Vittorio Emiliani sul problema dei Musei Civici di Reggio Emilia

aaaaaa.jpgSALUTO DI VITTORIO EMILIANI *
Cari amici,
ho visitato la prima volta i Musei Civici di Reggio Emilia quando capitai nella vostra città da inviato del Giorno di Italo Pietra. Altre volte sono entrato nel Palazzo di san Francesco proprio per la ricchezza e la varietà delle collezioni che mi avevano colpito nella prima visita. Anni fa realizzai per l’IBC presieduto dal reggiano Giuseppe Gherpelli un video sui Musei Civici regionali. Anche per questo la notizia di un progetto quanto mai singolare per la ristrutturazione di quegli spazi non poteva lasciarmi indifferente. E così abbiamo deciso di lanciare un appello come Comitato per la bellezza. Che cosa ci ha spinto a questo passo? L’inconsistenza culturale del progetto, che sembra più un gesto d’artista che non un intervento meditato con un piano di riallestimento in grado di valorizzare le collezioni. E ci ha sorpreso non poco apprendere che un’operazione così importante sia priva di un comitato scientifico. Anche noi siamo convinti che i Musei Civici abbiano bisogno di un rinnovamento, non a caso abbiamo usato proprio questo termine nel nostro appello, ma questo rinnovamento non può raggiungersi con un malinteso concetto di contemporaneità. Ma c’è una questione anche più importante e avete fatto bene a sollevarla: mi riferisco alla domanda, certo fondamentale, se la sorte di un museo civico sia o no un problema della città. Certo che lo è. Ed è sorprendente che tutto invece si svolga all’insegna del privato: non c’è stato un bando di concorso, e il progetto non è mai stato presentato integralmente. E sorprende ancor più che ciò avvenga in una città dove la partecipazione ha una lunga e illustre storia. Noi continueremo a seguire questa vicenda, convinti come voi che un intervento così impegnativo sui Musei civici riguarda la città e quindi non può essere
imposto. Sotto questo profilo la questione reggiana è nazionale. Come era nazionale la questione della Data sulle mura di Urbino manomessa dall’ultimo progetto di Giancarlo De Carlo destinato a “lasciare il segno” sotto i Torricini lauraneschi e rimasta lì, costosamente inutilizzata e forse inutilizzabile. E, proprio ringraziandovi per aver sollevato in chiave nazionale la questione dei Musei Civici reggiani, vi mando gli auguri di buon lavoro.
Vittorio Emiliani
Roma, 20 giugno 2012

 

*Presidente del Comitato per la Bellezza

Ben venga Maggio, ben venga primavera…

max.jpgTranquillizzo i miei 25 lettori: non sono sparito, se non avete avuto il discutibile piacere di leggere cose nuove su FB è che il sottoscritto era impegnato a correre da un bastione all’altro, da una torretta all’altra, scrutando l’arrivo di nuove carovane in fondo alla valle. Tanto, poi, basta fermarsi un attimo e lasciare che le cose passino. E le cose passano. E’ passato il 25 aprile, quest’anno dedicato alla lotta alla mafia (e io non ho capito perchè), è passato il I maggio, ci sono state le elezioni amministrative. Se sette mesi fa ci avessero detto che il vecchio satiro sarebbe sparito, il suo sodale rantolante con lui, che il PdL si sarebbe sciolto come neve al sole, chi ci avrebbe creduto? Anche il povero Fede non c’è più. Che roba. Eppure l’incazzatura sale, vogliamo di più. “Siate realistici, chiedete l’impossibile” era uno slogan di tant anni fa. Quante boiate si dicono o si scrivono da giovani. Forse altrettante che da vecchi. Perchè un conto è rincorrere l’utopia, il sogno, l’amore, l’idea e un conto è proporre tale programma per mandare avanti la baracca. Vabbè.

In Francia ha vinto Holland e, manco a dirlo, ecco sulle italiche prode risuonare il grido: “Fare come la Francia!”. Ancora? Non ci è bastato il “Fare come Clinton/Obama, Blair, Zapatero?” già echeggiato in passato? E’ il principio dei vasi comunicanti: il pieno occupa sempre il vuoto. Il vuoto delle idee che ricicciano slogan trascorsi o demagogici balzi nel nulla. Un po’ come la polemica sui funghi nostrani dei civici Musei. Gli amministratori non avevano un cappero di idea su cosa farne e, allora, pensata geniale, anzichè proporre alla città la questione, che hanno fatto? Ti hanno chiamato il Blair/Obama esterno. Il genio. L’archistar. Deus ex machina che, giustamente dal suo punto di vista, lasciato a mano libera ha liberamente proposto quello che gli passava per la mente, c’entrasse o no con i Civici Musei di questa “anonima città”. E’ la replica perfetta della favoletta degli abiti nuovi dell’imperatore. Perfetta.

In compenso mi sono accorto che non si parla più dell’art.18. Dovevamo offrire i nostri petti al fuoco nemico per difendere questa barriera di civiltà e ce ne siamo già dimenticati? “Quandoque bonus dormitat Homerus”! E se sonnecchia il grande poeta chi siamo noi per vegliare in armi?

A Reggio la Fondazione bancaria chiude i bilanci in rosso (profondo). Oh, acciderbolina! Ma non erano tutti geni della finanza quei signori seduti in quel Consiglio chiamati (non si sa come e perchè) a gestire i soldini accumulati in qualche secolo dai nostri avi? Siamo stati fortunati che geni fossero, pensate fossero stati dei poveri incompetenti come il s/scritto, che disastro! Che roba! Ah, signora mia, non ci sono più i geni di una volta!

E’ iniziata e finita Fotografia Europea. Bene, bravi. Qualcuno ha scritto che anche crollasse l’Euro, tornasse l’economia di baratto e i Lanzichenecchi fossero alle porte, Fotografia Europea si farebbe ancora. Bene, bravi. In merito un uzzolo mi stuzzica il cerebro (visto come so scrivere bene, se voglio?): che cos’è un buon fotografo/una buona fotografia oggi, quando tutti sono fotografi? Io vengo dal secolo scorso, la fotografia è stato il mio pane (letteralmente) per qualche anno: fotografo di matrimoni, una scuola eccezionale. Niente digitale allora. Pellicola. One shot, one bang. Non puoi sbagliare la foto dello scambio degli anelli. Si impara. Ho vinto concorsi, ho fatto mostre. Le mie foto me le stampavo in casa, bianco e nero mai abbastanza rimpianto. Una Nikon nuova costava come mezza utilitaria. Continuo a far foto, dalla malattia non si guarisce, ma che senso ha oggi quando la tecnica ha preso il sopravvento e la super offerta ha travolto ogni selezione di qualità? Dico una cosa antipatica: fotografi si nasce. Si può diventare bravi, fare qualche bello scatto, ma è sulla distanza che si capisce il valore. E io, di valore, ne vedo così poco. Vabbè, su queste magari ci tornerò con più calma.

Comunque il mio consiglio, intonato al bisogno di rigore di cui sento disperato bisogno, riguardo alle mostre di FE è semplice: andate a vedere Henry Cartier Bresson e McCullin. Basta. Guardatele bene perchè tutto è gia lì. HCB andava in giro con la sua Leica, un 50 mm., il tutto in una borsina della spesa. Facile, semplice, geniale. Megapixel? Photoshop? Ecchisenefrega.

Basta, torno alle mie bozze, altrimenti l’editore ci ripensa e il libro non me lo pubblica più (ma questa è un’altra storia..).

Una buona battaglia…

Invito i miei 25 lettori a sostenere questa buona battaglia di impegno culturale, civile e, quindi, politico. Si può sottoscrivere la seguente petizione a: http://www.firmiamo.it/perimuseicivici-reggioemilia

Altre info sul blog: http://amicideimuseicivici.blogspot.it/

Nel 2007 l’Amministrazione Comunale di Reggio Emilia ha dato l’incarico del riallestimento dei musei civici allo Studio Rota. Il progetto risponde solo in minima parte alle esigenze di un museo civico come quello reggiano: da un lato propone soluzioni eclatanti quanto discutibili, dall’altro non offre alcun racconto organico della vita antica e moderna della città e del suo territorio. Occorre investire nel museo assicurando la piena funzionalità dei diversi ambienti e la manutenzione delle collezioni storiche, ma occorre anche che ci sia un investimento più profondo sul piano dei contenuti, delle forme comunicative e della didattica.

Confermiamo e sottoscriviamo i contenuti delle lettere inviate alla stampa da un gruppo di cittadini reggiani (20.2 e 5.3.2012) e chiediamo all’Amministrazione che il progetto venga non solo presentato, ma condiviso e discusso pubblicamente nei suoi dettagli e che vengano abbandonate soluzioni, sia interne che esterne all’edificio, tanto estranee ai “fini di ordine culturale, scientifico, educativo”  perseguiti dal museo, quanto costose, in particolare alla luce della attuale situazione economica e sociale.

Un secolo affondato: quel difficile ‘900

ghiara.jpgPochi giorni fa, discutendo con un rappresentante del Comune, mi è stato detto che le mie critiche erano “superficiali” e “qualunquiste”. Avevo obiettato che nel 2012 il Comune non aveva partecipato ai Viaggi della Memoria e che, Dio non voglia, anche quando andasse in porto il progetto Rota sui Civici Musei, la nostra città non avrebbe un centimetro quadrato di spazio museale dedicato alla storia reggiana nel ‘900. Faccio fatica a capire come dei fatti, reali, verificabili da chiunque, possano essere superficiali o qualunquistici; tali possono esserlo le mie considerazioni al riguardo (per questo chiedo scusa: la prossima volta studierò di più) ma i fatti restano fatti.

Come già scritto su queste pagine il problema è la difficoltà, se non il rifiuto, di confrontarsi con la storia del secolo scorso. Certamente non è questa una novità e non appartiene solo a questa amministrazione che paradossalmente, ma non tanto, condivide questa difficoltà con le precedenti. Parlo di paradosso ma il termine è inadeguato. Partendo da problemi, situazioni, culture opposte ci si è ritrovati-amministrazioni precedenti e attuali- ad avere lo stesso problema di rapporto con quello che la città e il territorio hanno espresso e rappresentato nel ‘900.

Ancora una volta lo spartiacque è il 1989. In una faticosa e affannata riconversione dopo il crollo dell’impero sovietico, con cui i rapporti-seppur indeboliti e sempre più esili-si erano mantenuti almeno fino a pochi anni prima, quelli che erano stati “i comunisti”, per sfuggire all’ingrato ruolo di ex hanno impegnato energie degne di miglior causa nel tentativo di far dimenticare il passato recente e non. Sfumato per motivi giudiziari il fascinoso approdo craxiano agli inizi degli anni ’90 ci si è ridotti alla rincorsa di ogni “novità”, scandita dal periodico mutamento della ragione sociale del “nuovo partito” in cui si agitava qualunque nuova idea di importazione. Si è stati così, stagione dopo stagione, “clintoniani”, “blairiani, “zapateriani”, cercando “terze vie” spesso collocate anche oltre le porte di Tannhauser. Nessuna riflessione, nessuno stop sul mondo nuovo in cui ci si trovava ma solo necessità di andare comunque avanti nella gestione di un potere che, comunque, era rimasto più o meno immutato. A forza di voler essere “qualcos’altro” si è finito per non essere più nulla.

In questo affannoso rincorrere un mondo in tanto  rapido cambiamento come confrontarsi con il ‘900, secolo di sogni e di incubi, di speranza e tragedie, ma soprattutto di costruzione di quel modello emiliano da parte di un partito/chiesa/stato che il 1989 aveva definitivamente cancellato? Si poteva riutilizzare quello che il mondo aveva riconosciuto, come il sistema educativo reggiano (bastava solo tralasciare il fatto che Malaguzzi fosse stato, come tanti, comunista) o si potevano utilizzare i modelli trascorsi nei comizi del 25 aprile ma non andare oltre: si preferì rispolverare miti più tranquillizzanti come il Tricolore e la contessa Matilde. E infatti il Museo della Resistenza sciolto in silenzio alla metà degli anni ’80 venne avvicendato dal nuovo (si fa per dire) Museo del Tricolore. Si metteva in soffitta il novecento per rispolverare parte del secolo dei lumi, tanto preoccupati delle scansioni temporali da far coincidere il termine del nuovo allestimento con la scadenza del primo centenario (1897) e il discorso del buon Giosuè Carducci, giusto alle soglie del tanto preoccupante ‘900.

Missione compiuta, evoluzione terminata, il novecento restava buono per qualche celebrazione, qualche intitolazione di strade e tangenziali mentre la Reggio di Calatrava era lanciata verso il futuro, una città sul modello Pistorius, veloce ma senza gambe, senza memoria.

Dall’altra parte il cambio di amministrazione nel 2004 completa il mosaico di assenze. L’arrivo del primo sindaco cattolico alla guida di una città dove la storia dell’ultimo secolo aveva relegato a ruoli secondari (seppur di altissimo livello come testimonia la breve esperienza dossettiana) quella componente culturale e politica non poteva non avere conseguenze rilevanti ai fini di queste superficiali considerazioni.

Da un lato i nuovi amministratori hanno interpretato il loro arrivo come una “svolta” epocale capace di portare finalmente la città fuori da una situazione cristallizzata operando così un’azione fortemente ideologica e in buona parte controproducente nella costruzione/consolidamento di un consenso in rapida decrescita. Dall’altro, di fronte ad una eredità storica e memoriale che non apparteneva -se non in minima parte-alla loro storia culturale e politica si sono limitati ad assumerne il minimo indispensabile per conservare l’immagine ancora spendibile di città “democratica e resistente” sul piano della comunicazione pubblica (25 aprile, 2 giugno) e per poter gestire i rapporti con una realtà al contrario vitale quale quella espressa dalle tante realtà (Istoreco, Istituto Cervi, associazioni partigiane) attive e radicate proprio in quella storia.

Colpito su entrambi i versanti il ‘900 a Reggio è rapidamente colato a picco e con essa buona parte della nostra storia contemporanea e non, sostituita da una generica attenzione alla “contemporaneità” che ha progressivamente espunto ogni elemento storico e storiografico a favore di una concatenazione di eventi culturali di vario tipo e livello, in bilico fra intellettualismo e provincialismo, che nulla hanno consolidato a livello di strutture.

Con un’espressione superficiale vorrei ricordare che realizzare un luogo di memoria della città richiede una profonda riflessione sul nostro senso di “città”, mancando con tutta evidenza il quale, si è cercato il sotterfugio dell’affidamento all’archistar nel caso dei civici Musei o del totale silenzio/rimozione nel caso della nostra storia nel secolo scorso.

Reggio è forse una delle poche città di medie dimensioni nella quale, per scelta precisa, il Museo della città non si occupa-che in minima parte-della storia della città stesso. Perché, è opportuno ricordarlo, non è solo il ‘900 ad essere assente ma anche gran parte della vicenda storica della città e del suo territorio, almeno dal Medioevo alla fine dell’Ancient Règime. E’ stato questo un progressivo slittamento, un’ “assenza” progressiva realizzatasi nel corso almeno degli ultimi trenta anni nel silenzio generale. E’ questo un elemento degno di qualche riflessione nel momento in cui, al contrario, altre realtà si muovono in altra direzione: è recente l’apertura a Bologna del Museo della città che, per quanto discutibile per più aspetti, segnala un interesse forte alla vicenda storica complessiva di quella comunità. Su altro piano, ma ugualmente da segnalare, è la quasi contemporanea inaugurazione del nuovo Museo Ferrari a Modena mentre si annuncia, proprio nella nostra vicina ex capitale ducale, l’apertura del Centro Immagine e Fotografia che ospiterà le collezioni di Fondazione Fotografia aperta nel 2007.

A Reggio nulla di tutto questo, l’operazione-Reggiane rimane in alto mare, i luoghi di memoria sono (per fortuna) abbandonati al loro destino, sono stati salvati gli archivi più importanti sul territorio ma non c’è nessuna programmazione sul futuro per la loro gestione e valorizzazione. Ci siamo auto-proclamati capitale della fotografia europea ma per un qualunque visitatore che si trovi a passare a Reggio al di fuori del mese di esposizione non esiste alcun luogo che sostanzi quella fantasiosa attribuzione. Come pensare allora a un luogo dedicato alla “Memoria della città”? Utopia o per dirla con Violetta Valery “follia, follia!!”.

Musei in Europa. Il ‘900 a Reggio: chi l’ha visto?

Fino a un paio d’anni fa era la Germania a stupirmi ogni volta, bastava tornarci un anno dopo l’altro ed ecco nuovi luoghi di memoria, musei, centri di documentazione. Tornavi a Reggio e tutto era l’avevi lasciato 3, 5, 10 anni prima. Ora anche la Polonia sta seguendo la stessa strada, nel giro di cinque anni ecco due nuovi musei a Cracovia (ma mi dicono che anche Danziva, Varsavia e altre città siano sulla stessa linea).

Poi torno a Reggio e mi avvilisco. Ma torniamo a Cracovia e a come si può lavorare sulla memoria.

Chair_Square.jpgGià da qualche anno è stata inaugurata una installazione nella piazza del Ghetto di Podgorze, quella piazza che in “Schindler’s list” ospitava le fila degli ebrei costretti a registrarsi presso lo Judenrat e dove avvenivano le selezioni per Auschwitz. 68.000 erano gli ebrei di Cracovia nel 1939. Scomparsi, pochissimi i salvati nella marea dei sommersi. In quella piazza 68 grandi sedie metalliche a ricordare quegli scomparsi. Semplice, efficace. Luogo di memoria salvato e parlante.

Nel quartiere ebraico di Kazimierz è attivo da pochi anni il Galician Jewish Museum (vi faccio grazie del nome in polacco) per ricordare la scomparsa presenza ebraica in quella regione. Ricavato dentro una preesistente struttura industriale (http://www.en.galiciajewishmuseum.org/).

GJM.jpgOspita mostre temporanee, come quella di questo periodo sull’emigrazione in Palestina di ebrei polacchi negli anni venti oltre che la mostra permanente sulle tracce degli ebrei in Galizia. Una struttura già industriale recuperata nel centro storico della città. Nel 2011 il Museo ha avuto oltre 30.000 visitatori paganti.

Per restare al recupero di strutture industriali veniamo al Museo Storico di Cracovia nella sua sezione collocata nella recuperata “Fabryka Emalia Oskara Schindlera”, sì, proprio la fabbrica di Oskar Schindler. La prima volta riuscii a sbirciare, allungando 5 euro al custode, perchè mi facesse entrare dal vecchio cancello. Era il 2005.

_MG_8654.jpgLa fabbrica aveva funzionato fino a un paio di anni prima ma ormai era tutto in abbandono. Nel giugno 2010 è stata inaugurata, non solo la parte dedicata alla vita a Cracovia nel periodo dell’occupazione nazista (1939-1945), ospitata nella parte degli uffici ma anche una nuova galleria di Arte Contemporanea che occupa parte degli spazi industriali. Il Museo fa parte dei Musei di Cracovia, qui è allestita una mostra multimediale permanente di grande impatto e coinvolgimento che fa ripercorrere con immagini, suoni, sensazioni tattili e olfattive la vita (e la morte) del periodo bellico. http://mhk.pl/oddzialy/fabryka_schindlera

Ho detto che torno a Reggio e mi avvilisco. Mi avvilisco perchè mi devo confrontare con una realtà drammaticamente diversa dove, da parte della nostra Amministrazione Comunale, (di una città Medaglia d’oro al v.m. per la sua partecipazione alla Resistenza) non c’è nessuna sensibilità sui temi legati alla memoria. Non solo nella promozione di attività rivolte ai giovani (il Comune NON ha partecipato nè sostenuto in alcun modo il Viaggio della Memoria 2012) ma anche nella progettazione di luoghi di memoria. In questi anni sono stati distrutti segni importanti del nostro passato e non esiste alcuna progettualità futura. Da anni Istoreco propone il progetto “La memoria della città” senza nessun riscontro. A Reggio il ‘900 sembra non essere esistito. Non esiste un luogo, un Museo, una stanza, dove le migliaia di ospiti che visitano la nostra città interessati alla nostra vicenda storica possano trovare notizie, informazioni, suggestioni. Nulla. E nulla sarà anche nel futuro più o meno prosssimo. Luoghi come l’ex Carcere di S.Tommaso o il Poligono di tiro sono destinati a un lento declino, sempre preferibile del resto a una loro “valorizzazione” urbanistica.

Le “Reggiane” sono divenute una ghost factory, si discute, si tratta, ma non esiste nessuna idea su come inserire in quel luogo storico uno spazio dedicato alla storia della città dl ‘900. Non è una priorità. Del resto cosa è stata Reggio nel ‘900? Robetta: Prampolini, la cooperazione, Dossetti, Jotti, Ruini, i migliori aerei del mondo, la Resistenza, la meccanica, l’agroalimentare, il 7 luglio, fino a Prodi e Ruini (il card.). Robetta. Che bisogno c’è di ricordare questa roba vecchia e polverosa? Noi siamo nuovi e moderni, noi siamo “avanti”…

In compenso finalmente si discute sul nuovo mirabolante Museo. Ho già abbozzato qualche opinione. In questo momento voglio sottolineare solo un particolare: si dovesse anche realizzare il fantaprogetto di Rota (e Dio non voglia), comunque i reggiani avrebbero speso alcuni milioni di euro per avere sì umanoidi pecorini e gambe nuotanti, funghi luccicanti e tappeti ricamati, ma non avranno comunque nulla sulla nostra storia e memoria del secolo scorso. Nulla. Il ‘900 ancora come grande assente.

Ecco perchè mi avvilisco, nel constatare la sordità di una classe dirigente che, fino a prova contraria, tutti noi abbiamo eletto e che, mi rendo conto con tristezza, ci rappresenta ogni giorno un po’ di meno.

 

Lectio magistralis arch. Italo Rota

sextans_04.jpgPer chi vuole sapere qualcosa in più sul progetto del nostro Museo (in particolare da 00:34:00 in poi) il video da cui è stato tratto l’articolo di ieri del Carlino:
 
 
e per ridere (ma non troppo):
 
 
Logicamente ogni riferimento è puramente causale…

«E’ di un museo-spettacolo che ha bisogno la città?»

Con una lettera al sindaco Delrio, un nutrito gruppo di intellettuali s’interroga sui Civici Musei: è giusto investire cifre consistenti per un maquillage esteriore?

Una lettera aperta al sindaco Graziano Delrio per aprire una riflessione sul “nuovo” Museo di Palazzo San Francesco ma anche per interrogarsi su quale deve essere, oggi, la funzione dei Musei Civici a Reggio. A firmarla trenta intellettuali (docenti, critici d’arte, artisti) da Marco Belpoliti ad Alfredo Gianolio, da Ivan Levrini a Mauro Cremaschi.
«Dopo anni di annunci sporadici su giornali o televisioni locali – così inizia la lettera aperta indiririzzata al sindaco Graziano Delrio – in mancanza fino ad ora di una chiara e organica presentazione alla città, finalmente un articolo di Elisabetta Farioli, direttrice dei musei civici (“Taccuini d’arte”, 5), illustra pensiero e forme del progetto di Italo Rota per il “nuovo” Museo di Palazzo S. Francesco. Per la verità anche in questo caso non si entra tanto nel dettaglio, ma si coglie bene lo spirito dell’intervento. Il testo è inoltre corredato da immagini che descrivono l’aspetto di alcuni ambienti e che si possono integrare con i rendering presenti anche sul sito web dell’architetto (http://www.studioitalorota.it/pages-projects/museo_reggio_emilia.html).

Rota.jpgAlcuni di essi – come quello in cui una moquette (?) con giungla, scimpanzé ed elefantino corre lungo il corridoio in cui è disposta la collezione settecentesca di Lazzaro Spallanzani – sollevano dubbi circa le finalità, ma anche la sostanza, dei lavori previsti».
«Che obiettivi si propone il riallestimento di alcune sale, così come illustrato dalle immagini fino ad ora rese disponibili? – si chiedono i trenta firmatari -. Quale valore aggiunge al museo e quali costi comporta per la comunità (si parla di oltre 4 milioni di euro)? Quanto ci si è confrontati con i fruitori del museo, che dovrebbero essere gli interlocutori privilegiati di eventuali azioni di modernizzazione dello stesso? E ancora quando e quanto il progetto è stato condiviso con la cittadinanza? Tutti siamo d’accordo sul concetto di patrimonio storico-artistico e di museo come “eredità vivente” (citando l’articolo di Farioli), ma occorre poi vedere come concretamente vengono declinate idee pur condivisibili in astratto. Chi può non applaudire l’idea di un “approccio che parte dall’oggi, dai problemi della contemporaneità e intende leggere nelle testimonianze del passato possibili stimoli a una lettura del presente in vista di future possibili visioni del mondo” (Farioli)? Sono frasi ottime per qualsivoglia allestimento, che solo rinnovi un po’ le cose. Il punto è: in quale direzione?».
«Soluzioni come quella appena citata – prosegue la lettera – sono in realtà emergenze di una visione che l’architetto applica anche in altri ambienti, quella cioè di un museo-spettacolo. Idea ben comprensibile dove si stia progettando un museo nuovo, da applicare invece con cautela dove un’istituzione esiste già; un’istituzione storica, nata nell’Ottocento grazie all’impegno di più studiosi, alcuni dei quali di risonanza internazionale, come Gaetano Chierici. Alquanto fumosi risultano poi i benefici che dovrebbero derivare dal progetto Rota, laddove si legge che esso “tocca anche da vicino il tema dei confini, sempre più incerti, tra il ruolo dell’architetto e il ruolo del direttore o responsabile del museo, in una visione nuova in cui l’ambito della museografia e quello della museologia tendono a confondersi, o meglio a presupporsi a vicenda, in una sempre più avvertita esigenza della molteplicità di competenze necessarie alla vita di una moderna istituzione museale e del complesso quadro di relazioni che ne presiede la conduzione” (Farioli).

In realtà, nel dibattito museografico e museologico attuale – quello più serio ed aggiornato perlomeno – la preoccupazione cui Farioli si riferisce va di pari passo con l’individuazione e la distinzione, il più possibile chiare e rigorose, dei ruoli e delle competenze tra coloro che a vario titolo “fanno” il museo, tanto più se questo, come nel nostro caso, non viene creato ex novo, ma ha una lunga storia alle spalle. In altre parole: una cosa è aderire a concetti quali interdisciplinarietà, collegialità, reciprocità. Tutt’altra cosa è far passare l’idea, arbitraria e ingiustificata, che la sovrapposizione e addirittura la confusione tra competenze professionali diverse – fortunatamente diverse, aggiungiamo noi – siano il prezzo da pagare al rinnovamento del museo, anzi, alla sopravvivenza dell’idea stessa di museo».
«A queste considerazioni – e a questo punto si tocca inevitabilmente il tema dei tagli – si deve infine aggiungere una doverosa riflessione sull’attuale congiuntura economica. È più che giusto investire in cultura e quindi anche nel museo, ma, in un momento come questo in cui anche a Reggio Emilia si acuiscono i segni della crisi, ci chiediamo se sia opportuno investire cifre consistenti in operazioni che – anche al di là dei giudizi di valore – costituiscono una sorta di maquillage esteriore. Per farsi un’idea di quanto viene proposto, basterà soffermarsi con attenzione sul rendering che ritrae l’esterno del museo (visibile anche nei totem che illustrano gli interventi del Comune). Esso prevede un ingresso con giardino verticale (operazione già vista e con alti costi di manutenzione) e “alte strutture di acciaio specchiante che riflettono immagini tratte dai materiali dei musei”.

Va fatto notare che questi “funghi” verticali sono già stati realizzati nel 2007 da Rota nella sua sistemazione della chiesa di Sant’Elena a Palermo (http://mimoa.eu/projects/Italy/Palermo/Library%20Interior). Non ci sembra che il complesso di San Francesco e i civici musei meritino copia-incolla come questi. Ma anche ammesso che si tratti del modo migliore per prolungare nel presente la “vitalità eterna del passato” (Farioli), ci domandiamo se questo sia il momento giusto per farlo, riducendo i finanziamenti ad altri aspetti della vita culturale della città».
«La preghiamo allora, signor Sindaco – e così si conclude la corposa lettera – di prendere in considerazione le molte perplessità che il progetto suscita in chi è interessato a esso come cittadino, come semplice fruitore, come studioso, e di riconsiderare complessivamente le scelte compiute finora. La forma e il ruolo del museo civico vanno rinnovati, ma è di un museo-spettacolo che ha bisogno la città? O, piuttosto, di conoscere e comprendere la propria storia anche recente nel suo depositarsi nelle cose e nelle immagini? I musei reggiani oggi lasciano scoperto quasi per intero il secolo scorso. Non è forse ora di pensare a una sezione del museo capace di presentare un quadro organico del Novecento nella nostra città, nei personaggi, nella topografia, negli avvenimenti, nelle manifatture, nei mutamenti culturali?».

Gazzetta di Reggio, 20 febbraio 2012

Dopo i cappelletti e una fetta di zampone…

regali-di-natale.jpgDopo i cappelletti e una fetta di zampone, un bicchiere di Sangiovese e uno di passito mi sono assopito. Il sonno epatico genera mostri. Ero da solo in una grande piazza e andavo rimuginando una cosa del genere:

 

Ebbene sì, lo confesso, sono un nemico dell’economia, un sabotatore della crescita, un oscuro figuro che vive e trama nell’ombra cospirando contro sua maestà il PIL (Prodotto inutile ladrocinio). Non cambio l’auto da quattordici (14) anni, porto il mio giaccone da 9, un paio di scarpe mi dura 4 anni. Porto ancora l’abito di nozze del 1988 e comunque ho l’armadio pieno ogni oltre mia speranza di vita. E vivo bene.

Mi piace passare per le vie del centro per accorgermi di quanta roba io NON abbia bisogno, guardo le vetrine e mi sorprendo a chiedermi: se in cento metri ci sono 6 negozi di scarpe cosa vuol dire? O che per i reggiani è iniziata la mutazione verso la forma-millepiedi oppure…

Sarà l’età o l’inizio del definitivo rincoglionimento ma ho anche superato la fase legata al potere consolatorio dell’acquisto (o quasi), al massimo, al colmo della depressione, vado alla Buffetti e mi compro matite, gomme e cancelleria varia. Poco, troppo poco per far ripartire l’economia. Lo so, dovrei far di più. Grazie ai furti subiti (3 in 2 anni) ho finanziato l’industria dei velocipedi. Ma non basta. Compro libri (sì, ho questa orrenda abitudine) ma così lo spread non cala. Quando cambio il mac lo prendo a rate e poi questo succede ogni cinque anni! Insomma una vergogna.

La vigilia di Natale e feste equipollenti sono preso dallo scompiglio: tutti corrono a comprare, pacchettini come piovesse e io? Niente. Mi sento un “diverso”, un pinguino all’equatore, un nero ad un congresso del KuKluxKlan. Mi chiedo se i miei figli non porteranno questo trauma per decenni, poi mi accorgo che loro sono come me. Doppio complesso di colpa! Forse li ho già rovinati, ho compromesso il loro futuro di consumatori, ne ho fatto dei “diversi”?

Domanda inutile e futile (e retorica): ma non sarà che questa crescita sia fantozzianamente “una boiata pazzesca”? Domanda retorica perché tutti sappiamo la risposta, ben prima del buon Latouche. Il problema è, per dirla con il poeta di Pavana, che “bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà”. Immagino che rinunciare al viaggio sul Mar Rosso sia dura e non avere il ventottesimo paio di scarpe possa rappresentare un dramma personale, ma vi assicuro che è molto più agevole rinunciare a ciò che non si è mai avuto/fatto/comprato. Semplicemente perché è/era inutile e “ciò che è inutile è dannoso” (M.Beuttler). Adesso la crisi, lo spread, i bund, ci stanno poco delicatamente informando di ciò che sapevamo già. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Abbiamo fatto della “Milano da bere” il nostro orizzonte, degno di un macaco ubriaco; anche a sinistra (o insomma quella cosa lì) abbiamo scambiato il consumo per il lavoro come bene primario, convinti che la giostra avrebbe girato all’infinito, dando anche a noi un pezzetto di gioia, di Mar Rosso. Abbiamo pensato che la soluzione a tutto sarebbe stato il mercato e la globalizzazione e che accumulare cose inutili ci avrebbe dato la felicità.

Ci siamo sbagliati, ma lo abbiamo capito? Leggo notizie terrificanti sulla nostra cara Fondazione bancaria che ha visto calare il valore delle sue azioni del 90%. Roba da assalto ai forni, da suicidi giù dalla Torre del Bordello. Invece nulla. Ma chi la gestiva quella Fondazione, chi li aveva scelti quei geni del Mònopoli? A far simili danni bastavo anch’io e sarei costato molto meno.”

Poi mi sono svegliato. Che sogno, che incubo! Poi leggo che il calo previsto dei prossimi saldi sarà del 30%, per Natale si sono spesi 400 milioni in meno, compresi i miei 50 euro, dovrei sentirmi preoccupato? E perché?

Ma si sa non faccio testo, a stento rappresento me stesso, figuriamoci una città, un paese, il mondo. In fondo sono un (mezzo) montanaro venuto giù con l’ultima piena, felice di starsene sugli spalti di Fortezza Bastiani a guardare le carovane passare giù in fondo alla valle.

Regiensia

Cosucce dalla Città del Tricolore.

tito.jpgTitototitù

Che la destra reggiana fosse messa male era noto, del resto se si arriva a candidare Filippi e a lasciare l’iniziativa (si fa per dire) politica alla lega significa che anche la canna del gas è solo un bel ricordo. Ma che, approssimandosi il giorno del rikordo si tirasse fuori il povero Josif Broz (in arte “Tito”) pur di far un po’ di spolverino lascia solo un sapore vampiro in bocca degno di altri tempi. E così parte la giostrina del nulla: interpellanza (cambiamo nome alla via)-intitoliamola al sem.Rivi-discussione in Consiglio-sdegno dei proponenti dopo la ovvia bocciatura-conferenza stampa di Evola e soci-articolotti sulla stampa locale.

Bene. Tutti contenti. Evola e i suoi che hanno fatto la pisciatina per segnare il territorio (come a dire: non contiamo un piffo ma ci siamo ancora), i giornali che hanno riempito un po’ di spazio altrimenti bianco. I kattolici di comunione&fatturazione che sono insorti contro i cattocomunisti che hanno bocciato il povero Rivi, etc…

L’unica risposta saggia è stata quella dei malcapitati abitanti di Via Tito: “Pensassero a sistemarci le buche e a migliorare il traffico”. Facile, semplice.

viaggiolo.jpgSti’ partigiani! Anche antisemiti!

Che i poveri partigiani portino le colpe del mondo è noto. Fra un po’ Wikileaks ci dirà che l’11 settembre è opera di una Brigata aerea Garibaldi. Puntuale come ogni anno, il nono nano, il caro Tadolo, ripropone il solito articolo “Olocausto, il silenzio dei partigiani”. Da lunghe ricerche (chissà dove, forse in miniera) ha evinto che i partigiani erano quasi antisemiti o, almeno, della Shoah (alla quale collaborarono con zelo gli avi del nostro) non gliene fregava una cippa. La prova? Banale: non hanno mai attaccato Fossoli per liberare gli ebrei là rinchiusi in attesa di deportazione. Diabolico! Stavolta ci ha fregato. Però. Magari riguardare quei numerini che si chiamano date? Compulsare quei fogli variopinti con numeretti rossi e neri che si chiamano calendari? Nahhhh, troppo facile. Roba da noiosi storici. Magari avrebbe potuto trovare elementi che ci dicono come quella tesi sia proprio una gran stro.. (strologata, cosa avete capito?). I trasporti da Fossoli ai lager si svolsero fra febbraio e fine giugno. Poi il campo a metà luglio, decisione operativa inizi agosto, fu trasferito a nord a Bolzano-Gries e Fossoli rimase come campo di internamento per civili. Quindi i perfidi partigiani avrebbero dovuto attaccare un campo tedesco, in piena pianura, gestito e difeso da SS (che non vuol dire Signorine Sissignore), verso marzo, aprile, maggio 1944. Peccato che in quei mesi i partigiani…quasi non ci fossero neanche. L’organizzazione era agli inizi, l’afflusso di massa verso la montagna inizia dopo la scadenza dei bandi di arruolamento il 24 maggio. In montagna le formazioni reggiane e modenesi dopo Monchio e Cervarolo (18-20 marzo) si erano sbandate e tornano ad organizzarsi 1 mese dopo. In pianura i SAP iniziano ad avere un minimo di struttura (e si parla, per lo più, di partigiani part-time) in giugno-luglio. Tant’è che fra i motivi della decisione di portare il campo a Bolzano-in agosto-è quello di toglierlo da una zona che sta diventando infida. In marzo-aprile-maggio chi avrebbe dovuto attaccare il campo? I perfidi GAP comunisti? Cioè, fra Reggio e Modena, una quarantina di persone? Ricordiamo che un attacco serio a una struttura militare seria in campo aperto, il Comando di Albinea, avverrà solo 1 anno dopo e grazie agli appoggi degli alleati (e la loro diretta partecipazione).

Ma, si sa, i partigiani erano talmente vili che non avevano coraggio di attaccare neanche quando…non c’erano. Magari Tadolo, fra un po’ ci tirerà fuori una testimonianza segreta, fornita da Filippy, al quale l’ha data un anonimo che non può nominare, secondo la quale il resposnabile del non-attacco fu il solito Eros, agente dell’antisemitismo staliniano. Attendiamo fiduciosi.

Reggio, Europa?

E’ difficile parlare del cortile di casa propria, sia perchè “tengo famiglia” (e so, per esperienza, che non è bello trovarsi licenziato su due piedi) sia perchè si finisce, inevitabilmente, per perdere la prospettiva delle cose come per un miope che guardi le cose ad un palmo dal naso. Eppure si può tacere, far finta, o nascondersi dietro alla solidarietà di schieramento? Incontri amici, collaboratori, persone di valore e da tutti la delusione, l’irritazione, la frustrazione ormai al limite del rassegnato, viste certe situazioni. “Tanto ormai non c’è niente da fare” è quello che mi sento dire. E sono tutte persone di grande preparazione, che hanno studiato, si sono specializzate e che trovano, molto spesso, ampi riconoscimenti fuori dalle patrie mura. Ma a Reggio ormai la cultura sembra ridotta ad un fantasma, la nostra città sembra vivere un ritorno al passato di qualche secolo, il Principe decide e l’artista (di corte) corre, esegue, plaude. Nessuna discussione, nessuno spazio per altro che non sia il piacere del Principe che lo dispensa, bontà sua, ad una indistinta folla di popolo plebeo e ignorante, incapace, ahi lui, di comprendere di vivere nel migliore dei mondi possibili. Di fronte all’affanno delle istituzioni culturali in difficoltà nella loro quotidiana attività si indirizzano risorse ingenti all’effimero senza accorgersi che proprio l’Europa ci testimonia di come siano proprio le istituzioni il perno centrale nella costruzione di progetti culturali di ampio respiro. Sono i Musei, gli Archivi, le Biblioteche a fondare, singolarmente, ma soprattutto lavorando in rete, una maturità culturale diffusa che è il presupposto di un senso condiviso di cittadinanza, salvaguardando un patrimonio di memoria destinato, altrimenti, alla dispersione. Come in una famiglia  il buon padre pensa al sostentamento di ogni giorno e, poi, semai, alle vacanze estive, così nella progettazione culturale come pensare allo “straordinario” quando la quotidianità non è non solo garantita ma neppure tutelata? Come pensare che il piacere del Principe possa rappresentare la complessità di una intera comunità? Le risorse destinate alla cultura, alla formazione, non sono spese, sono investimenti per il futuro. Ma chi, potendo scegliere, ai propri figli non lascerebbe una casa piuttosto che un qualche CD con gli ultimi videogiochi?

Per venire al mio modesto cortile, come pensare che di fronte al giacimento archivistico di maggior rilevanza per la storia e la memoria della comunità reggiana nel secolo scorso (le “Reggiane”) si possa rispondere con la classica alzata di spalle, a dire “chissene…”? Roba vecchia…O di fronte alla mole di patrimoni documentari messi in salvo in questi anni deliberare gli ennesimi tagli “perchè il bilancio lo impone”, quando il “caso reggiano” (economico, sociale, politico) è oggetto di interesse e studio non solo in sede nazionale ma anche appunto, europea? Sì, perchè in Europa ci andiamo tutti, con gli occhi aperti e ben svegli. Anche noi, piccoli, vecchi  polverosi storici di provincia, forse incapaci di godere le fortune che la nostra Reggio ogni giorno ci dispensa ma capaci ancora di capire che la distanza fra noi e l’Europa, appunto, si sta dilatando, giorno per giorno.

“Libertà di parola? Intendiamoci: la libertà di parola non significa poter dire quello che si vuole, anche sotto Stalin potevi farlo. Libertà di parola significa poter dire quello che si vuole e non aver paura se qualcuno, un mattino, bussa forte alla tua porta”(J.Siffert)