Il telefono..la tua vita

cell_Gno.jpgDa bravo pendolare, consumo benzina e osservo. Alla faccia delle regole, la gente che guida sta al telefono, spesso senza cintura. A questo penseranno, forse, le forze dell’ordine. Ma sono quelle telefonate che mi destabilizzano, mi scombussolano, mi spingono all’orlo della depressione. Tutta quella gente al telefono ovunque, in curva, alla rotonda, allo svincolo, ha qualcuno con cui parlare, qualcuno li ha chiamati, hanno cose importanti da dirsi. Dichiarazioni forse decisive, svolte esistenziali, alle otto del mattino come alle due del pomeriggio, sotto il sole che picchia senza ritegno, in questa fine estate da forno del pane (o di Hansel e Gretel?). Perché quelle telefonate, mi convinco, devono essere decisive se uno/a sta attaccata al cellulare, contorcendosi per tenerlo in mano e/o al momento di cambiare marcia infilandolo fra spalla e orecchio, assumendo quella simpatica posizione da gobbo di Notre Dame. In quel cellulare c’è la loro vita, forse stanno lasciando la famiglia, hanno un nuovo amore, stanno pianificando vite splendide, accettando incarichi prestigiosi.

E io? Perché non mi chiama mai nessuno? O se talvolta succede, tre/quattro volte all’anno, perché non colgo quell’occasione e chiudo la chiamata o, al massimo, accosto a destra e mi fermo? Non si fa così. Non si interrompe un’emozione, diceva quello. È che forse la mia vita non è interessante, nessuno mi propone l’occasione storica, non mi comunica la botta di c.. che cambia tutto. Oppure io non ho nulla da dire. Devo rassegnarmi alla dura realtà.

E se invece tutta ‘stà gente non stesse altro che cazzeggiando allegramente con altri cazzeggiatori, cazzeggiando del nulla assoluto e totale, ad esclusivo vantaggio delle società telefoniche? Un vaniloquio come momentaneo sollievo al vuoto imperante delle loro vite? Abbiamo vissuto quarant’anni senza cellulari: eravamo meno felici o incasinati di questi nostri semoventi contemporanei? Eppure ci siamo sposati, fatto figli, trovato un lavoro, come è stato possibile farlo senza neppure un sms? La questione mi tormenta in queste notti, calde anche a FB, poi, in un istante di lucidità (raro, è vero, ma possibile) penso quasi con simpatia a tutti questi cazzeggiatori semoventi e li capisco (sfpd). Tutti siamo caduti, almeno una volta, nella trappola/speranza che una chiamata potesse cambiare qualcosa, tutti abbiamo avuto l’illusione/assuefazione che comperando, spendendo, la nostra vita migliorasse, che una voce ci togliesse dalla fanghiglia quotidiana. Tutti poveracci in cerca di una piccola soddisfazione che ci allontani dalle domande vere, dal guardarci allo specchio ogni mattina senza riconoscerci, o, al contrario, incontrando sempre quella persona che non ci piace più.

Un saluto a un amico

2010-07-21-Kodachrome.jpgOgni giorno ci porta via qualcosa e, da un certo punto della vita in poi, non ci regala più nulla. Così va la vita, direbbe Vonnegut. Anche questo fine anno porta via un amico, il Kodachrome. La pellicola a colori Kodak, nata nel 1935 e defunta, con la chiusura dell’ultimo laboratorio, ieri. Libero campo alla sana, pura, dolce nostalgia: nostalgia di tempi in cui scattavi un rullino e sapevi com’era quindici giorni dopo, perchè il Kodachrome non era come l’Ektachrome che i laboratori lo trattavano anche a Bagnolo, no, il Kodachrome, anche negli anni ottanta, era un’altra cosa: si spediva “alla Kodak”, ti diceva il vecchio Artioli, e aspettavi. Altro che schermo da 2,5 pollici e scheda di memoria. La diapositiva era una cosa seria, non le pippette che scattiamo a raffica oggi, “tanto non costa nulla”. Ho accumulato, ormai, qualche migliaio di file digitali che so, per certo, andranno tutti persi. Anzi, sono già persi, chiusi in un hard disk, nessuno cui farli vedere. Ho Kodachrome del 1972 (ricordo ancora le prime scattate sul castello di Carpineti in una tersa giornata d’inverno) perfette, la loro cornicetta di cartone che fa tanto buon tempo andato (o vintage come dicono i coglioni di oggi). E quasi ricordo ogni scatto, perchè il Kodachrome costava caro, ma solo pochi scampati possono ricordare la qualità di immagine di un 25 asa, la saturazione dei colori, il perfetto connubio con le ottiche Nikkor (quelle vere, con la forcellina, tutto di solido metallo e vetro pregiato). Una foto allora aveva un senso diverso, era un modo per ricordare ma, soprattutto, per comunicare. Oggi, per dirla con Eduardo “avrei tante cose da dire ma nessuno le ascolta”, o forse è solo la presunzione di avere, davvero, qualcosa da dire di interessante che mi gioca un brutto tiro.

Ormai è scomparso un mondo, quello della fotografia su pellicola, mi tengo le mie Nikon nell’armadio, le mie rarità che non valgono più nulla (a chi interessa oggi una 6×4,5?). Facciamo finta che il digitale sia meglio, e forse lo è, ma chissenefrega! Si guadagna tempo, e poi? Siamo più furbi, abbiamo più speranze?

.Le finestre
Ogni giorno una finestra si apre
davanti ai nostri occhi troppo miopi
per capire,
una finestra come una speranza,
un’altra possibilità,
oltre lo specchio
che ha riflesso la solita immagine
un istante prima.
E domani uscirà il sole,
e fuori strade coperte di altre parole
e vite fuggenti e pietose
a  cercare un’altra sera.
Noi, come siamo vissuti,
ancora gli stessi,
solo con meno strada davanti
e meno finestre da aprire.

Dialogo

giudizio_miche_p.jpgG.: “Cara Signora, le stagioni non sono più quelle d’una volta..”

J: “Sapesse! Mia cugina ha comprato una libbra di manzo a un prezzo…”

G.:“Del resto, cosa vuole, anche la moda è diventata così volgare…”

J.: “L’anno scorso l’abito andava lungo, ora siamo alla caviglia, chissà dove finiremo…”

G.: “Anche i viaggi, a essere sinceri, ormai hanno perso quel loro fascino, tutto è così veloce, non si fa in tempo a partire e, tac, si è già arrivati…”

J.: “La mia Winnie ha fatto gli orecchioni..”

G.: “Il mio Billy ha avuto finalmente la bicicletta nuova…”

J.: “Ma sento freddo, in questa nebbia tutto si confonde, forse è meglio rientrare…”

G.: “Nessun problema, la rotta è sicura, verranno tempi migliori…”

 

(Dialogo fra Gwenda McAlistair e Jeffrey B.Patterson, ponte di I classe, Transatlantico Titanic, domenica 14 aprile 1912, ore 23:38)

Ricordando Mario Rigoni Stern

Mario_Rigoni_Stern.jpgRicordando Mario Rigoni Stern Il 1° novembre del 1921 nasceva Mario Rigoni Stern. Ieri 1° novembre 2010 siamo stati in tanti a ricordarlo e a sentirne la mancanza. Mi piace pensare ancora al Mario attraverso un romanzo a me molto caro: “Storia di Tönle”. Un profondo e umano no a ogni guerra.

Ho sempre trovato inspiegabile come la follia di pochi riesca a incidere sulla vita e sulla quotidianità di molti. E ancora più inspiegabile è come i molti, si sottomettano con fervore a questa follia.
Durante la guerra nei territori della ex Jugoslavia vidi una scena: un pastore che costruiva, mattone su mattone, la sua nuova e povera casa affianco alla precedente abbattuta da un bombardamento. Quell’uomo poco aveva prima della guerra e ancora meno aveva al termine. Che senso aveva per quel pastore essere sotto la Jugoslavia o sotto la Croazia? Pecore portava al pascolo prima e pecore porterà al pascolo poi.
E’ questo l’enigma che si perpetua da sempre: perché i poveri ubbidiscono a chi comanda loro di uccidere altri poveri?
In questo insolubile stato delle cose il romanzo “Storia di Tönle” di Mario Rigoni Stern è da leggere.
Tönle, il protagonista del romanzo, è l’ultimo baluardo di speranza. Il suo attaccamento alla propria terra è meraviglioso. Tönle rappresenta la vera anima di un’Italia contadina che ha resistito contro la guerra e contro la barbarie in generale. Tönle muore, sconfitto non tanto dagli eventi della prima guerra mondiale, quanto dall’età che lo fa stanco di lottare. Ma da questa sconfitta esce a testa alta. Tönle è un nobile perdente come certi personaggi di Mutis. La guerra travolge tutto: la vita degli uomini e quella della natura. Non ha resistito alle bombe il ciliegio sul tetto della sua casa e non ha resistito il suo orto sconvolto da profonde buche che in superficie al posto della terra nera e grassa hanno riportato i sassi bianchi come ossa.
Perché morire per gli interessi del potente di turno?
“Se per le strade del mondo qualcuno moriva sul lavoro non era come sul campo di battaglia: si lavorava per necessità proprie e dei famigliari mentre sui campi di battaglia ora si moriva per niente.”
E ancora: “Per i generali, pensava, fare la guerra è il loro mestiere, anche se fare ammazzare la gente è il mestiere più brutto, ma sparare per ammazzarsi tra povera gente. E poi per chi? Questo pensava Tönle guardando le sue pecore, tirando nella pipa e ascoltando il cannone oltre il monte.”
E mentre la Storia con la “S” maiuscola fa il suo corso, i pensieri di Tönle suonano alti nello splendore di una natura violata ma non sconfitta. Le meditazioni sulle stagioni, sul lavoro, sul bosco, sugli animali del “Nostro Tönle”, immergono la sua storia tra mille ruscelli, tra larici fioriti e canti di urogalli.
Tönle è l’amore per il proprio luogo di nascita, per le proprie radici. E’ come se, per una volta almeno, la grande Storia cedesse il palcoscenico alla piccola storia lasciando intravedere ciò che resta dopo la barbarie. Non volti o dichiarazioni di generali vinti o vincitori, ma la quotidianità devastata dei piccoli uomini, di quelle briciole rimaste sul tavolo dopo che tanti hanno banchettato. I morti di una guerra, visti dai tavoli della politica, sono “statistiche”, visti da vicino sono il male che l’uomo compie sull’uomo.
E così la “memoria” per Mario Rigoni Stern diventa uno sguardo su un futuro migliore. Una visione utopica, direbbe qualcuno, ma se non speriamo o sogniamo nemmeno un mondo migliore, perché continuare a vivere?
E in questa ricerca di rinascita dell’Uomo la Storia, così trionfalmente presentata nei libri, è smascherata e restituita a quel che realmente è: la morte dell’uomo.

Pino Petruzzelli

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/02/ricordando-mario-rigoni-stern/74813/

Il perdono non è scordare ma dare fiducia

1.stories.priore.articoliquotidiani.Peccatrice_perdonata.jpgintervista a ENZO BIANCHI,
a cura di CHIARA CAROLI

«Dimenticare le colpe? Quello lo può fare solo Dio. Il perdono non può essere cancellazione, né oblio, né gesto di vanità o di arroganza. È un percorso arduo, faticoso. È un dono elargito senza opportunismo, nel nome della fiducia nei confronti dell’uomo». Un’assunzione di responsabilità condivisa, per costruire una giustizia davvero al servizio di una società fondata sui valori più alti: la solidarietà, la pace, la pietà. È una sfida intellettuale impegnativa quella che lancia padre Enzo Bianchi dal palcoscenico di Torino Spiritualità, dove ieri mattina, nel Cortile di Palazzo Carignano, ha dialogato con Gustavo Zagrebelsky sull’idea del perdono, del perdono concesso al “nemico”, inteso come realizzazione estrema della gratuità. «Il perdono non è un patteggiamento di pena — dice il priore di Bose — ma è il fondamento dei rapporti più limpidi e profondi. È reciprocità. È la riconciliazione, è l’andare oltre che offre una possibilità di futuro. E che si applica all’intera vicenda umana, dal privato di un tradimento tra marito e moglie a una grande vicenda storica come il conflitto tra Israele e Palestina».
Padre Bianchi, come distinguere il perdono dall’impunità?

«Il perdono non cancella la colpa ma è il riconoscimento che la persona è più grande del male che ha compiuto. È un atteggiamento costruttivo, che porta a sfuggire il rancore e rinunciare alla vendetta».

Zagrebelsky teme che la deresponsabilizzazione produca una società di eterni bambini perennemente ricondotti allo stato di fanciullezza, che dalla storia dei loro errori non sono in grado di imparare nulla. È d’accordo?

«Questa idea non mi convince e credo non aiuti il futuro. Non è la fanciullezza la malattia della nostra società, ma l’illegalità. In questo paese da almeno dieci anni è accettato come un fatto naturale che abbiano diritto di esistenza il sopruso e la mancanza di regole. È questa la causa dell’imbarbarimento».

Può esistere felicità senza responsabilità?

«No. Se parliamo della beatitudine evangelica, essa non può che realizzarsi nella responsabilità non solo di sé ma anche dell’altro, dell’altro che è mio fratello. Questa condivisione di responsabilità è la strada che fa crescere tutti e realizza una società matura».

Lei sostiene che una vera “communitas” contrassegnata dalla qualità della convivenza sociale e dalla solidarietà non può escludere “ciecamente” il perdono dal concetto e dalla prassi della giustizia. Come distinguere questa idea dall’iper-garantismo?

«La giustizia contiene in sé il concetto di perdono. La filosofia del diritto lo sta elaborando. L’idea di perdono non esclude quella di memoria. La colpa va ricordata, non dimenticata né cancellata. Il fine di una società umana costruita sull’amore deve lavorare per la riconciliazione e per la riabilitazione di chi ha peccato».

Riconciliazione in Sudafrica, in Israele. E qui, in Italia, tra carnefici e vittime del terrorismo. È possibile?

«Il cammino della riconciliazione è difficile. Nel privato è affidato alla coscienza e ai sentimenti dei parenti delle vittime. Ma a livello politico mi pare che lo Stato abbia già perdonato, attraverso l’indulto o gli sconti di pena. Il che non significa annullare la responsabilità ma offrire a chi ha commesso un delitto una via d’uscita per non essere identificato con la propria colpa e ricominciare una vita con dignità. C’è una virtù in tutti gli uomini, che la Bibbia chiama “immagine e somiglianza di Dio”, che nessun misfatto può cancellare del tutto».

Non crede che il buddismo, che quest’anno a Torino Spiritualità è stato protagonista con tre grandi maestri tibetani, abbia riposte più efficaci del Cristianesimo ai disagi interiori dell’uomo contemporaneo?

«Credo che la religione cristiana abbia qualcosa da imparare dal buddismo in materia di compassione e il buddismo dalla religione cristiana sul tema del perdono. Ma mi pare che l’approccio alle discipline orientali sia più intellettuale che autenticamente spirituale. È effetto della globalizzazione. Tutti vogliono conoscere un po’ di tutto. Ma non credo al bricolage dell’anima. Prendere sulle bancarelle un po’ di questo e un po’ di quello non può produrre che una spiritualità omologata e superficiale. Un pizzico di tutto non fa la buona cucina».

la Repubblica, 26 settembre 2010

La primavera intanto tarda ad arrivare..

La primavera intanto tarda ad arrivare..” (Povera patria, F.Battiato)e, signora mia, mai è stato così vero come quest’anno. In una giornata a Reggio ho preso più freddo che in una settimana a Cracovia. Sarà, le stagioni non sono più quelle di una volta, neanche i posti, però. Nevica e almeno ho avuto la conferma della spietata Legge di Ginnasi-Taglienti: “Data una qualunque precipitazione atmosferica e un ciclista in transito, qualunque sia la direzione del ciclista la precipitazione gli arriverà sempre sui denti”, con il gentile corollario di simpatici cristalli di ghiaccio che si solidificano sulla nostra barba ormai canuta. Un fenomeno che fa molto “sergente nella neve”, ma fa soprattutto freddo.

Del resto, signora mia, non ci sono più neanche gli uomini di una volta, quelli che schiattavano virilmente per una palla in fronte o per una schidionata in duello a vent’anni. Adesso sopravvivono tutti, crescono, invecchiano, diventano infestanti, parassiti, saprofiti, licheni umani, muffe evolute (poco): come spiegare altrimenti la comparsa sulla terra di skjfani o di sallusti? O specie resistenti anche alle radiazioni, cugini un po’ meno schifiltosi degli scarafaggi, come belpietro e littorio feltri. New generation, signora mia!

Però una cosa l’ho capita. I soldi non danno la felicità (qualche mignotta magari, sì) ma non consentono neanche di avere il meglio, come spiegare altrimenti il kasino cosmico, l’ennesimo, che i legulei del signore dei tranelli hanno combinato anche stavolta? Con i fantastiliardi a disposizione non poteva pagarsi uno di quegli studi americani (tipo “Baker-Gordon-Smith & Westland”) che abbiamo visto in tanti film, che gli scrivessero un lodo come si deve, una legge ben fatta, una norma-sì ad personam-ma che durasse almeno più di una mozzarella? Con i fantastiliardi che ha chi ti va a trovare? Un ghedini qualunque che sembra arrivare dallo studio “Bongo-Cicciobello-Pisquani associati”? Del resto con i fantastiliardi che ha, chi ti va prendere per gli azzurri sollazzi? Una supertopextramodel da urlo? No, una signora 35enne di Bari o squinzie che si chiudono al cesso a fare i video…!

Signora mia! Non c’è più stile, classe! Anche nel peccato si deve grandeggiare, qui siamo alle trasgressioni da piastrellari arricchiti, da industrialotto di provincia, tempi duri, non c’è che dire e poi…nevica ancora…

per ascoltare:http://www.youtube.com/watch?v=3UUS65a1c6Y

Le finestre

.Le finestre
Ogni giorno una finestra si apre
davanti ai nostri occhi troppo miopi
per capire,
una finestra come una speranza,
un’altra possibilità,
oltre lo specchio
che ha riflesso la solita immagine
un istante prima.
E domani uscirà il sole,
e fuori strade coperte di altre parole
e vite fuggenti e pietose
a  cercare un’altra sera.
Noi, come siamo vissuti,
ancora gli stessi,
solo con meno strada davanti
e meno finestre da aprire.

(da: M.S., Parole da una realtà, PB Edizioni, 1985)

Le finestre

.Le finestre
Ogni giorno una finestra si apre
davanti ai nostri occhi troppo miopi
per capire,
una finestra come una speranza,
un’altra possibilità,
oltre lo specchio
che ha riflesso la solita immagine
un istante prima.
E domani uscirà il sole,
e fuori strade coperte di altre parole
e vite fuggenti e pietose
a  cercare un’altra sera.
Noi,come siamo vissuti,
ancora gli stessi,
solo con meno strada davanti
e meno finestre da aprire.