Musei in Europa. Il ‘900 a Reggio: chi l’ha visto?

Fino a un paio d’anni fa era la Germania a stupirmi ogni volta, bastava tornarci un anno dopo l’altro ed ecco nuovi luoghi di memoria, musei, centri di documentazione. Tornavi a Reggio e tutto era l’avevi lasciato 3, 5, 10 anni prima. Ora anche la Polonia sta seguendo la stessa strada, nel giro di cinque anni ecco due nuovi musei a Cracovia (ma mi dicono che anche Danziva, Varsavia e altre città siano sulla stessa linea).

Poi torno a Reggio e mi avvilisco. Ma torniamo a Cracovia e a come si può lavorare sulla memoria.

Chair_Square.jpgGià da qualche anno è stata inaugurata una installazione nella piazza del Ghetto di Podgorze, quella piazza che in “Schindler’s list” ospitava le fila degli ebrei costretti a registrarsi presso lo Judenrat e dove avvenivano le selezioni per Auschwitz. 68.000 erano gli ebrei di Cracovia nel 1939. Scomparsi, pochissimi i salvati nella marea dei sommersi. In quella piazza 68 grandi sedie metalliche a ricordare quegli scomparsi. Semplice, efficace. Luogo di memoria salvato e parlante.

Nel quartiere ebraico di Kazimierz è attivo da pochi anni il Galician Jewish Museum (vi faccio grazie del nome in polacco) per ricordare la scomparsa presenza ebraica in quella regione. Ricavato dentro una preesistente struttura industriale (http://www.en.galiciajewishmuseum.org/).

GJM.jpgOspita mostre temporanee, come quella di questo periodo sull’emigrazione in Palestina di ebrei polacchi negli anni venti oltre che la mostra permanente sulle tracce degli ebrei in Galizia. Una struttura già industriale recuperata nel centro storico della città. Nel 2011 il Museo ha avuto oltre 30.000 visitatori paganti.

Per restare al recupero di strutture industriali veniamo al Museo Storico di Cracovia nella sua sezione collocata nella recuperata “Fabryka Emalia Oskara Schindlera”, sì, proprio la fabbrica di Oskar Schindler. La prima volta riuscii a sbirciare, allungando 5 euro al custode, perchè mi facesse entrare dal vecchio cancello. Era il 2005.

_MG_8654.jpgLa fabbrica aveva funzionato fino a un paio di anni prima ma ormai era tutto in abbandono. Nel giugno 2010 è stata inaugurata, non solo la parte dedicata alla vita a Cracovia nel periodo dell’occupazione nazista (1939-1945), ospitata nella parte degli uffici ma anche una nuova galleria di Arte Contemporanea che occupa parte degli spazi industriali. Il Museo fa parte dei Musei di Cracovia, qui è allestita una mostra multimediale permanente di grande impatto e coinvolgimento che fa ripercorrere con immagini, suoni, sensazioni tattili e olfattive la vita (e la morte) del periodo bellico. http://mhk.pl/oddzialy/fabryka_schindlera

Ho detto che torno a Reggio e mi avvilisco. Mi avvilisco perchè mi devo confrontare con una realtà drammaticamente diversa dove, da parte della nostra Amministrazione Comunale, (di una città Medaglia d’oro al v.m. per la sua partecipazione alla Resistenza) non c’è nessuna sensibilità sui temi legati alla memoria. Non solo nella promozione di attività rivolte ai giovani (il Comune NON ha partecipato nè sostenuto in alcun modo il Viaggio della Memoria 2012) ma anche nella progettazione di luoghi di memoria. In questi anni sono stati distrutti segni importanti del nostro passato e non esiste alcuna progettualità futura. Da anni Istoreco propone il progetto “La memoria della città” senza nessun riscontro. A Reggio il ‘900 sembra non essere esistito. Non esiste un luogo, un Museo, una stanza, dove le migliaia di ospiti che visitano la nostra città interessati alla nostra vicenda storica possano trovare notizie, informazioni, suggestioni. Nulla. E nulla sarà anche nel futuro più o meno prosssimo. Luoghi come l’ex Carcere di S.Tommaso o il Poligono di tiro sono destinati a un lento declino, sempre preferibile del resto a una loro “valorizzazione” urbanistica.

Le “Reggiane” sono divenute una ghost factory, si discute, si tratta, ma non esiste nessuna idea su come inserire in quel luogo storico uno spazio dedicato alla storia della città dl ‘900. Non è una priorità. Del resto cosa è stata Reggio nel ‘900? Robetta: Prampolini, la cooperazione, Dossetti, Jotti, Ruini, i migliori aerei del mondo, la Resistenza, la meccanica, l’agroalimentare, il 7 luglio, fino a Prodi e Ruini (il card.). Robetta. Che bisogno c’è di ricordare questa roba vecchia e polverosa? Noi siamo nuovi e moderni, noi siamo “avanti”…

In compenso finalmente si discute sul nuovo mirabolante Museo. Ho già abbozzato qualche opinione. In questo momento voglio sottolineare solo un particolare: si dovesse anche realizzare il fantaprogetto di Rota (e Dio non voglia), comunque i reggiani avrebbero speso alcuni milioni di euro per avere sì umanoidi pecorini e gambe nuotanti, funghi luccicanti e tappeti ricamati, ma non avranno comunque nulla sulla nostra storia e memoria del secolo scorso. Nulla. Il ‘900 ancora come grande assente.

Ecco perchè mi avvilisco, nel constatare la sordità di una classe dirigente che, fino a prova contraria, tutti noi abbiamo eletto e che, mi rendo conto con tristezza, ci rappresenta ogni giorno un po’ di meno.

 

Europa centrale e miserie di casa nostra

In questi anni la discussione pubblica a Reggio e in Italia si è spesso incentrata sulla violenza partigiana sia nel corso della Resistenza che nelle fasi finali del conflitto. Una discussione che non ha mai sfiorato un livello minimo di fondatezza e di decenza morale, prima ancora che storica. Discussioni in cui lo storico sta(va) alla finestra, un po’ triste e sgomento, ad osservare lo svolgersi degli eventi che, pur se incentrati su avvenimenti del passato, avevano ben poco a che fare con la storiografia. Così, per restare alle nostre terre, abbiamo visto avviarsi un marketing territoriale della “violenza dei rossi” con un mini parco tematico sulle colline di Trinità, un’indecente presenza annuale di fascisti a Fabbrico, croci piantate a Ventoso e altre tristi vicende. Vari esponenti del nostro post-fascismo locale si sono spartiti ognuno un “caso” (uno alle foibe, uno a Scandiano, uno a Vetto, uno a Cernaieto), a tener vivo, indipendentemente dalla vicenda storica, una fiammella tricolore di anacronistico risentimento e rivendicazione dell’impossibile. A ciascuno il suo.

Dopo essermi confrontato volenterosamente per anni su questi tempi credo sia opportuno e corretto il documento proposto dall’Anpi alle amministrazioni locali sulla necessità di non concedere spazi pubblici a chi non si riconosca nei valori della Costituzione. Spero che questo possa essere di aiuto anche a quegli amministratori incerti fra quieto vivere e opportunismo che in questi anni hanno concesso, in nome della solita “pacificazione” opportunità ai neofascisti di ripetere le loro tristi litanie.

Certamente il tema della violenza è un tema centrale quando si vuole parlare di una guerra, anzi, è IL tema. Ne sono ben coscio, visto che la mia attività di ricerca gravita da vent’anni proprio su questo problema. Ma l’unica strada da percorrere è quella della ricerca storiografica, dell’analisi e del confronto. Proprio dal confronto, dalla contestualizzazione degli eventi all’interno della situazione che li hanno prodotti ci consente di delineare un quadro di riferimento, di rendere la complessità delle situazioni, proporre letture fondate che aiutino non a giustificare ma a capire.

Jew_GJM.jpgIl confronto, soprattutto, può aprirci lo sguardo ad una prospettiva reale, quella di una guerra mondiale che in Europa ebbe i tratti della massima ferocia. Uscire dall’autoreferenzialità, dall’assolutizzazione delle nostre vicende. Nei giorni scorsi a Cracovia ho visitato un nuovo Museo, il Galician Jewish Museum, inaugurato nel quartiere ebraico di Kazimierz nel 2010. E’ incentrato sulla secolare presenza ebraica in Galizia, cancellata dallo sterminio nazista. Solo a Cracovia vivevano 68.000 ebrei nel 1939 (in una città di 250.000 ab.). Oggi superano di poco le 100 unità (la città oggi supera gli 800.000 ab.). Scomparsi. Cancellati.

Noi abbiamo avuto la sorte di avere la guerra in casa per 20 mesi, là la guerra ha colpito per cinque anni e mezzo. Noi abbiamo avuto un Montesole, un S.Anna di Stazzema. Là le stragi come Montesole sono centinaia. La regione è boschiva, collinare. Cammini per un sentiero, vedi un cippo: qui sono stati fucilati 450 ebrei. Un boschetto di betulle: una pietra quasi nascosta ti ricorda che lì furono massacrati 342 bambini. Prima di Birkenau, quando la morte era ancora un procedimento artigianale.

Percorrendo l’Europa centro-orientale si è colpiti dalla dimensione della tragedia, i numeri perdono senso, le nostre decine, centinaia di vittime che ci sono costate tanto dolore qui diventano migliaia, centinaia di migliaia, milioni. Abbiamo appaltato a Reggio la celebrazione del Giorno del ricordo ai neofascisti. A coloro-ricordiamolo-che innescarono e fecero deflagrare la questione dei nostri confini orientali. Gli ultimi che potrebbero avere la voce, almeno per decenza, a commemorare quei caduti, quei profughi. Commiseriamo i 300.000 italiani costretti a lasciare l’Istria e Dalmazia fra il 1945 e il 1947 e ci dimentichiamo che furono 11 milioni le persone costrette a fuggire nel 1945 al termine del conflitto, lasciando la loro casa in poche ore.

Costruiamo lapidi per ricordare 24 militari fascisti fucilati nel corso della guerra e dimentichiamo che a Katyn e dintorni i sovietici massacrarono 22.000 militari polacchi. Nell’orrido vespaio di “Porta a Porta” abbiamo compianto gli uccisi nei boschi sloveni dai partigiani jugoslavi dimenticando che si trattava di ustascia, domobranci, cetnici, il peggio del peggio della feroce guerra nel Balcani. Consegnatisi agli inglesi e da questi riconsegnati a Tito.

Girare per l’Europa nord-orientale consente di capire fino in fondo la complessità della tragedia europea. La rivolta di Varsavia dell’agosto 1944: i sovietici sono a pochi chilometri, la città insorge per affrettare la liberazione. Ma la Resistenza è quella sbagliata (per i sovietici), sono in gran parte polacchi fedeli al governo in esilio a Londra. L’Armata Rossa assiste al massacro compiuto dai nazisti. Impedisce addirittura che gli inglesi riforniscano di armi gli insorti. Lasciano che i nazi facciano il lavoro per loro: hanno già sterminato parte della classe dirigente polacca a Katyn nel 1940 il resto si svolge lì. Non vogliono polacchi liberi per la Polonia comunista. L’avanzata riprende a cose fatte.

Complessità, alzare gli occhi e confrontarsi con la difficile memoria europea che è la nostra memoria, ma è una memoria diversa e divisa, anche sulle parole. Per noi antifascismo è un valore di libertà, per un polacco, un ceco o un ungherese antifascismo era l’ideologia di una dittatura che si è dissolta solo nel 1989. Eppure “Noi siamo lì” (questa era la frase centrale del Viaggio della memoria di quest’anno) piantati in questa storia con la quale fare i conti se vogliamo andare avanti.

Lasciando i mercatini neofascisti al loro ruolo, di tristi venditori di cianfrusaglie ideologiche inutili e dannose.

Fuori e dentro Auschwitz

Sono stato una settimana a Cracovia per l’edizione 2012 dei Viaggi della Memoria. 900 studenti in tre viaggi, 18 pullman. Un progetto cresciuto anno dopo anno e che coinvolge tutte le scuole superiori della Provincia (o quasi, quest’anno mancava l’Ariosto/Spallanzani). Per far toccare ai ragazzi i luoghi del ‘900, i luoghi dell’orrore ma anche quelli della speranza e della rivolta. Come ad Auschwitz e Birkenau, il buco nero dell’umanità, ma anche il luogo dobe un sacerdote (Padre Kolbe) impose lo scambio di una vita al nemico, offrendosi alle celle del Block 11 e alla morte di fame. O la rivolta dei Sonderkommando dell’ottobre 1944: caddero quasi tutti ma fecero esplodere il Crematorio n.4 rallentando l’ultima corsa verso lo sterminio totale. Davanti a quel crematorio distrutto si sono conclusi i tre Viaggi, lasciando liberi i ragazzi di parlare, di dare il via ai loro sentimenti. Ad ascoltarli altri ragazzi e le betulle che hanno visto i roghi dei cadaveri dell’estate 1944 e le fila di donne e bambini nudi in attesa di entrare nelle camere a gas.

Birkenau_290212.jpgEra la quarta volta che ero a Birkenau e ancora ho rinnovato il mio piccolo rito di omaggio e di saluto, leggo il Kaddish (la preghiera dei morti, non sono ebreo ma credo che Jahvè non si offenderà) e divido con altri il pane secco del primo giorno a Cracovia. Dividere il pane a Birkenau ha un senso profondo di condivisione, era la cosa più preziosa, insieme alle scarpe. Ci si addormentava con le scarpe e il pezzetto di pane sotto il cuscino, pronti a difenderlo se qualcuno, nella notte, avesse provato a rubarlo. Noi il pane lo buttiamo, allora era la differenza fra la vita e la morte. Riacquistare il senso delle cose.

Certo la cosa più difficile da gestire è l’emozione, soprattutto per chi entra nel campo la prima volta. Il campo di sterminio più grande, tanto da poter contenere tutto il centro storico di Reggio, e già erano pronti i piani per il suo raddoppio, per Birkenau 1946. Ma la testa, la lucidità, devono restare svegli. Non c’era nulla di casuale in quella macchina di morte, tutto era pianificato, la migliore tecnologia dell’epoca al servizio della “soluzione finale”. I prodotti chimici più adatti, i forni crematori di ultima generazione, un’amministrazione precisa e puntuale che già utilizzava le prime schede perforate dell’IBM. Era un problema tecnico eliminare tot pezzi al giorno, e la tecnica aiutava.

Zdenka.jpgZdenka aveva 25 anni, non so nulla di lei. Entrata, fotografata, vestita, numerata. Morta. Ha resistito 33 giorni ad Auschwitz 1. Esaurito un pezzo, avanti un altro.

Da Auschwitz non si esce mai, anche chi è sopravissuto è rimasto dentro quell’incubo fino alla morte o al suicidio. Marian Kolodzej aveva 19 anni quando è entrato, ne è uscito dopo cinque anni  nel 1945. Si è salvato perchè era giovane, perchè ha avuto fortuna, perchè sapeva disegnare. Ha vissuto la sua vita, dopo, è diventato un famoso scenografo nella Polonia comunista. Poi a 65 anni un ictus lo paralizza su un lato, la rieducazione lo spinge a disegnare, la mano aiutata dalla moglie. Inizia a disegnare, e non si ferma più. Fino al 2003 produce ogni giorno tavole grafiche in biancoe  nero.

ko.jpgMigliaia di tavole che poi monta in un ciclo collocato nella cripta della Chiesa di S.Francesco a Hermese, tre chilometri da Birkenau. Da Auschwitz non si esce mai, lui lo ha fatto dopo 40 anni di silenzio con la sua arte.

p.s. A Cracovia o visto anche dei Musei. Perchè quando sono all’estero e vedo dei nuovi Musei e penso a Reggio devo vergognarmi? E questa volta ancora di più. Ma, come si dice, questa è un’altra storia….

Lectio magistralis arch. Italo Rota

sextans_04.jpgPer chi vuole sapere qualcosa in più sul progetto del nostro Museo (in particolare da 00:34:00 in poi) il video da cui è stato tratto l’articolo di ieri del Carlino:
 
 
e per ridere (ma non troppo):
 
 
Logicamente ogni riferimento è puramente causale…

“Palazzo anonimo in una città anonima: l’oggetto chiave? Una balena asfaltata”

Reggio Emilia, 23 febbraio 2012 – «Sono intervenuto in un palazzo anonimo in una città anonima». «Reggio Emilia è una città in cui ci sono più maiali e mucche che umani». Due passaggi, scissi dal proprio contesto, di una conferenza nella quale Italo Rota illustra ad una indefinita platea il suo progetto dei Musei Civici di Reggio insieme a un altro suo intervento sul lungomare di Palermo. Il tutto è liberamente consultabile online e si trova in calce ad una intervista realizzata a Rota il 6 luglio 2010. L’architetto, pur contattato, non si è reso disponibile.

«È un progetto di un museo estremamente sofisticato — dichiara l’architetto —, una collezione scientifica perversa. Molti mostri, molti gemini, storie di ogni genere». Ci sono «veri e propri capolavori dell’arte oceanica e africana confrontati con un raccolta di pittura locale di croste. Un tema straordinario: ci sono tre sculture dell’Isola di Pasqua, capolavori assoluti che non ha nemmeno il British Museum, ma i quadri… delle croste».
La fauna reggiana. «L’altro tema era il rapporto di queste collezioni con l’ambiente. Penso che oggi tutte le cose che stiamo facendo debbano porre un tema fondamentale: come noi ci arricchiamo per sottoscrivere il nuovo contratto con la natura. Ovviamente Reggio Emilia sta nella pianura, circondata da un ambiente quasi anonimo, quasi in assenza di animali, però i più grandi numeri di abitanti sono i maiali e le mucche, in numero superiore agli umani. Un fatto abbastanza raro». 
Rota, il collega Calatrava e il tunisino. «Abbiamo però un elemento di contemporaneità straordinario. I tre grandi ponti di Calatrava che hanno posto un grosso problema alla cittadinanza ma hanno dato una consapevolezza identitaria. Senza pezzi contemporanei di grande qualità non scattano i nuovi processi identitari. Non possiamo vendere a un tunisino il nostro passato. Possiamo solo condividere con lui presente e futuro». Nel corso della conferenza, utile anche perché Rota descrive con precisione il futuro allestimento delle sale, l’architetto si sofferma anche sulla Balena Valentina. «Abbiamo alcuni oggetti feticci, il primo è una grande balena, del 1600. Il materiale per conservarla era l’asfalto, e quindi l’ingresso e tutto un piano è realizzato in asfalto. Ma l’oggetto chiave è la balena. Asfaltata».

Il processo decisionale: «Come avviene che un Comune decide di fare questo? Con una procedura democratica. Se questa cosa interessa si fa. Come avviene? Chiamano uno come me che fa un concept, prepara dei documenti comunicabili per le persone e si fanno tante riunioni nei quartieri dove si discute questa cosa. La cosa interessante è che alla gente interessa». Il video della conferenza è utilissimo per comprendere la visione retrostante la futura sistemazione dei Musei Civici. «Il massimo che possiamo sperare in un museo — afferma Rota — è che una volta che ci mostra la collezione in un certo modo faccia scattare nel visitatore un processo di conoscenza» in base al quale «vedrà tutto quello che ha visto prima in modo molto diverso».

http://www.ilrestodelcarlino.it/reggio_emilia/cronaca/2012/02/23/671709-reggio-emilia-museo.shtml

Una sera Ettore Petrolini stava recitando in teatro. Dal loggione partì un fischio. L’attore si interruppe, andò in proscenio e poi rivolto al pubblico del loggione stesso: “Non ce l’ho con te che mi fischi, ce l’ho con quello che ti sta di fianco che non ti butta di sotto!”.

Ecco, io non mi arrabbio per le cose dette dall’arch. Rota, nota archistar, (voglio anche pensare che il giornalista non sia stato del tutto fedele a quanto detto dall’illustre professionista) mi arrabbio non tanto con chi l’ha chiamato a Reggio dietro ricco compenso, ma con quelli che non hanno spiegato all’inclito cos’è Reggio, a quelli che non l’hanno preso per la manina e l’hanno portato in giro in una città che di anonimo non ha nulla. Una città e un territorio che ha una sua storia, una sua memoria, una sua identità ben precisa e riconosciuta in tutto il mondo. Avrebbe scoperto, ad esempio, che la prevalenza di animali (maiali e mucche) sugli umani non è un “fatto abbastanza raro” ma è una delle radici della nostra ricchezza (si chiama settore agroalimentare). Fosse stato magari davvero nei “quartieri” qualcuno glielo avrebbe potuto spiegare.

Quei signori non l’hanno fatto non per cattiveria, ma per banale ignoranza e relativa arroganza. Perchè non solo non ne sanno nulla, ma saperlo non interessa loro neppure una briciola del loro tempo che dedicano a meravigliose e spettacolari imprese (fallite). Non mi interessa (per ora) se il progetto che l’archistar ha partorito e che è stato contestato da un gruppo di intellettuali reggiani sia buono o no, certamente è un’occasione perduta. Una città che non ha un luogo di memoria sul novecento, che non sente (nella sua classe dirigente) la necessità di averlo è un problema politico prima che culturale. Avere la collaborazione di un professionista di fama come Rota poteva essere l’inizio di un percorso interessante e produttivo, bastava avere delle idee, proprie e/o raccolte in città e metterle in relazione con l’archistar. Invece, con una tipica operazione provinciale, di fronte al vuoto progettuale (basti leggere la relazione Farioli sull’ultimo numero di “Taccuini d’arte”) si è scelto di chiamare l’archistar che, novello demiurgo, risolvesse il problema-reale-di come ridiscutere e riprogettare il nostro Museo, e, in qualche modo, risolvesse lui le questioni con un colpo di “genio”.

Reggio ha un disperato bisogno di luoghi di memoria proprio perchè attraversa una fase di grande espansione simboleggiata dai ponti di Calatrava. Ma come spiegare ai reggiani stessi, prima che a quanti a Reggio vengono/passano, il senso di un percorso storico, civile e sociale che ha in quegli archi un punto di arrivo se proprio il secolo decisivo, il ‘900 viene bellamente ignorato? Matilde, il Tricolore, tutto bello, ma l’identità reggiana in sè e nel mondo si è formata nel secolo scorso e su questo non esiste nulla se non la narrazione orale, ostinata e ripetuta di quanti credono sia indispensabile ragionare proprio sul secolo scorso. Certo la gran Contessa e l’epopea tricolore sono miti facili, semplici e rassicuranti, ragionare sul novecento è problematico ma assolutamente più stimolante e produttivo per il nostro futuro.

Abbiamo luoghi storici originali e sopravissuti, come le Reggiane, il carcere di S.Tommaso, il Poligono di tiro che sono destinati al degrado defintivo o, peggio, alla “valorizzazione” edilizia. Ma per nessuno dei nostri amministratori (che pure avremmo eletto a rappresentarci) rappresentano non solo una priorità ma neppure un valore. Preferiscono investire cifre cospicue o in eventi o in progetti che non affrontano i veri nodi del dibattito culturale. E’ anche questo un segno, non secondario, della crisi delle classi dirigenti, sempre più distaccate dai bisogni e dal sentire dei cittadini, autoreferenziali e autoriproducentesi, in assoluta rottura con la tradizione di un forte legame fra eletti ed elettori che ha costruito il senso della nostra cittadinanza negli ultimi 60 anni.

Non si tratta di essere conservatori, di rifiutare il “nuovo”, semplicemente si vuole valutare quanto quel “nuovo” risponda al bisogno di senso storico e di memoria che ancora manca alla nostra città. Il desiderio di innovazione è forte ma deve essere un vera innovazione e non la scimmiottatura di format già predisposti a scaffale dall’esperto di turno.

Ma in fondo cosa si può pretendere da una città “anonima”?

Caselli buono o cattivo? Dalla parte della legalità. (M.Travaglio)

logo-big-beta.gifFacciamo finta, per un momento, di non conoscere Gian Carlo Caselli. Di non sapere che vive sotto scorta da 40 anni, prima per le sue indagini a Torino sulle Br e poi a Palermo sulla mafia. Di ignorare che ha fatto processare uomini potentissimi come Andreotti, Contrada, Dell’Utri e che l’altro giorno era in prima fila al processo Eternit in veste di procuratore capo. Di non avere la più pallida idea di come la pensa sulla Costituzione, sulla legge uguale per tutti, sui diritti dei più deboli. Anzi, chiamiamolo Pippo.

Mesi fa il procuratore Pippo riceve dalle forze dell’ordine una chilometrica denuncia contro 42 attivisti e infiltrati No Tav per svariati episodi di violenza, veri e presunti, che hanno portato al ferimento di 211 agenti. Siccome la Procura non è la fotocopiatrice delle forze dell’ordine, esamina la denuncia vagliando caso per caso. E si convince che solo 25 di quelle persone vadano arrestate per evitare che ripetano il reato, o inquinino le prove, o si diano alla fuga, in presenza dei “gravi indizi di colpevolezza” richiesti dalla legge. Il gip condivide e la polizia giudiziaria esegue le misure.

I destinatari fanno ricorso al Riesame, che analizza caso per caso e, per alcuni, le conferma, per altri le revoca, per altri le attenua (oggi in carcere ne restano 9). Contro il Riesame c’è ancora il ricorso in Cassazione: su ogni singola misura cautelare, si pronunceranno una decina di magistrati di sedi e funzioni diverse. Si può criticare il loro operato? Certo. Si valutano a uno a uno i loro provvedimenti, si confrontano con le prove e si esprime un’opinione. Noi abbiamo criticato il rinvio a giudizio di Genchi e De Magistris per Why Not. Ma non ci siamo mai sognati di teorizzare una congiura ai loro danni.

Oggi contestiamo la sentenza del Tribunale di Torino che ha condannato la Rai e Formigli a risarcire la Fiat con la cifra spropositata di 7 milioni (5 solo per “danno morale”, cioè per il dispiacere subìto) per un servizio di 50 secondi in cui si affermava che un’auto Fiat va un po’ più lenta di altre due. Mai ci sogneremmo di dire che c’è una congiura giudiziaria per “criminalizzare il giornalismo”. Invece questo sta capitando a Pippo-Caselli: l’accusa assurda, indimostrata e indimostrabile di aver voluto, arrestando i 25, “criminalizzare il movimento No Tav”. Un movimento composto da decine di migliaia di persone che non farebbero male a una mosca, si dissociano persino da chi imbratta i muri nei cortei e hanno in tasca una sola arma: quella della ragione contro una “grande opera” irragionevole, inquinante, costosa, inutile, anzi dannosa (oggi pubblichiamo l’intervento di Mercalli con le ragioni di 250 tecnici che i “tecnici” di governo seguitano a ignorare).

Ma alcuni leader del pacifico movimento, anziché dissociarsi dai pochi violenti e ringraziare i giudici che li hanno isolati, preferiscono associarsi alla campagna contro Caselli e arrampicarsi in distinguo molto berlusconiani sul Caselli buono (quello che combatte le Br e la mafia) e il Caselli cattivo (quello che “arresta” i violenti No Tav). In realtà di Caselli ce n’è uno solo: quello che, davanti a una notizia di reato, procede come gli chiedono la Costituzione e il Codice penale senza guardare in faccia nessuno.

Il risultato di questa campagna, alimentata in certi siti e giornali addirittura da ex magistrati, è che Caselli non può più mettere il naso fuori di casa, nemmeno per presentare il suo libro: roba mai vista nemmeno negli anni plumbei della Torino anni 70 e della Palermo anni 90. Prendere le distanze dai violenti non significa dare ragione sempre e comunque alla magistratura, né tantomeno alle forze dell’ordine (quelle che a Milano fanno ritirare le bandiere tricolori per non provocare i leghisti, mentre vengono mandate da politici scriteriati a militarizzare la Valsusa provocando la popolazione). Significa restare, sempre, dalla parte della legalità. E combattere meglio la follia del Tav: cioè vincere una battaglia sacrosanta che, se passa l’equazione truffaldina “No Tav uguale violenti”, è perduta in partenza.

il Fatto quotidiano, 22 febbraio 2012

«E’ di un museo-spettacolo che ha bisogno la città?»

Con una lettera al sindaco Delrio, un nutrito gruppo di intellettuali s’interroga sui Civici Musei: è giusto investire cifre consistenti per un maquillage esteriore?

Una lettera aperta al sindaco Graziano Delrio per aprire una riflessione sul “nuovo” Museo di Palazzo San Francesco ma anche per interrogarsi su quale deve essere, oggi, la funzione dei Musei Civici a Reggio. A firmarla trenta intellettuali (docenti, critici d’arte, artisti) da Marco Belpoliti ad Alfredo Gianolio, da Ivan Levrini a Mauro Cremaschi.
«Dopo anni di annunci sporadici su giornali o televisioni locali – così inizia la lettera aperta indiririzzata al sindaco Graziano Delrio – in mancanza fino ad ora di una chiara e organica presentazione alla città, finalmente un articolo di Elisabetta Farioli, direttrice dei musei civici (“Taccuini d’arte”, 5), illustra pensiero e forme del progetto di Italo Rota per il “nuovo” Museo di Palazzo S. Francesco. Per la verità anche in questo caso non si entra tanto nel dettaglio, ma si coglie bene lo spirito dell’intervento. Il testo è inoltre corredato da immagini che descrivono l’aspetto di alcuni ambienti e che si possono integrare con i rendering presenti anche sul sito web dell’architetto (http://www.studioitalorota.it/pages-projects/museo_reggio_emilia.html).

Rota.jpgAlcuni di essi – come quello in cui una moquette (?) con giungla, scimpanzé ed elefantino corre lungo il corridoio in cui è disposta la collezione settecentesca di Lazzaro Spallanzani – sollevano dubbi circa le finalità, ma anche la sostanza, dei lavori previsti».
«Che obiettivi si propone il riallestimento di alcune sale, così come illustrato dalle immagini fino ad ora rese disponibili? – si chiedono i trenta firmatari -. Quale valore aggiunge al museo e quali costi comporta per la comunità (si parla di oltre 4 milioni di euro)? Quanto ci si è confrontati con i fruitori del museo, che dovrebbero essere gli interlocutori privilegiati di eventuali azioni di modernizzazione dello stesso? E ancora quando e quanto il progetto è stato condiviso con la cittadinanza? Tutti siamo d’accordo sul concetto di patrimonio storico-artistico e di museo come “eredità vivente” (citando l’articolo di Farioli), ma occorre poi vedere come concretamente vengono declinate idee pur condivisibili in astratto. Chi può non applaudire l’idea di un “approccio che parte dall’oggi, dai problemi della contemporaneità e intende leggere nelle testimonianze del passato possibili stimoli a una lettura del presente in vista di future possibili visioni del mondo” (Farioli)? Sono frasi ottime per qualsivoglia allestimento, che solo rinnovi un po’ le cose. Il punto è: in quale direzione?».
«Soluzioni come quella appena citata – prosegue la lettera – sono in realtà emergenze di una visione che l’architetto applica anche in altri ambienti, quella cioè di un museo-spettacolo. Idea ben comprensibile dove si stia progettando un museo nuovo, da applicare invece con cautela dove un’istituzione esiste già; un’istituzione storica, nata nell’Ottocento grazie all’impegno di più studiosi, alcuni dei quali di risonanza internazionale, come Gaetano Chierici. Alquanto fumosi risultano poi i benefici che dovrebbero derivare dal progetto Rota, laddove si legge che esso “tocca anche da vicino il tema dei confini, sempre più incerti, tra il ruolo dell’architetto e il ruolo del direttore o responsabile del museo, in una visione nuova in cui l’ambito della museografia e quello della museologia tendono a confondersi, o meglio a presupporsi a vicenda, in una sempre più avvertita esigenza della molteplicità di competenze necessarie alla vita di una moderna istituzione museale e del complesso quadro di relazioni che ne presiede la conduzione” (Farioli).

In realtà, nel dibattito museografico e museologico attuale – quello più serio ed aggiornato perlomeno – la preoccupazione cui Farioli si riferisce va di pari passo con l’individuazione e la distinzione, il più possibile chiare e rigorose, dei ruoli e delle competenze tra coloro che a vario titolo “fanno” il museo, tanto più se questo, come nel nostro caso, non viene creato ex novo, ma ha una lunga storia alle spalle. In altre parole: una cosa è aderire a concetti quali interdisciplinarietà, collegialità, reciprocità. Tutt’altra cosa è far passare l’idea, arbitraria e ingiustificata, che la sovrapposizione e addirittura la confusione tra competenze professionali diverse – fortunatamente diverse, aggiungiamo noi – siano il prezzo da pagare al rinnovamento del museo, anzi, alla sopravvivenza dell’idea stessa di museo».
«A queste considerazioni – e a questo punto si tocca inevitabilmente il tema dei tagli – si deve infine aggiungere una doverosa riflessione sull’attuale congiuntura economica. È più che giusto investire in cultura e quindi anche nel museo, ma, in un momento come questo in cui anche a Reggio Emilia si acuiscono i segni della crisi, ci chiediamo se sia opportuno investire cifre consistenti in operazioni che – anche al di là dei giudizi di valore – costituiscono una sorta di maquillage esteriore. Per farsi un’idea di quanto viene proposto, basterà soffermarsi con attenzione sul rendering che ritrae l’esterno del museo (visibile anche nei totem che illustrano gli interventi del Comune). Esso prevede un ingresso con giardino verticale (operazione già vista e con alti costi di manutenzione) e “alte strutture di acciaio specchiante che riflettono immagini tratte dai materiali dei musei”.

Va fatto notare che questi “funghi” verticali sono già stati realizzati nel 2007 da Rota nella sua sistemazione della chiesa di Sant’Elena a Palermo (http://mimoa.eu/projects/Italy/Palermo/Library%20Interior). Non ci sembra che il complesso di San Francesco e i civici musei meritino copia-incolla come questi. Ma anche ammesso che si tratti del modo migliore per prolungare nel presente la “vitalità eterna del passato” (Farioli), ci domandiamo se questo sia il momento giusto per farlo, riducendo i finanziamenti ad altri aspetti della vita culturale della città».
«La preghiamo allora, signor Sindaco – e così si conclude la corposa lettera – di prendere in considerazione le molte perplessità che il progetto suscita in chi è interessato a esso come cittadino, come semplice fruitore, come studioso, e di riconsiderare complessivamente le scelte compiute finora. La forma e il ruolo del museo civico vanno rinnovati, ma è di un museo-spettacolo che ha bisogno la città? O, piuttosto, di conoscere e comprendere la propria storia anche recente nel suo depositarsi nelle cose e nelle immagini? I musei reggiani oggi lasciano scoperto quasi per intero il secolo scorso. Non è forse ora di pensare a una sezione del museo capace di presentare un quadro organico del Novecento nella nostra città, nei personaggi, nella topografia, negli avvenimenti, nelle manifatture, nei mutamenti culturali?».

Gazzetta di Reggio, 20 febbraio 2012

Cari colleghi storici, meno lati oscuri (Sergio Luzzatto)

Bene ha fatto Filippo La Porta, sull’ultimo numero di questo supplemento domenicale, a sottolineare quanto sia criptica la “teoria critica” nostrana, lanciando un appello: Critici italiani, parlate chiaro! Ha fatto talmente bene che viene voglia di estendere il suo appello, oltre i confini della critica letteraria e filosofica, a un altro campo della nostra produzione saggistica: il campo della storia. Dove il problema dello «scrivere oscuro» (secondo i termini di una magnifica riflessione di Primo Levi) è tanto più grave in quanto non viene neppure riconosciuto per tale: dove la malattia dello scrivere oscuro è talmente diffusa da somigliare a un’inavvertita pandemia.
Ha ricordato La Porta la battuta di un grande storico del primo Novecento, Gaetano Salvemini, che, docente a Harvard, aveva interiorizzato lo scrivere chiaro degli anglosassoni e preso in uggia l’oscurità delle lettere italiane fino al punto di affermare che nulla sarebbe rimasto neppure della Scienza nuova di Vico, se soltanto la si fosse tradotta in inglese… Concedendo meno alla facezia, è da ricordare qui la battuta di un grande storico del secondo Novecento, Carlo Ginzburg, lui pure aduso all’accademia anglosassone. Il più internazionalmente noto degli storici italiani ha spiegato di sottoporsi quando scrive a un’autoverifica preventiva. Per ogni frase della sua prosa, Ginzburg si domanda se sarebbe in grado di redigerla anche in inglese e in francese. Se la risposta è positiva, procede nella scrittura in italiano. Se la risposta è negativa, preferisce lasciar perdere…
Battute a parte, il caso di Ginzburg vale a porre la questione del rapporto fra trasparenza e influenza: cioè della correlazione – almeno nel campo degli studi storici – fra una prosa letterariamente scorrevole e un profilo scientificamente autorevole. Vuoi vedere che, facendoti leggere, riesci persino a farti tradurre, e addirittura a farti riconoscere all’estero? La cosa è di particolare rilievo nell’ambito delle discipline umanistiche, per le quali (a differenza di quelle scientifiche) l’inglese non rappresenta necessariamente la lingua veicolare. Nelle humanities, il criterio della traduzione all’estero appare tendenzialmente probante. Se un editore americano o francese o tedesco o polacco o giapponese o brasiliano affronta il rischio economico di investire sulla traduzione di un saggio storico scritto in italiano, ci sono buone probabilità che quel saggio abbia un valore aggiunto per la ricerca internazionale. Se, viceversa, i libri di uno storico italiano restano confinati al Bel Paese dove il sì suona, ci sono buone probabilità che non meritino un destino migliore.
Naturalmente, come tutte le generalizzazioni, anche questa ammette eccezioni. In linea di massima, è ultrasensato supporre che i rari storici italiani tradotti all’estero valgano di più delle legioni di storici italiani la cui produzione non supera la barriera delle Alpi (a volte, in realtà, neppure la barriera degli Appennini). Ma sarebbe ultrasbagliato elevare la ragionevole supposizione sino a farne una legge universale. A fronte del caso di Carlo Ginzburg stanno numerosi controesempi di storici italiani che non hanno avuto mai o quasi mai l’onore di una traduzione, e che pure sono stati maestri della disciplina internazionalmente riconosciuti.
Limitiamoci a evocare quattro nomi e cognomi, fra i primi che vengono a mente come campioni della storiografia italiana nel Novecento: Delio Cantimori, Marino Berengo, Rosario Romeo, Renzo De Felice. È impressionante constatare come nessun libro dei primi tre autori sia mai stato tradotto né in inglese né in francese, e come gli studi di De Felice stesso siano stati tradotti poco e male. Il che, evidentemente, non ha impedito a Cantimori, Berengo, Romeo, De Felice, di influenzare in maniera decisiva il dibattito storiografico sulla storia moderna e contemporanea d’Italia: anche perché i cultori stranieri di tale storia – com’è ovvio – leggevano correntemente l’italiano.
Vale tuttavia la pena di chiedersi quanto il gusto accademico nostrano dello scrivere oscuro abbia contribuito (e contribuisca) ad alimentare un paradosso: il paradosso di una cultura storica italiana insieme felicemente cosmopolita e infelicemente provinciale. Felicemente cosmopolita, perché gli editori italiani traducono libri di storia con una generosità ben superiore a quella dei colleghi stranieri. Infelicemente provinciale, perché la storiografia italiana anche più meritevole, non circolando abbastanza all’estero, rimane spesso esclusa dal dibattito internazionale.
Anche qui saltano agli occhi esempi concreti, concretissimi. Come l’esempio del Risorgimento. È questo un campo in cui la storiografia italiana ha compiuto notevoli progressi nell’ultima dozzina d’anni, in particolare grazie agli studi di Alberto M. Banti. Ma fuori d’Italia, il tono del dibattito sul Risorgimento italiano continua a venire dettato da oltre Manica. Dopo Denis Mack Smith cinquant’anni fa, adesso sono Lucy Riall e Christopher Duggan che illustrano urbi et orbi la storia del nostro Risorgimento, senza che gli studiosi italiani riescano a farsi sentire se non quando pubblicano direttamente in inglese (il che pur càpita, per fortuna, complice la famosa fuga dei cervelli).
Dovremmo forse concludere – memori delle battute di Salvemini e di Ginzburg – che l’italiano è lingua non grata alla storia? No: dovremo concludere piuttosto che gli storici italiani restano gravemente malati, e pandemicamente malati, di scriveroscurite. «Chi parla male pensa male», protestava il Nanni Moretti di Palombella rossa. Primo Levi, lui, era stato anche più severo di così: «Chi non sa comunicare o comunica male, in un codice che è solo suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. Se comunica male deliberatamente, è un malvagio, o almeno una persona scortese, perché obbliga i suoi fruitori alla fatica, all’angoscia o alla noia».
Il Sole 24 Ore, 19.2.2012

Un paio di cose su Sanremo (Luca Sofri)

18232760_sanremo-tutto-il-festival-minuto-per-minuto-0.jpgLa prima serata di Sanremo ha fatto i record di ascolti, e mi permetto di dire che me l’ero immaginato. Ieri sera, vedendone pochi sprazzi e leggendo i feedback su Twitter, capivo sì che era uno spettacolo straordinariamente deprimente e imbarazzante, ma capivo anche che lo stavano guardando quasi tutti. E mi veniva da pensare, dei miei amici quelli con l’alibi “Sanremo fa così schifo che va visto”, e che ora twittavano che non ci potevano credere, a quanto faceva schifo; mi veniva da pensare: ma non guardiamo la tv praticamente mai, l’abbiamo abbandonata con soddisfazione a un pubblico poco esigente o senza possibilità di scelta, o disabituato a qualunque qualità, e poi quando la accendiamo ci meravigliamo che quel che troviamo sia di totale mediocrità? Che vi aspettavate, Sorkin? Nanni Moretti?

Questo è il disastro dei contenuti editoriali italiani, dall’informazione all’”intrattenimento”: tutti si sono dedicati per anni a battaglie politiche sull’”indipendenza”, sulla “libertà”, sul “pluralismo”, come se ci fossero i cattivi da una parte e i buoni sconfitti dall’altro.

Protestavamo contro l’eliminazione di Santoro e accettavamo le trasmissioni pomeridiane, Miss Italia e la povertà di Porta a porta. Protestavamo contro gli editoriali di Minzolini ma ci limitavamo a sorridere dei servizi sui cagnolini o i banchetti di natale al telegiornale. E intanto infatti il disastro vero era lo scadimento della qualità delle cose da ogni parte, compresa quella dei “buoni”, il fine che giustificava i mezzi, l’informazione fatta male da ogni parte e l’intrattenimento idem, con poche eccezioni.

Là fuori è pieno di combattivi difensori della democrazia e della libertà che fanno le cose male, con metodi e risultati pessimi e diseducazione di tutti. Con la straordinaria sanzione di ieri sera: quando i temi presunti della difesa della libertà, dell’indipendenza e della democrazia popolare sono diventati oggetto del peggiore prodotto di intrattenimento televisivo mai visto: scopa. Nel senso del gioco di carte. E noi tutti lì a guardare e dire che schifo.

http://www.wittgenstein.it/2012/02/15/un-paio-di-cose-su-sanremo/

 

Seminario ed emergenza freddo (d.E.Landini)

Libertà_don-Landini.jpg

Leggo sulla “Libertà” l’intervento di don Emilio Landini (“Seminario ed emergenza freddo”) e mi sovvengono due brevi osservazioni.

La prima: i tre quarti dell’articolo sono dedicati a considerazioni tecniche circa la inadeguatezza del Seminario di viale Timavo. Nato in altri tempi e costruito come segno tangibile di una rivendicazione politica forte, oggi è sovradimensionato nelle strutture ma, nel contempo, inadatto ad accogliere le necessità della chiesa locale. Considerazione tecniche tutte corrette, fondate sul buon senso, sulle vigenti norme edilizie e sulla constatazione della mancanza di risorse per interventi risolutivi. Manca soltanto la logica e necessaria conclusione che proporrebbe ogni saggio amministratore: la struttura è del tutto inadatta e va alienata. Una scelta che andava presa già in passato, magari-come fatto in altre diocesi-vincolando la cessione del bene ad un suo uso a favore della comunità (Università, etc..).

Capisco che per una generazione di sacerdoti e laici il Seminario rappresenti il simbolo di una stagione di duri scontri ideologici ma questo non dovrebbe trattenere dalla sua sollecita dismissione a favore della comunità.

La seconda: nelle considerazioni finali l’autore (figura auterevole della chiesa reggiana) si ispira ad un “crudo realismo”, ricordando come “vengono ridotti gli ambienti” dagli immigrati e clochard, rendendo così sconsigliabile un loro utilizzo a fini assistenziali. E qui non posso che concordare: i poveri sono sporchi, puzzano, sono maleducati e danneggiano le nostre belle parrocchie (sempre più deserte e meno vitali). Abbiamo avuto un parroco che ha rifiutato un presepe, oggetto di diffusa devozione, proprio perché sottraeva spazio alle sue “attività” parrocchiali (rivolte non certo a poveri ed immigrati), ed è ormai normale che le nostre parrocchie siano chiuse all’accoglienza per “motivi igienico-sanitari” mentre volenterosi parrocchiani di quelle stesse parrocchie siano impegnati al di fuori nel volontariato, con la Caritas e le altre organizzazioni confessionali e non a mettere in pratica quel Vangelo che nelle loro chiese non trovano più.

Ho inserito questo articolo non per polemica ma per testimoniare la sofferenza di un credente “affaticato” di fronte ad una gerarchia sempre più lontana dai problemi reali, specchio doloroso della crisi delle classi dirigenti che devasta questo paese da troppi anni.

“La Libertà”, 11.2.2012