarsi persino i professori, che forse sarebbero i primi a doverla imparare: «È vero, c’è un blocco dei docenti, i quali sostengono che chi sa bene la letteratura può insegnare tranquillamente la lingua. Per non dire poi dei ministeri, che ignorano persino l’esistenza di una disciplina che si chiama linguistica». Insomma, ci vorrebbe, secondo Sabatini, una politica mirata all’insegnamento dell’italiano, tenendo conto del fatto che l’italiano serve a tutti i cittadini e a tutti i professionisti: non solo ai docenti di italiano, ma ai magistrati, agli avvocati, ai medici, agli ingegneri eccetera.

E il dialetto? «È importante culturalmente, storicamente, strutturalmente. Va bene presentarlo, ma insegnarlo sistematicamente sarebbe una follia: il dialetto si impara, non si insegna». Bisogna andare sul campo, come si dice, per avere una voce ancora più netta sulla questione. Carla Marello è glottodidatta all’Università di Torino e si occupa molto dell’insegnamento a stranieri. Una prospettiva diversa? «No, tutto ciò che vale nell’insegnamento dell’italiano agli stranieri, serve a maggior ragione per i parlanti nativi. Oggi poi…». Oggi? «Con le classi multilingue l’insegnamento dell’italiano è cambiato per forza. Se poi sentiamo in televisione il Grande Fratello, si capisce subito che la lingua dei giovani è diversa da quella delle antologie scolastiche e dalle scritture artificiali che si richiedono nei temi». Dunque? «La scuola continua a in segnare un italiano fittizio, c’è un distacco enorme tra l’esempio che diamo e ciò che gli allievi sono in grado di recepire. Dunque se vogliamo che l’italiano scritto dei nostri ragazzi migliori dobbiamo impegnarci a farli scrivere di cose concrete, con un insegnamento molto pratico che non guardi più alla lingua letteraria come al solo modello». Bandire la letteratura? «No, si arriverà alla letteratura come massimo grado di utilità e bellezza, ma prima punterei su forme di scrittura meno belle e più concrete, senza ostinarmi a perseguire norme utopiche e senza dare per scontato niente». Proprio niente? Neanche la differenza tra scritto e orale? «Tra scritto e parlato c’è uno scollamento enorme: puntando sul parlato, alzeremo anche il livello dello scritto. Sempre meglio dire: ‘se lo sapevo non venivo’ piuttosto che ‘se non lo saprei non verrei’. Che bisogno c’è di pretendere a tutti i costi ‘se l’avessi saputo non sarei venuto’? Pazienza se non sarà lo scritto di Igor Man o di Scalfari, ma quello più realistico della Littizzetto! ».

Paolo Di Stefano