Antropologia del conformista che fugge dalla libertà (Gustavo Zagrebelsky)

«Che cosa è questa complicità degli oppressi con l’oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?» Dalla lezione che Zagrebelsky terrà questa sera all’Auditorium di Roma nell’ambito de “Le parole della politica”.

Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è – parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne – questa complicità degli oppressi con l’oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome – apparso allora per la prima volta – è “servitù volontaria”. Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d’essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s’impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l’opportunista, il gretto e il timoroso: materia per antropologi.

a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L’uomo-massa è l’espressione per indicare chi solo nel “far parte” trova la sua individualità e in tal modo la perde. L’ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi “a posto”, “accettato”.Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l’autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l’affettazione modaiola. La “tirannia della pubblica opinione” è stata denunciata, già a metà dell’Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell’immagine, è certo più pericolosa di allora. L’individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma.
Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della “polizia” senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d’essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia?

b) L’opportunista è un carrierista, disposto a “mettersi al traino”. Il potere altrui è la sua occasione, quando gli passa vicino e riesce ad agganciarlo. Per ottenere favori e protezione, che cosa può dare in cambio? Piaggeria e fedeltà, cioè rinuncia alla libertà. Messosi nella disponibilità del protettore, cessa d’essere libero e si trasforma in materiale di costruzione di sistemi di potere. Così, a partire dalla libertà, si creano catene soffocanti che legano gli uni agli altri. Si può illudersi d’essere liberi. Lo capisci quando chi ti sta sopra ti chiede di pagare il prezzo dei favori che hai ricevuto. Allora, t’accorgi d’essere prigioniero d’una struttura di potere basata su favori e ricatti, che ti prende dal basso e ti solleva in alto, a misura del tuo servilismo. Quel de la Boétie, già nominato, ha descritto questo meccanismo. Il segreto del dominio sta in un sistema a scatole cinesi: un capo, circondato da pochi sodali che, distribuendo favori e cariche, a loro volta ne assoldano altri come complici in prevaricazioni e nefandezze, e questi altri a loro volta. Così la rete si estende, da poche unità, a centinaia, a migliaia, a milioni. Alla fine, il numero degli oppressori è quasi uguale a quello degli oppressi, perché appena compare una cricca, tutto il peggio, tutta la feccia degli ambiziosi fa gruppo attorno a lui per aver parte al bottino. Il tiranno genera tirannelli. Ma questi sono uomini liberi o parassiti come quelli che infestano il regno animale e vegetale?

c) L’uomo gretto è interessato solo a ciò che tocca la piccola sfera dei suoi interessi privati, indifferente o sospettoso verso la vita che si svolge al di là, che chiama spregiativamente “la politica”. Rispetto alle questioni comuni, il suo atteggiamento l’ipocrita superiorità: “certo gli uni hanno torto, ma nemmeno gli altri hanno ragione”, dunque è meglio non immischiarsi. La grettezza è incapace di pensieri generali. Al più, in comune si coltivano piccoli interessi, hobby, manie, peccatucci privati, unitamente a rancori verso la società nel suo insieme. Nell’ambiente ristretto dove si alimentano queste attività e questi umori, ci si sente sicuri di sé e aggressivi ma, appena se ne esce, si è come storditi, spersi, impotenti. La grettezza si accompagna al narcisismo e alla finta ricerca della cosiddetta “autenticità” personale che si traduce in astenia politica accompagnata dal desiderio d’esibirsi. In apparenza, è profondità esistenziale; in realtà è la vuotaggine della società dell’immagine. Il profeta della società gretta è Alexis de Tocqueville, nella sua analisi della “uguaglianza solitaria”: vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è estraneo al destino degli altri: se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia più patria. Su questa massa solitaria s’innesta la grande, terribile e celebre visione del dispotismo democratico: “al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare, che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Ama che i cittadini siano contenti, purché non pensino che a stare contenti”. Ora, chi invoca su di sé un potere di tal genere, “immenso e tutelare”, è un uomo libero o è un bambino fissato nell’età infantile?

d) La libertà può fare paura ai timorosi. Siamo sicuri di reggere le conseguenze della libertà? Bisogna fare i conti con la nostra “costituzione psichica”, dice Freud: l’uomo civile ha barattato una parte della sua libertà per un po’ di sicurezza. Chi più di tutti e magistralmente ha descritto il conflitto tra libertà e sicurezza è Fëdor Dostoevskij, nel celebre dialogo del Grande Inquisitore. A dispetto dei discorsi degli idealisti, l’essere umano aspira solo a liberarsi della libertà e a deporla ai piedi degli inquisitori, in cambio della sicurezza del “pane terreno”, simbolo della mercificazione dell’esistenza. Il “pane terreno” che l’uomo del nostro tempo considera indispensabile si è allargato illimitatamente, fino a dare ragione al motto di spirito di Voltaire, tanto brillante quanto beffardo: “il superfluo, cosa molto necessaria”. E’ libero un uomo così ossessionato dalle cose materiali, o non assomiglia piuttosto alla pecora che fa gregge sotto la guida del pastore?

Conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza: ecco dunque, della libertà, i nemici che l’insidiano “liberamente”, dall’interno del carattere degli esseri umani. Il conformista la sacrifica all’apparenza; l’opportunista, alla carriera; il gretto, all’egoismo; il debole, alla sicurezza. La libertà, oggi, più che dal controllo dei corpi e delle azioni, è insidiata da queste ragioni d’omologazione delle anime. Potrebbe perfino sospettarsi che la lunga guerra contro le arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà di cedere liberamente la nostra libertà. La libertà ha bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi. Il conformismo, si combatte con l’amore per la diversità; l’opportunismo, con la legalità e l’uguaglianza; la grettezza, con la cultura; la debolezza, con la sobrietà. Diversità, legalità e uguaglianza, cultura e sobrietà: ecco il necessario nutrimento della libertà.

(da Repubblica, 16 giugno 2011)

Chiesa, democrazia e bunga bunga (Michele Martelli)

Perché la Chiesa ufficiale non condanna, senza se e senza ma, il bunga bunga (dissociandosi per esempio, dalla campagna ateo-devota di Giuliano Ferrara, la cui devozione mescola le porpore cardinalizie con le mutande arcoriane)? La questione ha un duplice aspetto: politico e morale. Riguarda il rapporto della Chiesa al tempo stesso con la nostra Costituzione e col Catechismo.

Nello scandalo del Rubygate e dintorni sono coinvolti, politicamente, il premier, cioè la quarta carica dello Stato (il B-telefonista salva-Ruby alla Questura di Milano), la consigliera lombarda Minetti, smistatrice di escort dalla villa arcoriana agli alloggi dell’Olgettina, e la Camera dei deputati: la maggioranza forzaleghista, dopo aver deliberato, al di là di ogni senso del ridicolo, che la B-telefonata – forse non prevedendo le imminenti dimissioni di Mubarak, di cui spacciava Ruby per “nipote”! –, avrebbe evitato un incidente diplomatico internazionale, ora è pronta a nuove leggi ad Caimanum (processo breve e divieto di intercettazioni). Il raìs di Arcore grida al “golpe morale” contro la magistratura, che ne ha chiesto il processo con rito immediato, mentre sparuti gruppi di acefali fedeli manifestano davanti al Palazzo di Giustizia a Milano. Siamo alla stretta finale. Aut Aut. O Caimanato o democrazia. L’esito dipende dalla parte incorrotta delle istituzioni, e dalla mobilitazione della società civile (Egitto docet!). Di questa fanno parte anche preti e vescovi, che, in quanto «cittadini italiani», «hanno il dovere di essere fedeli alla Costituzione repubblicana» (Cost., art. 54, c.1). Quindi di difenderla dai suoi nemici.

Il saccheggio caimani(a)co della Costituzione è sotto gli occhi di tutti. Non intervenendo, la Chiesa italiana, ovvero la Cei, tradisce i suoi doveri di cittadinanza e la sua lealtà democratica. Vendendo l’anima al mercimonio di Arcore in cambio di soldi e privilegi (vedi, per ultimo, il pacco-regalo governativo dell’esentasse agli alberghi ecclesiastici, la cui irregolarità è stata già impugnata dall’Ue); anzi, criticando i presunti «eccessi della magistratura», come ha fatto il cardinal Bagnasco in riferimento al pool giudiziario di Milano (ma forse anche ai giudici di Roma che indagano sull’ipotesi di reato di riciclaggio di denaro sporco di cui è accusato lo Ior, la banca vaticana), oltre a fornire una mezza copertura ai reati penali di cui B. è indagato (concussione e favoreggiamento della prostituzione), si rende complice dell’eversione in atto. Non ci sarebbe purtroppo da meravigliarsi, vista la complicità delle gerarchie ecclesiastiche col fascismo, durante e dopo la sua ascesa squadristica al potere. Non si opposero al Duce nemmeno dopo il delitto Matteotti, con cui fu assassinata la democrazia in Italia. Che gli importava dell’Italia, se il Duce gli stava già preconfezionando il pacco-regalo dei Patti lateranensi? E che gli importa, si direbbe, dell’Italia di oggi, se il premier bunga bunga gli garantisce finanziamenti e leggi bioeticistiche anticostituzionali (il ddl Calabrò-Bagnasco contro il bio-testamento, già approvato dal Senato, attende il passaggio alla Camera)?

Nello scandalo del Rubygate e dintorni è implicata anche la dottrina morale, presunta sacra e assoluta, del Catechismo. Se le gerarchie fossero coerenti con i loro precetti morali (6. “Non fornicare”; 7. “Non mentire”; 10. “Non desiderare la donna d’altri”), dovrebbero perlomeno severamente rimbrottare, se non scomunicare il peccatore Re nudo del bunga bunga. In tempi passati, gli avrebbero chiesto di strisciare come un verme davanti al papa e di baciargli i santi piedi. Oggi potrebbero almeno dissociarsi? Perché non lo fanno? Perché non condannano pubblicamente se non il “peccatore”, almeno il “peccato” del bunga bunga”?

Gli interessi temporali e materiali della Chiesa, che sono in gioco, e la predisposizione antidemocratica dei suoi vertici, sono solo una spiegazione. L’altra è la concezione tradizionale ecclesiastica e inquisitoriale della donna. O meglio del corpo della donna. Dell’Eva-Serpente tentatrice e peccaminosa, che causò la punizione divina dello sprovveduto Adamo. O della filosofa e scienziata greca Ipazia d’Alessandria, il cui corpo ancora vivo andava fatto a pezzi e incenerito per ordine del santo vescovo Cirillo. O delle streghe del Seicento, accusate di volare sulle scope ai segreti incontri notturni dei saba, alla mercé di diavoli assatanati, e perciò il Torquemada di turno le infilzava (dal retro o dalla vagina su pali acuminati), mutilava, scuoiava, squartava. La salvezza delle donne era affidata solo alla castità (anche nel matrimonio, dove la donna accetta il sesso solo a fini procreativi), meglio garantita con la loro reclusione conventuale, “volontaria” o forzata. Il corpo delle donne, insomma, sarebbe davvero “puro” solo se asessuato!

Sotto questo riguardo, Chiesa e bunga bunga (absit iniuria verbis!) paradossalmente condividono la stessa idea del corpo femminile. Un oggetto a disposizione del maschio, senza autonomia, debole o incapace di pensiero e volontà propria, “qualcosa” da assoggettare o di cui appropriarsi per manipolarlo ad libitum, con la violenza sadico-inquisitoriale dell’autorità religiosa e della tortura, o con la forza ricattatoria-mercantile del danaro e del potere politico. Si tratta delle due classiche, ma in questo caso impresentabili facce della medesima medaglia: la sfrenata libidine fallocratica. Dissociarsi non è moralismo o bacchettonismo! La libertà sessuale di ciascuno/a è fuori discussione. Ad ognuno le sue mutande, si potrebbe dire. Come scriveva il filosofo laico e liberale inglese John Stuart Mill: «Su se stesso, sul suo corpo e sulla sua mente, l’individuo è sovrano» (Sulla libertà, 1859). Purché non commetta reato, ovviamente. Fermo restando che, dal punto di vista di una morale laica, la propria e l’altrui dignità, anche sessuale, non è cosificabile e mercificabile.

Alle “donne in piazza” del 13 febbraio va oggi l’incommensurabile merito della difesa non solo della loro, ma anche della nostra dignità.

(14 febbraio 2011)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/chiesa-democrazia-e-bunga-bunga/

Minuzie di fine anno

angelo-bagnasco.jpgMILANO – I vescovi chiedono una «nuova generazione di cattolici in politica». L’appello proviene dalla voce italiana più autorevole, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), in un’intervista alla Radio Vaticana. «Più volte la Chiesa esorta i cattolici all’impegno in politica. Ma come può avvenire ciò se, come accade, la nomina dei parlamentari è saldamente in mano alle segreterie dei partiti? Il nostro appello di vescovi ad una nuova generazione di politici cattolici, non è un atto di disistima o ingratitudine verso quei cattolici che già ora, da tempo, sono impegnati in politica», precisa il cardinale. «Verso di loro semmai c’è l’incoraggiamento e l’invito a essere sempre di più e sempre meglio una presenza incisiva, efficace, per il bene di tutti». (http://www.corriere.it/politica/10_dicembre_30/bagnasco-politici-cattolici_21c78438-141e-11e0-96ea-00144f02aabc.shtml)

Bene, ci vuole una nuova generazione di cattolici in politica. Ma i cardinali sono cattolici? In caso affermativo (cosa non sempre così lampante) l’invito per loro non vale? Dobbiamo tenerci il card.Bagnasco, già-in qualità di ordinario militare-generale di Corpo d’Armata del nostro esercito (come testimoniano le stellette sulla tonaca)? O siamo al solito “armiamoci e partite”? Orsù, date il buon esempio: che dite, una parrocchia in una favela, non sarebbe un bel modo di finire una carriera?


larussa.jpgSi attende la notizia sulla estradizione (o no) di Cesare Battisti (ma non l’avevano già impiccato gli austriaci?), le reazioni, in caso di rifiuto brasiliano, sono state sdegnate: “Anche il ministro della Difesa Ignazio La Russa, interviene duramente: in un’intervista al Corriere della Sera, si dice pronto ad appoggiare iniziative di boicottaggio contro il Brasile se verrà negata l’estradizione a Battisti, ex militante dei Proletari armati per il comunismo (Pac), condannato in Italia per quattro omicidi avvenuti negli anni ’70: “Nessuno pensi che il ‘no’ all’estradizione di Battisti sia senza conseguenze”, avverte. Un ‘no’ di Lula, continua, sarebbe ”una grande ferita nei rapporti bilaterali”, ma anche ”un atto di grande mancanza di coraggio, perché lui se ne va, ma il Brasile resta”.

Caro Ignazio, se non ci ridanno C.B. cosa facciamo? Dichiarate guerra al Brasile? Lo boicottate? Cioè? Non salutate più Felipe Massa, non caricate più in auto blu i trans? Attendiamo fiduciosi notizie…

leghista.jpgPovero Vendola. Agguato nel centro storico di Terlizzi, alle porte di Bari. Il governatore svegliato di colpo e molestato. Sono intervenuti i carabinieri di Molfetta che hanno sorpreso i militanti del centrodestra. Un fascicolo per fare luce sulla matrice politica dell’episodio. I giovani Pdl parlano di goliardata, ma colpisce la dichiarazione-choc di un consigliere provinciale della Lega: “”Ho appena sentito al telegiornale che Nichi Vendola è stato svegliato nel cuore della notte da alcuni manifestanti del Pdl ed è caduto dalle scale. Purtroppo non ha avuto danni permanenti”. Questo il commento del consigliere provinciale di Varese, Marco Pinti, andato in onda su Radio Padania e catturato da Daniele Sensi sul suo blog”(http://bari.repubblica.it/cronaca/2010/12/30/news/raid_nella_notte_a_casa_di_vendola_identificato_gruppo_di_giovani_del_pdl-10707891/?ref=HREC1-5)

Sdegno per quanto dice Radio Padania. Purtroppo il grande Faber si è sbagliato “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior..”. Sì, fior, di canaglie in camicia verde.

Sogno di una notte (buia) d’inverno

2040192894.jpgOggi è il solstizio d’inverno, non solum sed etiam è la notte più buia da qualche millennio, visto che ci sarà un’eclissi di luna. In tanto buio si dorme bene e magari fa anche qualche sogno…

Roma, 22 dicembre a.D.2010: tutto sembrava essere cominciato come sempre. Giovani a folla per le vie del centro, striscioni colorati, passamontagna, sciarpe colorate, slogan contro l’Enterogelmina. A fronteggiarli, in assetto antisommossa (e se fosse stata una rivolta, cosa si mettevano addosso, direttamente un blindato?), qualche centinaio di poliziotti.

Pare che tutto sia cominciato all’angolo di Via del Corso, quando un ragazzo, tale A.P., anni 20 e un agente, tale P.A. anni 26 si sono ritrovati, lui tolto il passamontagna e lui casco a visiera, a fumarsi una sigaretta. Pare che il dialogo sia stato:

Raga: “Tu cazzo fai qua a picchiare noi? Chi sei?

Pullo: “Sono qui per 1250 euro al mese e manco abbiamo la benzina per le auto. E tu che cazzo fai, anzichè studiare?”

Raga: “L’anno prossimo mi laureo, ma son figlio di nessuno e non avrò mai un posto…”

Raga/Pullo: “Ma che cazzo stiamo a darci mazzate?”

Testimoni oculari riferiscono che i due, finita la sigaretta, siano tornati nei rispettivi schieramenti a parlottare con i rispettivi sodali. Circa 15 minuti dopo si è presentata una scena ancora non spiegata dalle compettenti autorità. Gli schieramenti infatti, anzichè confliggere come previsto e sperato, si sono mescolati, caschi a visiera sono stati scambiati con passamontagna (tengono anche più caldo) e la sfilata ha preso la direzione del Palazzo del Viminale, sede del Ministero degli Interni. Qui, alcuni agenti, hanno svolto il loro compito e hanno proceduto al fermo del pregiudicato Marroni Roberto che  è stato fatto scendere in strada e poi, a suon di calcinculo, invitato ad aprire il corteo. Scena analoga si è svolta in alcune sedi istituzionali: sono stati invitati a calcinculo il poco on.Gasparri e ignaziolarissa. Il corteo che, fonti concordi della Questura e del movimento hanno stimato in 100.000 persone, ha percorso festoso le vie del centro, senza alcun incidente.

L’unico atto riprovevole è stato copiuto nei confronti dell’on.Capezzone. Individuato, è stato cosparso di pece e piume. Atto riprovevole per le piume strappate a piccioni di passaggio (243).

Verso le ore 18 i cortei si sono disciolti. I malcapitati Marroni, Gasparri e Larrussa sono ricorsi alle cure del chirurgo plastico del premier per l’impianto di nuove e più moderne chiappe in silicone (lavabili e ancor più somiglianti ai rispettivi visi).

Ancora sul 25 aprile

«Immaginavo che il 25 Aprile fosse la fine di un periodo nero, di una scatola chiusa, buia, in cui eravamo finiti tutti dentro, con fratelli che hanno cominciato a picchiarsi ed uccidersi.
Cos’è il 25 Aprile? Vuol dire dimenticare che esiste il rosso e il nero. E che questo è un popolo che sa trarre il meglio di sé ma se resta unito. Per guardare positivamente al futuro bisogna mettere da parte le ideologie, le contrapposizioni. In democrazia è giusto che ci siano confronti su idee diverse. Ma non sul 25 Aprile».

http://linformazione.e-tv.it/archivio//20100426/04_RE2604.pdf

Parto da queste parole pronunciate a Guastalla il 25 aprile dall’on.Alessandri perché mi sembrano particolarmente significative ed efficaci. Semplici, di (apparente) buonsenso. Capaci di catturare il “consenso”, come i risultati elettorali della Lega ci confermano. Ad un pubblico ormai televisivamente addomesticato e conformato, del resto, questo ci vuole: semplicità e (apparente) buonsenso. Se il neurone sonnecchia passa tutto. Non ci si scuote come per le panzane di Filippi o le iniziative simil-edilizie dei crociferi locali. Si ascolta e si ingoia, buon senso e (apparente) equilibrio. Peccato che, appena riusciamo a risvegliare il secondo neurone ci accorgiamo che così non è. Cos’è il 25 aprile per il rampante esponente leghista? Un assoluto nulla. 25 aprile è “dimenticare che esiste il rosso e il nero”? E allora perché l’abbiamo fatta quella guerra sacrosanta, per diporto, per noia? E poi perché l’abbiamo fatta, una guerra anche civile, se è vero che “questo è un popolo che sa trarre il meglio di sé ma se resta unito”. Unito come? Dopo vent’anni di dittatura e una guerra? Unito fra chi ha bastonato e chi è stato bastonato? Unito adesso che ci sentiamo insultare ogni giorno come “nemici”? Unito forse nel difenderci da chi “italiano” non è? Da chi non ha avuto il “bene” di nascere in questa terra fortunata?
Ma per fortuna l’onorevole di (apparente) buonsenso ha la soluzione: “Per guardare positivamente al futuro bisogna mettere da parte le ideologie, le contrapposizioni”. Bene, finalmente, era ora. Possiamo concentrarci sulle cose serie e importanti per una comunità: chiudere le buche, asfaltare le strade, far pagare le rette ai poveracci altrimenti gli affamiamo i figli. Roba seria. Finalmente. E noi che pensavamo contassero invece cose come la dignità dell’individuo, l’uguaglianza, la legalità. Ma possiamo stare tranquilli “In democrazia è giusto che ci siano confronti su idee diverse”: lei come preferisce l’asfalto? Drenante o no? E la buca? Chiusa con pietrisco o catrame?
Si può discutere su tutto, dice il nostro onorevole, ma non sul 25 aprile. Del resto, come dargli torto? Come si può discutere sul nulla?

Una guerra

172737914-7bc0812e-7875-4d38-8d4b-e9fd54690591.jpgI premi Pulitzer 2010 per il fotogiornalismo sono stati assegnati a Craig F. Walker del Denver Post e Mary Chind del Des Moines Register. Il primo si è aggiudicato il prestigioso riconoscimento nella categoria Feature Photography con la serie a colori “Ian Fisher: American Soldier”, il lungo racconto per immagini della vita del soldato Ian Fisher. Dalla scuola superiore al campo d’addestramento fino all’anno trascorso in Iraq e al ritorno in patria: la vita del giovane americano è stata seguita da Walker a partire dal 2007. “Premiato per il suo ritratto intimo di un adolescente che si unisce all’esercito americano al culmine delle violenze in Iraq, in una ricerca commovente di senso e virilità”

Auguri, maestro!

Gillo Dorfles compie 100 anni. Auguri.

Sull’Unità di oggi un’intervista di Bruno Gravagnuolo

«Italia disunita e senza stile dove ormai è in vigore la dittatura dello sgradevole»

“Dipendesse da me abolirei età e compleanni. Ma verrano a prendermi degli amici per festeggiarmi. Una cosa fuori città, ma che mi salverà da chi vuole felicitarsi…”. Dunque niente celebrazioni per Gillo Dorfes, centenario domani e «irritato» con chi gli fa gli auguri. I cento anni però ci sono e del resto Milano li ha già celebrati con una splendida antologica a Palazzo Reale ancora in corso. Lì c’è tutto il Gillo pittore, straordinario artefice di fantasmi fluidi e disarmonici, né astratto né figurativo. Artista di un pensiero visivo in germe, ironico. Che è poi la «sua» cifra di artista del Movimento di Arte Concreta, che fondò nel dopoguerra con Munari, Soldati e Monnet. Solo che Gillo, si sa, è molto altro.

Critico, psichiatra, estetologo, musicologo, musicista viaggiatore, esperto di design, moda, osservatore del gusto. Fu tra i primi a farci conoscere l’arte contemporanea e a tematizzare «armonia/disarmonia» nel raffronto tra arte orientale e occidentale. Uno scrigno di osservazioni, teorie, «flanerie» del buon gusto e del cattivo gusto (il kitsch). Chi se non lui può raccontarci l’Italia, dal punto di vista dello «stile» di una nazione? E poi ha raccolto per Castelvecchi le sue Irritazioni, manuale degli abusi e dei tic (anti) estetici che ci rattristano la vita. Sentiamo.

Nel catalogo delle irritazioni che la assediano – stuzzicadenti, piumini viola, grandi fratelli etc – cosa la irrita di più di questa Italia leghista e berlusconiana?
«Ha quasi detto tutto lei… ma il dato che più mi colpisce è la mancanza di gentilezza comunitaria. Niente sorrisi, le risposte nei negozi monche e sgarbate. Una sensazione di peggioramento nei rapporti col prossimo e l’assenza totale di cura per l’altro».

Barbarizzazione del costume italico?
«Non saprei fare diagnosi. È una forma di autismo privatistico senza interesse alcuno per ciò che accade attorno».

Al nord la Lega parla molto di comunità, Dio, patria e famiglia…
«Queste che dovrebbero essere le regioni più evolute, mostrano di non essere affatto le più avanzate. Invece prenda Salerno. È in piena fioritura e hanno convocato i migliori architetti e urbanisti internazionali per il Piano regolatore. Cose che non vedo qui. Evidentemente c’è una decadenza di tutto il nord. Anche a Milano l’ambiente è peggiorato e malgrado i grandi progressi economici del dopoguerra, mi pare che il progresso si sia fermato. Specie dal punto di vista culturale».

Milano non era la capitale del design, dell’architettura urbana e della moda?
«Lo è ancora, per la moda e il design. Triennale e Salone del Mobile sono ancora manifestazioni di eccellenza. Ma sono casi a sé. Vedremo più in là che cosa sarà l’Expo che s’annuncia interessante. Nomi e progetti fanno ben sperare – da Piano a Liebeskind – e non si intravedono progetti kitsch. Ma io parlo di un clima più generale, conformistico e un po’ depressivo».

Il conformismo di massa, uno dei suoi tormentoni polemici. In che consiste?
«Nella tendenza di ciascuno ad adeguarsi a quel che vede intorno. Il famoso individualismo italico è azzerato. Tutti vogliono gli stessi jeans, lo stesso impermeabile e lo stesso cibo. Una coazione maggioritaria penosa. E lo stesso vale per i giovani. Dal piercing, all’orecchino ai tatuaggi, vogliono tutti iscriversi alla stessa tribù».

Che ruolo gioca in questo il narcisismo e la voglia di esserci, coi reality show ad esempio?
«C’è un horror pleni dell’apparire a tutti i costi. E il Grande Fratello ne è l’esempio più sgradevole. Il fatto che esistano persone disposte ad autotorturarsi in gruppo in tv è aberrante. E l’esibizionismo domina su tutto, in un fracasso che annienta “segretezza” e pudore, cose sottoposte a ludibrio in basso e in alto. Di fatti né l’autorità né il pubblico vogliono preservarle».

Tendenza solo italica o globale?

«Globale. La gente ama mettersi a nudo per autorappresentarsi. Una volta non era così, ma oggi con i media vecchi e nuovi c’è un’orgia del vedere e del voler essere visti. Il che tocca non solo le masse ma anche le elites, i pensatori, gli imprenditori, i banchieri, per non dire degli artisti».

È un rimescolio estetico e audiovisivo che annienta confini e gerarchia, pause e intervalli…
«Sì, anche nell’arte domina l’esibizionismo. Gli artisti diventano eroi semiologici che creano pseudo-opere vistose e perciò riconoscibili. Sicché tutto si equivale e si dissolve».

Berlusconi non è a modo suo uno di questi eroi semiologici fracassoni e accattivanti? Perché resiste e perdura?
«Le ragioni della sua tenuta stanno nell’ammirazione di un certo pubblico. La genta crea e venera questa icona del successo, che vorrebbe imitare».

Piace perché il suo è un successo festoso e trasgressivo?
«È la legge dell’immagine. Nulla di meglio di chi dà l’idea di poter trasgredire con allegria e di trionfare contro tutti e tutto! Anche cattivo gusto e barzellette rientrano nella facile imitabilità del personaggio».

Benché il suo umorismo sia tipico di una vecchia antropologia italica da avanspettacolo?
«Sarà avvilente, ma questo umorismo somiglia a quella che oggi è l’antropologia italica dell’uomo della strada. Non dico che gli italiani siano tutti così o sempre così. Ma negli ultimi tempi è questo il modello imperante».

Berlusconi autobiografia della nazione?

«Autobiografia è un po’ troppo ma in parte i termini concidono».

È stata letale la dissolvenza identitaria della sinistra? E non avverte a riguardo un vacuum, come antidoto mancante?
«Ovvio che è stata una perdita. Speriamo che sia solo temporanea. È stato proprio l’horror pleni contemporaneo ad estinguere in un vacuum ogni energia oppositiva e critica. Il troppo rumore uccide ogni possibilità espressiva, artistica e politica. E poi la sinistra si è rammollita. È astenica, incapace di reazioni e di rappresentare la sua gente».

Un prezzo altissimo pagato a questo rammollimento. Col rischio di apparire inermi ed elitari dinanzi a una destra che ha dalla sua il senso comune popolare…
«Ha vinto il senso comune, che a volte è disastroso: un cattivo senso, retrivo. Altra cosa rispetto al buon senso. E la sinistra oggi perde su entrambi i fronti».

Quanto possono fare l’arte e il senso estetico contro il degrado?
«Ci sarebbe tutto un lavorio da svolgere, a cominciare dall’educazione artistica e musicale dei bambini. Ma siamo ai minimi termini da un punto di vista pedagogico. Comunque non bisogna rassegnarsi. La forza della sensibilità estetica – senza barriere di generi e linguaggi e applicata al quotidiano – è indispensabile per contrastare la dittatura dello sgradevole».

Una volta c’era la grande borghesia a custodire lo stile. Oggi che fine ha fatto la grande borghesia? Lo chiedo a lei che ha traguardato il secolo e frequentato Svevo, Saba, Bazlen e le grandi famiglie triestine, milanesi, genovesi…
«La borghesia in Italia ha fatto fiasco. Almeno una volta c’era una borghesia illuminata. Oggi è pochissimo illuminata. E il cialtrionismo è tipico della borghesia attuale. Finite le oasi di alcuni decenni fa, mentre la diffusione della cultura ha coinciso con l’involgarimento e l’appiattimento. E finita la coesione comunitaria. Da noi la destra non ha saputo fare cultura di punta né generare classi dirigenti, a differenza dei grandi paesi occidentali».

http://www.unita.it/news/culture/97268/italia_disunita_e_senza_stile_dove_ormai_in_vigore_la_dittatura_dello_sgradevole

Silvio ancora superstar (Mario Giordano)

Come al solito: è tutto vero. Oggi su “Libero” (si fa x dire)

Silvio ancora superstar
La piazza incorona il leader, l’unico che è tutt’uno con la sua gente. In attesa delle Regionali e del successivo rimpasto di partito


“Silvio bello e invicinbile”, dice un cartello. “Silvio sei meglio di Giulio Cesare”, scherza un altro. E un gruppo di sedicenni porta uno striscione che recita: “Nato con Berlusconi, cresciuto libero”. Fa un po’ effeto pensare che quando ci fu la discesa in campo questi ragazzi discendevano lungo l’utero delle loro mamme. Adesso sono qui e animano i cori: «Sil-vio, Sil-vio», è un boato. Il premier comincia a parlare, ancora «Sil-vio, Sil-vio», si  deve pure interrompere. Allora i ragazzi intonano un canto da stadio: «Un presidente, c’è solo un presidente», la folla segue. Lui si ferma di nuovo. E sorride: «È quasi un boicottaggio». Nella piazza dei moderati, per quanto sia piena, c’è sempre spazio per l’ironia. L’inevitavile retorica si stempera fra i sorrisi di gente che non riesce a odiare, al massimo può sorridere. Nessun insulto, nessuna invettiva. In compenso un gruppo solleva uno striscione a caratteri cubitali: “T.A.R. Tanto Adesso Rivinciamo”.

Berlusconi e la sua gente, la gente di Berlusconi. C’è un rapporto speciale, un filo diretto, un’onda corta di emozione che supera i rappresentanti di lista, i notabili di partito, persino la distanza che separa l’immenso palco dalla folla. È la prima volta che il premier scende in mezzo alla gente dopo l’attentato di piazza Duomo. Le misure di sicurezza sono massime. Il contatto fisico viene evitato. Il Silvio rockstar di tanti comizi, quello che si butta in mezzo alla platea, quello che si fa toccare e graffiare dalle mille mani tese nell’abbraccio d’affetto non c’è, non può esserci. Silvio è costretto a stare sul palco. Ma la lontananza non lo gela, anzi. La differenza non si sente. Lui stabilisce comunque un contatto diretto con i suoi, perché è nella loro testa, nella loro pancia. Annulla ogni possibile distanza. E ogni possibile titubanza

Gli altri politici quando salgono sul palco fanno comizi. Berlusconi no. Berlusconi parla alla sua gente. Di più la avvolge, la coinvolge, a volte ci gioca, la stuzzica. La chiama a rispondere in coro alle domande («Volete voi essere governati dalla sinistra che vi tassa?». Noooo. «Volete voi essere spiati nelle vostre case?».  Noooo. «Volete voi il governo della libertà anche nella vostre regione?». Sììììì.). A un certo punto finge che la risposta non sia abbastanza forte per ottenere un coro più entusiasta. Quando Bossi si avvicina per sussurrargli all’orecchio che il candidato governatore del Veneto, Luca Zaia, non può essere sul palco, parlano per un attimo sottovoce. Poi ad alta voce scherza: «Stiamo parlando di donne…». Non c’è niente di rituale anche nel momento di massimo ritualità, non c’è niente di così formale che non possa essere vivificato da un pizzico di quotidiana umanità.

La gente di Silvio si riconosce in quelle battute, in quei sorrisi, in quel modo di parlare che sembra rivoluzionario tanto è vicino a quello usato fino a un secondo prima dentro il pullman, sul treno, fra i capannelli di militanti. Silvio annulla le differenza tra leghisti, ex di Forza Italia, giovani nostalgici di  An perché traccia la linea del comun denominatore, perché attira gli sguardi a sé, oltre alle barriere degli ex partiti, oltre agli aspiranti capicorrente e capifazione. C’è tanta gente in piazza. Ma soprattutto è tutta gente che è lì per Berlusconi, che si riconosce nel leader, nel suo richiamo, nelle sue parole. Tutta gente che guarda alto verso il palco, che sente il filo diretto con il premier, e si aspetta qualcosa da lui. Mica dal sottosegretario o dal consigliere provinciale che sfila qualche metro più in là.

Diciamocelo tutta: anche se riesce a portare un milione di persone in piazza, il PdL resta un partito fragile sul territorio, con strutture esigue, capacità di organizzazione modesta. Ma questa sua debolezza è anche la sua forza. Perché le persone che sono scese in piazza ieri non l’hanno fatto nella speranza di avere una candidatura, una poltrona nella municipalizzata, un appalto o almeno una consulenza di risulta. Dietro quella folla non c’è il sistema organizzato delle cooperative, la ferrea macchina di potere della sinistra. Dietro quella folla c’è un popolo che guarda al proprio leader, e che ha con lui un rapporto diretto, un’intesa passionale, per nulla clientelare, che supera le mediazione dei burocrati, dello stato maggiore del partito. Non ci sono colonnelli e nemmeno caporali: c’è un leader, c’è la sua gente. E c’è una piazza di moderati che stanno cambiando per sempre il modo di fare politica: fuori dalle clientele, fuori dalle partitocrazie, seppellendo per sempre i vizi della Prima Repubblica che ancora si annidano negli altri partiti. E cercando una via nuova e più moderna, magari il presidenzialismo, per governare questo Paese.  Altre volte s’era visto in piazza il popolo del centrodestra, mai come stavolta s’era visto il popolo di Silvio. “Nato con Berlusconi, cresciuto libero”, come diceva lo striscione di quei sedicenni. Un popolo libero, appunto. E per questo deciso a non fermarsi qui.

http://www.libero-news.it/news/375124/Silvio_ancora_superstar_.html

Anche questa è Resistenza!

Chiarelettere ha pubblicato un pamphlet di Oliviero Beha intitolato I Nuovi Mostri, dedicato alle macerie intellettuali di questo disgraziato Paese: il sistema mediatico ingoia tutto e lo peggiora, i sedicenti intellettuali vi si adeguano, servendo il padrone politico come Arlecchini per i due fronti, di Berlusconi e “nominalmente” contro Berlusconi.

democrazia-resistenza.jpgQuelli che non “abbozzano” vengono respinti dalle fonti di informazione e quindi “non esistono”, la tv ha prostituito dopo i corpi anche le menti. La visibilità è tutto. Scuola e Università sono nel baratro. La crisi è dunque prima e soprattutto culturale, e solo dopo politica, non il contrario. Quindici anni di derby Berlusconi Berlusconi no hanno prostrato l’Italia.

Bisogna non solo resistere e reagire, ma rendere nota questa resistenza. Per questo al libro abbiamo allegato una sorta di censimento di tutte le associazioni che a vario titolo rientrino nell’accezione “culturale” di chi promuove riflessioni sullo stato del Paese senza schierarsi in partenza per nessuno che non sia appunto la resistenza e la ricostruzione dalle macerie. Il mezzo per tale censimento è ovviamente internet.

Vi abbiamo chiesto di mandarci le vostre adesioni per comparire in un elenco iniziale che è stato pubblicato nella prima edizione del libro. Adesso vi invitiamo a continuare la costruzione di questa “rete” nella rete aderendo alla community. Il prossimo passo sarà quello di creare un collegamento con le scuole. E’ da lì che bisogna partire per arginare la propagazione del degrado culturale.

E’ un tentativo di tenere insieme “partigiani” di valori scomparsi, purtroppo imprescindibili per dare una svolta alla peggiore Italia del dopoguerra, l’Italia berlusconizzata nell’idea di società anche in larghissimi settori della sinistra. Il voto ne è poi solo una conseguenza.

http://inuovimostri.gruppi.ilcannocchiale.it/