L’orco: Kurt Heissmeyer

Nella Germania nazista vi erano grandi possibilità per un giovane medico ambizioso e Kurt Heissmeyer era non solo giovane ed ambizioso ma aveva ottimi ed importanti contatti.
Era nato a Magdeburgo il 26 dicembre 1905 in una famiglia di medici e lui stesso si era avviato verso questa carriera. Lavorò dapprima a Friburgo e poi nell’ospedale della prestigiosa località sciistica di Davos. Dopo aver prestato servizio come assistente all’Ospedale Vittoria Augusta di Berlino. Venne infine impiegato all’ospedale delle SS di Hohenlychen.
Tuttavia a 38 anni Heissmeyer era ancora una figura secondaria e, soprattutto, non era ancora diventato docente universitario. Il sistema accademico tedesco prevedeva che per insegnare all’Università ogni futuro professore producesse un lavoro scientificamente apprezzabile da presentare ad una commissione d’esame.
heissmeyer2.jpgNel 1943 i campi di concentramento e sterminio erano in piena attività e già molti medici nazisti erano impegnati a condurre ricerche su cavie umane.
Ad Heissmeyer questa possibilità parve una scorciatoia importantissima: compiendo esperimenti direttamente su esseri umani avrebbe accelerato le conclusioni dei suoi studi e conseguito velocemente la tanto desiderata cattedra universitaria.
Per introdursi nel sistema dei campi di concentramento occorrevano però appoggi importanti.
Heissmeyer aveva un cugino in una posizione di spicco: August Heissmeyer generale delle SS e capo della Reichsbund für Kinderreiche (Associazione del Reich per i bambini delle famiglie numerose) una struttura che mirava all’educazione dei bambini tedeschi provenienti da famiglie numerose.
In più Kurt Heissmeyer aveva un’altra carta da giocare: l’amicizia con Oswald Pohl il potente capo dell’amministrazione dei campi di concentramento.

Forte di questi appoggi Heissmeyer richiese a Leonardo Conti l’appoggio per sviluppare studi sulla tubercolosi.
Nel marzo 1944 Heissmeyer spiegò a Conti durante un incontro a Hohenlychen che i suoi studi avrebbero potuto condurre ad un rivoluzionario vaccino contro la tubercolosi polmonare. Conti diede parere favorevole ed Himmler
La decisione di Himmler era motivata dal fatto che a Ravensbruck si stavano già svolgendo studi sulla tubercolosi condotti dall’équipe del professor Gebhardt.
In realtà Heissmeyer non aveva alcuna reale preparazione medica riguardo ai problemi della tubercolosi.
Negli anni ’60 – quando Heissmeyer venne processato – il professor Prokop, perito incaricato di interpretare le caratteristiche del lavoro di Heissmeyer, affermò davanti alla Corte:
“Il tratto caratteristico degli esperimenti condotti da Heissmeyer sta nella straordinaria mancanza di conoscenza scientifica cui si aggiunge una totale ignoranza dei principi dell’immunologia e in particolare della batteriologia. Non possedeva e non possiede alcuna delle caratteristiche richieste ad uno specialista nella cura della tubercolosi (…) non ha utilizzato alcun moderno testo di base di batteriologia e non aveva alcuna familiarità con i metodi di indagine di questa branca di studi”
Heissmeyer si era limitato a leggere i lavori di due medici austriaci, i fratelli Kutschera che, tra il 1929 ed il 1939 avevano pubblicato diversi articoli sulla tubercolosi.
I due avevano sostenuto che era possibile combattere la tubercolosi polmonare attraverso la creazione artificiale di focolai di tubercolosi cutanea. In altri termini sostenevano che inoculando tubercolina si sarebbe potuta innalzare la capacità di reazione immunitaria alla tubercolosi polmonare.
Questa teoria già all’epoca era stata ritenuta priva di qualsiasi fondamento scientifico e sostanzialmente sbagliata. Ciononostante Heissmeyer si mise in mente di dimostrarne la validità: sarebbe stato un ottimo lavoro scientifico per l’ottenimento della cattedra universitaria.
Il 19 marzo 1944 Heissmeyer insieme ad altri due medici delle SS, Enno Lolling e Hans Klein, visitarono il campo di Neuengamme. La Baracca 4a che dovrà ospitare il “dipartimento Heissmeyer” è già pronta: le finestre sono state imbiancate per evitare che dall’esterno si possa capire cosa vi accade e tutt’intorno è stato steso il filo spinato.
Alla fine di aprile 1944 Heissmeyer si insediò a Neuengamme e iniziò in assoluta segretezza i suoi esperimenti su 32 prigionieri di guerra russi cui era stato promesso più cibo. L’inoculazione della tubercolosi risultò in breve fatale per quattro russi che morirono in breve tempo.
Di fatto Heissmeyer non ottenne nessun risultato concreto perché la teoria di base dei fratelli Kutschera non poteva condurre a nessun successo.
Anziché prendere atto del sostanziale fallimento degli esperimenti Heissmeyer decise di proseguirli con maggiore vigore. Servivano però altre cavie e Heissmeyer fece richiesta a Oswald Pohl: occorrevano 20 cavie umane, bambini ebrei, 10 femmine e 10 maschi. In nome della buona amicizia che lo legava al giovane Heissmeyer, Pohl procurò i bambini ordinando che venissero selezionati nel campo di concentramento di Auschwitz.
diede il suo consenso ordinando che gli esperimenti si svolgessero non a Ravensbruck ma a Neuengamme.

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Roman Witonski

Il piccolo Roman Witonski è nato l’8 giugno 1938, sua sorella Eleonora il 16 settembre 1939. Il padre è uno stimato pediatra di Radom, in Polonia, Seweryn Witonski.
witonski.jpg.jpegDi Roman abbiamo una foto, ha lo sguardo un po’ impaurito mentre se ne sta tra le braccia della mamma Rucza Zajdenweber. Tra quelle braccia che non potranno proteggerlo dall’orrore né lui né la sua sorellina.
Il 21 marzo 1943 si svolse una “classificazione” degli ebrei del ghetto di Radom: i tedeschi cercavano gli intellettuali. I medici, gli insegnanti, i farmacisti dovettero autodenunciarsi. Vennero tutti condotti su camion al vicino cimitero di Szydlowiec. Il dottor Seweryn Witonski venne allineato insieme agli altri.
Le SS fucilarono quel giorno 150 persone. Ruzca vide la morte del marito insieme ai suoi bambini Roman ed Eleonora. Miracolosamente né la donna né i suoi figli vennero uccisi quel giorno: sospinti nuovamente sui camion vennero riportati a Radom. Per più di un anno vissero nel terrore di essere uccisi fino al 26 luglio 1944 quando i tedeschi decisero di liquidare definitivamente il ghetto.
Ruzca, Roman ed Eleonora vennero caricati su un treno con circa 3.000 ebrei . Dopo la selezione vennero assegnati al lager come detenuti 1147 uomini, e 817 donne. Gli uomini ricevettero i numeri da B-1 a B-1147 e le donne i numeri da A-14394 ad A-15210. Le altre persone vennero uccise nelle camere a gas. Rucza divenne la prigioniera A 15158, Eleonora l’A 15159 e Roman l’A15160.
I bambini vennero immediatamente divisi dalla madre e inviati al Block 10. Si rividero di tanto in tanto quando Ruzka riusciva ad avvicinarsi al Block, poi dal novembre 1944 Rucza non vide più i suoi figli, sopravvisse ad Auschwitz, unica superstite di una famiglia distrutta.

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Georges-André Kohn

Armand Kohn è un benestante imprenditore, vive con sua moglie Suzanne-Jenny in uno dei quartieri più eleganti di Parigi: il 16° Arrondissement.
Una famiglia alto-borghese quella dei Kohn, quattro figli: Philippe, Antoinette, Rose-Marie e l’ultimo nato: Georges che è venuto al mondo il 23 aprile 1932.
Dopo il 1940 papà Armand dovrà fare i conti con i tedeschi. Nel gennaio 1941 la sua impresa viene confiscata e soltanto grazie alle sue strette relazioni con il banchiere Rotschild diviene direttore dell’Ospedale “Barone Rotschild” uno dei più grandi ospedali ebraici di Parigi.
Suzanne ha paura e pensa di poter sfuggire alla deportazioni convertendosi alla religione cattolica con i suoi quattro bambini. Armand Kohn non è d’accordo ma accetta.
kohn.jpgGeorges riceve la Prima Comunione. Suzanne non ha compreso che alle SS poco importa se i Kohn sono convertiti o meno, gli ebrei rimangono ebrei non è importante la religione ma la razza. Armand cerca in qualche modo di nascondere e proteggere gli ebrei di Parigi grazie alla sua posizione. Di fronte a lui c’è un nemico micidiale: Alois Brunner il braccio destro del demoniaco Adolf Eichmann.
Eichmann da Berlino pianificava l’arresto e la deportazione degli ebrei d’Europa, Brunner – città per città, casa per casa – li scovava e li metteva sui treni per l’inferno. Brunner aveva ripulito Vienna mandando verso la morte quarantaseimila ebrei, aveva distrutto la comunità ebraica di Salonicco mandando ai campi di sterminio quarantaquattromila persone. Brunner era un uomo prezioso che amava il suo lavoro di carnefice.

Nel giugno 1943 Eichmann inviò Brunner a Parigi, toccava agli ebrei francesi morire. Brunner compì anche questa missione: ventitremila ebrei francesi partirono verso la morte. Questo era l’uomo che Armand Kohn cercò, nel suo piccolo, di ostacolare. A Brunner non piaceva che qualcuno compromettesse il suo lavoro.
Armand Kohn venne accusato di sabotaggio il che equivaleva ad una condanna a morte, significava un biglietto per Auschwitz. Ma Brunner non aveva fretta e per certi versi l’alto incarico di Armand dava ancora delle garanzie.
Soltanto all’alba del 28 luglio 1944 Brunner irruppe in casa Kohn insieme ad altre due SS: Samson e Reich. I Kohn ebbero un’ora di tempo per raccogliere le loro cose. In strada c’era un autobus che li condusse alla stazione e di lì al campo di concentramento di Drancy. Ma Drancy era solo l’anticamera dell’inferno, il 17 agosto 1944 un nuovo treno ed una nuova destinazione: Auschwitz.
Nel vagone piombato c’é tutta la famiglia Kohn: Armand, sua moglie Suzanne, l’anziana nonna, Rose-Marie, Antoiniette, Philippe e il piccolo Georges. Dopo tre giorni di viaggio – il 21 agosto 1944 alle 2 del mattino – Rose-Marie e Philippe ruppero le grate della piccola finestrella del vagone merci. Si accese una discussione: papà Armand disse che l’unica speranza era rimanere uniti ma Rose-Marie e Philippe non obbedirono e saltarono giù dal treno in corsa. Con loro fuggì Jacques Lazarus (che sarebbe diventato dopo la guerra ambasciatore israeliano a Parigi) ed altre 27 persone.
Il 25 agosto il treno si fermò a Buchenwald. Ma a Buchenwald rimarrà soltanto Armand, il resto della famiglia venne fatto ripartire per Auschwitz.
Sulla banchina il medico delle SS seleziona il trasporto. La mamma Suzanne, la nonna e Antoinette vanno a destra verso le camere a gas. Georges va a sinistra per lui c’è una baracca speciale, la baracca dei bambini, il “Block 10”.

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Sergio De Simone, anni sette…

La nostra storia potrebbe cominciare da molti luoghi.
Dalla Russia patria di ventiquattro soldati prigionieri, dalla Francia dove un medico candidato al premio Nobel lavorava. Dalla Polonia, dalla Jugoslavia o dalla Germania.
Tra le tante possibilità la nostra storia inizierà in Italia, a Napoli, quartiere Vomero, al numero 8 di Via Scarlatti, il 29 novembre 1937.

Eduardo De Simone e sua moglie Gisella quel giorno sono felici è nato il primo figlio: un maschietto, si chiamerà Sergio.
L’Italia fascista non ha ancora varato leggi razziali, Gisella che è israelita pensa al suo bambino e al futuro che avrà.
Papà Eduardo è in Marina, imbarcato. La guerra è lontana, probabilmente non ci sarà. Gisella è nata a Vrhnika in Jugoslavia e in quel giorno di novembre mentre guarda il suo bambino ha da poco compiuto trentatré anni.
Come si siano conosciuti Eduardo e Gisella non sappiamo. Forse Eduardo era arrivato a Fiume per lavoro, forse aveva visto quella bella ragazza durante una passeggiata in una giornata di riposo. Gisella viveva lì a Fiume e forse incontrò per la prima volta Eduardo mentre passeggiava con Mira e Sonia le sue due sorelle o mentre teneva per mano il fratellino Giuseppe. Probabilmente quando Gisella decise di parlare di Eduardo ai suoi genitori il padre Mario Perlow avrà scosso la testa, avrà pensato che il matrimonio con un ragazzo napoletano avrebbe allontanato da sé la figlia. Forse avrà incrociato con lo sguardo quello di sua moglie Rosa per capire cosa ne pensasse.
In fondo non ha molta importanza sapere come Eduardo conobbe Gisella. Di certo sappiamo che quando si sposarono Gisella se ne andò con Eduardo a Napoli, in un’altra città di mare come Fiume. Certamente quel 29 novembre 1937 Eduardo telegrafò a Fiume per far conoscere la buona notizia ai nonni, alle zie, allo giovane zio.

desimone.jpgMentre Sergio si fa grande il mondo comincia a bruciare.
Nel settembre 1939 i giornali annunciano che la Germania è entrata in guerra. Il 10 giugno 1940 anche l’Italia fascista entra nel conflitto.
Eduardo è sempre più spesso lontano come tanti, come tutti. In quasi tre anni di guerra la vita si è fatta sempre più difficile. Napoli subirà pesantissimi bombardamenti: quasi 10.000 mila case cadranno sotto le bombe. Ed è forse per paura degli aerei Alleati, forse perché si sente sola Gisella decide di trovare rifugio a Fiume che le sembra più sicura, che le sembra più lontana dal fronte che dopo lo sbarco americano in Sicilia si avvicina sempre di più.
Così Gisella e il piccolo Sergio raggiungono Fiume.

L’8 settembre del 1943 l’Italia firma l’armistizio con gli Alleati, mentre il generale Badoglio annunzia che “la guerra continua”, a Fiume cambiano molte cose.
I tedeschi occupano l’Italia, ne strappano ampie zone, le pongono sotto la sovranità del Reich. Fiume entra a far parte dell’Adriatische Kusterland.
Arrivano nuovi padroni. Arriva Odilo Globocnik e tutti gli uomini che hanno prima gasato migliaia di disabili tedeschi nel quadro del progetto eutanasia e che poi, hanno costruito Treblinka, Sobibor, Belzec. Arrivano a Trieste e Fiume gli uomini che hanno mandato nelle camere a gas quasi un milione e mezzo di ebrei.
Arrivano e la caccia agli ebrei si apre.

Gisella e Sergio non tardano a cadere nella rete. Il 21 marzo 1944 le SS fanno irruzione nell’appartamento dei Perlow in via Milano 17 arrestano Gisella, Sergio, le zie Mira e Sonia, lo zio Giuseppe.
Tutti sono portati al campo di concentramento di San Sabba. Il tempo di una giornata ed il 29 marzo vengono fatti salire sul convoglio T25: destinazione Auschwitz.
Quel treno attraversò l’Europa in quell’inizio di primavera, dopo centinaia di chilometri entrò nel campo di Auschwitz. Erano trascorsi 6 giorni di viaggio.
Centotre maschi vengono inviati subito alle camere a gas, i rimanenti 29 vengono marchiati sul braccio con i numeri dal 179587 al 179615. Cinquantatré donne – tra le quali Gisella, Mira e Sonia – vengono marchiate con i numeri dal 75460 al 76512.
Da questo momento Sergio diventa il prigioniero A 179614. Per un poco viene lasciato con sua madre poi, il 14 maggio 1944, il dottor Josef Mengele seleziona Sergio lo sottopone ad esami del sangue e lo fa operare alle tonsille.
Insieme con lui vengono selezionati altri 19 bambini: 9 maschi e 10 femmine.
Il documento che riporta questa attività di Mengele sfugge miracolosamente alla distruzione degli archivi. Rappresenta l’unico documento ufficiale della tragedia che sta per accadere.

Sergio è solo. Lo portano al Block 10, la “Baracca dei bambini”.

segue in: http://www.olokaustos.org/argomenti/bambini/bullen1.htm

Cefalonia, due nuovi indagati per la strage degli italiani

ROMA – Due nuovi indagati per la strage di Cefalonia, il peggior eccidio di militari italiani compiuto dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale: sono – secondo quanto riferito dall’Ansa – due ex soldati della Wehrmacht, entrambi di 86 anni, sospettati di aver ucciso un numero imprecisato di uomini della Divisione Acqui. La procura militare di Roma avrebbe già sentito per rogatoria i due indagati, che avrebbero sostenuto la loro estraneità ai fatti. Sentiti anche numerosi ex militari tedeschi in qualità di testimoni, ma ulteriori accertamenti sono in corso.
Gregor Steffens e Peter Werner – questi i loro nomi – sono stati rintracciati dai carabinieri, quasi 67 anni dopo i fatti, nell’ambito dell’inchiesta a carico di Otmar Muhlhauser, l’ex ufficiale tedesco morto nel luglio scorso mentre era in corso l’udienza preliminare nei suoi confronti. L’identificazione dei due ex soldati e la loro iscrizione nel registro degli indagati da parte della procura militare di Roma, diretta da Antonino Intelisano, riapre l’inchiesta su una strage che, con la morte dell’ultimo imputato e una serie di assoluzioni e archiviazioni, è rimasta finora impunita.
Secondo quanto è stato possibile ricostruire, i carabinieri sarebbero stati messi sulla nuova pista dopo essersi imbattuti in due nomi, citati in una relazione del cappellano militare don Luigi Ghilardini, redatta poco dopo la strage, avvenuta nel settembre ’43. Nel documento, proveniente dall’Ufficio storico dell’Esercito, si parla dei “soldati Steffens Gregor e Werner Peter, che precedentemente erano stati nostri prigionieri”, i quali “si vantavano di aver ucciso tramite fucilazione – lungo la strada tra Lakhitra e Faraò – 170 soldati disarmati che si erano arresi”. I militari dell’Arma si sono subito attivati e, grazie anche alla collaborazione della polizia criminale tedesca, sono riusciti a individuare i due ex militari, scoprendo che sono entrambi vivi e qual è il loro attuale domicilio in Germania.

Steffens e Werner appartenevano alla prima divisione Alpenjager (da montagna), ed erano già stati sentiti per “sommarie informazioni” nel 1965 e nel 1966 dalla procura di Dortmund, che sui crimini compiuti dalla Wehrmacht a Cefalonia aveva aperto un’inchiesta, conclusasi con l’archiviazione. Entrambi avevano negato ogni responsabilità. Sempre dalle indagini è emerso che dei due si era probabilmente occupata molti anni fa anche la magistratura militare italiana, che nel 1957 e nel 1960 emise due sentenze istruttorie nei confronti di 30 militari tedeschi accusati di “violenza con omicidio continuato commessa da militari nemici in danno di militari italiani prigionieri di guerra” in relazione all’uccisione, “tra il 15 e il 28 settembre 1943, in Cefalonia e Corfù”, di “450 ufficiali e 5.500 uomini di truppa italiani”.

Ma per tutti gli imputati la vicenda processuale si concluse con un nulla di fatto, tra archiviazioni e proscioglimenti, e in particolare per 17 di loro la sentenza del ’57 stabilì di “non doversi procedere” per essere rimasti ignoti gli autori del reato. Tra questi “militari ignoti” anche tali  ‘Wermer’ e ‘Stefans Gregor’, all’epoca non meglio identificati e ora improvvisamente riemersi da un lontanissimo passato.
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/01/11/news/cefalonia_indagati-1906858/

La vera lezione di Auschwitz (Tony Judt)

Negli ultimi anni il rapporto tra Israele e l’Olocausto è mutato. All’inizio l’identità di Israele fu costruita sul rifiuto del passato, trattando l’Olocausto come una prova di debolezza, una debolezza che era compito di Israele superare dando vita a un nuovo tipo di ebreo. Oggi, quando Israele è esposto al biasimo internazionale per il modo di gestire i rapporti con i palestinesi e per l’occupazione del territorio conquistato nel 1967, i suoi difensori tendono a chiamare in causa la memoria dell’Olocausto. Attenti, dicono, se criticate Israele con troppa veemenza, sveglierete i demoni dell’antisemitismo. Anzi, il messaggio è che un atteggiamento fortemente critico nei confronti di Israele non si limita a risvegliare l’antisemitismo: è di per sé antisemitismo. E con l’antisemitismo si apre la strada che porta – o ritorna – al 1938, alla “notte dei cristalli” e di là a Treblinka e ad Auschwitz. Se volete sapere dove va a finire, dicono costoro, non avete che da visitare Yad Vashem a Gerusalemme, l’Holocaust Museum a Washington o i monumenti commemorativi e i musei sparsi in tutta Europa.
Comprendo i sentimenti che dettano queste affermazioni. Ma queste affermazioni in sé sono molto pericolose. Quando a me e ad altri, con la scusa che non vanno risvegliati gli spettri del pregiudizio, viene rimproverato il dissenso nei confronti di Israele, rispondo che il problema va posto al contrario. È proprio un tabù del genere che può stimolare l’antisemitismo. Da qualche anno visito università e scuole superiori, negli Stati Uniti e altrove, per tenere conferenze sulla storia europea del dopoguerra e la memoria della Shoah. Sono gli argomenti che tratto anche nell’università dove insegno. E posso dire quali conclusioni ne ho derivate. Oggi non c’è bisogno di ricordare agli studenti il genocidio degli ebrei, le conseguenze storiche dell’antisemitismo e il problema del male. Tutti conoscono queste cose, con un’ampiezza ignota ai loro genitori. Ed è così che dev’essere. Ma mi ha colpito recentemente la frequenza con cui affiorano nuove domande: «Perché ci fissiamo sull’Olocausto?», «Perché (in certi Paesi) è illegale negare l’Olocausto ma non altri genocidi?», «Non si sta esagerando la minaccia dell’antisemitismo?». E ancora, sempre più spesso: «Non è che Israele sta usando l’Olocausto come scusa?».
Due sono i miei timori: che sottolineando l’eccezionalità storica dell’Olocausto e al contempo invocandolo costantemente in riferimento alle vicende contemporanee, abbiamo creato confusione nei giovani; e che gridando all’antisemitismo ogni volta che qualcuno attacca Israele o difende i palestinesi stiamo allevando una generazione di cinici. Perché la verità è che oggi l’esistenza di Israele non è in pericolo. E oggi, qui in Occidente, gli ebrei non si trovano ad affrontare minacce e pregiudizi neppure lontanamente paragonabili a quelli del passato, né paragonabili ai pregiudizi attualmente nutriti nei confronti di altre minoranze. Facciamo un piccolo esercizio. Vi sentireste al sicuro, accettati e benvenuti, negli Stati Uniti, oggi, se foste un musulmano o un immigrato clandestino? E se foste un “Paki” in certe zone dell’Inghilterra? O un marocchino in Olanda? Un “beur” in Francia? Un nero in Svizzera? Uno “straniero” in Danimarca? Un rumeno in Italia? Uno zingaro ovunque in Europa? E non vi sentireste più al sicuro, più integrati, più accettati come ebrei? Credo che siamo tutti in grado di rispondere.
In molti di quei Paesi – Olanda, Francia, Stati Uniti, per non parlare della Germania – la minoranza ebrea locale è fortemente rappresentata nel mondo degli affari, dei media e delle arti. In nessuno di quei Paesi gli ebrei sono stigmatizzati, minacciati o emarginati.
Il pericolo di cui gli ebrei – e non solo loro – dovrebbero preoccuparsi, se c’è, viene da un’altra direzione. Abbiamo agganciato la memoria dell’Olocausto così saldamente alla difesa di un unico Paese – Israele – che rischiamo di provincializzarne il significato morale. È vero, il problema del male nel secolo scorso, per citare Hannah Arendt, ha preso la forma del tentativo tedesco di sterminare gli ebrei. Ma non si tratta solo dei tedeschi e non si tratta solo degli ebrei. Non si tratta neppure solo dell’Europa, anche se è là che quel tentativo è avvenuto. Il problema del male – del male totalitario, del male del genocidio – è un problema universale. Ma se lo si manipola per trarne un vantaggio locale, ciò che accadrà (e io credo stia già accadendo) è questo: coloro che vivono in contesti lontani da quel crimine – o perché non sono europei o perché sono troppo giovani perché per loro il ricordo di quell’evento abbia rilevanza – non capiranno che rapporto abbia con loro la memoria che ne viene coltivata e smetteranno di ascoltare quando cercheremo di spiegarglielo.
In altre parole: l’Olocausto perderà la sua risonanza universale. Dobbiamo sperare che ciò non avvenga e dobbiamo trovare il modo per mantenere intatta la lezione centrale che davvero può venirci dalla Shoah: e cioè la facilità con cui le persone – un popolo intero – possono essere diffamate, deumanizzate e annientate. Ma non approderemo a nulla, se non riconosciamo che questa lezione potrà anche essere messa in dubbio e dimenticata. Se non mi credete, andate a chiedere, fuori dai Paesi sviluppati dell’Occidente, qual è la lezione di Auschwitz. Avrete risposte ben poco rassicuranti.
Non c’è una soluzione facile a questo problema. Ciò che pare chiaro agli europei dell’Europa occidentale è ancora oscuro per gli europei dell’Est, come era oscuro agli stessi europei dell’Ovest quarant’anni fa. Il monito morale di Auschwitz, che campeggia a caratteri cubitali sullo schermo della memoria europea, è quasi invisibile per africani e asiatici. E ancora – e forse soprattutto – ciò che sembra lampante alle persone della mia generazione avrà sempre meno senso per i nostri figli e i nostri nipoti. Possiamo preservare un passato europeo che da memoria sta sfumando in storia? Non siamo condannati a perderlo, anche solo in parte?
Forse tutti i nostri musei, i nostri monumenti commemorativi, le nostre gite scolastiche obbligatorie non sono il segno che oggi siamo pronti a ricordare, ma indicano invece che riteniamo di esserci lavati la coscienza e di poter cominciare a mollare e a dimenticare, delegando alle pietre il compito di ricordare al posto nostro. Non so: l’ultima volta che sono stato al Monumento agli ebrei d’Europa assassinati, a Berlino, annoiati ragazzini in gita scolastica giocavano a rimpiattino tra le steli. Quello che so per certo è che se la storia deve svolgere il compito che le compete, e conservare per sempre traccia dei crimini passati e di tutto il resto, è meglio lasciarla stare. Quando andiamo a saccheggiare il passato per profitto politico – scegliendone i pezzi che fanno al caso nostro e reclutando la storia a insegnare opportunistiche lezioni morali – ne caviamo cattiva morale e anche cattiva storia. Nel frattempo, forse dovremmo, tutti quanti, fare attenzione quando parliamo del problema del male. Perché di banalità ce n’è più di un tipo. C’è la notoria banalità di cui parlava Hannah Arendt: l’inquietante, normale, familiare, quotidiano male dentro gli esseri umani. Ma c’è anche un’altra banalità, quella dell’abuso: l’effetto di appiattimento e desensibilizzazione del vedere o dire o pensare la stessa cosa troppe volte, fino a stordire chi ci ascolta e a renderlo immune al male che descriviamo. Questa è la banalità – la banalizzazione – che rischiamo oggi.
Dopo il 1945 la generazione dei nostri genitori accantonò il problema del male perché – per loro – aveva troppo significato. La generazione che verrà dopo di noi corre il pericolo di accantonare il problema perché ora contiene troppo poco significato. Come si può impedire che ciò avvenga? In altre parole, come si può fare in modo che il problema del male resti la questione fondamentale della vita intellettuale, e non solo in Europa? Non ho una risposta ma sono sicuro che questa è la domanda giusta. È la domanda che Hannah Arendt ha posto sessant’anni fa. E sono certo che la porrebbe ancora oggi.

Testo tratto dal discorso tenuto dall’autore a Brema, in occasione del ricevimento del premio Hannah Arendt, traduzione di Paola Mazzarelli. Di Tony Judt è in libreria «Dopoguerra», Mondadori, pagg. 1.076, 32,00.

Santi e santi…

Qualcuno mi ha chiesto: “Ma tu, come storico e cattolico, cosa pensi della santificazione di Pio XII?” Trasgredisco l’aureo precetto “Scherza coi fanti ma lascia stare i santi” e mi sbilancio. Mi è difficile unire i due termini storico-cattolico ma questo binomio in qualche modo può aiutare. Come storico contemplo il fenomeno della proclamazione di santi da parte della Chiesa. Rimando al bellissimo saggio di Luzzatto su Padre Pio per un’esame serio e rigoroso su un fenomeno contemporaneo. Su Pio XII, sui suoi “silenzi” sono state scritte biblioteche. Cosa può aggiungere un modesto storico di quartiere? Una banalità: aprite gli archivi, tutti, subito, a tutti. Un’archivio aperto non interferisce con la santità. E’ stato elevato alla gloria degli altari mons. Stepinac, figuriamoci se Pio XII non se lo merita! Ma un giudizio si può dare conoscendo le fonti. In questa condizione, invece, tutto rimane sospeso.

Come cattolico, però, non posso non sollevare un altro problema. Il conflitto di ruoli. Pio XII come capo di uno stato estero fece molto, moltissimo, per gli ebrei. Ai nostri giorni meriterebbe il Nobel per la pace. Come pastore no. E spero, sinceramente, che si salvi nel momento nel Giudizio. Non ha testimoniato. Quando il 16 ottobre 1943 i nazisti e i fascisti catturarono 1022 persone, fra cui 200 bambini, dov’era Pio XII? Di quelle persone ne tornarono 16, nessun bambino si salvò. Fra il ghetto e il Vaticano ci sono poche centinaia di metri in linea d’aria. Io avrei preteso (sperato) che il pastore scendesse in strada e andasse in mezzo alle sue pecore e dicesse NO. Questo doveva fare il pastore e non lo fece. Dio lo perdoni.

Il capo di Stato, chiuso nei suoi palazzi, fece azioni da capo di stato. Salvò certamente altri ebrei, ma non testimoniò. Mobilitò gli uffici, fece aprire i conventi. Ma il Papa non dovrebbe essere un capo di stato. Lo è. Lo vuole essere. Oneri e onori. Ma questo non è scritto nel Vangelo. Il potere non c’entra con il Vangelo. Il demonio tentò Cristo portandolo sulla cima del tempio mostrandogli il mondo.: “Se lo vuoi è tuo!” Qualcuno ha pensato di poter far patti. Non si fanno patti con il potere. Non esiste un potere buono. Esiste il servizio. E il servizio avrebbe imposto a Pio XII di uscire dal Vaticano, come aveva fatto dopo i bombardamenti di S.Paolo. Ultimo fra gli ultimi. E allora la santità sarebbe stata lì, immediata, nei fatti. Padre Kolbe ad Auschwitz non rimase fermo nelle fila a far del bene, a curare le anime. Fece un passo avanti. “Eccomi, signore”. Il suo posto era lì, invece di un padre di famiglia.

Pio XII ha pagato per il potere della Chiesa. E’ rimasto fermo nella fila, mentre i fratelli maggiori ebrei andavano ad Auschwitz. Poi avrà dato ordini, disposizioni. Come capo di Stato posso averne rispetto. Come pastore prego per lui.


La memoria vi renderà liberi

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Sotto quella scritta sono passato due volte. Il lavoro rende liberi. La sensazione strana. Dovresti sentirti scosso e invece no. Perchè quella scritta è divenuta altro. Da tanto tempo. E’ diventata un’icona, come i ritratti multipli di Marylin, la lingua rossa degli Stones, un’altra scritta “Coca Cola”. Altre cose mi hanno emozionato in quel luogo, l’enormità silenziosa di Birkenau nella neve, i mattoni sbrecciati dei crematori, i camini alzati al cielo e intorno il vuoto. I vestitini da bimbo e le scarpine nel Museo. Sono uscito fuori e ho pianto. Senza vergogna. Erano i vestitini e le scarpine di mia figlia, a casa.

Se questo è un uomo, io l’ho sempre inteso a rovescio. Se questo è un uomo, quello che ha preso per mano quel bambino e lo ha portato alla camera a gas, se questo è un uomo, quello che tornava alla sera a casa dai suoi figli. Se questo è un uomo, tutti quelli che vivevano lì intorno, sapevano e, scrupolosamente riconsegnavano alle SS i (pochi) prigionieri fuggiti. Erano uomini, quelli?

Quando siamo tornati la prima volta da Auschiwitz, passata la frontiera italiana ci siamo fermati in autogrill. I ragazzi sono venuti a cercarmi: “Prof., guardi che roba!” e mi hanno indicato la vetrina del negozio. In bella vista bottiglie di Cabernet con etichette grigie e nere. Foto. Himmler. Hitler. Mussolini. Il gen.SS Piper (quello di Boves). Mancava quella con Kappler, chissà forse l’avevano finita. Ho comprato una di quelle bottiglie, l’ho ancora in cantina ma non la berrò mai. La tengo lì a ricordare questo paese “orribilmente sporco”, un paese in cui tutto è uguale, basta far due soldi. Apologia di fascismo? No, libera vendita di oggetti a tema storico, questa la legislazione vigente. Denunciare, querelare, chi? Soldi buttati via. Meglio farli quei due soldi, tanto qualche imbecille passa sempre e compra.

Ora quella scritta non c’è più. Rubata, sparita. Come modesto storico di quartiere provo il dolore di chi perde il pezzo unico, quasi una sofferenza da collezionista di francobolli. Come modesto uomo credo che quella scritta non sia scomparsa, proprio perchè è divenuta un’icona e le icone non muoiono più. Scompare il cimelio (a parte l’osservazione che feci la prima volta: ma si lascia lì alle intemperie un pezzo originale?) ma resta l’icona, l’immagine ormai tanto celebre che fa quasi meno effetto di quello che uno si aspetterebbe. In fondo quella scritta l’avevo vista tante volte che ritrovarmici lì la prima volta mi sembrò “normale” (anche se il termine normale è l’unico che non si dovrebbe mai usare ad Auschwitz).

Ora quella scritta non c’è più. Non so se la ritroveranno, ovviamente spero di sì, se però così non fosse pensiamo magari ad un’altra scritta da mettere lì, magari più piccola, fatta di tante piccole foto tessera di persone che lì entrarono e non uscirono più. Una scritta semplice: “Erinnerung macht frei”. La memoria vi renderà liberi.

Una bomba per fermare la storia col sangue (O.Pivetta)

Gli italiani appresero della bomba dal telegiornale della sera, Rauno. A Milano si sapeva: dapprima la caldaia che era esplosa, abbastanza presto dell’attentato. Appena dopo che erano stati i “comunisti”, ma subito prese a girare una raccomandazione: «Bisogna chiedersi a chi giova». Il senso comune stava già aggiustando le cose. La Rai non aveva pensato a edizioni straordinarie. Aveva richiamato un operatore da Bolzano e l’aveva spedito in piazza Fontana, alla Banca dell’Agricoltura. Fu lui a riferire in redazione: «Altro che caldaia. Una caldaia al tritolo». Glielo aveva sussurrato un ufficiale della Digos.

Dallo schermo in bianco e nero Rodolfo Brancoli cominciò a raccontare di tredici morti e settantotto feriti, di un buco largo un metro nel pavimento e delle assicurazioni del ministro dell’Interno Restivo: che si sarebbe fatto tutto il possibile per trovare i colpevoli. Già Brancoli chiarì: la caldaia era rimasta intatta, non ci sono dubbi che ci sia stata una bomba. Brancoli informò anche delle tre bombe di Roma, all’Altare della Patria, all’ingresso del museo del Risorgimento, nel sotterraneo della Banca nazionale del lavoro. Pochi minuti e chiuse: «Colleghiamoci con Milano, con Elio Sparano». E finalmente, oltre la voce grave di Elio Sparano, le immagini: dentro la banca le macerie, gli infissi divelti, i vetri infranti e il buco; fuori la gente al di là delle transenne nel buio di una serata fredda, nebbiosa, uggiosa. Sparano confermò: tritolo, sette otto chili, tredici morti… Poi gli ospedali: i feriti, bendati, fasciati, che dai loro letti sembravano guardare nel vuoto, incapaci a capire. Infine si seppe di un’altra bomba, collocata in una valigetta davanti alla Banca commerciale, poco lontano. Quella venne fatta esplodere per ordine del procuratore capo Enrico De Peppo: così si persero possibili tracce. A Mario Pastore toccò il pastone politico, cominciando dal messaggio del presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat. Dall’inizio alla fine in sei minuti e mezzo. La bomba era esplosa alle 16,37 del 12 dicembre, un venerdì pomeriggio. La Banca dell’Agricoltura era aperta, come non capitava per le altre banche: era un luogo di contrattazione e lì si ritrovavano commercianti e produttori per discutere di affari. Poco più in là, verso corso Vittorio Emanuele e piazza del Duomo, s’erano accese le luminarie di Natale. Le strade erano affollate. Lo scoppio si sentì anche lontano. Alla Statale gli studenti del movimento erano riuniti in assemblea. Qualcuno cercò di sapere che cosa fosse mai successo. Tornò in aula e riferì. Mario Capanna, il leader, invitò tutti a lasciare l’università e a tornare a casa in piccoli gruppi, senza dar nell’occhio: temeva provocazioni fasciste. Lo scoppio lo avvertì anche Ugo Paolillo, il pubblico ministero di turno. Paolillo avrebbe iniziato con scrupolo l’indagine, che però gli venne sottratta e subito trasferita a Roma, nonostante il giudice naturale fosse quello di Milano. Paolillo s’era avviato da casa in via Corridoni verso il Palazzo di giustizia. Arrivando, trovò una macchina pronta a condurlo in piazza Fontana. Là c’era già il sottufficiale di pubblica sicurezza Michele Priore. Viaggiava sull’autobus N, che faceva fermata pochi metri in là rispetto all’ingresso della banca. L’autobus dovette fermarsi, lui scese e si precipitò nel salone devastato. «Ai primi accorsi l’interno della banca offriva un raccapricciante spettacolo: sul pavimento, che recava al centro un grande squarcio, giacevano, tra calcinacci e resti di suppellettili, vari corpi senza vita ed orrendamente mutilati, mentre persone sanguinanti urlavano il loro terrore…»: così sta scritto nella sentenza di primo grado, la sentenza di Catanzaro, il 23 febbraio 1979, quella che condannò all’ergastolo per strage i fascisti Freda e Ventura e Guido Giannettini, il giornalista che era diventato con il nome in codice “Zeta” un agente del Sid, il servizio italiano di spionaggio. Il giorno dopo sarà il giorno dello sgomento, della paura, delle domande. Il telegiornale ne raccolse qualcuna tra la gente, al microfono di Romano Battaglia. La telecamera percorse i corridoi e gli stanzoni degli ospedali soffermandosi sul viso dolce di un bimbo: Enrico Pizzamiglio, tredici anni, che perse una gamba. Alla fine i morti furono diciassette: quattordici subito, altri due in ospedale, un altro morto si aggiunse un anno dopo, per le conseguenze delle ferite. Passati quarant’anni, anche lo Stato italiano riconobbe la diciottesima vittima: Giuseppe Pinelli, che tre giorni dopo la strage volò dalla finestra della Questura. «Morte accidentale di un anarchico», scrisse Dario Fo. Il telegiornale comunicò: «Giuseppe Pinelli stanotte veniva interrogato in una stanza al quarto piano della Questura. Durante una breve sosta dell’interrogatorio si è gettato nel vuoto da una finestra rimasta socchiusa, nonostante il tentativo di trattenerlo da parte del personale di polizia presente in quel momento… è caduto in questa aiuola…». La telecamera inquadrò il selciato e alcune pianticelle spezzate.

Tra le immagini degli archivi Rai anche quelle (mai andate in onda) della prima conferenza stampa di Marcello Guida, il questore che era stato durante il fascismo direttore delle guardie a Ventotene, l’isola degli antifascisti al confino. Sullo sfondo il quadro di un paesaggio invernale. Guida, panciuto con i capelli impomatati, come due funzionati che gli stavano accanto, assicurò i giornalisti che le indagini sarebbero state condotte nel migliore dei modi. Sorrideva sempre, come i due colleghi, come avesse dovuto raccontare una favoletta. La seconda conferenza stampa, indimenticabile, Guida la tenne la notte dopo la morte di Pinelli, davanti a cinque giornalisti (tra i quali la nostra Renata Bottarelli), con toni da aperitivo in salotto, fino alle tre del mattino. In sostanza, come racconta Corrado Stajano, altro testimone, disse di Pinelli: «Aveva gli alibi caduti. Un funzionario gli aveva rivolto contestazioni e lui era sbiancato in volto». «Un pezzo da antologia – scrisse Ibio Paolucci nel suo libro Il processo infame – per chi voglia insegnare a distinguere, in un resoconto ufficiale, le menzogne più sfacciate dalla verità…». La strada era stata però aperta dal ministro Restivo, in un telegramma alle polizie europee: non abbiamo nulla in mano, «ma dirigiamo le nostre supposizioni verso i circoli anarchici». Così toccò pure a Pietro Valpreda, proprio il 15 dicembre, riconosciuto come l’uomo della valigetta dal tassista Cornelio Rolandi, «che abita a Corsico”, Il giorno dopo Valpreda sarebbe diventato il “mostro”. Lo annunciò Bruno Vespa: «Pietro Valpreda è un colpevole…». Valpreda divenne il mostro sulle prime pagine di quasi tutti i giornali. L’Unità fu più prudente: «Ancora una fitta rete di misteri». Qualcuno si spinse in là: «Sono stati i comunisti». Un salto logico, ideologico, stupefacente. Non bastavano gli anarchici. Tutto quel venerdì 15 dicembre, anche i funerali in Duomo, con il cardinale Giovanni Colombo e il presidente del Consiglio Mariano Rumor, tanta gente, trecentomila persone e le sedici bare allineate, tanta gente e sopra la nebbia… In piazza era già stato alzato l’albero di Natale. Da quel giorno per quarant’anni, e non è ancora finita, davanti a giudici e tribunali sono sfilati i personaggi più diversi e insospettabili: esaltati manovali del crimine, generali e colonnelli, da Miceli a Maletti, capi del Sid, al capitano Labruna, che aveva favorito la fuga di Giannettini, e tanti ministri, da Andreotti a Rumor a Mario Tanassi. Valpreda fu del tutto discolpato. Per Pinelli non vi fu mai incrimazione. Si capì che la bomba avrebbe dovuto seminare il panico nel paese e provocare tensioni, scontri, violenze, giustificando l’intervento repressivo. Entrò in ballo anche la Cia. Il modello era la Grecia. Si capì che lo Stato occultava, copriva, tollerava, aiutava e si giunse però a una verità storica: che l’officina delle bombe era di estrema destra, la destra dei fascisti di Ordine nuovo, quello fondato da Pino Rauti.

http://www.unita.it/news/italia/92577/una_bomba_per_fermare_la_storia_col_sangue

Io so (Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera, 14 nov. 1974)

IO SO… di Pier Paolo Pasolini (Corriere della Sera, 14 novembre 1974)

Io so.

Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).

Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.

Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.

Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.

Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).

Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.

Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.

Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.

Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.

Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile. Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio.

Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974. Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.

A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale. Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi.

Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi. Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.

All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici. Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.

Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano. È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.

Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro. Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.

La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività. Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.

Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere. Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato – puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore. Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono – a differenza di quanto farebbe un intellettuale – verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.

L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento. Lo so bene che non è il caso – in questo particolare momento della storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che – quando può e come può – l’impotente intellettuale è tenuto a servire.

Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana. E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.

Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico – non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.

Probabilmente – se il potere americano lo consentirà – magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon – questi nomi prima o poi saranno detti.

Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.