La Resistenza da difendere (Miguel Gotor)

IL 25 APRILE di quest’anno desideriamo celebrare il sangue versato dai vincitori e ricordare, accanto alla memoria e alla letteratura della Resistenza, anche la storia e la politica del movimento partigiano. Non solo, dunque, gli immaginifici sentieri dei nidi di ragno percorsi da piccoli maestri come il partigiano Johnny, ma i viottoli di montagna battuti 67 anni fa da uomini in carne e ossa come Arrigo Boldrini, Vittorio Foa, Sandro Pertini e Paolo Emilio Taviani.

Grazie alla loro storia commemoriamo i migliaia di giovani caduti in nome della libertà, per la dignità e il riscatto della Patria, in difesa della propria comunità di affetti.

Lo facciamo nella consapevolezza che senza la riscossa partigiana e senza la fedeltà all’Italia e il senso dell’onore di quei militari che, a Cefalonia e non solo, scelsero di impegnarsi nella guerra di liberazione dal nazifascismo, non sarebbe stato possibile gettare le fondamenta della nuova Italia democratica e repubblicana, quella che ancora oggi abbiamo il privilegio di abitare. Ma avvertiamo questa esigenza anche perché abbiamo alle spalle oltre vent’anni di un senso comune anti-antifascista che ha egemonizzato il discorso pubblico intorno a due concetti meritevoli invece di maggiore ponderazione.

Il primo è quello che vede nell’8 settembre 1943 la morte della patria. In quei giorni si assistette al collasso dello Stato e delle istituzioni, ma la patria trovò, grazie alla scelta partigiana e alla coscienza di tanti, le ragioni per resistere, rigenerarsi e rinascere alimentando un secondo Risorgimento della nazione.

Il secondo concetto è quello di guerra civile, che è stato indebitamente strumentalizzato. In questo caso, la condivisibile interpretazione azionista di un partigiano come Franco Venturi (“le guerre civili sono le uniche che meritano di essere combattute”) è stata piegata agli interessi del reducismo fascista e saloino che da sempre hanno negato il carattere di lotta di liberazione alla Resistenza e, sin dalle origini, hanno utilizzato il concetto di guerra civile per equiparare, sul piano politico e morale, le ragioni delle parti in lotta.

Da questa duplice manipolazione della realtà storica è scaturita la rivalutazione di carattere moderato/terzista della cosiddetta “zona grigia”: l’attendismo e l’indifferentismo, motivati da umane e comprensibili ragioni, inizialmente vissuti con disagio e un sentimento di vergogna, si sono trasformati nella rivendicazione orgogliosa di una zona morale di saggezza e virtù. Al contrario, se la Resistenza non avesse avuto il consenso implicito ed esplicito della società civile non sarebbe riuscita a prevalere sul piano militare e politico. Bisogna piuttosto rammentare che l’intrinseca moralità della Resistenza sul piano storico deriva dal fatto che quei giovani combatterono non soltanto per la propria libertà, ma anche per quella di chi era contro di loro e di quanti scelsero di non schierarsi: lo ha dimostrato senza ombra di dubbio la storia successiva dell’Italia democratica e parlamentare.

Oggi questi atteggiamenti, alimentati dalla lunga stagione del berlusconismo con la sua corrosiva ideologia della divisione, segnano il passo e offrono l’occasione alla Resistenza di trasformarsi finalmente in un patrimonio nazionale condiviso anche sul piano del giudizio storico. Un giudizio in cui devono albergare un sentimento di pietas per gli sconfitti, la volontà di studiare in modo equanime – contestualizzando e non per rinfocolare odi di parte – tutta la Resistenza, anche quella più violenta, vendicativa e oscura, e, infine, il riconoscimento dell’importanza del percorso compiuto da quanti oggi, pur essendo cresciuti nel Movimento sociale, hanno dichiarato di riconoscersi nella condanna delle leggi razziali del 1938 e nei valori dell’antifascismo.

È indicativo che in un momento di crisi della politica e della rappresentanza come questo, stiano aumentando le iscrizioni all’Anpi da parte dei più giovani. Nell’Italia attuale è necessario recuperare lo spirito di collaborazione e di ricostruzione civica che ha animato il movimento partigiano da cui scaturì la stagione della Costituente in cui forse politiche di estrazione profondamente diversa impararono a conoscersi e seppero fare fronte comune nell’interesse nazionale. Quello spirito lontano e generoso è il testimone della Resistenza che serve oggi all’Italia.

(La Repubblica, 25.4.2012)

I diversi silenzi della storia

…La sto­ria non è poi
la deva­stante ruspa che si dice.
Lascia sot­to­pas­saggi, cripte, buche
e nascon­di­gli. C’è chi soprav­vive.
La sto­ria è anche bene­vola: distrugge
quanto più può: se esa­ge­rasse, certo
sarebbe meglio, ma vendette la sto­ria è a corto
di noti­zie, non com­pie tutte le sue vendette.

La sto­ria gratta il fondo
come una rete a stra­scico
con qual­che strappo e più di un pesce sfugge.
Qual­che volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scam­pato e non sem­bra par­ti­co­lar­mente felice.
Ignora d’essere fuori, nes­suno glie n’ha par­lato.
Gli altri, nel sacco, si cre­dono
più liberi di lui. (
E.Montale, Satura)

Nella storia ci sono tanti silenzi, silenzi interessati, silenzi obbligati (dalla mancanza di fonti), silenzi di stato, silenzi di parte/partito/chiesa, ma ci sono anche i silenzi pietosi, quelli necessari a lasciare che la storia vada avanti, oltre quelle “cripte, buche e nascondigli” che Montale ci ricorda.

Di questi silenzi mi sono ricordato nei giorni seguenti dopo la giusta sentenza di non luogo a procedere nei confronti di Giacomo Notari. Chiusa la tragica vicenda dei 20 mesi di occupazione, quando una guerra che ebbe anche caratteri di guerra civile sconvolse il nostro territorio, le comunità locali dovettero ricominciare a vivere, a ricostruire una convivenza che la guerra fascista aveva lacerato. “La storia è a corto di notizie, non compie tutte le sue vendette”. E così fu: la violenza, le uccisioni, le vendette furono l’eccezione. La regola fu la ripresa della vita quotidiana. Il cimitero come luogo comune di dolore. Il lavoro come obiettivo e mezzo di rinascita. Le fratture, gli odi, furono sanati dal bisogno quotidiano di vita, dalla voglia prepotente dei giovani che quella guerra avevano fatto, loro malgrado, ad avere finalmente una vita vera, un futuro. E così è stato. Ma quel percorso è stato reso possibile anche dalla pietà amministrata attraverso il silenzio. I figli dei caduti sono cresciuti insieme agli altri, le solidarietà hanno coperto il dolore. In questo modo le comunità, i paesi hanno ripreso la loro vita, con la consapevolezza e la memoria dell’accaduto ma con quella pietas che ha consentito a tutti un futuro. Così anche i fascisti e i loro figli hanno avuto, com’era giusto, un loro futuro, hanno dato il loro contributo alla crescita collettiva. La pacificazione è stata così realizzata concretamente, ben rappresentata dall’art.3 della Costituzione che faceva di tutti gli italiani cittadini veri e reali, indipendentemente dalle loro idee (e dal loro passato).

Questo patto ha tenuto per oltre mezzo secolo, poi la crisi della Repubblica fondata dai partiti usciti dalla Resistenza ha incrinato l’equilibrio e si sono aperti strappi in quella rete che è la storia. Strappi necessari in certi casi, dolorosi e inutili in altri.

Dopo la vicenda giudiziaria appena conclusa non ho potuto non pensare alla famiglia che quella causa aveva promosso. Spinta da sentimenti pur comprensibili, mal consigliata e peggio assistita, ha ottenuto esattamente l’opposto di quanto sperato e cercato. Il silenzio aveva coperto pietosamente le vicende di quegli anni, lasciandole all’analisi degli storici. Nessuno si sarebbe sognato di riaprire le ferite, pagina chiusa, roba da archivi, fogli poco letti. Invece no. Ora chiunque potrà unire verità storica e verità giudiziaria e ricordare, riprendere, descrivere. L’ideologia che ha guidato questa sterile operazione di rivalsa ha travolto quella pietà, per rialzare bandiere sporche e impresentabili ha strumentalizzato il dolore privato. Forse da quella parte non ci si poteva aspettare altro ma lascia un sapore amaro verificare come, ancora una volta, la strada da percorrere per arrivare ad un paese maturo e “normale” sia ancora tanta.

 

 

Musei in Europa. Il ‘900 a Reggio: chi l’ha visto?

Fino a un paio d’anni fa era la Germania a stupirmi ogni volta, bastava tornarci un anno dopo l’altro ed ecco nuovi luoghi di memoria, musei, centri di documentazione. Tornavi a Reggio e tutto era l’avevi lasciato 3, 5, 10 anni prima. Ora anche la Polonia sta seguendo la stessa strada, nel giro di cinque anni ecco due nuovi musei a Cracovia (ma mi dicono che anche Danziva, Varsavia e altre città siano sulla stessa linea).

Poi torno a Reggio e mi avvilisco. Ma torniamo a Cracovia e a come si può lavorare sulla memoria.

Chair_Square.jpgGià da qualche anno è stata inaugurata una installazione nella piazza del Ghetto di Podgorze, quella piazza che in “Schindler’s list” ospitava le fila degli ebrei costretti a registrarsi presso lo Judenrat e dove avvenivano le selezioni per Auschwitz. 68.000 erano gli ebrei di Cracovia nel 1939. Scomparsi, pochissimi i salvati nella marea dei sommersi. In quella piazza 68 grandi sedie metalliche a ricordare quegli scomparsi. Semplice, efficace. Luogo di memoria salvato e parlante.

Nel quartiere ebraico di Kazimierz è attivo da pochi anni il Galician Jewish Museum (vi faccio grazie del nome in polacco) per ricordare la scomparsa presenza ebraica in quella regione. Ricavato dentro una preesistente struttura industriale (http://www.en.galiciajewishmuseum.org/).

GJM.jpgOspita mostre temporanee, come quella di questo periodo sull’emigrazione in Palestina di ebrei polacchi negli anni venti oltre che la mostra permanente sulle tracce degli ebrei in Galizia. Una struttura già industriale recuperata nel centro storico della città. Nel 2011 il Museo ha avuto oltre 30.000 visitatori paganti.

Per restare al recupero di strutture industriali veniamo al Museo Storico di Cracovia nella sua sezione collocata nella recuperata “Fabryka Emalia Oskara Schindlera”, sì, proprio la fabbrica di Oskar Schindler. La prima volta riuscii a sbirciare, allungando 5 euro al custode, perchè mi facesse entrare dal vecchio cancello. Era il 2005.

_MG_8654.jpgLa fabbrica aveva funzionato fino a un paio di anni prima ma ormai era tutto in abbandono. Nel giugno 2010 è stata inaugurata, non solo la parte dedicata alla vita a Cracovia nel periodo dell’occupazione nazista (1939-1945), ospitata nella parte degli uffici ma anche una nuova galleria di Arte Contemporanea che occupa parte degli spazi industriali. Il Museo fa parte dei Musei di Cracovia, qui è allestita una mostra multimediale permanente di grande impatto e coinvolgimento che fa ripercorrere con immagini, suoni, sensazioni tattili e olfattive la vita (e la morte) del periodo bellico. http://mhk.pl/oddzialy/fabryka_schindlera

Ho detto che torno a Reggio e mi avvilisco. Mi avvilisco perchè mi devo confrontare con una realtà drammaticamente diversa dove, da parte della nostra Amministrazione Comunale, (di una città Medaglia d’oro al v.m. per la sua partecipazione alla Resistenza) non c’è nessuna sensibilità sui temi legati alla memoria. Non solo nella promozione di attività rivolte ai giovani (il Comune NON ha partecipato nè sostenuto in alcun modo il Viaggio della Memoria 2012) ma anche nella progettazione di luoghi di memoria. In questi anni sono stati distrutti segni importanti del nostro passato e non esiste alcuna progettualità futura. Da anni Istoreco propone il progetto “La memoria della città” senza nessun riscontro. A Reggio il ‘900 sembra non essere esistito. Non esiste un luogo, un Museo, una stanza, dove le migliaia di ospiti che visitano la nostra città interessati alla nostra vicenda storica possano trovare notizie, informazioni, suggestioni. Nulla. E nulla sarà anche nel futuro più o meno prosssimo. Luoghi come l’ex Carcere di S.Tommaso o il Poligono di tiro sono destinati a un lento declino, sempre preferibile del resto a una loro “valorizzazione” urbanistica.

Le “Reggiane” sono divenute una ghost factory, si discute, si tratta, ma non esiste nessuna idea su come inserire in quel luogo storico uno spazio dedicato alla storia della città dl ‘900. Non è una priorità. Del resto cosa è stata Reggio nel ‘900? Robetta: Prampolini, la cooperazione, Dossetti, Jotti, Ruini, i migliori aerei del mondo, la Resistenza, la meccanica, l’agroalimentare, il 7 luglio, fino a Prodi e Ruini (il card.). Robetta. Che bisogno c’è di ricordare questa roba vecchia e polverosa? Noi siamo nuovi e moderni, noi siamo “avanti”…

In compenso finalmente si discute sul nuovo mirabolante Museo. Ho già abbozzato qualche opinione. In questo momento voglio sottolineare solo un particolare: si dovesse anche realizzare il fantaprogetto di Rota (e Dio non voglia), comunque i reggiani avrebbero speso alcuni milioni di euro per avere sì umanoidi pecorini e gambe nuotanti, funghi luccicanti e tappeti ricamati, ma non avranno comunque nulla sulla nostra storia e memoria del secolo scorso. Nulla. Il ‘900 ancora come grande assente.

Ecco perchè mi avvilisco, nel constatare la sordità di una classe dirigente che, fino a prova contraria, tutti noi abbiamo eletto e che, mi rendo conto con tristezza, ci rappresenta ogni giorno un po’ di meno.

 

«E’ di un museo-spettacolo che ha bisogno la città?»

Con una lettera al sindaco Delrio, un nutrito gruppo di intellettuali s’interroga sui Civici Musei: è giusto investire cifre consistenti per un maquillage esteriore?

Una lettera aperta al sindaco Graziano Delrio per aprire una riflessione sul “nuovo” Museo di Palazzo San Francesco ma anche per interrogarsi su quale deve essere, oggi, la funzione dei Musei Civici a Reggio. A firmarla trenta intellettuali (docenti, critici d’arte, artisti) da Marco Belpoliti ad Alfredo Gianolio, da Ivan Levrini a Mauro Cremaschi.
«Dopo anni di annunci sporadici su giornali o televisioni locali – così inizia la lettera aperta indiririzzata al sindaco Graziano Delrio – in mancanza fino ad ora di una chiara e organica presentazione alla città, finalmente un articolo di Elisabetta Farioli, direttrice dei musei civici (“Taccuini d’arte”, 5), illustra pensiero e forme del progetto di Italo Rota per il “nuovo” Museo di Palazzo S. Francesco. Per la verità anche in questo caso non si entra tanto nel dettaglio, ma si coglie bene lo spirito dell’intervento. Il testo è inoltre corredato da immagini che descrivono l’aspetto di alcuni ambienti e che si possono integrare con i rendering presenti anche sul sito web dell’architetto (http://www.studioitalorota.it/pages-projects/museo_reggio_emilia.html).

Rota.jpgAlcuni di essi – come quello in cui una moquette (?) con giungla, scimpanzé ed elefantino corre lungo il corridoio in cui è disposta la collezione settecentesca di Lazzaro Spallanzani – sollevano dubbi circa le finalità, ma anche la sostanza, dei lavori previsti».
«Che obiettivi si propone il riallestimento di alcune sale, così come illustrato dalle immagini fino ad ora rese disponibili? – si chiedono i trenta firmatari -. Quale valore aggiunge al museo e quali costi comporta per la comunità (si parla di oltre 4 milioni di euro)? Quanto ci si è confrontati con i fruitori del museo, che dovrebbero essere gli interlocutori privilegiati di eventuali azioni di modernizzazione dello stesso? E ancora quando e quanto il progetto è stato condiviso con la cittadinanza? Tutti siamo d’accordo sul concetto di patrimonio storico-artistico e di museo come “eredità vivente” (citando l’articolo di Farioli), ma occorre poi vedere come concretamente vengono declinate idee pur condivisibili in astratto. Chi può non applaudire l’idea di un “approccio che parte dall’oggi, dai problemi della contemporaneità e intende leggere nelle testimonianze del passato possibili stimoli a una lettura del presente in vista di future possibili visioni del mondo” (Farioli)? Sono frasi ottime per qualsivoglia allestimento, che solo rinnovi un po’ le cose. Il punto è: in quale direzione?».
«Soluzioni come quella appena citata – prosegue la lettera – sono in realtà emergenze di una visione che l’architetto applica anche in altri ambienti, quella cioè di un museo-spettacolo. Idea ben comprensibile dove si stia progettando un museo nuovo, da applicare invece con cautela dove un’istituzione esiste già; un’istituzione storica, nata nell’Ottocento grazie all’impegno di più studiosi, alcuni dei quali di risonanza internazionale, come Gaetano Chierici. Alquanto fumosi risultano poi i benefici che dovrebbero derivare dal progetto Rota, laddove si legge che esso “tocca anche da vicino il tema dei confini, sempre più incerti, tra il ruolo dell’architetto e il ruolo del direttore o responsabile del museo, in una visione nuova in cui l’ambito della museografia e quello della museologia tendono a confondersi, o meglio a presupporsi a vicenda, in una sempre più avvertita esigenza della molteplicità di competenze necessarie alla vita di una moderna istituzione museale e del complesso quadro di relazioni che ne presiede la conduzione” (Farioli).

In realtà, nel dibattito museografico e museologico attuale – quello più serio ed aggiornato perlomeno – la preoccupazione cui Farioli si riferisce va di pari passo con l’individuazione e la distinzione, il più possibile chiare e rigorose, dei ruoli e delle competenze tra coloro che a vario titolo “fanno” il museo, tanto più se questo, come nel nostro caso, non viene creato ex novo, ma ha una lunga storia alle spalle. In altre parole: una cosa è aderire a concetti quali interdisciplinarietà, collegialità, reciprocità. Tutt’altra cosa è far passare l’idea, arbitraria e ingiustificata, che la sovrapposizione e addirittura la confusione tra competenze professionali diverse – fortunatamente diverse, aggiungiamo noi – siano il prezzo da pagare al rinnovamento del museo, anzi, alla sopravvivenza dell’idea stessa di museo».
«A queste considerazioni – e a questo punto si tocca inevitabilmente il tema dei tagli – si deve infine aggiungere una doverosa riflessione sull’attuale congiuntura economica. È più che giusto investire in cultura e quindi anche nel museo, ma, in un momento come questo in cui anche a Reggio Emilia si acuiscono i segni della crisi, ci chiediamo se sia opportuno investire cifre consistenti in operazioni che – anche al di là dei giudizi di valore – costituiscono una sorta di maquillage esteriore. Per farsi un’idea di quanto viene proposto, basterà soffermarsi con attenzione sul rendering che ritrae l’esterno del museo (visibile anche nei totem che illustrano gli interventi del Comune). Esso prevede un ingresso con giardino verticale (operazione già vista e con alti costi di manutenzione) e “alte strutture di acciaio specchiante che riflettono immagini tratte dai materiali dei musei”.

Va fatto notare che questi “funghi” verticali sono già stati realizzati nel 2007 da Rota nella sua sistemazione della chiesa di Sant’Elena a Palermo (http://mimoa.eu/projects/Italy/Palermo/Library%20Interior). Non ci sembra che il complesso di San Francesco e i civici musei meritino copia-incolla come questi. Ma anche ammesso che si tratti del modo migliore per prolungare nel presente la “vitalità eterna del passato” (Farioli), ci domandiamo se questo sia il momento giusto per farlo, riducendo i finanziamenti ad altri aspetti della vita culturale della città».
«La preghiamo allora, signor Sindaco – e così si conclude la corposa lettera – di prendere in considerazione le molte perplessità che il progetto suscita in chi è interessato a esso come cittadino, come semplice fruitore, come studioso, e di riconsiderare complessivamente le scelte compiute finora. La forma e il ruolo del museo civico vanno rinnovati, ma è di un museo-spettacolo che ha bisogno la città? O, piuttosto, di conoscere e comprendere la propria storia anche recente nel suo depositarsi nelle cose e nelle immagini? I musei reggiani oggi lasciano scoperto quasi per intero il secolo scorso. Non è forse ora di pensare a una sezione del museo capace di presentare un quadro organico del Novecento nella nostra città, nei personaggi, nella topografia, negli avvenimenti, nelle manifatture, nei mutamenti culturali?».

Gazzetta di Reggio, 20 febbraio 2012

Ciò che è accaduto non si può cambiare (R.Pupo)

 Intervento di Raoul Pupo al Quirinale in occasione del Giorno del Ricordo

L’odierna celebrazione cade ormai dopo sette anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo, e non sono anni passati invano. Abbiamo assistito ad eventi che solo poco tempo fa erano impensabili, come l’incontro a Trieste nel 2010 fra i presidenti di Italia, Slovenia e Croazia e quello del 2011 a Pola fra i presidenti di Italia e Croazia. Si è trattato di gesti a lungo attesi per  imprimere una svolta non solo alle relazioni fra stati, ma al rapporto dei tre popoli con il loro passato conflittuale. Ciò non modifica l’intento fondamentale della legge, che vuol segnare il riconoscimento pieno, da parte delle diverse componenti della comunità nazionale, dei sacrifici patiti dai giuliano-dalmati in nome dell’italianità, ma certamente apre prospettive nuove per le genti di frontiera e consente anche di guardare con maggior serenità alle vicende del secolo Ventesimo, accompagnando la memoria, per sua natura partecipe e dolente, con la storia, il cui sguardo è critico anche quand’è commosso.

Che cos’è dunque che oggi ricordiamo? Le vittime, certo, di quegli anni così terribili; i fatti di cui parla la legge istitutiva della giornata, alcuni chiamandoli per nome – come le foibe l’esodo – ed altri in maniera implicita. Ma al fondo, ciò che costituisce la sostanza del ricordo è un fenomeno che comprende vittime e fatti: è la parabola drammatica dell’italianità adriatica, vale a dire di quella forma della presenza italiana nell’Adriatico orientale che era cresciuta nel XIX secolo sulle fondamenta poderose della tradizione romana e veneziana e che si poneva  come massima aspirazione, anzi, come unico possibile orizzonte di vita, lo stato nazionale. Quel tipo di italianità si è mantenuto nel piccolo lembo di Venezia Giulia sul quale dopo il secondo conflitto mondiale ha continuato ad esercitarsi la sovranità dello stato italiano, mentre invece altrove si è estinto. Naturalmente, ciò non impedisce che ancor oggi nelle terre adriatiche vi siano altre forme di presenza italiana, costituite non solo dalle tracce illustri del passato, ma anche da comunità vive, se pur minuscole. Ma certo, un filo si è spezzato.

Se teniamo gli occhi bassi, quella che oggi vogliamo ricordare può sembrare solo una storia minore, che riguarda qualche centinaio di migliaia di persone vissute nel fondo di uno dei tanti golfi del Mediterraneo. Se invece abbiamo la capacità di levare lo sguardo ai contesti nei quali le vicende adriatiche si sono svolte, ed al cui interno soltanto queste trovano spiegazione, ci accorgiamo che quella piccola storia costituisce una sorta di laboratorio, in cui si trovano condensati su di una scala geograficamente circoscritta alcuni dei grandi processi della contemporaneità nell’Europa di mezzo: contrasti nazionali intrecciati a conflitti sociali, effetti devastanti della dissoluzione degli imperi plurinazionali, oppressione totalitaria, guerre di aggressione, scatenamento delle persecuzioni razziali e creazione dell’universo concentrazionario, violenze di massa, spostamenti forzati di popolazione, conflittualità est-ovest lungo una delle frontiere della guerra fredda.

All’interno di quella visione larga, noi vediamo subito che la parabola dell’italianità adriatica non si è svolta nel vuoto, ma si è intrecciata con un’altra traiettoria, quella dello slavismo. Le due identità si sono formate quasi simultaneamente e si sono definite in buona misura per differenza l’una dall’altra nel corso della seconda metà dell’Ottocento. Così, quella che prima era una società regionale di origini assai varie, caratterizzata da un notevole grado di plurilinguismo – anche se la lingua d’uso veneta risultava prevalente – si è divisa rapidamente lungo linee di frattura nazionali sempre meno permeabili. E’ un esempio classico di quei processi di nazionalizzazione di massa parallela e competitiva, che hanno caratterizzato la storia dell’Europa centrale fra la metà dell’Ottocento e quella del Novecento: una storia finita male, proprio in applicazione dei principi fondanti del nazionalismo, come l’intolleranza nei confronti dell’altro e la concezione perversa secondo la quale la terra che tutti ospita appartiene ad un solo popolo, mentre gli altri vengono considerati ospiti sgraditi, quando non invasori da cui liberarsi ad ogni costo, per via di assimilazione o di espulsione. Un dramma dunque, nel senso che non vi era altra soluzione prevista per il conflitto se non la crisi di una delle identità nazionali presenti nei territori plurali.

Ciò è accaduto anche nelle terre adriatiche e lungo questo percorso, un momento di svolta è costituito dalla prima guerra mondiale: alla sua conclusione infatti, la regione Giulia ha cessato di appartenere ad un impero pre-nazionale e multiculturale, per entrare a far parte di uno “stato per la nazione” – prima di quello degli italiani e poi di quello degli slavi del sud – cioè di una forma di stato creata da un’élite nazionale allo scopo di realizzare senza alcun limite tutte le potenzialità della nazione di appartenenza. Nei territori misti è cambiata quindi radicalmente la natura dei conflitti nazionali: se prima la competizione si concentrava sui poteri locali e lo stato cercava di mediare, in maniera più o meno equilibrata, fra le nazioni sorgenti, dopo la finis Austriae i gruppi nazionali vincitori potevano giocare tutta la forza del loro stato per sbaragliare la nazionalità avversa. In cima all’Adriatico la differenza si è vista subito, con l’avvio dei primi esodi incrociati:sloveni e croati dai territori assegnati all’Italia, italiani dalla Dalmazia assegnata alla Iugoslavia.

Anche altre parti d’Europa hanno vissuto dinamiche simili, che lungo le sponde adriatiche sono state inasprite dal succedersi di due regimi, quello fascista italiano e quello comunista jugoslavo, impegnati entrambi, se pur con diverse capacità e risultati, a realizzare le proprie ambizioni totalitarie. Per loro natura, i due regimi esprimevano forti cariche di violenza, che in parte si richiamavano, in parte rispondevano a logiche diverse: è naturale infatti che quanto accade prima condizioni quel che viene dopo, ma all’interno di una rete causale in cui agiscono soggetti e progetti autonomi. L’elemento decisivo è stato in ogni caso l’esperienza delle due guerre mondiali.

Il primo conflitto ha insegnato l’uso sistematico della violenza come strumento della lotta politica e in Italia – e quindi anche nella Venezia Giulia – il soggetto che nel dopoguerra ha imparato meglio la lezione, è stato il fascismo. Gli anni Venti e Trenta quindi sono stati la stagione dello squadrismo, con il suo portato di sopraffazioni, devastazioni e uccisioni, che poi si è trasformato in violenza repressiva dello stato ed ha generato la risposta terrorista. Si trattava del massimo di violenza concepibile in quel momento e in quel contesto, di più non ne serviva ed a nessuno poteva venire in mente.

Ben più tragiche, per proporzione e capacità distruttiva, sono state le dinamiche sprigionate dalla seconda guerra mondiale, che ha spostato  in maniera radicale i confini del pensabile. E’ stata guerra totale, in cui i civili sono diventati obiettivo specifico di operazioni belliche. Sul fronte orientale è stata fin dall’inizio guerra senza regole, divenuta ben presto guerra di sterminio. Qui dunque si è affermata una nuova logica, quella della strage, e sul quel fronte è stata coinvolta anche l’Italia dopo l’aggressione alla Jugoslavia e, soprattutto, dopo le occupazioni e le annessioni, che hanno scatenato l’inferno in quel Paese: guerra di liberazione, guerra civile, guerra rivoluzionaria, repressione da parte delle forze dell’Asse. L’esplosione cumulativa di violenza è stata massima e di quel fronte nelle terre giuliane sono progressivamente cominciati a giungere gli echi degli orrori perpetrati non solo nei lontani boschi balcanici, ma nella contigua provincia di Lubiana. Poi, la Venezia Giulia è divenuta essa stessa fronte di guerra e l’8 settembre 1943 ha segnato un momento di svolta: con la temporanea presa del potere da parte dei movimenti di liberazione sloveno e croato e con l’occupazione germanica, diversa rispetto a quella del resto d’Italia, la regione Giulia, che è sempre stata area di cerniera tra mondo mediterraneo e danubiano, è entrata in pieno nelle logiche estreme dell’Europa orientale, nella storia cioè di quelle che Timoty Snyder ha chiamato le “terre di sangue”.

In tal modo, in cima all’Adriatico si sono saldate la propensione nazista allo sterminio e le pratiche estreme di lotta bolsceviche e staliniane. E’ all’interno di quel contesto che si collocano crimini come il campo di morte della risiera e le stragi delle foibe. Queste ultime rappresentano l’estensione alla Venezia Giulia dei criteri d’intervento che il movimento di liberazione jugoslavo correntemente applicava nella lotta senza quartiere contro gli occupatori, i loro collaboratori ed ogni tipo di avversario politico, come pure nella presa del potere della primavera del 1945. Ciò spiega come mai a cader vittima della repressione nella Venezia Giulia non siano stati soltanto collaboratori dei nazisti e fascisti veri e presunti, responsabili o meno di precedenti angherie nei confronti degli slavi, uomini delle istituzioni e rappresentanti a vario titolo del potere italiano, militari e membri delle forze di polizia, ma anche semplici cittadini di sentimenti patriottici e sloveni anticomunisti, come pure antifascisti e resistenti che si battevano per la conservazione della sovranità italiana sulla regione, tutti accomunati nella categoria di “nemici del popolo”, dai quali la nuova società doveva venir epurata.

Più ancora però che i picchi della violenza, a trasformare completamente gli assetti dell’area giuliana sono stati gli esiti delle politiche delle minoranze applicate prima dal regime fascista italiano e poi da quello comunista jugoslavo. Ben visibili sono le loro differenze, che non riguardano solo i presupposti ideologici, ma anche lo scarto fra i propositi enunciati e i risultati raggiunti: il fascismo si è  impegnato a realizzare la “bonifica etnica”, ma quel che ha ottenuto, è stato di decapitare, impoverire ed umiliare le comunità slovene e croate che nella loro maggioranza sono rimaste salde sul territorio. Il regime di Tito invece ha proclamato la “fratellanza italo-slava”, ma gli italiani sono stati costretti ad andarsene al 90%.

Più utile invece, per leggere meglio le contraddizioni, è partire dalle somiglianze. Entrambe, quella fascista italiana e quella comunista jugoslava, erano politiche di integrazione selettiva, ovviamente non rispettose della volontà dei singoli.Il meccanismo è sempre lo stesso: la leadership dominante individua, all’interno del gruppo minoritario, componenti diverse: alcune sono giudicate compatibili – se pure a certe condizioni – con il nuovo ordine, altre no.

In concreto, il regime fascista isolava all’interno della società slovena e croata una minoranza che riteneva assolutamente irriducibile, costituita dalla classe dirigente slava. Sparita questa, si riteneva che la maggioranza della popolazione potesse venir assimilata  grazie alle tradizionali   politiche di nazionalizzazione, irrobustite dalla forza repressiva e dalle capacità di penetrazione di un regime che voleva essere totalitario.

Il regime comunista jugoslavo ha applicato il medesimo meccanismo, ma il profilo sociale della popolazione italiana era diverso e quindi l’esito ne è uscito rovesciato: quelle che in omaggio all’ideologia venivano chiamate le “masse popolari”,  costituivano in realtà solo una minoranza  all’interno del gruppo nazionale italiano. Questa componente comunque veniva ritenuta jugoslavizzabile e per farlo venne costruita la politica  della “fratellanza”. Invece il resto della popolazione italiana, che era la parte più consistente, subì in pieno  il peso di una rivoluzione nazionale e sociale nel cui ambito stava dalla parte sbagliata.

L’applicazione di tali strategie ha rivelato non poche sorprese. La classe dirigente slovena e croata è stata in effetti in buona misura spazzata via dal fascismo, ma il giudizio in base al quale le masse culturalmente inermi sarebbero state facilmente italianizzate, è risultato clamorosamente sbagliato. Qualche successo hanno avuto le politiche fasciste di sostegno selettivo all’emigrazione, ma neanche queste sono riuscite a risolvere il problema nel senso della prevista nazionalizzazione integrale dei territori di frontiera.

Sull’altro versante, la duplice rivoluzione – comunista e nazionale – jugoslava ha creato effettivamente per la componente italiana considerata “borghese” – e quindi tradizionale depositaria dei sentimenti di italianità – condizioni di invivibilità tali da spingerla all’esodo. Invece, i destinatari della politica della “fratellanza” si sono rivelati assai meno numerosi del previsto, per due motivi. In primo luogo, perché le maggiori concentrazioni di classe operaia – cioè quelle di Trieste e Monfalcone – dopo una breve parentesi nella primavera del 1945 sono rimaste fuori dai confini dello stato jugoslavo. In secondo luogo,  perché tutti gli strati popolari ma non proletari (contadini, pescatori, marittimi) sono restati fedeli ai valori ed alle appartenenze tradizionali (lingua, patria, Chiesa, proprietà) e son quindi confluiti anch’essi nella vasta schiera dei “nemici del popolo”. Ma non basta, perché la stessa classe operaia di lingua italiana, dopo una fase di entusiasmo iniziale, ha finito per trovare inaccettabili le condizioni dell’integrazione, percependo – in buona parte già prima della crisi del Cominform del 1948 – un eccessivo sbilanciamento del regime jugoslavo in senso nazionalista.

Il risultato cumulativo è stata la generalizzazione di un duplice rifiuto: rifiuto dello stato e del regime jugoslavo da parte della stragrande maggioranza della popolazione italiana; rifiuto degli italiani, considerati – se pur per ragioni diverse – di fatto non integrabili, da parte delle autorità jugoslave, specialmente da quelle più vicine al territorio. L’esito ultimo quindi è stato l’esodo della quasi totalità della popolazione italiana, cui si sono agganciate anche aliquote non indifferenti di popolazione di madrelingua croata e slovena, perché l’esodo è stato un fenomeno che ha sconvolto come un sisma la società locale, generando uno smarrimento generale. Così, anche sulle sponde adriatiche è arrivata l’onda lunga della grande semplificazione che in un breve volger di tempo ha distrutto la maggior ricchezza dell’Europa di mezzo, il suo essere il luogo della diversità di lingue, culture, tradizioni.

Ma questa è una storia di molti anni fa. Da quella stagione terribile sono trascorse generazioni e sono mutati completamente gli assetti internazionali. In Italia la memoria del sacrificio dei giuliano-dalmati è stata salvata ed ora le diverse memorie di frontiera cominciano a riconoscersi e rispettarsi, nella loro insopprimibile soggettività. Molti fra gli studiosi di confine, già araldi delle storia delle nazioni, parlano ormai di “sguardo congiunto” e sperimentano percorsi di storia post-nazionale. Le comunità italiane giuliano-dalmate in esilio e quelle che ancor vivono sulla loro terra di origine hanno avviato un dialogo sempre più intenso. Le istituzioni degli stati si sono spese al massimo livello per la riconciliazione fra i popoli. La prospettiva dell’integrazione europea è largamente condivisa, anche se il percorso è per tutti faticoso.

Ciò che è accaduto non si può cambiare, ma si può cominciare una storia nuova, non dimentica di quanto di positivo – e non è poco, in termini di cultura e di consuetudine civile – i secoli passati hanno prodotto. In questo senso, l’inizio di un millennio ancora incerto sulla direzione da prendere, propone una sfida di alto profilo: andar oltre la semplice tolleranza di gruppi minoritari in perenne affanno e far crescere invece i semi di diversità che ancora sopravvivono sulle rive adriatiche per ricostruire, se pur in misura assai più limitata che un tempo, un tessuto plurale, certo più adatto, rispetto all’esclusivismo nazionale, a reggere l’impatto della globalizzazione.

L’occasione perduta (G.Zagrebelsky)

nazisti.jpgIn Italia e in Grecia nel corso degli Anni 90 sono state introdotte davanti ai giudici italiani delle azioni civili per ottenere il risarcimento dei danni subiti dalle vittime di stragi commesse dalle truppe del Reich tedesco contro la popolazione civile tra il 1943 e il 1945 e, in un caso diverso, il risarcimento dei danni subiti da un militare italiano internato e costretto a lavoro forzato.
Le azioni civili sono state rivolte nei confronti della Repubblica Federale di Germania. Sia in Italia che in Grecia i giudici, fino alla Corte di Cassazione, hanno affermato che la Germania doveva rispondere civilmente di quei fatti e l’hanno condannata a versare un risarcimento.
L’esecuzione di quelle sentenze ha portato all’iscrizione di ipoteca su un bene immobile di proprietà dello Stato tedesco in Italia. La stessa cosa è avvenuta anche in esecuzione della sentenza greca, che è stata dichiarata esecutiva in Italia. Le sentenze italiane e greche hanno suscitato speranze nelle vittime delle atrocità naziste ed anche molto interesse tra i giuristi per il loro carattere innovativo. Ora la Corte internazionale di giustizia ha giudicato che
l’Italia, ammettendo che la Germania venisse convenuta in giudizio davanti ai giudici italiani e poi dando esecuzione alle loro sentenze e a quella greca, ha violato il diritto internazionale, che prevede l’immunità degli Stati dalla giurisdizione di uno Stato diverso, quando si tratti di atti che, come quelli delle forze armate, sono espressione di poteri pubblici statali.

Le sentenze italiane e greche avevano ritenuto che le ragioni della immunità consuetudinaria degli Stati dalla giurisdizione altrui dovessero cedere in casi gravi di violazione del diritto internazionale umanitario o, più in generale, di fronte al cosiddetto jus cogens, il nocciolo
duro, non derogabile, del diritto internazionale. Ed è questa la tesi che, senza successo, hanno in sostanza sostenuto davanti alla Corte internazionale il governo italiano ed anche quello greco intervenuto.
La sentenza della Corte internazionale, organo giudiziario delle Nazioni Unite, competente a giudicare le controversie tra gli Stati fondate sul diritto internazionale, è, come sempre, estesamente e dettagliatamente argomentata. La Corte ha ricostruito la ragione e la portata del principio d’immunità degli Stati ed ha concluso che, allo stato attuale, il diritto internazionale non prevede l’eccezione che il governo italiano (e i giudici italiani e greci) ritenevano invece sussistente.

Il fondamento dell’immunità degli Stati è legato al principio di parità e sovranità, nel senso che nessuno Stato, per i suoi atti sovrani, riconosce la giurisdizione di un altro Stato. Inoltre si ritiene che nei rapporti tra gli Stati l’intervento dei giudici, per sua natura, non sia adatto e opportuno, mentre la soluzione dei problemi e conflitti reciproci sarebbe meglio cercata a livello politico. Se si considera l’estrema varietà dei casi, la loro gravità e la serietà delle conseguenze che possono derivarne, è difficile non ammettere che la duttilità e varietà delle soluzioni politiche le facciano preferire. Ed in effetti tra Italia e Germania (che ha riconosciuto
la sua responsabilità per gli atti delle truppe naziste in Italia) sono intervenuti trattati diretti a consentire risarcimenti. Trattati però che hanno avuto limitatissime applicazioni. E la Germania ha versato allo Stato italiano un indennizzo. Molte, e anzi la maggior parte delle vittime sono però rimaste senza risarcimento. Vero è che la Corte internazionale ha avuto cura di chiarire che la questione di cui era investita era soltanto quella riguardante la giurisdizione e non invece quella sostanziale del diritto dei singoli a ottenere un risarcimento. Ma è difficile pensare che la soluzione procedurale adottata non si rifletta sulle possibilità concrete dei singoli di ottenere il risarcimento cui aspirano.

La prima lettura della sentenza della Corte internazionale di giustizia impressiona per la cura impiegata nella vasta ricerca delle tracce – nei documenti internazionali, nella giurisprudenza internazionale e in quella interna degli Stati – della maturazione di un diverso contenuto della
consuetudine internazionale. Ne risulta che effettivamente la posizione assunta dalle giurisdizioni italiana e greca è isolata nel quadro internazionale. Ma il diritto internazionale consuetudinario evolve per mezzo dei comportamenti degli Stati e anche delle sentenze dei giudici che, nel riconoscere un’evoluzione del diritto, in realtà lo creano o almeno lo consolidano. E’ quello che la Corte internazionale di giustizia, massimo organo giurisdizionale nella materia, non ha fatto. Per la verità non da sola, poiché in casi analoghi, quanto alla
questione giuridica, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha concluso nello stesso senso.
Si può riconoscere la serietà delle argomentazioni che la Corte internazionale ha svolto e al tempo stesso esprimere rammarico per l’occasione persa di imprimere al diritto internazionale un’evoluzione che avrebbe potuto dare ai diritti fondamentali delle persone, e alla possibilità di farli valere efficacemente in giudizio, il peso che dal dopoguerra essi in altri campi hanno conquistato.
Rammarico ed anche preoccupazione, perché gli effetti non riguardano solo la storia tragica del passato, ma anche ciò che avviene ora nel mondo, attorno e durante le tante operazioni militari che gli Stati compiono fuori del loro territorio. Il principio riaffermato dalla Corte
internazionale di giustizia fissa una regola che sarà ormai per molto tempo immutabile.

La Stampa, 4/2/2012

 

La Corte dell’Aja dà ragione alla Germania: non dovrà risarcire le vittime italiane delle stragi naziste

Articolo di Dino Messina su Il Corriere della Sera (4.2.12) con interventi degli storici Filippo Focardi e Giovanni Punzo sul blog di Messina.

 

È difficile parlare di formalismi giuridici quando si tratta di massacri dei civili: in questo caso di una delle meno conosciute ma più atroci rappresaglie, compiuta da un reparto della Wehrmacht in ritirata, il 29 giugno 1944, tre mesi dopo le Fosse Ardeatine, tre prima di Marzabotto. Le vittime in Val di Chiana (a Civitella, San Pancrazio, Cornia), nell’Aretino, furono 204, molti delle quali bambini, anziani, donne, adolescenti, con una proporzione di cinquanta italiani per ogni soldato tedesco ucciso dai partigiani della banda «Renzino». Un criterio più duro del famigerato dieci a uno seguito all’attentato di via Rasella.

«Non c’è indennizzo sufficiente a risarcire ciascuna di quelle vittime», dice lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, autore del fondamentale saggio “L’occupazione tedesca in Italia” (Bollati Boringhieri). Eppure la Corte dell’Aja ha accolto il ricorso della Germania contro la sentenza della Cassazione che per la prima volta condannava lo Stato tedesco a risarcire le vittime delle stragi naziste in Italia.

La sentenza dell’Aja ha una spiegazione giuridica e una storica. Un tribunale interno, dice Umberto Leanza, professore emerito di Diritto internazionale all’università Roma 2, non può in alcun modo considerare responsabile uno Stato. È quel che ha fatto la nostra Corte di Cassazione ritenendo crimini internazionali le rappresaglie compiute dalle truppe tedesche in Italia dopo l’8 settembre 1943. Il crimine internazionale è una figura giuridica nata a partire dai tribunali di Norimberga e di Tokio. «Si tratta di crimini — chiarisce Leanza — che costituiscono tuttavia una eccezione all’immunità dalla giurisdizione non degli Stati ma degli organi statali che li hanno compiuti». Un criterio già seguito dai tribunali di Norimberga e Tokio. La Corte di Cassazione italiana ha ritenuto di estendere la responsabilità allo Stato tedesco sulla base della più recente giurisdizione internazionale che equipara la violenza sui civili ai crimini contro l’umanità.

La sentenza dell’Aja è l’ultimo atto della riapertura a metà degli anni Novanta dei processi archiviati nel cosiddetto «armadio della vergogna». Con i processi si è riaperto anche un contenzioso con la Germania che si riteneva chiuso dal 2 giugno 1961, quando con due accordi bilaterali tra Roma e Bonn, la Germania riconosceva un indennizzo complessivo di quaranta milioni di marchi per le vittime italiane dei campi di concentramento. «In totale — spiega lo storico Filippo Focardi — i beneficiari furono circa dodicimila, in maggioranza deportati politici ed ebrei e loro familiari. Solo mille i risarcimenti riguardanti gli internati militari, su un totale di seicentomila. Come contropartita ai risarcimenti, l’Italia garantiva la cessazione di tutte le cause contro lo Stato tedesco». Del resto la Germania riconobbe quegli indennizzi come un atto di buona volontà unilaterale, non come il riconoscimento di un diritto. L’Italia nel 1947, con il controverso comma 4 dell’articolo 77 del Trattato di Pace, aveva rinunciato a chiedere gli indennizzi per i danni dell’occupazione nazista. Faceva eccezione il diritto a chiedere la restituzione dei beni trafugati.

La sentenza dell’Aja ha dunque ribadito che l’immunità degli Stati, non solo di quello tedesco, non si tocca. E da un certo punto di vista è un bene anche per l’Italia, se si considera che lo stesso tribunale internazionale ha respinto un ricorso presentato contro il nostro Stato dai parenti delle vittime della strage di Domenikon, nella Grecia centrale, dove i fanti della Divisione Pinerolo, il 16 febbraio 1943, uccisero per rappresaglia 150 civili.

Resta però un dubbio: se le responsabilità dei crimini sono personali perché sedici ufficiali tedeschi condannati all’ergastolo per le stragi in Italia vivono ancora liberi in Germania?

 

Postato da Lettore-1214031 | 04/02/2012

Solo una precisazione sull’ultima parte del bell’articolo di Messina, ovvero sulle righe dedicate alla vicenda di Domenikon (che nella versione cartacea del “Corriere” figurano in forma di virgolettato a me attribuito).
Il tribunale cui si è rivolto uno dei familiari delle vittime, Stathis Psomiadis, è quello greco di Larissa e non la corte internazionale dell’Aja. Il tribunale di Larissa, competente per territorio, ha respinto la richiesta di aprire un’azione legale contro i responsabili italiani della strage. Successivamente Stathis Psomiadis ha espresso pubblicamente l’intenzione di rivolgersi alla corte dell’Aja, ma non ho elementi per accertare se lo abbia fatto o meno. Mi risulta comunque che lo scorso anno egli abbia avuto un incontro a Roma con il procuratore militare Marco De Paolis per avviare un processo in Italia per crimini di guerra contro i responsabili della strage. Ricordo che la strage di Domenikon fu una rappresaglia ad un’imboscata partigiana che aveva causato 9 morti fra i soldati della “Pinerolo”. Come ritorsione, furono passati per le armi tutti i maschi del paese di Domenikon – esclusi i bambini e i più vecchi – con una proporzione di circa 1 a 14 (dunque, maggiore rispetto alle Fosse Ardeatine). Sulle spietate caratteristiche della “guerra ai civili” condotta nella Grecia occupata dalle unità italiane agli ordini del generale Carlo Geloso rimando agli scritti di Lidia Santarelli.
Nel testo dell’articolo si afferma che “da un certo punto di vista”, il verdetto dell’Aja relativo agli indennizzi per i crimini tedeschi potrebbe essere considerato “un bene” per l’Italia alle prese con analoghi problemi (vedi Domenikon). Come ho detto al dott. Messina, può darsi che alcune autorità all’interno delle nostre istituzioni abbiano pensato in questi termini. Personalmente non sono di quest’idea. 
E’ opportuno fare una distinzione fra la posizione tedesca e quella italiana. Pur tardivamente, i nostri tribunali militari hanno svolto numerosi processi a carico dei responsabili dei crimini tedeschi in Italia con condanne (per lo più in contumacia). La richiesta di indennizzi da parte dei familiari delle vittime è stato uno sviluppo di queste azioni penali. Nel caso dei crimini italiani in Grecia o in Jugoslavia (per non parlare dei crimini nelle colonie) è mancato invece fino adesso qualsiasi tentativo di perseguire i responsabili. Insomma, la giustizia è mancata del tutto.
Può darsi che la via giudiziaria sia ormai preclusa. Resta però aperta anche per l’Italia, come per la Germania sopo l’Aja, la via degli accordi bilaterali e delle azioni spontanee di riparazione. Il minimo che si possa chiedere è un atto di responsabilità con la richiesta ufficiale di scuse alle vittime dei crimini commessi durante la guerra. Nel 2009 il governo italiano ha compiuto un primo passo in questa direzione attraverso la partecipazione dell’ex-ambasciatore in Grecia, Giampaolo Scarante, alle commemorazioni ufficiali della strage di Domenikon. Moltra strada resta però ancora da percorrere. Non si può pretendere dalla Germania quello che noi non siamo disposti a dare.

Filippo Focardi

Postato da Lettore_833947 | 05/02/2012

Capire a fondo la sentenza della Corte dell’Aja non è facile, perché il diritto internazionale resta una delle materie più interessanti, complesse e contraddittorie. Dietro questa decisione apparentemente incoerente e poco comprensibile ai più, si intrecciano aspetti storici, politici, identitari e solo alla fine giuridici in senso stretto. Esistono sempre una responsabilità ‘individuale’, perché i singoli sono ritenuti responsabili dei propri atti, ed un’altra responsabilità più generale, senza dubbio storicamente accertata, quanto non sostenibile sul piano giuridico, nemmeno di fronte a crimini particolarmente efferati come quelli contro i civili: insomma, come si diceva un tempo, «summum ius, summa iniuria». Senza pretesa di esaustività, solo due accenni.

Bisogna ricordare Mark Mazower (Le ombre sull’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Garzanti 2000) che non solo aveva rintracciato in radici prebelliche comportamenti comuni ad altri paesi europei – e quindi non solo alla Germania –, ma anche osservato che la necessità di liquidazione rapida di quanto avvenuto aveva imposto l’etichetta coprente di «patologia politica» nei confronti anche delle altre dittature europee.
«La Francia – scrive Mazower – canonizzò la memoria di un’opposizione unita a Vichy, mentre l’Austria sfruttò spudoratamente il proprio status di prima vittima di Hitler ed eresse monumenti celebrativi ai “combattenti della libertà austriaca” antinazisti». Molto prima un grande storico italiano aveva riesumato una vicenda semisconosciuta del mondo antico dando al popolo degli hyksos una notorietà forse maggiore del ruolo effettivamente rivestito.
Come in certe storie horror si seppellisce troppo frettolosamente il vampiro, la Francia è stata costretta a riaffrontare un passato sgradevole in tre processi: Klaus Barbie (ergastolo nel 1987), Paul Touvier (ergastolo nel 1994) e Maurice Papon (dieci anni), condannato per aver collaborato alla deportazione di 1500 ebrei francesi. Per ironia della sorte, Papon era un integerrimo funzionario degli interni che si era particolarmente distinto nella notte del 17 ottobre 1961, quando – nel corso di incidenti tra algerini residenti a Parigi e la polizia – erano morti una sessantina di dimostranti algerini in circostanze poco chiare.
In Austria invece, nei giorni dell’omicidio di Kennedy, si scoprì che il poliziotto che aveva arrestato la famiglia di Anna Frank prestava servizio nella polizia di Vienna e lascio immaginare con quali conseguenze.
In questo Paese poi è stato giustamente canonizzato un funzionario di PS per aver aiutato centinaia di perseguitati, ma francamente ancora troppo poco si sa sul ruolo di parecchi altri nella deportazione del resto.
Nel novembre 1945, prima dell’apertura del processo di Norimberga, alla corte fu presentata una istanza importante da parte del collegio di difesa: invocando i fondamenti della dottrina dello Stato, si sosteneva che «ogni Stato, in virtù della sua sovranità, ha il diritto di muovere guerra in ogni momento e per qualsiasi scopo». Era un attacco evidente alla principale accusa della corte di ‘aver attentato alla pace scatenando la guerra’ e alla teoria alleata che indirettamente ripristinava il c.d. ‘bellum iustum’. Le tesi dell’accusa – secondo il documento – avrebbero riportato al Medioevo per quanto riguardava il trattamento imposto ai tedeschi. Impossibile da accettare allora, gradatamente questo principio si è fatto spazio. Contemporaneamente, concluso il primo grande processo della corte ed eseguite le sentenze, rimase detenuto ed in attesa di giudizio un numero sempre minore di ‘grandi responsabili’, mentre le corti militari ordinarie (americane, francesi e inglesi) continuarono a mantenere la propria giurisdizione processando migliaia di ‘responsabili minori’. Solo presso il tribunale militare di Dachau gli americani ne processarono più di milleseicento, dei quali almeno due terzi proveniente dagli addetti ai campi di concentramento. Nel gennaio 1951, solo da parte americana, i detenuti erano ancora migliaia e alla fine dovette intervenire con forza il Dipartimento di Stato imponendo all’autorità militare di liberarne una parte e di ridurne le pene inflitte (compresi alcuni casi di pene capitali): comprensibilmente i militari non volevano infatti mettere in libertà i responsabili delle esecuzione sommarie di prigionieri durante la battaglia delle Ardenne. 
In parallelo all’ingolfamento giudiziario militare alleato, la Germania maturava le condizioni politiche interne per diventare la Repubblica Federale e alla conclusione di questo processo politico istituzionale rimase una sorta di accordo per cui i responsabili sarebbero stati processati da corti nazionali e non più da tribunali militari alleati. Sebbene sorto prima, in questa fase operò attivamente il c.d. Heidelberg Juristenkreis (circolo dei giuristi di Heidelberg) il cui personaggio di maggior spicco, Otto Kranzbühler (ex giudice militare della Kriegsmarine e difensore a Norimberga), era direttamente in contatto con Konrad Adenauer: sebbene un primo accordo tra autorità alleate e governo provvisorio tedesco stabilisse di rispettare le sentenze emesse, fu raccomandato al contrario di ribadire la sovranità tedesca anche attraverso il non riconoscimento delle sentenze. Era ormai il 1959.

Conoscevo la vicenda che ha narrato il professor Focardi. La giustizia in quel caso è mancata, in maniera non dissimile da come ho raccontato in un altro mio intervento su queste pagine a proposito dei crimini italiani nella ex Jugoslavia e della mancata Norimberga italiana. Tattiche dilatorie, intralci e indifferenza. Nemmeno quella è un bella vicenda.

Un saluto a tutti Giovanni Punzo

Giorno della memoria (e dell’oblio)

menorah.jpgUn altro lunedì annuncia la nuova settimana. Ma questa è una settimana un po’ particolare. Venerdì ricorre il Giorno della memoria, stabilito con legge dello Stato nel 2000. Non entro nell’annoso dibattito sulla correttezza metodologica di imporre per legge di ricordare un evento storico, scelta per altro subito equilibrata con altri giorni/giornatedella memoria, prime fra tutte quella dedicata alle vicende del confine orientale. Sottolineo la scelta della data internazionale del 27 gennaio che esclude quella del 16 ottobre, giorno della razzia nel ghetto di Roma fra l’indifferenza vaticana e la collaborazione fascista.

Anche la scelta di inserire per legge questa ricorrenza si iscrive nella lotta per la memoria che, anche nel nostro paese, ha preso avvio dopo il bigbang succeduto al 1989, con la fine della guerra fredda e la caduta dei regimi sovietici. Quello che mi sembra più interessante è verificare quanto di quella scelta ha sedimentato nel comune sentire in un paese come il nostro che ha uno stomaco ferocemente capace di digerire qualsiasi cosa ma un cervello altrettanto capace di rimuovere e cancellare tutto (o quasi). Certamente la scelta di avere istituzionalizzato la data del 27 gennaio ha consentito, soprattutto nei confronti delle istituzioni scolastiche ed educative, di aprire spazi per iniziative e progetti che sono stati utilmente progettati e realizzati: possiamo pensare che la conoscenza della shoah sia oggi ben più diffusa fra gli studenti (di ieri e di oggi) che nella media della consapevolezza dell’opinione pubblica. E’ questo un problema che non si limita allo specifico-Shoah ma investe tutto il problema della consapevolezza storica diffusa. Credo che su questo tema il vero obiettivo educativo sia quello relativo alle fasce adulte, come confermano le varie ricerche sociologiche sull’argomento. Sono gli adulti, per intenderci quelli della fascia 35-55 anni, quelli più soggetti a rimozioni, confusioni o semplicemente ignoranti (per lo più felicemente).

L’ignoranza sulla nostra storia comune è solo uno dei risvolti di quell’analfabetismo di ritorno che tante volte il Censis ha segnalato. Con un grado di educazione inferiore alla media europea si considera pari ad un terzo del totale gli italiani non più in grado non solo di articolare per scritto il proprio pensiero su qualunque argomento ma neppure di comprendere un articolo di stampa di un qualunque quotidiano. Per questa massa la televisione rimane l’unica fonte alla quale fare riferimento, come conferma la debolezza del mercato editoriale nazionale.

Una difficoltà ulteriore, indirettamente causata dalla scelta di fissare per legge una ricorrenza, la riscontriamo nelle amministrazioni pubbliche, costrette ad approntare iniziative per quella giornata che viene vissuta spesso come un “dovere”, al pari del 25 aprile o il 2 giugno. Il panorama è ovviamente (e per fortuna) articolato ma l’esperienza ci racconta spesso di assessori trafelati, in cerca di “qualcosa” da fare per il 27 gennaio, ovviamente a costo zero o quasi, come un dazio da pagare per poi riprendere il cammino quotidiano fatto, evidentemente, di cose più rilevanti.

Certo in questo contesto il lavoro dello storico diviene ancora più complicato e frustrante, ridotto a quello di un operatore sanitario in un “pronto soccorso della memoria”, impegnato a curare l’emergenza, dopo avere per i restanti dodici mesi predicato invano sulla necessità di un’opera quotidiana di “prevenzione”, di educazione capillare alla democrazia che non può non passare proprio attraverso un lavoro continuo sulla nostra memoria. Un lavoro che ha bisogno di strutture, di luoghi fisici, di spazi. Insomma di progetti e risorse che escano dall’emergenzialità fatta regola. Ma qui, l’esperienza di alcuni lustri di lavoro lo conferma, si entra nel territorio nebuloso della mancanza di interlocutori istituzionali, in un confronto con le amministrazioni dove la procedura del “silenzio dissenso” (a richieste, progetti non si dà neppure più un cenno di risposta) è divenuta la norma.

Celebriamo quindi il 27 gennaio (data dell’apertura dei cancelli di Auschwitz), torniamo pure con un migliaio di studenti su quei luoghi ma non dimentichiamoci come tutto questo si iscriva in un preciso “contesto” che certamente non possiamo giudicare né positivo né promettente.

 

Chiudo con una notazione locale: sono stato sollecitato da alcuni dei 25 lettori di FB (Fortezza Bastiani, non Facebook) in merito alla presentazione di un volume sulla resistenza letto da parte fascista e la relativa presentazione avvenuta la scorsa settimana. Non ero presente (pur avendo letto il volume) e quindi non esprimo un giudizio che non va oltre le righe apparse sulla stampa: mi sembra che, fatto salvo il diritto di ognuno di andare e dire qualsiasi cosa, l’iniziativa avesse poco a che fare con la storia. Un confronto, un esame, una ricerca si basano su fonti, sul dibattito storiografico. In parole povere esistono bibliografie, studi pubblicati, ricerche fondate scientificamente. Nulla di definitivo, da affrontare criticamente ogni volta. Ma esistenti e reali.

Si ricorre invece allo stereotipo antico ed usurato “dell’anno zero”. Non si produce nulla di nuovo ma si ignora bellamente l’esistente. È vero che non c’è nulla di più inedito che quello che è stato scritto, ma sentire ancora presentare come “vicende oscure” eventi già più volte approfonditi e descritti, fa capire come ci si trovi di fronte non ad un dibattito storiografico ma all’ennesimo uso pubblico della storia. Legittimo, ma appartenente ad un’altra categoria di pensiero e di azione. Rileggere, dopo venti anni, ancora illazioni sulla diretta responsabilità del Pci nell’uccisione dei Cervi, non può che far sollevare allo storico un interrogativo esistenziale: ma io (e gli altri come me) cosa abbiamo fatto/scritto/detto in questi anni? Pensavamo di aver lavorato/ricercato/analizzato e invece? Che fossimo tutti in montagna? O ancora chiusi in qualche gulag nella rossa Emilia? Attendiamo risposte che ci svelino l’arcano, nell’attesa continueremo a fare il nostro lavoro come si potrà, come saremo capaci. Good night and good luck!

 

Che cos’è la verità storica (Miguel Gotor)

magritte-la-verita-negata.jpgLa disputa tra realisti e antirealisti interroga anche gli storici invitandoli a selezionare una serie di strumenti critici con cui affrontare il relativismo concettuale tipico degli anti-realisti radicali e la critica alla nozione di fatto promossa dai post-modernisti. Il primo strumento è costituito dalla documentalità come resistenza, che usa la filologia a guisa di arma. I fatti saranno pure interpretazioni come sostenuto da Nietzsche, o sacchi vuoti che non stanno in piedi come scritto da Pirandello; e avrà anche ragione Borges nelle Ficciones, quando, commentando il capitolo IX del Don Chisciotte, quello in cui Cervantes definiva la storia la «madre della verità» sostiene: «L’ idea di Cervantes è meravigliosa: non vede nella storia l’ indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica per lui non è ciò che avvenne, ma ciò che giudichiamo che avvenne». D’ accordo, ma dai tempi di Lorenzo Valla, grazie alla rivoluzione umanistica, si è affermata un’ irriducibilità dell’ analisi del testo e una sua autonomia che connotano la disciplina storica e le consentono, attraverso la critica delle fonti e le relazioni con il contesto, di accertare l’ autenticità di un documento e la verità o la falsità del suo contenuto. Ciò avviene attraverso un metodo filologico che è il migliore antidoto allo scetticismo integrale e che fa della storia una disciplina laica che sottopone a ragione critica i discorsi istituzionali e istituzionalizzanti del potere e si fonda, come ha insegnato Marc Bloch, sul modo del relativo e degli uomini al plurale. Il secondo strumento respinge l’ identità tra storia e memoria che devono vivere nella loro reciproca autonomia. Se la verità storica dipendesse solo dal racconto dei testimoni oculari o dal ricordo dei protagonisti degli avvenimenti, sarebbe davvero poca cosa. Anzi, sia gli uni sia gli altri, non aiutano a capire perché – come ha insegnato Primo Levi in I sommersi e i salvati – la testimonianza oculare e la memoria individuale sono necessarie, ma non sufficienti alla comprensione storica. Entrambe, infatti, sono determinate da un impasto vivacemente umano di interessi, dimenticanze, censure, passioni, paure, ambiguità, dolori, segreti, rimpianti, fedeltà e obbedienze che costituiscono l’ inevitabile porto da cui si salpa, ma non il punto di arrivo di ogni avventura di conoscenza. La storia non può limitarsi a raccogliere e inventariare le testimonianze dei reduci, bensì deve criticarle nella loro emotività costitutiva, altrimenti rischia di diventare una disciplina della rappresentazione dei sentimenti e delle percezioni, incapace di mettere in relazione i discorsi tenuti con la posizione sociale di chi li tiene e i rapporti di forza entroi quali avvengono. Naturalmente, non si tratta di riproporre un neo-positivismo ingenuo dal carattere sociologico-documentario, indifferente al travaglio ermeneutico che ha attraversato la soggettività occidentale negli ultimi decenni.
Piuttosto, bisogna partire da quella consapevolezza per riflettere anche in ambito storiografico e non solo letterario sulla fecondità di una sorta di “realismo isterico” caratterizzato dal gusto maniacale per il dettaglio (Dio è nel particolare), dalla digressione che rivela il problema quanto più sembra allontanarsi dal suo oggetto e dalla fluvialità della trama che serve a proteggere con i suoi argini la sempre fragile e spesso tragica complessità della verità storica come ricerca. Il terzo strumento riguarda la dimensione civile della ricerca storica. In questi ultimi anni il mestiere di storico è stato caratterizzato da una deriva ermeneutica sempre più specialistica e parcellizzata direttamente proporzionale alla crisi del carattere etico-politico della disciplina.

La principale ragione di questo moto tendenziale credo sia comune ai principali saperi umanistici. Penso alla rielaborazione del trauma costituito da Auschwitz, che, trascorsi solo settant’ anni dall’ evento, ancora condiziona lo sviluppo dei modelli culturali. Tutte le discipline umane, ancora oggi, stanno provando a rispondere, ciascuna in base alla propria specificità, alla domanda che fu per primo formulata da Theodor Adorno: dopo Auschwitz è ancora possibile la poesia? E Dio, e la filosofia, e l’ arte, e il romanzo e la storia? Sono ancora possibili? Per quanto concerne la storia la ferita da ricucire è costituita dal negazionismo, ossia dal rifiuto dell’ esistenza dei campi di sterminio come fatto in sé. La qualità dei problemi sollevati da questa patologia culturale sono più rilevanti dell’effettiva portata quantitativa del fenomeno stesso. Nel negare l’ esistenza di un fatto riducendolo a mera interpretazione c’ è il lascito più concreto del progetto nazista, fondato sulla distruzione della documentalità, un obiettivo che è stato possibile programmare e in parte realizzare proprio in virtù della forza e dell’efficacia di quel programma totalitario. «Tanto non vi crederanno…»: quest’angosciosa provocazione di una SS spinse Levi alla scrittura. Dall’ imperativo di rispondere a una sfida tanto selvaggia si è registrata la condivisibile presa di conquista del centro della disciplina da parte della memoria e della testimonianza. Tuttavia, l’ estensione onnivora di questa prescrizione agli altri ambiti della ricerca, un’ estensione non a caso accompagnata da una messa in discussione dell’ unicità della Shoah come progetto di annientamento totalitario scaturito dal cuore della democrazia europea, ha progressivamente marginalizzato lo spazio della filologia e quello del metodo nella ricostruzione storica: dalla storia alle “storie”, ciascuno con la propria memoria identitaria da difendere e brandire.

Ciò ha favorito l’affermazione della “docufiction”, il cui fulcro è costituito dalla densità emotiva del racconto, qualunque esso sia: basta che quel sacco stia in piedi, anche se a tenerlo non sono più neppure le interpretazioni – che almeno si potrebbero discutere – ma il palcoscenico delle emozioni, il ricatto degli stati d’ animo e il loro consumo pubblicitario dentro una cornice populista che costituisce la malattia della democrazia contemporanea. Un male che si può ancora curare se restituiamo uno spazio critico ai fatti e alla realtà, come istanza culturale da proporre, un percorso in cui dunque il sapere storico, con i suoi metodi, può svolgere un’ importante funzione civile. Il problema sollevato è quello della tendenza al dispotismo della democrazia, già individuata da Tocqueville in pagine famose: forme della rappresentatività in crisi e retoriche della persuasione che vivono invece una stagione tecnologica di straordinario sviluppo e pervasività e che sono sempre più in grado di «degradare gli uomini senza tormentarli», in modo «più esteso e più dolce» che in passato, come scriveva l’ autore della Democrazia in America. In questo squilibrio tipico del nostro tempo tra la lentezza delle forme della politica e la velocità tecnologica della sua comunicazione senza pensiero e cultura e, dunque, in uno stato perenne di demagogia plebiscitaria, c’ è la profonda frattura dei nostri giorni.
Ragionare su come sanarla attiene alla funzione culturale delle discipline umanistiche, alla sfida del realismo con cui avranno la capacità di affrontarla: il nemico, quando è mortale, non è mai un’ interpretazione.

La Repubblica, 5.1.2012