20 settembre: facciamo Festa!

images.jpg20 settembre 1870: i bersaglieri entrano a Porta Pia. Finisce il potere temporale della Chiesa. Come cattolico ringrazio il gen.Cadorna che, forse per rifarsi di alcune precedenti mascalzonate, comandò l’attacco alla città eterna. Come cittadino ringrazio lo Stato italiano dell’epoca per aver tentato di porre le basi di uno stato laico, moderno ed europeo.

Ricordiamo il 20 settembre come nobile tentativo di fare dell’Italia un paese normale. 59 anni quel tentativo sarebbe fallito definitivamente con la stipula dei Patti Lateranensi, rinnovati dal pregiudicato Craxi nel 1984.

Comunque sia facciamo festa.

p.s. Oggi alle celebrazioni parteciperà anche il rappresentante dello stato estero del Vaticano, card. Bertone. Aspettiamo di sapere cosa i rappresentanti delle istituzioni italiane diranno nell’occasione.

 

In morte Cossiga

Nessun onore in quelle armi
di Nicola Fangareggi

L’onore delle armi reso da Prospero Gallinari ed ex compagni di lotta in morte di Francesco Cossiga non fa notizia per i cultori del genere. Il presidente emerito, famigerato “ministro di polizia” del periodo più tragico degli anni di piombo, cercò a lungo occasioni di dialogo con i brigatisti una volta presi e sconfitti e vi trovò soddisfazione, avendo gli uni bisogno dell’altro e viceversa.

La relazione fu durevole e si resse sulla simmetria delle avverse posizioni.
Solitario e ciclotimico, Cossiga dovette convivere senza mai liberarsene col peso dell’assassinio di Aldo Moro, di cui avvertiva la responsabilità morale. La ricerca di contatto con i colpevoli materiali ne fu una conseguenza più o meno conscia di alleviare quel peso.

I superstiti non pentiti della lotta armata tra i quali appunto Gallinari necessitavano di una cornice politica a giustificazione dei molti morti innocenti lasciati sul terreno. Non terroristi ma guerriglieri, e nulla importava se il delirio criminale della rivoluzione proletaria avesse prodotto solo sangue, dolore e lacrime.
Di qui lo speculare equilibrio di cui la lettura mediatica prima ancora che storica si è nutrita nell’arco di un trentennio. Gli ex nemici che fanno pace fanno notizia e abbozzano i contorni di un possibile happy end.

La spettacolare simmetria di interessi si è prolungata nel tempo dando luogo a episodi di regolare impatto scandalistico. Cossiga incontrava la Faranda in tv, stringeva la mano agli ex combattenti riciclati alla vita civile, chiedeva la grazia per Curcio e firmava gli appelli per la liberazione dei cosiddetti “prigionieri politici”.
Vi era nell’azione del presidente emerito un tratto narcisistico che solo le precarie condizioni psicologiche nelle quali per sua stessa ammissione versava potevano giustificare. Il tutto avveniva nel più assoluto spregio della memoria delle vittime e delle proteste dei familiari, come sempre ignorati dalla politica e dai media.

Con il passaggio a miglior vita del presidente emerito il cerchio del teatrino delle illusioni si è chiuso, non senza appunto il suo degno epitaffio. 
Il nostro concittadino a piede libero, sedicente guerrigliero in pensione, si concede il lusso della chiosa in morte dell’antico nemico. Un vezzo da star, in fondo, che esprime a sua volta il narcisismo esasperato di chi per rimuovere i morti ammazzati dalla coscienza rivendica una giustificazione tratteggiata di nobile carica ideale.

Chi abbia avuto curiosità di leggerlo, il Gallinari “contadino nella metropoli” edito quattro anni fa da Bompiani, o di seguirne le non rare esternazioni, ne ha incrociato l’orizzonte circoscritto al confine di un marxismo da scuola elementare. L’assenza di qualsiasi segno di compassione per i morti ammazzati sorprende solo chi sia digiuno di fanatismo vecchio e nuovo.

Muove dunque a notevole ripulsa che quella banda di assassini di poliziotti, magistrati, giornalisti e politici colpevoli solo di appartenere al genere umano e alla società del loro tempo si permetta oggi di “rendere l’onore delle armi” al presunto nemico che fu.
La lotta armata nell’Italia degli anni Settanta non fu rivolta popolare né tantomeno guerra civile. Fu invece il frutto di un delirio di branco fondato sull’odio ideologico e sul terrore pratico al quale la storia non ha concesso prove d’appello. In Italia e nel mondo.

Il signor Gallinari che passeggia oggi placido in via Emilia come un innocuo pensionato deve essere grato a quello Stato che tentò di abbattere col piombo per avergli consentito, malgrado la condanna all’ergastolo, di essere libero dal ’96. Per strada i più non lo riconoscono, lui fa la sua vita e non mi permetto alcun commento.
Tranne che una testimonianza personale. Ogni volta che lo incrocio a passeggio, il Gallinari a piede libero, penso inevitabilmente ai cinque ragazzi della scorta di Moro che alle 9 del mattino del 16 marzo 1978 a Roma egli, vestito da aviatore civile, massacrò a colpi di mitra insieme ai suoi complici (c’era un altro reggiano a sparare, Franco Bonisoli, che credo meriti la citazione).

Chiudo questo articolo ricordando i loro nomi: Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi.
viafani_1.jpgE per far capire ai più giovani di cosa si trattò, pubblico anche qualche fotografia di quel massacro, in modo che i lettori possano comprendere il senso di ribrezzo che provo da ieri quando ho sentito parlare di “onore delle armi”.

http://www.reggio24ore.com/Sezione.jsp?titolo=Nessun+onore+in+quelle+armi&idSezione=16497

Antipatico

25 aprile 1.jpgNon si può essere sempre simpatici. Gli amici servono anche a dire cose che magari subito ci danno un po’ fastidio ma poi magari…

Festa Reggio apre il 19 agosto (giorno del mio genetliaco, troppo gentili) con un dibattito dal titolo “Resistenza come risorsa politica”. Il commento di Reggio 24H è stato “Frattanto si avvicina la ripresa post ferragostana. Per la serie “Fracassiamoci i coglioni subito”, Festareggio aprirà le danze con un interessantissimo dibattito intitolato “La Resistenza come risorsa politica”. E chi se lo perde?”

Io me lo perdo e non solo perchè sarò impegnato in bagordi (ho qualche bottiglia a FB che attende la sua ora, a proposito: c’è da da bere anche per gli amici…) ma perchè quando ho saputo dell’iniziativa il mio commento è stato “Risorsa per chi? Per Filippi e amici?”

In una città che ha cancellato la propria memoria, che spende soldi nella Fottigrafia Europea e chiude gli Archivi, che non trova quattro eurini per i Viaggi della Memoria, un’approccio simile mi sembra davvero…inadeguato.

Abbiamo passato anni a descrivere i danni fatti dalla politica sulla storia della Resistenza e sui suoi valori e adesso andiamo ad offrirci a chi, oltretutto, dimostra -nei fatti- di credere così poco proprio in quei valori? Torniamo a fare della Resistenza una cosa di parte, e di una piccola e confusa parte?

Fracassiamo i cabasisi ai pochi, allontaniamo i tanti. Comunicazione zero. Ce la suoniamo e ce la cantiamo fra noi. Rimaniamo come siamo: MARGINALI, noiosi, vecchi, un piccolo bacino di voti da mantenere col minimo sforzo (quattro chiacchiere e 1/2 euro).

Per dirla con Nanni: “Continuiamo a farci del male…”

Italo, Alcide e il mito (di Sergio Luzzatto)

Domenica 17 gennaio 1954, un vecchio contadino emiliano entrò nel palazzo del Quirinale per incontrare un vecchio proprietario terriero piemontese che era anche il primo presidente eletto della Repubblica italiana. Il vecchio contadino, Alcide Cervi, portava al petto sette medaglie d’argento, una per ciascuno dei suoi figli caduti nella Resistenza. Il vecchio proprietario e presidente, Luigi Einaudi, teneva a onorare di persona chi aveva pagato un prezzo tanto alto alla liberazione del paese. Poche settimane prima (correva il decimo anniversario della fucilazione dei fratelli Cervi) Einaudi aveva scoperto la figura di Alcide grazie a un articolo pubblicato sulla rivista dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, «Patria indipendente». L’articolo – che sta all’origine di un mito – era stato scritto da Italo Calvino.

Calvino era allora un tipico interprete del “lavoro culturale” svolto per conto del Partito comunista: autore e funzionario della casa editrice Einaudi, fondata vent’anni prima dal figlio del futuro presidente della Repubblica; collaboratore fisso dell’«Unità». Sul giornale di partito Calvino aveva pubblicato, negli ultimi giorni del 1953, un secondo articolo sui Cervi. Per scrivere quei pezzi il trentenne ex partigiano si era recato di persona a Gattatico, nella “bassa” emiliana fra Parma e Reggio. Aveva visitato la fattoria dove i sette fratelli resistenti (e il padre stesso) erano stati catturati dagli uomini di Salò il 25 novembre 1943, un mese prima di essere messi al muro senza processo, per rappresaglia dopo un attentato. Aveva incontrato papà Alcide, «basso e solido e nodoso come un ceppo d’albero»: «il padre scampato al terrore e al dolore», rimasto vedovo subito dopo la morte dei figli. Aveva parlato con almeno una delle vedove dei fratelli, e con la maggiore degli undici orfani, «la ragazza coi capelli rossi che quando i fascisti assediarono la casa aveva nove anni, e adesso ne ha diciannove».

Calvino era rimasto folgorato dalla visita a casa Cervi. Lo si capisce dal tono insieme complice e solenne, familiare e fiabesco, che impronta i suoi articoli del dicembre ’53. Articoli così eloquenti da folgorare – di riflesso – un “padre della patria” che si era imposto all’attenzione dell’opinione pubblica, dopo gli anni della Costituente, come il massimo cantore della Resistenza: il giurista fiorentino Piero Calamandrei. Sulle orme di Calvino, anche Calamandrei aveva visitato casa Cervi. E sulla falsariga degli articoli di Calvino, Calamandrei aveva preparato un discorso in onore di Alcide ch’egli tenne al teatro Eliseo di Roma il 17 gennaio 1954: lo stesso giorno in cui, al Quirinale, il contadino emiliano era stato ricevuto dal presidente piemontese.

Le fondamenta del mito dei fratelli Cervi furono gettate allora, nel mese scarso che separò la pubblicazione degli articoli di Calvino dall’orazione di Calamandrei. Allora prese corpo una sorta di tacita intesa fra il giovane narratore e il maturo giurista, per rappresentare i sette fratelli emiliani come il simbolo uno e plurimo dell’epos resistenziale: eroi degni della voce di Omero, o della penna di Ariosto. Il 12 gennaio 1954, su un cartoncino augurale della casa editrice Einaudi, Calvino si rivolse a Calamandrei come un discepolo al maestro, ma anche come un capostipite all’erede: «Caro professore, le cose che mi scrive sui miei articoli sui Cervi mi fanno molto piacere, soprattutto perché mi sta a cuore che la loro storia sia divulgata e sentita e intesa. Mi dispiace non poterLa sentire, domenica, a Roma. Chissà che cose belle saprà dirne, Lei, che sa ancora parlare di queste cose con parole non logore».

Quanto magnificamente sapesse parlare di queste cose Calamandrei avrebbe dimostrato l’anno successivo, quando celebrò il decimo anniversario della Liberazione raccogliendo in volume i suoi maggiori discorsi e le sue migliori epigrafi di argomento partigiano: Uomini e città della Resistenza valeva da cartaceo monumento ai caduti, e portava al centro il testo dell’orazione romana di Calamandrei. Ma più importanti ancora si rivelarono gli effetti del “lavoro culturale” di Calvino. L’eloquenza dei suoi due articoli sui fratelli Cervi fu infatti tale da spingere i dirigenti nazionali del Pci a lanciare una vera e propria campagna di propaganda, per trasformare i sette figli del cattolicissimo Alcide nella quintessenza del martirologio resistenziale comunista.

Anche il segretario generale del Pci, Palmiro Togliatti, compì (non era la sua prima volta) il pellegrinaggio a Gattatico: incontrò Alcide Cervi il 17 settembre 1954. E la Commissione stampa e propaganda del Pci – dove lavorava un giovane cronista dell’«Unità» che sarebbe divenuto, decenni dopo, un celebre “volto” televisivo: Sandro Curzi – decise di mobilitarsi per allestire un libro di memorie firmato da “papà Cervi”. L’onore toccò a un altro giornalista del quotidiano di partito, Renato Nicolai. Il quale, ricamando ad abundantiam sugli articoli di Calvino, su conversazioni col vecchio Alcide, su interviste con parenti o compaesani, e soprattutto sulle direttive della Commissione stampa e propaganda, produsse per gli Editori Riuniti un volumetto che l’Einaudi rimanda adesso in libreria, corredato da un’introduzione dello storico Luciano Casali. Pubblicato per la prima volta nell’autunno 1955, I miei sette figli fu uno straordinario bestseller. Venne promosso capillarmente presso le sezioni del Pci, fu messo in vendita attraverso un sistema di pagamento rateale, diventò un must nella bibliotechina di ogni buona famiglia comunista. Entro un anno dall’uscita, si calcola che ne fossero state diffuse quasi un milione di copie.

La storia dei fratelli Cervi – aveva detto Calamandrei nel discorso del teatro Eliseo – era talmente meravigliosa da non richiedere alcuna toilette: «Non c’è bisogno di abbellirla. I fatti parlano da sé». In realtà, da Italo Calvino in giù, l’intellighenzia comunista fece di tutto per abbellire una storia certo eroica, ma parecchio complicata. Perché nei due o tre mesi intercorsi fra l’inizio della Resistenza e la loro morte, i sette fratelli Cervi erano stati tutto fuorché altrettante incarnazioni del «rivoluzionario disciplinato», consapevole avanguardia di un «popolo alla macchia». Quando, all’indomani dell’8 settembre 1943, il movimento partigiano si presentava ancora informe, spontaneistico, velleitario, i Cervi si erano dati all’attività di renitenza e di sabotaggio con una convinzione ai limiti dell’incoscienza. Né erano mancate le frizioni fra loro e i dirigenti locali del Partito comunista clandestino, che accusavano i fratelli Cervi di comportarsi da «anarcoidi».

Fu per fare «leggenda» (com’ebbe a dire Calamandrei stesso) che i cantori dell’epos resistenziale trasformarono i fratelli Cervi in icone, quasi in santini. Riconoscendo un massimo di coerenza entro un percorso che era stato, dal cattolicesimo all’antifascismo e dall’antifascismo alla Resistenza, più appassionato che lucido, più coraggioso che accorto. E sottacendo le difficoltà ambientali, gli inciampi militari, l’isolamento politico dei sette fratelli durante la loro breve stagione da partigiani sull’Appennino. Fu per fare leggenda, e fu inoltre per segnalare agli italiani del dopoguerra come la storia della Resistenza nella “bassa” emiliana non fosse affatto riconducibile alla caricatura infamante che andava veicolandone la propaganda anticomunista, tutta impegnata a denunciare i crimini del cosiddetto «triangolo della morte».

Nei dintorni di Reggio Emilia, durante la guerra civile del 1943-45, i partigiani “rossi” erano stati vittime delle belve nazifasciste molto più che carnefici di agnelli innocenti. Era questa la lezione che veniva (e che ancora viene) dalla storia dei fratelli Cervi, fucilati senza processo senza che avessero, loro, mai ucciso nessuno. Era questa la «storia familiare» che per diventare «storia d’Italia» – teorizzò allora Calvino – aveva bisogno di farsi mito.

Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2010

Sergio Luzzatto insegna Storia Moderna all’Università di Torino

Grande Massimo! (D’Azeglio)

D'azeglio.jpg“L’Italia da circa mezzo secolo s’agita, si travaglia per divenire un sol popolo e farsi nazione. Ha riacquistato il suo territorio in gran parte. La lotta collo straniero è portata a buon porto, ma non è questa la difficoltà maggiore. La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse, è la lotta interna. I più pericolosi nemici d’Italia non sono gli Austriaci, sono gl’Italiani. E perchè?

Per la ragione che gli Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio; perchè pensano di riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro, perchè l’Italia, come tutti i popoli, non potrà divenire nazione, non potrà essere ordinata, ben amministrata, forte così con lo straniero, come contro i settari dell’interno, libera e di propria ragione, finchè grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere, e non lo faccia bene, od almeno il meglio che può. Ma a fare il proprio dovere, il più delle volte fastidioso, volgare, ignorato, ci vuol forza di volontà e persuasione che il dovere si deve adempiere non perchè diverte o frutta, ma perchè è dovere; e questa forza di volontà, questa persuasione, è quella preziosa dote che con un solo vocabolo si chiama carattere, onde, per dirla in una parola sola, il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani.”

Massimo D’Azeglio, I miei ricordi, Torino 1949, pag.38.

Abiura di Galileo Galilei. Letta il 22 giugno 1633

galileo_002.jpgIo Galileo, fìg.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.o, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere ne insegnare in qualsivoglia modo, ne in voce ne in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova; Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non fìnta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.

Giuro anco e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate.

Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani.

Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.
Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.

L’Unità d’Italia, un affare per tutti (Angelo D’Orsi)

cavour.jpgMeno male che c’è Ignazio La Russa a preoccuparsi dei festeggiamenti per il 150°. Stando a una sua intervista (ad Antonella Rampino, su La Stampa) il programma è ricchissimo, e le intenzioni del ministro della Difesa, aspirante coordinatore degli eventi, sono assai serie: annuncia, in accordo con il presidente del Consiglio, l’intenzione di dar vita «accanto ai convegnoni», a «un evento popolare». E che c’è di più «popolare» della televisione? Infatti, ecco affacciarsi Festival di Sanremo, Lega Calcio, e Coni. Siamo a posto. Cavour e Garibaldi, Mazzini e Cattaneo, Gioberti e Pisacane, riposino il loro sonno eterno, tranquilli. Apicella canterà dai microfoni di Rai-Mediaset, in un tripudio di sfilate di carri armati, giacché, come spiega il solerte ministro, «bisogna far coincidere le quattro feste delle Forze armate con le celebrazioni».

Insomma, tra canzonette e marce militari, anche noi, malgrado la Lega, e i suoi sussulti antinazionali, ricorderemo l’Unità. Malgrado la Lega, appunto: e per una volta sono d’accordo con Ernesto Galli della Loggia, che sul Corriere della Sera, ha ammonito Calderoli e Bossi: «Non si governa un Paese contro la sua storia». Aggiungo, che coloro che con sufficienza o arroganza, deprecano, fuori tempo massimo, il Risorgimento e irridono all’Unità, sono semplicemente estranei a una pur minima conoscenza della storia: possono anche tentare di governare «contro» di essa, in quanto la ignorano.

Il Risorgimento, intanto, non fu un fatto italiano: esso si colloca in un contesto europeo frutto di un moto che fu tra gli effetti di lungo periodo della Grande Rivoluzione del 1789. Il nazionalismo della prima metà dell’Ottocento ha un carattere progressivo: basti scorrere gli scritti di Marx ed Engels, o i loro carteggi, per rendersi conto di quanto peso abbiano quei moti, a cui i fondatori del «socialismo scientifico» guardarono con attenzione e simpatia. Il Risorgimento italiano, collocato nell’ambito dei movimenti nazionalpatriottici del XIX secolo, mentre servì a cancellare residui di Stati paternalistici, fondati su concezioni proprietarie del potere, ebbe un carattere indubbiamente emancipatorio su vari piani, da quello economico-sociale a quello politico, non trascurando l’ambito della cultura. Una larga fetta della migliore produzione letteraria o di teoria politica italiana si colloca in quella fase ed è frutto di scrittori e pensatori che hanno espresso variamente l’istanza unitaria. Che era tutt’altro che un mero bisogno di statualità, che pure rappresentava un’esigenza significativa in un Paese frammentato, sottoposto all’estro ghiribizzoso di piccoli, mediocri o mediocrissimi sovrani locali, spesso mandatari di poteri reali lontani, a cominciare da quello degli Asburgo che faceva il bello e il cattivo tempo nella Penisola.

Ma quello era anche un Paese economicamente bloccato; solo l’Unità gli diede la spinta decisiva per avviare il decollo industriale, e la sua trasformazione capitalistica: insomma, ne rese possibile ciò che chiamiamo lo «sviluppo». Esso, con tutti i suoi enormi limiti (denunciati da una schiera di studiosi, politici e intellettuali: Antonio Gramsci per tutti) costituì un dato di progresso, a dispetto, appunto, delle contraddizioni e delle sperequazioni, prima fra tutte quella Nord- Sud.

Già, proprio qui, come è noto, si appunta l’angusta polemica della Lega degli ignoranti: il Sud che drenerebbe le risorse realizzate dal Nord. A costoro bisognerebbe innanzi tutto ricordare che lo squilibrio tra le due aree, al di là delle situazioni storiche pregresse, è stato favorito da un processo di industrializzazione che si è localizzato nelle regioni settentrionali, a scapito del Mezzogiorno; e ribadire che quel Sud, fu ed è tuttora un mercato essenziale per le imprese produttrici del Nord; e infine, rammentare che i protagonisti di quel terzo moto unitario (il secondo è stata la lotta di liberazione nazionale contro il nazifascismo, del ’43-45), ossia gli immigrati meridionali a Torino, Milano e nelle altre aree industriali, resero possibile la fortuna delle imprese (e degli imprenditori) ivi collocate.

E se nel Risorgimento e nella Resistenza, l’opera dei meridionali fu limitata – ma non irrilevante -, nelle migrazioni Sud/Nord degli anni Cinquanta/Sessanta, sono stati i meridionali poveri a fornire il «materiale umano» per le industrie del Nord, dopo aver costituito carne da macello, accanto ai poveri del resto d’Italia, nei due conflitti mondiali e nelle altre guerre fasciste.

D’altra parte, l’Unità fu un affare anche per il Mezzogiorno, malgrado le storture e gli errori, gravissimi. Per tanti versi, lo sappiamo, «è andata male»; ma fu il moto unitario, e lo Stato nazionale, a ricuperare il Sud, inserendolo in circuiti dai quali secoli di monarchia borbonica (oggi rivalutata dai soliti revisionisti), l’aveva tenuto fuori. Così la presa di Porta Pia, il 20 settembre 1870, mise fine a un regime tirannico e oscurantista come quello del Papa. Che, nelle sue rinnovate manifestazioni, non più statuali, ma simboliche (oltre che economico-finanziarie), non ha chance alcuna di essere restaurato, a dispetto dei Concordati vecchi e nuovi, e della crescente ingerenza delle gerarchie nella vita politica. Anche questo lo si deve al Risorgimento, e al processo unitario: sul quale, oggi come allora, dobbiamo esprimere tutte le riserve critiche, da studiosi, e da cittadini consapevoli (innanzi tutto informati), ma che possiamo e dobbiamo considerare un punto di non ritorno.

Perciò a quei personaggi pittoreschi che ostentano la cravatta verde, marchio di una inesistente «Padania», e sputano su Garibaldi, Mazzini, e Cavour (inneggiando al «federalista» Cattaneo, dimenticando che si tratta di uno dei più coerenti e convinti sostenitori dell’Unità!), ci permettiamo di dare un modesto consiglio: prendano tra le mani un manuale di storia, e comincino a leggerlo. Non è mai troppo tardi per imparare.

(il manifesto, 6 maggio 2010)

Vacanze a Solaütte(1)

WASHINGTON – Nazisti gaudenti, con le loro donne, a pochi passi dalla morte. Un album fotografico contenente 116 foto di ufficiali delle SS nel campo di concentramento di Auschwitz è in mostra  al museo dell’Olocausto di Washington. Le fotografie, scattate tra il maggio e il dicembre 1944, ritraggono guardie e ufficiali mentre festeggiano il Natale o cantano accompagnati da una fisarmonica. In otto scatti appare anche Josef Mengele, il famigerato «medico» – conosciuto anche come «l’angelo della morte» – che effettuò tragici quanto inutili esperimenti su esseri umani all’interno del campo di concentramento. Il gerarca nazista è ritratto in compagnia di alcuni alti ufficiali tra cui Josef Kramer, comandante del Lager annesso di Birkenau, e Rudolf Hoess, ex comandante di Auschwitz. È la prima volta che Mengele appare in fotografie autenticate, come hanno dichiarato i responsabili del museo.
Le immagini sono state conservate per tutti questi anni da Karl Hoecker, aiutante del comandante del campo di concentramento in Polonia liberato dalle truppe sovietiche il 27 gennaio 1945. «Queste foto uniche mostrano in modo vivido come queste persone si divertissero mentre tenevano sotto controllo un mondo di inimmaginabile sofferenza. Offrono una prospettiva importante sulla psicologia di coloro che hanno perpetrato il genocidio», ha dichiarato in una nota il direttore del museo Sara Bloomfield.

Da sinistra: Josef Mengele, Josef Kramer, Rudolph Höss (ex comandante di Auschwitz)  e un militare non identificato (Ushmm/Ap)

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Ausiliarie (Helferinnen) che lavoravano ad Auschwitz si divertono a Solaütte al suono della fisarmonica. Al centro Karl Höcker. Foto scattata il 22 luglio 1944. In quello stesso giorno 150 nuovi deportati arrivarono a Birkenau: 21 uomini e dodici donne furono scelti per lavorare, tutti gli altri finirono immediatamente nelle camere a gas (Ushmm/Ap)

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Il rifugio in stile alpino a Solaütte(Ushmm/Ap)

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Parliamo di Tarnow (2)

Tarnow
Prima della seconda guerra mondiale circa 25.000 ebrei vivevano a Tarnow, una città nel sud della Polonia, 45 miglia a est di Cracovia. La loro presenza risaliva alla metà del XV secolo  e rappresentava circa la metà della popolazione della città. Buona parte degli ebrei erano impegnati in attività artigianali nel settore abbigliamento e nella produzione di cappelli. C’erano vari gruppi all’interno della comunità, compresi religiosi Hassidim e laici sionisti.
Subito dopo l’occupazione della città l’8 settembre 1939 iniziò la persecuzione antiebraica. Truppe tedesche bruciarono gran parte delle sinagoghe già il 9 settembre e arrestarono ebrei per lavori forzati. Tarnow fu inclusa nel Governatorato Generale (territorio della Polonia occupata). Molti ebrei di Tarnow fuggirono verso est mentre aumentava il numero degli ebrei in città per i rifugiati da varie parti della Polonia. Ai primi di novembre i tedeschi ordinarono l’istituzione di un Judenrat (Consiglio ebraico) per trasmettere ordini e disposizioni alla comunità ebraica. Fra i compiti del Judenrat era di aggravare la tassazione alla comunità e di fornire manodopera per lavori forzati.
Nel corso del 1941 la vita degli ebrei a Tarnow divenne ancora più precaria. I tedeschi imposero una pesante multa collettiva alla comunità. Rastrellamenti per il lavoro forzato divennero più frequenti come pure omicidi arbitrari e casuali. Le deportazioni iniziarono nel giugno 1942 quando 13.500 ebrei furono  inviati al campo di sterminio di Belzec. Durante la deportazione le SS e la polizia massacrarono centinaia di ebrei nelle strade, nella piazza del mercato, nel cimitero ebraico e nei boschi intorno alla città. (nella foto: umiliazione di ebrei a Tarnow, 1940).


34013.jpg.jpeg Dopo la deportazione di giugno, i tedeschi costrinsero agli ebrei sopravissuti a Tarnow, insieme a migliaia di ebrei delle città limitrofe, nel ghetto, circondato da un’alta palizzata di legno. Le condizioni di vita nel ghetto erano dure: scarsità di cibo, forti carenze sanitarie e lavoro forzato in fabbriche e fattorie per l’economia del Reich. Nel settembre 1942 i tedeschi ordinarono agli ebrei del ghetto di radunarsi nella PiazzaTargowica dove furono sottoposti alla “selezione”, inviando le persone “non necessarie” a Belzec. Furono così deportate circa 8.000 persone. Dopo questa deportazione i trasferimenti furono occasionali, ancora nel novembre 1942 altri 2.500 ebrei finirono a Belzec.
Verso la metà del 1942 alcuni ebrei a Tarnow organizzarono forme di resistenza, molto dei capi erano giovani sionisti del movimento giovanile Ha-Shomer Ha-Tsa’ir. Molti di quelli che avevano raggiunto i partigiani nei boschi caddero negli scontri con le SS, altri resistettero e cercarono scampo verso l’Ungheria ma in  numero molto limitato.
I tedeschi decisero la distruzione del ghetto di Tarnow nel settembre 1943. I rimanenti 10.000 ebrei furono trasferiti: 7.000 ad Auschwitz e 3.000 a Plaszow, vicino a Cracovia.
Alla fine del 1943 Tarnow fu dichiarata “Judenrein” (libera da ebrei). Alla fine della guerra circa 700 ebrei sopravissuti tornarono a Tarnow ma ben presto fuggirono di nuovo per sfuggire il locale antisemitismo.

http://www.ushmm.org/wlc/article.php?lang=en&ModuleId=10005461
(traduzione dell’autore)