Ciò che è accaduto non si può cambiare (R.Pupo)

 Intervento di Raoul Pupo al Quirinale in occasione del Giorno del Ricordo

L’odierna celebrazione cade ormai dopo sette anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo, e non sono anni passati invano. Abbiamo assistito ad eventi che solo poco tempo fa erano impensabili, come l’incontro a Trieste nel 2010 fra i presidenti di Italia, Slovenia e Croazia e quello del 2011 a Pola fra i presidenti di Italia e Croazia. Si è trattato di gesti a lungo attesi per  imprimere una svolta non solo alle relazioni fra stati, ma al rapporto dei tre popoli con il loro passato conflittuale. Ciò non modifica l’intento fondamentale della legge, che vuol segnare il riconoscimento pieno, da parte delle diverse componenti della comunità nazionale, dei sacrifici patiti dai giuliano-dalmati in nome dell’italianità, ma certamente apre prospettive nuove per le genti di frontiera e consente anche di guardare con maggior serenità alle vicende del secolo Ventesimo, accompagnando la memoria, per sua natura partecipe e dolente, con la storia, il cui sguardo è critico anche quand’è commosso.

Che cos’è dunque che oggi ricordiamo? Le vittime, certo, di quegli anni così terribili; i fatti di cui parla la legge istitutiva della giornata, alcuni chiamandoli per nome – come le foibe l’esodo – ed altri in maniera implicita. Ma al fondo, ciò che costituisce la sostanza del ricordo è un fenomeno che comprende vittime e fatti: è la parabola drammatica dell’italianità adriatica, vale a dire di quella forma della presenza italiana nell’Adriatico orientale che era cresciuta nel XIX secolo sulle fondamenta poderose della tradizione romana e veneziana e che si poneva  come massima aspirazione, anzi, come unico possibile orizzonte di vita, lo stato nazionale. Quel tipo di italianità si è mantenuto nel piccolo lembo di Venezia Giulia sul quale dopo il secondo conflitto mondiale ha continuato ad esercitarsi la sovranità dello stato italiano, mentre invece altrove si è estinto. Naturalmente, ciò non impedisce che ancor oggi nelle terre adriatiche vi siano altre forme di presenza italiana, costituite non solo dalle tracce illustri del passato, ma anche da comunità vive, se pur minuscole. Ma certo, un filo si è spezzato.

Se teniamo gli occhi bassi, quella che oggi vogliamo ricordare può sembrare solo una storia minore, che riguarda qualche centinaio di migliaia di persone vissute nel fondo di uno dei tanti golfi del Mediterraneo. Se invece abbiamo la capacità di levare lo sguardo ai contesti nei quali le vicende adriatiche si sono svolte, ed al cui interno soltanto queste trovano spiegazione, ci accorgiamo che quella piccola storia costituisce una sorta di laboratorio, in cui si trovano condensati su di una scala geograficamente circoscritta alcuni dei grandi processi della contemporaneità nell’Europa di mezzo: contrasti nazionali intrecciati a conflitti sociali, effetti devastanti della dissoluzione degli imperi plurinazionali, oppressione totalitaria, guerre di aggressione, scatenamento delle persecuzioni razziali e creazione dell’universo concentrazionario, violenze di massa, spostamenti forzati di popolazione, conflittualità est-ovest lungo una delle frontiere della guerra fredda.

All’interno di quella visione larga, noi vediamo subito che la parabola dell’italianità adriatica non si è svolta nel vuoto, ma si è intrecciata con un’altra traiettoria, quella dello slavismo. Le due identità si sono formate quasi simultaneamente e si sono definite in buona misura per differenza l’una dall’altra nel corso della seconda metà dell’Ottocento. Così, quella che prima era una società regionale di origini assai varie, caratterizzata da un notevole grado di plurilinguismo – anche se la lingua d’uso veneta risultava prevalente – si è divisa rapidamente lungo linee di frattura nazionali sempre meno permeabili. E’ un esempio classico di quei processi di nazionalizzazione di massa parallela e competitiva, che hanno caratterizzato la storia dell’Europa centrale fra la metà dell’Ottocento e quella del Novecento: una storia finita male, proprio in applicazione dei principi fondanti del nazionalismo, come l’intolleranza nei confronti dell’altro e la concezione perversa secondo la quale la terra che tutti ospita appartiene ad un solo popolo, mentre gli altri vengono considerati ospiti sgraditi, quando non invasori da cui liberarsi ad ogni costo, per via di assimilazione o di espulsione. Un dramma dunque, nel senso che non vi era altra soluzione prevista per il conflitto se non la crisi di una delle identità nazionali presenti nei territori plurali.

Ciò è accaduto anche nelle terre adriatiche e lungo questo percorso, un momento di svolta è costituito dalla prima guerra mondiale: alla sua conclusione infatti, la regione Giulia ha cessato di appartenere ad un impero pre-nazionale e multiculturale, per entrare a far parte di uno “stato per la nazione” – prima di quello degli italiani e poi di quello degli slavi del sud – cioè di una forma di stato creata da un’élite nazionale allo scopo di realizzare senza alcun limite tutte le potenzialità della nazione di appartenenza. Nei territori misti è cambiata quindi radicalmente la natura dei conflitti nazionali: se prima la competizione si concentrava sui poteri locali e lo stato cercava di mediare, in maniera più o meno equilibrata, fra le nazioni sorgenti, dopo la finis Austriae i gruppi nazionali vincitori potevano giocare tutta la forza del loro stato per sbaragliare la nazionalità avversa. In cima all’Adriatico la differenza si è vista subito, con l’avvio dei primi esodi incrociati:sloveni e croati dai territori assegnati all’Italia, italiani dalla Dalmazia assegnata alla Iugoslavia.

Anche altre parti d’Europa hanno vissuto dinamiche simili, che lungo le sponde adriatiche sono state inasprite dal succedersi di due regimi, quello fascista italiano e quello comunista jugoslavo, impegnati entrambi, se pur con diverse capacità e risultati, a realizzare le proprie ambizioni totalitarie. Per loro natura, i due regimi esprimevano forti cariche di violenza, che in parte si richiamavano, in parte rispondevano a logiche diverse: è naturale infatti che quanto accade prima condizioni quel che viene dopo, ma all’interno di una rete causale in cui agiscono soggetti e progetti autonomi. L’elemento decisivo è stato in ogni caso l’esperienza delle due guerre mondiali.

Il primo conflitto ha insegnato l’uso sistematico della violenza come strumento della lotta politica e in Italia – e quindi anche nella Venezia Giulia – il soggetto che nel dopoguerra ha imparato meglio la lezione, è stato il fascismo. Gli anni Venti e Trenta quindi sono stati la stagione dello squadrismo, con il suo portato di sopraffazioni, devastazioni e uccisioni, che poi si è trasformato in violenza repressiva dello stato ed ha generato la risposta terrorista. Si trattava del massimo di violenza concepibile in quel momento e in quel contesto, di più non ne serviva ed a nessuno poteva venire in mente.

Ben più tragiche, per proporzione e capacità distruttiva, sono state le dinamiche sprigionate dalla seconda guerra mondiale, che ha spostato  in maniera radicale i confini del pensabile. E’ stata guerra totale, in cui i civili sono diventati obiettivo specifico di operazioni belliche. Sul fronte orientale è stata fin dall’inizio guerra senza regole, divenuta ben presto guerra di sterminio. Qui dunque si è affermata una nuova logica, quella della strage, e sul quel fronte è stata coinvolta anche l’Italia dopo l’aggressione alla Jugoslavia e, soprattutto, dopo le occupazioni e le annessioni, che hanno scatenato l’inferno in quel Paese: guerra di liberazione, guerra civile, guerra rivoluzionaria, repressione da parte delle forze dell’Asse. L’esplosione cumulativa di violenza è stata massima e di quel fronte nelle terre giuliane sono progressivamente cominciati a giungere gli echi degli orrori perpetrati non solo nei lontani boschi balcanici, ma nella contigua provincia di Lubiana. Poi, la Venezia Giulia è divenuta essa stessa fronte di guerra e l’8 settembre 1943 ha segnato un momento di svolta: con la temporanea presa del potere da parte dei movimenti di liberazione sloveno e croato e con l’occupazione germanica, diversa rispetto a quella del resto d’Italia, la regione Giulia, che è sempre stata area di cerniera tra mondo mediterraneo e danubiano, è entrata in pieno nelle logiche estreme dell’Europa orientale, nella storia cioè di quelle che Timoty Snyder ha chiamato le “terre di sangue”.

In tal modo, in cima all’Adriatico si sono saldate la propensione nazista allo sterminio e le pratiche estreme di lotta bolsceviche e staliniane. E’ all’interno di quel contesto che si collocano crimini come il campo di morte della risiera e le stragi delle foibe. Queste ultime rappresentano l’estensione alla Venezia Giulia dei criteri d’intervento che il movimento di liberazione jugoslavo correntemente applicava nella lotta senza quartiere contro gli occupatori, i loro collaboratori ed ogni tipo di avversario politico, come pure nella presa del potere della primavera del 1945. Ciò spiega come mai a cader vittima della repressione nella Venezia Giulia non siano stati soltanto collaboratori dei nazisti e fascisti veri e presunti, responsabili o meno di precedenti angherie nei confronti degli slavi, uomini delle istituzioni e rappresentanti a vario titolo del potere italiano, militari e membri delle forze di polizia, ma anche semplici cittadini di sentimenti patriottici e sloveni anticomunisti, come pure antifascisti e resistenti che si battevano per la conservazione della sovranità italiana sulla regione, tutti accomunati nella categoria di “nemici del popolo”, dai quali la nuova società doveva venir epurata.

Più ancora però che i picchi della violenza, a trasformare completamente gli assetti dell’area giuliana sono stati gli esiti delle politiche delle minoranze applicate prima dal regime fascista italiano e poi da quello comunista jugoslavo. Ben visibili sono le loro differenze, che non riguardano solo i presupposti ideologici, ma anche lo scarto fra i propositi enunciati e i risultati raggiunti: il fascismo si è  impegnato a realizzare la “bonifica etnica”, ma quel che ha ottenuto, è stato di decapitare, impoverire ed umiliare le comunità slovene e croate che nella loro maggioranza sono rimaste salde sul territorio. Il regime di Tito invece ha proclamato la “fratellanza italo-slava”, ma gli italiani sono stati costretti ad andarsene al 90%.

Più utile invece, per leggere meglio le contraddizioni, è partire dalle somiglianze. Entrambe, quella fascista italiana e quella comunista jugoslava, erano politiche di integrazione selettiva, ovviamente non rispettose della volontà dei singoli.Il meccanismo è sempre lo stesso: la leadership dominante individua, all’interno del gruppo minoritario, componenti diverse: alcune sono giudicate compatibili – se pure a certe condizioni – con il nuovo ordine, altre no.

In concreto, il regime fascista isolava all’interno della società slovena e croata una minoranza che riteneva assolutamente irriducibile, costituita dalla classe dirigente slava. Sparita questa, si riteneva che la maggioranza della popolazione potesse venir assimilata  grazie alle tradizionali   politiche di nazionalizzazione, irrobustite dalla forza repressiva e dalle capacità di penetrazione di un regime che voleva essere totalitario.

Il regime comunista jugoslavo ha applicato il medesimo meccanismo, ma il profilo sociale della popolazione italiana era diverso e quindi l’esito ne è uscito rovesciato: quelle che in omaggio all’ideologia venivano chiamate le “masse popolari”,  costituivano in realtà solo una minoranza  all’interno del gruppo nazionale italiano. Questa componente comunque veniva ritenuta jugoslavizzabile e per farlo venne costruita la politica  della “fratellanza”. Invece il resto della popolazione italiana, che era la parte più consistente, subì in pieno  il peso di una rivoluzione nazionale e sociale nel cui ambito stava dalla parte sbagliata.

L’applicazione di tali strategie ha rivelato non poche sorprese. La classe dirigente slovena e croata è stata in effetti in buona misura spazzata via dal fascismo, ma il giudizio in base al quale le masse culturalmente inermi sarebbero state facilmente italianizzate, è risultato clamorosamente sbagliato. Qualche successo hanno avuto le politiche fasciste di sostegno selettivo all’emigrazione, ma neanche queste sono riuscite a risolvere il problema nel senso della prevista nazionalizzazione integrale dei territori di frontiera.

Sull’altro versante, la duplice rivoluzione – comunista e nazionale – jugoslava ha creato effettivamente per la componente italiana considerata “borghese” – e quindi tradizionale depositaria dei sentimenti di italianità – condizioni di invivibilità tali da spingerla all’esodo. Invece, i destinatari della politica della “fratellanza” si sono rivelati assai meno numerosi del previsto, per due motivi. In primo luogo, perché le maggiori concentrazioni di classe operaia – cioè quelle di Trieste e Monfalcone – dopo una breve parentesi nella primavera del 1945 sono rimaste fuori dai confini dello stato jugoslavo. In secondo luogo,  perché tutti gli strati popolari ma non proletari (contadini, pescatori, marittimi) sono restati fedeli ai valori ed alle appartenenze tradizionali (lingua, patria, Chiesa, proprietà) e son quindi confluiti anch’essi nella vasta schiera dei “nemici del popolo”. Ma non basta, perché la stessa classe operaia di lingua italiana, dopo una fase di entusiasmo iniziale, ha finito per trovare inaccettabili le condizioni dell’integrazione, percependo – in buona parte già prima della crisi del Cominform del 1948 – un eccessivo sbilanciamento del regime jugoslavo in senso nazionalista.

Il risultato cumulativo è stata la generalizzazione di un duplice rifiuto: rifiuto dello stato e del regime jugoslavo da parte della stragrande maggioranza della popolazione italiana; rifiuto degli italiani, considerati – se pur per ragioni diverse – di fatto non integrabili, da parte delle autorità jugoslave, specialmente da quelle più vicine al territorio. L’esito ultimo quindi è stato l’esodo della quasi totalità della popolazione italiana, cui si sono agganciate anche aliquote non indifferenti di popolazione di madrelingua croata e slovena, perché l’esodo è stato un fenomeno che ha sconvolto come un sisma la società locale, generando uno smarrimento generale. Così, anche sulle sponde adriatiche è arrivata l’onda lunga della grande semplificazione che in un breve volger di tempo ha distrutto la maggior ricchezza dell’Europa di mezzo, il suo essere il luogo della diversità di lingue, culture, tradizioni.

Ma questa è una storia di molti anni fa. Da quella stagione terribile sono trascorse generazioni e sono mutati completamente gli assetti internazionali. In Italia la memoria del sacrificio dei giuliano-dalmati è stata salvata ed ora le diverse memorie di frontiera cominciano a riconoscersi e rispettarsi, nella loro insopprimibile soggettività. Molti fra gli studiosi di confine, già araldi delle storia delle nazioni, parlano ormai di “sguardo congiunto” e sperimentano percorsi di storia post-nazionale. Le comunità italiane giuliano-dalmate in esilio e quelle che ancor vivono sulla loro terra di origine hanno avviato un dialogo sempre più intenso. Le istituzioni degli stati si sono spese al massimo livello per la riconciliazione fra i popoli. La prospettiva dell’integrazione europea è largamente condivisa, anche se il percorso è per tutti faticoso.

Ciò che è accaduto non si può cambiare, ma si può cominciare una storia nuova, non dimentica di quanto di positivo – e non è poco, in termini di cultura e di consuetudine civile – i secoli passati hanno prodotto. In questo senso, l’inizio di un millennio ancora incerto sulla direzione da prendere, propone una sfida di alto profilo: andar oltre la semplice tolleranza di gruppi minoritari in perenne affanno e far crescere invece i semi di diversità che ancora sopravvivono sulle rive adriatiche per ricostruire, se pur in misura assai più limitata che un tempo, un tessuto plurale, certo più adatto, rispetto all’esclusivismo nazionale, a reggere l’impatto della globalizzazione.

Salinger, lettera a Hemingway “Sono un idiota (ma resti tra noi)”

 

Jerome David Salinger (1919-2010) e Ernest Hemingway (1899-1961)

 
Coppia improbabile nella Parigi del 1944 appena liberata dagli Alleati, quella del celebre scrittore Ernest Hemingway che offriva champagne al Ritz e si pavoneggiava come se la guerra l’avesse vinta lui, e lo schivo soldatino J. D. Salinger, scrittore anche lui ma semisconosciuto, e reduce da due durissimi anni di guerra combattuta davvero, durante i quali aveva partecipato allo sbarco in Normandia ed era stato tra i primi a subire lo shock di entrare in un campo di concentramento. Queste esperienze gli avrebbero procurato un forte esaurimento nervoso e il ricovero in un ospedale militare in Germania. Da qui il futuro autore del Giovane Holden (nome che aveva già usato in un racconto) scrisse nell’estate del 1946 la lettera ora riemersa a «Papa», il quale era stato generoso con lui, tra l’altro leggendo i suoi scritti ed essendogli prodigo di lodi, nonché certo incoraggiandolo a adottare nella corrispondenza con lui un tono amichevole se non addirittura confidenziale.

Anche Salinger ovviamente ammirava Hemingway e conosceva bene i suoi libri, vedi l’allusione a Catherine Barkley, che è l’infermiera di cui si innamora il protagonista di Addio alle armi. Tra gli altri punti della lettera che possono richiedere un’illustrazione: la madre iperprotettiva che accompagnò a scuola Salinger fino a ventiquattro anni (ma è un’ovvia esagerazione) non era ebrea di nascita come Salinger padre, però si era convertita alla religione ebraica e aveva abbracciato le tradizioni dell’etnia. Gli arresti a cui Salinger allude hanno a che fare con il suo impiego negli interrogatori durante il processo di denazificazione messo in atto dagli alleati nella Germania occupata, attività alla quale lo qualificava la sua ottima conoscenza del tedesco. Gary Cooper aveva interpretato Per chi suona la campana, discussa trasposizione del romanzo di Hemingway, il quale a differenza di altri scrittori aveva l’abitudine di disinteressarsi degli adattamenti dei suoi libri.

A Vienna Salinger era stato mandato dal padre nel quadro delle attività della sua ditta di importatore di carne; era ripartito subito prima dell’annessione dell’Austria da parte di Hitler. L’interesse di Salinger per il teatro può essere messo in rapporto anche con la sua infatuazione per Oona, la giovane figlia di Eugene O’Neill, che poi scandalosamente sposò Charlie Chaplin; Salinger le scrisse molte lunghissime lettere nel 1941. Journey’s End è la commedia dell’inglese R. C. Sheriff, probabilmente la più famosa di quelle ispirate dalla Grande Guerra. Il genuino e ben motivato giudizio su Scott Fitzgerald da parte di Salinger, e indubbiamente condiviso dal suo interlocutore, infine, mostra come due grandi scrittori americani sapessero apprezzare l’autore del Grande Gatsby, da poco scomparso, in un momento in cui le sue fortune presso la critica e il pubblico sembravano in declino.

La lettera di Salinger a Hemingway, ritrovata nella biblioteca John F. Kennedy di Boston, sarà pubblicata su www.satisfiction.me, il sito del bimestrale ideato da Gian Paolo Serino e specializzato negli inediti dei maggiori scrittori italiani e internazionali. Di Satisfiction è ora in libreria il numero 13, con inediti, tra gli altri, di Doctorow, Foucault e Vonnegut.

Caro Papa,
Ti scrivo da un ospedale di Wurmberg. Qui c’è una certa carenza di Catherine Barkley, devo dire. Mi aspetto di essere dimesso domani o dopodomani. Non avevo niente di grave, ma ero in uno stato di avvilimento quasi costante e mi sono detto che mi avrebbe fatto bene parlare con qualcuno di sano. Mi hanno chiesto della mia vita sessuale (che non potrebbe essere più normale – per fortuna) e della mia infanzia (normalissima: mia madre mi ha accompagnato a scuola fino ai ventiquattro anni – ma conosci le strade di New York), e alla fine mi hanno domandato se mi piaceva o no l’Esercito. Mi è sempre piaciuto l’Esercito.
Ho conosciuto Lester Hemingway prima che la Quarta Divisione tornasse negli States. È venuto nella nostra casa di Weissenburg e ha bevuto e chiacchierato con me. È un tipo a posto.
Rimangono pochissimi arresti da fare, nella nostra divisione. Adesso stiamo prendendo tutti i bambini sotto i dieci anni che hanno un’aria sprezzante. Bisogna concedere all’Esercito i suoi arresti vecchio stampo, bisogna gonfiare il Rapporto.
Il Capitano Ollie Appletton, il precedente CO del reparto, ha ottenuto il Congedo attraverso la Croce Rossa, tornando negli Stati Uniti sotto una pioggia di stelle di bronzo. Prima di andarsene, in nome dei vecchi tempi, ha passeggiato intorno alle foto dei suoi possedimenti in Scarsdale. Per molti di noi è stato un momento maledettamente toccante.
Come sta venendo il tuo romanzo? Spero che tu ci stia lavorando sodo. Non venderlo al cinema. Sei un tipo ricco. Come Presidente dei tuoi tanti fan club, so di parlare a nome di tutti quando dico Abbasso Gary Cooper. Perché stai davvero lavorando a un nuovo romanzo, no? Mi rendo conto che a Cuba le macchine non sono sicure.
Ho chiesto al CIC di mandarmi a Vienna, finora senza successo. Nel 1937 ci sono stato quasi per un anno intero, e ho voglia di mettere di nuovo un pattino da ghiaccio al piede di qualche bella ragazza viennese. Non mi sembra di chiedere troppo all’Esercito.
Ho scritto un altro paio di racconti incestuosi, diverse poesie e parte di una commedia. Se riuscirò a uscire dall’Esercito, potrei finire la commedia e chiedere a Margaret O’Brien di interpretarla con me. Con un taglio di capelli militaresco e una fossetta di Max Factor sull’ombelico, potrei recitare io stesso la parte di Holden Caulfield. Una volta ho fatto un’interpretazione molto sensibile di Raleigh, in Journey’s End. Molto sensibile.
Darei il mio braccio destro per andarmene dall’Esercito, ma non con un biglietto psichiatrico del tipo quest’uomo-non-è-adatto-alla-vita-militare. Ho in mente un romanzo molto sensibile, e non permetterò che l’autore passi per un idiota nel 1950. Io sono un idiota, ma non voglio che la gente sbagliata lo sappia.
Mi piacerebbe che mi mandassi due righe, se ci riesci. Lontano dalla scena, è molto più facile pensare chiaramente. Con il tuo lavoro, voglio dire.
La prossima volta che sarai a New York, spero di essere in giro e riuscire a vederti, se avrai tempo. I discorsi che abbiamo fatto qui sono stati gli unici momenti di speranza in tutta la faccenda.
Sinceramente,
Jerry Salinger

P.S. Se c’è qualcosa che possa fare per te, qualche messaggio da portare a qualcuno, ne sarei lieto.
Il progetto del mio libro di racconti è andato a pezzi. Il che è un gran bene, e non sto indorando la pillola. In questo momento sono ancora troppo legato da bugie e affetti, e vedere il mio nome stampato su una copertina polverosa rimanderebbe qualsiasi vero miglioramento di svariati anni.
Edmund Wilson ha pubblicato una specie di album di ritagli su F. Scott Fitzgerald (che cosa sporca), chiamandolo The Crack Up. Malcolm Cowley lo ha recensito per il New Yorker, o ha recensito Fitzgerald stesso in maniera dannatamente superiore rispetto ai critici medi che recensiscono uomini morti. È così facile scrivere una «buona» recensione di Fitzgerald. Le sue imperfezioni saltano agli occhi, e se un paio non lo fanno, è Fitzgerald stesso a puntarle col dito. È stupido da parte dei critici lamentarsi del fallimento di Fitzgerald di «sviluppare» le sue storie. Mi sembra ovvio che chiunque scriva un libro come Gatsby non potrebbe mai «sviluppare» un bel niente. La sua arte, o la sua bellezza, era applicabile soltanto alle sue debolezze, non ti sembra? Diversamente da molti critici, non penso che Gli ultimi fuochi sarebbe stato il suo libro migliore. Era lì lì per incasinare tutto. Lì lì per dare al libro un twist alla Gatsby. In effetti, è meglio che non l’abbia finito, credo.
Buone cose.
J.

MASOLINO D’AMICO
La Stampa, 8.2.2012

L’occasione perduta (G.Zagrebelsky)

nazisti.jpgIn Italia e in Grecia nel corso degli Anni 90 sono state introdotte davanti ai giudici italiani delle azioni civili per ottenere il risarcimento dei danni subiti dalle vittime di stragi commesse dalle truppe del Reich tedesco contro la popolazione civile tra il 1943 e il 1945 e, in un caso diverso, il risarcimento dei danni subiti da un militare italiano internato e costretto a lavoro forzato.
Le azioni civili sono state rivolte nei confronti della Repubblica Federale di Germania. Sia in Italia che in Grecia i giudici, fino alla Corte di Cassazione, hanno affermato che la Germania doveva rispondere civilmente di quei fatti e l’hanno condannata a versare un risarcimento.
L’esecuzione di quelle sentenze ha portato all’iscrizione di ipoteca su un bene immobile di proprietà dello Stato tedesco in Italia. La stessa cosa è avvenuta anche in esecuzione della sentenza greca, che è stata dichiarata esecutiva in Italia. Le sentenze italiane e greche hanno suscitato speranze nelle vittime delle atrocità naziste ed anche molto interesse tra i giuristi per il loro carattere innovativo. Ora la Corte internazionale di giustizia ha giudicato che
l’Italia, ammettendo che la Germania venisse convenuta in giudizio davanti ai giudici italiani e poi dando esecuzione alle loro sentenze e a quella greca, ha violato il diritto internazionale, che prevede l’immunità degli Stati dalla giurisdizione di uno Stato diverso, quando si tratti di atti che, come quelli delle forze armate, sono espressione di poteri pubblici statali.

Le sentenze italiane e greche avevano ritenuto che le ragioni della immunità consuetudinaria degli Stati dalla giurisdizione altrui dovessero cedere in casi gravi di violazione del diritto internazionale umanitario o, più in generale, di fronte al cosiddetto jus cogens, il nocciolo
duro, non derogabile, del diritto internazionale. Ed è questa la tesi che, senza successo, hanno in sostanza sostenuto davanti alla Corte internazionale il governo italiano ed anche quello greco intervenuto.
La sentenza della Corte internazionale, organo giudiziario delle Nazioni Unite, competente a giudicare le controversie tra gli Stati fondate sul diritto internazionale, è, come sempre, estesamente e dettagliatamente argomentata. La Corte ha ricostruito la ragione e la portata del principio d’immunità degli Stati ed ha concluso che, allo stato attuale, il diritto internazionale non prevede l’eccezione che il governo italiano (e i giudici italiani e greci) ritenevano invece sussistente.

Il fondamento dell’immunità degli Stati è legato al principio di parità e sovranità, nel senso che nessuno Stato, per i suoi atti sovrani, riconosce la giurisdizione di un altro Stato. Inoltre si ritiene che nei rapporti tra gli Stati l’intervento dei giudici, per sua natura, non sia adatto e opportuno, mentre la soluzione dei problemi e conflitti reciproci sarebbe meglio cercata a livello politico. Se si considera l’estrema varietà dei casi, la loro gravità e la serietà delle conseguenze che possono derivarne, è difficile non ammettere che la duttilità e varietà delle soluzioni politiche le facciano preferire. Ed in effetti tra Italia e Germania (che ha riconosciuto
la sua responsabilità per gli atti delle truppe naziste in Italia) sono intervenuti trattati diretti a consentire risarcimenti. Trattati però che hanno avuto limitatissime applicazioni. E la Germania ha versato allo Stato italiano un indennizzo. Molte, e anzi la maggior parte delle vittime sono però rimaste senza risarcimento. Vero è che la Corte internazionale ha avuto cura di chiarire che la questione di cui era investita era soltanto quella riguardante la giurisdizione e non invece quella sostanziale del diritto dei singoli a ottenere un risarcimento. Ma è difficile pensare che la soluzione procedurale adottata non si rifletta sulle possibilità concrete dei singoli di ottenere il risarcimento cui aspirano.

La prima lettura della sentenza della Corte internazionale di giustizia impressiona per la cura impiegata nella vasta ricerca delle tracce – nei documenti internazionali, nella giurisprudenza internazionale e in quella interna degli Stati – della maturazione di un diverso contenuto della
consuetudine internazionale. Ne risulta che effettivamente la posizione assunta dalle giurisdizioni italiana e greca è isolata nel quadro internazionale. Ma il diritto internazionale consuetudinario evolve per mezzo dei comportamenti degli Stati e anche delle sentenze dei giudici che, nel riconoscere un’evoluzione del diritto, in realtà lo creano o almeno lo consolidano. E’ quello che la Corte internazionale di giustizia, massimo organo giurisdizionale nella materia, non ha fatto. Per la verità non da sola, poiché in casi analoghi, quanto alla
questione giuridica, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha concluso nello stesso senso.
Si può riconoscere la serietà delle argomentazioni che la Corte internazionale ha svolto e al tempo stesso esprimere rammarico per l’occasione persa di imprimere al diritto internazionale un’evoluzione che avrebbe potuto dare ai diritti fondamentali delle persone, e alla possibilità di farli valere efficacemente in giudizio, il peso che dal dopoguerra essi in altri campi hanno conquistato.
Rammarico ed anche preoccupazione, perché gli effetti non riguardano solo la storia tragica del passato, ma anche ciò che avviene ora nel mondo, attorno e durante le tante operazioni militari che gli Stati compiono fuori del loro territorio. Il principio riaffermato dalla Corte
internazionale di giustizia fissa una regola che sarà ormai per molto tempo immutabile.

La Stampa, 4/2/2012

 

La Corte dell’Aja dà ragione alla Germania: non dovrà risarcire le vittime italiane delle stragi naziste

Articolo di Dino Messina su Il Corriere della Sera (4.2.12) con interventi degli storici Filippo Focardi e Giovanni Punzo sul blog di Messina.

 

È difficile parlare di formalismi giuridici quando si tratta di massacri dei civili: in questo caso di una delle meno conosciute ma più atroci rappresaglie, compiuta da un reparto della Wehrmacht in ritirata, il 29 giugno 1944, tre mesi dopo le Fosse Ardeatine, tre prima di Marzabotto. Le vittime in Val di Chiana (a Civitella, San Pancrazio, Cornia), nell’Aretino, furono 204, molti delle quali bambini, anziani, donne, adolescenti, con una proporzione di cinquanta italiani per ogni soldato tedesco ucciso dai partigiani della banda «Renzino». Un criterio più duro del famigerato dieci a uno seguito all’attentato di via Rasella.

«Non c’è indennizzo sufficiente a risarcire ciascuna di quelle vittime», dice lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, autore del fondamentale saggio “L’occupazione tedesca in Italia” (Bollati Boringhieri). Eppure la Corte dell’Aja ha accolto il ricorso della Germania contro la sentenza della Cassazione che per la prima volta condannava lo Stato tedesco a risarcire le vittime delle stragi naziste in Italia.

La sentenza dell’Aja ha una spiegazione giuridica e una storica. Un tribunale interno, dice Umberto Leanza, professore emerito di Diritto internazionale all’università Roma 2, non può in alcun modo considerare responsabile uno Stato. È quel che ha fatto la nostra Corte di Cassazione ritenendo crimini internazionali le rappresaglie compiute dalle truppe tedesche in Italia dopo l’8 settembre 1943. Il crimine internazionale è una figura giuridica nata a partire dai tribunali di Norimberga e di Tokio. «Si tratta di crimini — chiarisce Leanza — che costituiscono tuttavia una eccezione all’immunità dalla giurisdizione non degli Stati ma degli organi statali che li hanno compiuti». Un criterio già seguito dai tribunali di Norimberga e Tokio. La Corte di Cassazione italiana ha ritenuto di estendere la responsabilità allo Stato tedesco sulla base della più recente giurisdizione internazionale che equipara la violenza sui civili ai crimini contro l’umanità.

La sentenza dell’Aja è l’ultimo atto della riapertura a metà degli anni Novanta dei processi archiviati nel cosiddetto «armadio della vergogna». Con i processi si è riaperto anche un contenzioso con la Germania che si riteneva chiuso dal 2 giugno 1961, quando con due accordi bilaterali tra Roma e Bonn, la Germania riconosceva un indennizzo complessivo di quaranta milioni di marchi per le vittime italiane dei campi di concentramento. «In totale — spiega lo storico Filippo Focardi — i beneficiari furono circa dodicimila, in maggioranza deportati politici ed ebrei e loro familiari. Solo mille i risarcimenti riguardanti gli internati militari, su un totale di seicentomila. Come contropartita ai risarcimenti, l’Italia garantiva la cessazione di tutte le cause contro lo Stato tedesco». Del resto la Germania riconobbe quegli indennizzi come un atto di buona volontà unilaterale, non come il riconoscimento di un diritto. L’Italia nel 1947, con il controverso comma 4 dell’articolo 77 del Trattato di Pace, aveva rinunciato a chiedere gli indennizzi per i danni dell’occupazione nazista. Faceva eccezione il diritto a chiedere la restituzione dei beni trafugati.

La sentenza dell’Aja ha dunque ribadito che l’immunità degli Stati, non solo di quello tedesco, non si tocca. E da un certo punto di vista è un bene anche per l’Italia, se si considera che lo stesso tribunale internazionale ha respinto un ricorso presentato contro il nostro Stato dai parenti delle vittime della strage di Domenikon, nella Grecia centrale, dove i fanti della Divisione Pinerolo, il 16 febbraio 1943, uccisero per rappresaglia 150 civili.

Resta però un dubbio: se le responsabilità dei crimini sono personali perché sedici ufficiali tedeschi condannati all’ergastolo per le stragi in Italia vivono ancora liberi in Germania?

 

Postato da Lettore-1214031 | 04/02/2012

Solo una precisazione sull’ultima parte del bell’articolo di Messina, ovvero sulle righe dedicate alla vicenda di Domenikon (che nella versione cartacea del “Corriere” figurano in forma di virgolettato a me attribuito).
Il tribunale cui si è rivolto uno dei familiari delle vittime, Stathis Psomiadis, è quello greco di Larissa e non la corte internazionale dell’Aja. Il tribunale di Larissa, competente per territorio, ha respinto la richiesta di aprire un’azione legale contro i responsabili italiani della strage. Successivamente Stathis Psomiadis ha espresso pubblicamente l’intenzione di rivolgersi alla corte dell’Aja, ma non ho elementi per accertare se lo abbia fatto o meno. Mi risulta comunque che lo scorso anno egli abbia avuto un incontro a Roma con il procuratore militare Marco De Paolis per avviare un processo in Italia per crimini di guerra contro i responsabili della strage. Ricordo che la strage di Domenikon fu una rappresaglia ad un’imboscata partigiana che aveva causato 9 morti fra i soldati della “Pinerolo”. Come ritorsione, furono passati per le armi tutti i maschi del paese di Domenikon – esclusi i bambini e i più vecchi – con una proporzione di circa 1 a 14 (dunque, maggiore rispetto alle Fosse Ardeatine). Sulle spietate caratteristiche della “guerra ai civili” condotta nella Grecia occupata dalle unità italiane agli ordini del generale Carlo Geloso rimando agli scritti di Lidia Santarelli.
Nel testo dell’articolo si afferma che “da un certo punto di vista”, il verdetto dell’Aja relativo agli indennizzi per i crimini tedeschi potrebbe essere considerato “un bene” per l’Italia alle prese con analoghi problemi (vedi Domenikon). Come ho detto al dott. Messina, può darsi che alcune autorità all’interno delle nostre istituzioni abbiano pensato in questi termini. Personalmente non sono di quest’idea. 
E’ opportuno fare una distinzione fra la posizione tedesca e quella italiana. Pur tardivamente, i nostri tribunali militari hanno svolto numerosi processi a carico dei responsabili dei crimini tedeschi in Italia con condanne (per lo più in contumacia). La richiesta di indennizzi da parte dei familiari delle vittime è stato uno sviluppo di queste azioni penali. Nel caso dei crimini italiani in Grecia o in Jugoslavia (per non parlare dei crimini nelle colonie) è mancato invece fino adesso qualsiasi tentativo di perseguire i responsabili. Insomma, la giustizia è mancata del tutto.
Può darsi che la via giudiziaria sia ormai preclusa. Resta però aperta anche per l’Italia, come per la Germania sopo l’Aja, la via degli accordi bilaterali e delle azioni spontanee di riparazione. Il minimo che si possa chiedere è un atto di responsabilità con la richiesta ufficiale di scuse alle vittime dei crimini commessi durante la guerra. Nel 2009 il governo italiano ha compiuto un primo passo in questa direzione attraverso la partecipazione dell’ex-ambasciatore in Grecia, Giampaolo Scarante, alle commemorazioni ufficiali della strage di Domenikon. Moltra strada resta però ancora da percorrere. Non si può pretendere dalla Germania quello che noi non siamo disposti a dare.

Filippo Focardi

Postato da Lettore_833947 | 05/02/2012

Capire a fondo la sentenza della Corte dell’Aja non è facile, perché il diritto internazionale resta una delle materie più interessanti, complesse e contraddittorie. Dietro questa decisione apparentemente incoerente e poco comprensibile ai più, si intrecciano aspetti storici, politici, identitari e solo alla fine giuridici in senso stretto. Esistono sempre una responsabilità ‘individuale’, perché i singoli sono ritenuti responsabili dei propri atti, ed un’altra responsabilità più generale, senza dubbio storicamente accertata, quanto non sostenibile sul piano giuridico, nemmeno di fronte a crimini particolarmente efferati come quelli contro i civili: insomma, come si diceva un tempo, «summum ius, summa iniuria». Senza pretesa di esaustività, solo due accenni.

Bisogna ricordare Mark Mazower (Le ombre sull’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Garzanti 2000) che non solo aveva rintracciato in radici prebelliche comportamenti comuni ad altri paesi europei – e quindi non solo alla Germania –, ma anche osservato che la necessità di liquidazione rapida di quanto avvenuto aveva imposto l’etichetta coprente di «patologia politica» nei confronti anche delle altre dittature europee.
«La Francia – scrive Mazower – canonizzò la memoria di un’opposizione unita a Vichy, mentre l’Austria sfruttò spudoratamente il proprio status di prima vittima di Hitler ed eresse monumenti celebrativi ai “combattenti della libertà austriaca” antinazisti». Molto prima un grande storico italiano aveva riesumato una vicenda semisconosciuta del mondo antico dando al popolo degli hyksos una notorietà forse maggiore del ruolo effettivamente rivestito.
Come in certe storie horror si seppellisce troppo frettolosamente il vampiro, la Francia è stata costretta a riaffrontare un passato sgradevole in tre processi: Klaus Barbie (ergastolo nel 1987), Paul Touvier (ergastolo nel 1994) e Maurice Papon (dieci anni), condannato per aver collaborato alla deportazione di 1500 ebrei francesi. Per ironia della sorte, Papon era un integerrimo funzionario degli interni che si era particolarmente distinto nella notte del 17 ottobre 1961, quando – nel corso di incidenti tra algerini residenti a Parigi e la polizia – erano morti una sessantina di dimostranti algerini in circostanze poco chiare.
In Austria invece, nei giorni dell’omicidio di Kennedy, si scoprì che il poliziotto che aveva arrestato la famiglia di Anna Frank prestava servizio nella polizia di Vienna e lascio immaginare con quali conseguenze.
In questo Paese poi è stato giustamente canonizzato un funzionario di PS per aver aiutato centinaia di perseguitati, ma francamente ancora troppo poco si sa sul ruolo di parecchi altri nella deportazione del resto.
Nel novembre 1945, prima dell’apertura del processo di Norimberga, alla corte fu presentata una istanza importante da parte del collegio di difesa: invocando i fondamenti della dottrina dello Stato, si sosteneva che «ogni Stato, in virtù della sua sovranità, ha il diritto di muovere guerra in ogni momento e per qualsiasi scopo». Era un attacco evidente alla principale accusa della corte di ‘aver attentato alla pace scatenando la guerra’ e alla teoria alleata che indirettamente ripristinava il c.d. ‘bellum iustum’. Le tesi dell’accusa – secondo il documento – avrebbero riportato al Medioevo per quanto riguardava il trattamento imposto ai tedeschi. Impossibile da accettare allora, gradatamente questo principio si è fatto spazio. Contemporaneamente, concluso il primo grande processo della corte ed eseguite le sentenze, rimase detenuto ed in attesa di giudizio un numero sempre minore di ‘grandi responsabili’, mentre le corti militari ordinarie (americane, francesi e inglesi) continuarono a mantenere la propria giurisdizione processando migliaia di ‘responsabili minori’. Solo presso il tribunale militare di Dachau gli americani ne processarono più di milleseicento, dei quali almeno due terzi proveniente dagli addetti ai campi di concentramento. Nel gennaio 1951, solo da parte americana, i detenuti erano ancora migliaia e alla fine dovette intervenire con forza il Dipartimento di Stato imponendo all’autorità militare di liberarne una parte e di ridurne le pene inflitte (compresi alcuni casi di pene capitali): comprensibilmente i militari non volevano infatti mettere in libertà i responsabili delle esecuzione sommarie di prigionieri durante la battaglia delle Ardenne. 
In parallelo all’ingolfamento giudiziario militare alleato, la Germania maturava le condizioni politiche interne per diventare la Repubblica Federale e alla conclusione di questo processo politico istituzionale rimase una sorta di accordo per cui i responsabili sarebbero stati processati da corti nazionali e non più da tribunali militari alleati. Sebbene sorto prima, in questa fase operò attivamente il c.d. Heidelberg Juristenkreis (circolo dei giuristi di Heidelberg) il cui personaggio di maggior spicco, Otto Kranzbühler (ex giudice militare della Kriegsmarine e difensore a Norimberga), era direttamente in contatto con Konrad Adenauer: sebbene un primo accordo tra autorità alleate e governo provvisorio tedesco stabilisse di rispettare le sentenze emesse, fu raccomandato al contrario di ribadire la sovranità tedesca anche attraverso il non riconoscimento delle sentenze. Era ormai il 1959.

Conoscevo la vicenda che ha narrato il professor Focardi. La giustizia in quel caso è mancata, in maniera non dissimile da come ho raccontato in un altro mio intervento su queste pagine a proposito dei crimini italiani nella ex Jugoslavia e della mancata Norimberga italiana. Tattiche dilatorie, intralci e indifferenza. Nemmeno quella è un bella vicenda.

Un saluto a tutti Giovanni Punzo

Neve (ovvero della facile incaxatura)

2571715-foresta-frozen-neve-inverno-l-immagine-presa-alle-cadute-di-niagara-parcheggia-dove-la-foschia-che-a.jpg Notizia clamorosa: d’inverno nevica. Emergenza neve, caos nei trasporti, cittadini incaxati, le scuole chiuse/no aperte/no chiuse. Comuni giocherelloni! Una cosa utile intanto la neve l’ha fatta: ci siamo ricordati che esiste in vita la Prefettura, per gli altri 364 giorni una ghost-town degna di Dylan Dog.

Lasciamo perdere la cosiddetta informazione (stampata) che non sa altro che titolare con le tre “C” classiche di queste situazioni: “Caos, confusione, calvario..”. (A proposito: io vorrei vedere la faccia di chi, nei quotidiani, fa i titoli: deve avere una faccia speciale, deve avere come minimo un’infelice vita sessuale, una suocera impossibile e/o le emorroidi petecchiali).

Però. Sono certo che quella robina bianca che è scesa sia H2O in forma di cristalli, perché altrimenti si dovrebbe sospettare un’altra provenienza, molto più birichina. La nevicata svela le tensioni, ci rivela una marea di gente sull’orlo di una crisi di nervi che vuole, subito, adesso, tutto. Altrimenti: “è colpa di.., non si può andare avanti così.., ma io devo…”.

Eccezione fatta per quei disgraziati inchiodati sul Bologna-Taranto grazie alle meraviglie di Frenitalia e dei suoi FregaRossa (lo scrivente è rimasto fermo in galleria per 30’-motivi ignoti- dieci giorni fa) e di qualche sventurato carambolato sul lastrone assassino, mi sembra che la sotterranea nevrosi, al limite dell’isteria, abbia rivelato tutta la sua minacciosa presenza nella nostra felice terra reggiana.

“Il problema di oggi è che la gente non sa dove andare e ci vuole andare subito” (M.Beuttler): la neve esiste, è sempre esistita, spero esisterà. Certo in città è una noia per chi ha più di 12 anni ma è come il vento, la pioggia, il caldo, il freddo. Normale. Nevicate abbondanti sono nei miei ricordi di bimbo/fanciullo, ci si copriva, si mettevano gli stivali di gomma e si stava calmi e tranquilli (beh, quasi, fare le pallate non era proprio tranquillo…).

Ora, se lo spartineve non passa dopo 12 minuti dal primo fiocco il cittadino arrota la sciabola per assalire la sede di Iren, maledice sindaco e congiunti, tira fuori la mimetica dall’armadio e calza l’elmetto. Ma, san Tommaso della Brugola! Dove dovrà andare l’iroso cittadino? E’ un cardiochirurgo d’urgenza? Un sacerdote che deve amministrare oli santi a un moribondo? La moglie ha perso le acque? No. Ovviamente. Ma vuole tutto, subito e di più. Al culmine della furia-testimonianza personale-scende in strada, guarda la neve caduta e grida: “Ecco, il Comune non mi fa neppure uscire di casa!”. Davanti alla soglia della sua magione un tratto di mezzo metro coperto da dieci centimetri di soffice neve, roba che una scopata e via.

Per secoli ognuno si puliva il pezzo davanti casa sua, quando in montagna si faceva la “rotta” coi buoi o in città i poveretti aspettavano la neve per avere un po’ di lavoro. Del resto a cosa servivano quei tombini un po’ strani? Qualcuno in centro c’è ancora, con su scritto “Cacciata neve”? Era inverno, nevicava.

“Take it easy!”. Non arriveremo in orario, rimanderemo a domani, ci accorgeremo banalmente che, nonostante ciò, non-succederà-niente. Ogni giorno invece sembra l’ultimo, quello decisivo, ogni ora quella che cambia la nostra esistenza, come fossimo indispensabili, unici, insostituibili.

“Take it easy!”

Cosa dirà l’incaxato concittadino ora che il gelo in arrivo pietrificherà la neve caduta, quali minacce leverà al cielo? Si può sempre sperare nel lastrone ghiacciato giustiziere che lo attenda dietro l’angolo, ma l’incaxato è infido e fortunato, sopravviverà anche al gelo e ce lo ritroveremo lì, nella canicola estiva, pronto ad inveire perché, come dargli torto? D’estate fa’ caldo! “Con questo caldo come faccio a lavorare? In auto non si gira…asfaltano le strade..non mi lasciano uscire di casa…!”

 

 

Fiocca la neve

flocos_de_neve-4970.jpgLa neve attesa è arrivata, romantica ma scomoda, a coprire tutto. Poi arriverà il grande gelo e la coltre diventerà una sorta di sarcofago a coprire il belpaese, a congelare cose, persone e idee. Un po’ come questo ovattato post-berlusconismo: abituati all’urlo, al rutto, al peto quotidiano siamo rimasti in sospeso, alcuni sono tornati alle barricate, alle parole d‘ordine che avevano chiuso nel comò di nonna Felicita. Andavano bene trenta anni fa, che vuoi che sia? Altri, hanno cercato amici e conoscenti per iniziare a pensare insieme, a riflettere, sul futuro sulla Politica, quella con la P maiuscola, quella che manca, quella che ci vuole, quella senza la quale, etc… E non hanno trovato nulla. Oddio, le persone ci sono, per fortuna. Ma le idee, signora mia, le idee. Sommando tanti vuoti non si fa un pieno.

E intanto l’indice di gradimento del governo Monti (quello dei loden, dei tristi, dei professori, quelli della spectre bancaria) aumenta il consenso, nonostante la durezza dei tagli, mentre sondaggi affidabili (come possono essere gli strumenti della statistica applicati all’animale-uomo) ci dicono che oltre il 30% degli elettori non parteciperà al voto, prossimo o no.

Dramma, scompiglio, disperazione? No. In realtà si sta diffondendo l’idea che questo governo stia facendo il proprio lavoro, senza urla, strepiti, con ministri che nemmeno sappiamo chi siano (e poco ce ne importa). Molti si augurano che continui a lungo, anche nel 2013.

Del resto questo governo fa venire in mente una pausa in una rissa da bar, i contendenti sono usciti a picchiarsi fuori, fra poco torneranno. Intanto si rassetta l’ambiente, si raddrizzano i quadri, si spazzano i cocci. Ma poi torneranno i soliti. Ma davvero li (ri)vogliamo i soliti?

Davvero (ri)vogliamo la destra puttaniera e la lega del cerchio magico? O vogliamo arrovellarci su come fare un patto che duri almeno 45 secondi fra Bersani-Vendola e Di Pietro? Tremando perché da 3 giorni D’Alema non dice nulla o, purtroppo, perché la Melandri si fa intervistare-come ieri-dal Corriere? O scoprire che il cassiere di un partito (mica di destra, eh?) si è intascato 13 milioni di euro?

Da amici e lettori ho ricevuto frecciate sul mio ultramontismo. No problem: si nasce incendiari e si muore pompieri, è noto. In realtà la mia adesione-che confermo-nasce da due banali constatazioni: a. Non c’erano alternative (salvo pensare, come fa qualche bello spirito da affidare ad un TSO, che l’Italia dovesse andare in default); b. Questo è il meglio che l’Italia può esprimere soprattutto verso l’Europa.

Nessun governo mi rappresenterà mai al 100%, anche il Prodi 1 (probabilmente il miglior governo del dopoguerra) aveva dei limiti, quindi non mi aspetto la Befana, tanto più da un governo che deve, comunque, trovare l’approvazione di quel verminaio che è il nostro Parlamento. Ma è un governo che affronta i problemi e si muove, in un contesto ghiacciato come l’Italia di questi giorni, dove nulla sembra possibile cambiare. Persino per fare il pane la domenica ci vuole un decreto, o per liberalizzare l’orario dei negozi! Figuriamoci toccare le banche, gli ordini professionali et similia.

Ieri le Province hanno alzato le barricate: noi? Prima gli altri! E tutti i partiti uniti in un abbraccio fraterno a ripeterlo in coro. E noi (ri)vogliamo questi?

Non so, se come illustri pensatori hanno segnalato, ci si stia incamminando verso una forma di autoritarismo soft, una democrazia controllata. So però che è sempre stata la corruzione, l’incapacità delle classi dirigenti ad aprire la strada a forme politiche che hanno limitato (più o meno) la democrazia. Il rischio non è il “governo dei loden”, è il populismo , di chi spaccia la partecipazione, magari sul web, come nuova democrazia. Di chi semplifica i problemi o, peggio, addita nuovi capri espiatori, nuovi e vecchi nemici.

Intanto io mi godo questa pace, scende la neve, copre tutto ed è molto meglio così.

 

 

L’addio Usa agli F-35 e l’impatto in Italia (F.Lo Sardo)

L’austerity militare di Washington potrebbe rilanciare l’industria europea

cover-f-35_in_the_clouds_1920x10802.jpgIl Pentagono di Leon Panetta come il settimo cavalleggeri. Nelle stesse ore in cui in Italia si estendeva il fronte dei contrari tout court all’acquisto (18,1 miliardi di euro entro il 2018) o di una drastica riduzione dell’ordine all’americana Lockheed per i 131 cacciabombardieri F-35 Joint Strike Fighter, con grande imbarazzo dei vertici della nostra difesa e del ministro Di Paola, a sorpresa arrivano gli Usa a togliere le castagne dal fuoco agli italiani. Il New York Times di ieri, riferendo indiscrezioni sui prossimi necessari tagli alla difesa americana in tempi di crisi e austerità economica, indica proprio il progetto degli F-35 come il potenziale primo obiettivo delle forbici del segretario alla difesa Panetta.
Non soltanto ci saranno riduzioni al mega-budget di 400 miliardi di dollari per l’acquisto dei previsti 2500 Jsf, ma il Pentagono si sta interrogando sulla stessa natura strategica (oltre che sulle numerose criticità funzionali evidenziate da un monumentale rapporto datato 29 novembre 2011) del velivolo studiato per poter eludere le difese radar in lunghissimi attraversamenti di spazi aerei “nemici” difesi da apparati tecnologicamente molto avanzati.
Se si pensa a una potenziale minaccia russa, con le basi Nato ormai collocate ai confini dell’Ucraina, l’F-35 si presenta in altre parole come una macchina inutilmente troppo potente: a meno di immaginare rischi di conflitti con la Cina.
L’effetto dei possibili tagli da parte del Pentagono sarà un duro, forse letale colpo per la Lockheed i cui prototipi di F-35 stanno fornendo prestazioni tutt’altro che brillanti. La produzione dell’F-35 a decollo verticale è stata interrotta, la versione dell’F-35 a decollo breve e atterraggio verticale per portaerei con ponti ridotti testata a fine ottobre ha evidenziato numerosissimi problemi tecnici.
Conclusione del rapporto del Pentagono: l’analisi combinata di tutti i fattori critici dell’F-35 ne «suggerisce una seria riconsiderazione della fornitura e della produzione». Amen.
Quale sarà l’impatto della decisione americana sul caso F-35 in Italia? L’ulteriore rallentamento, se non la morte per asfissia economica del progetto nato nel lontano 1996 e che procede con molte difficoltà, sembra cadere, in tempi di tagli e austerità anche per la nostra difesa, come pietra tombale sulla vexata quaestio dell’acquisto italiano. La conseguenza per la Marina militare (informalmente si ipotizzava l’acquisto di 20-22 Jsf per l’imbarco sulla nuova portaerei Cavour) è il possibile declassamento, per l’impossibilità di sostituire i vecchi Harrier, del gioiello della nostra marina a portaelicotteri e mezzi da sbarco. Per l’aeronautica militare, che avrebbe dovuto acquistarne 110, un ulteriore ritardo della produzione degli F-35 base potrebbe imporre una svolta. La rinuncia al progetto Jsf che non comporta penali (si perderebbero gli 1,5 miliardi già spesi per le prime fasi ideative, mentre il sito-officina da 450 milioni creato a Cameri per l’allestimento dei set alari può essere riconvertito) riapre la questione di un possibile rilancio di un progetto europeo di riconfigurazione degli attuali Eurofighter Typhoon– produzione cui Alenia partecipa al 34% – verso la quinta generazione. La forza aerea italiana da caccia e bombardamento conta oggi su 14 F-16, 75 Typhoon, 43 Amx, 76 Tornado: un parco in via di graduale pensionamento.
typhoon_06.jpgSe si abbandona il Jsf, gli unici rimpiazzi previsti per l’arma azzurra restano i 21 Typhoon già commissionati. Come fare, a quel punto, per il rinnovo del grosso della nostra forza aerea? Forse non è troppo tardi per un’iniziativa europea. Alla cui industria il flop del Jsf, in altre parole, può aprire grandi spazi e offrire enormi opportunità. Sempre che le politiche nazionali e quella europea battano un colpo.
 

Giorno della memoria (e dell’oblio)

menorah.jpgUn altro lunedì annuncia la nuova settimana. Ma questa è una settimana un po’ particolare. Venerdì ricorre il Giorno della memoria, stabilito con legge dello Stato nel 2000. Non entro nell’annoso dibattito sulla correttezza metodologica di imporre per legge di ricordare un evento storico, scelta per altro subito equilibrata con altri giorni/giornatedella memoria, prime fra tutte quella dedicata alle vicende del confine orientale. Sottolineo la scelta della data internazionale del 27 gennaio che esclude quella del 16 ottobre, giorno della razzia nel ghetto di Roma fra l’indifferenza vaticana e la collaborazione fascista.

Anche la scelta di inserire per legge questa ricorrenza si iscrive nella lotta per la memoria che, anche nel nostro paese, ha preso avvio dopo il bigbang succeduto al 1989, con la fine della guerra fredda e la caduta dei regimi sovietici. Quello che mi sembra più interessante è verificare quanto di quella scelta ha sedimentato nel comune sentire in un paese come il nostro che ha uno stomaco ferocemente capace di digerire qualsiasi cosa ma un cervello altrettanto capace di rimuovere e cancellare tutto (o quasi). Certamente la scelta di avere istituzionalizzato la data del 27 gennaio ha consentito, soprattutto nei confronti delle istituzioni scolastiche ed educative, di aprire spazi per iniziative e progetti che sono stati utilmente progettati e realizzati: possiamo pensare che la conoscenza della shoah sia oggi ben più diffusa fra gli studenti (di ieri e di oggi) che nella media della consapevolezza dell’opinione pubblica. E’ questo un problema che non si limita allo specifico-Shoah ma investe tutto il problema della consapevolezza storica diffusa. Credo che su questo tema il vero obiettivo educativo sia quello relativo alle fasce adulte, come confermano le varie ricerche sociologiche sull’argomento. Sono gli adulti, per intenderci quelli della fascia 35-55 anni, quelli più soggetti a rimozioni, confusioni o semplicemente ignoranti (per lo più felicemente).

L’ignoranza sulla nostra storia comune è solo uno dei risvolti di quell’analfabetismo di ritorno che tante volte il Censis ha segnalato. Con un grado di educazione inferiore alla media europea si considera pari ad un terzo del totale gli italiani non più in grado non solo di articolare per scritto il proprio pensiero su qualunque argomento ma neppure di comprendere un articolo di stampa di un qualunque quotidiano. Per questa massa la televisione rimane l’unica fonte alla quale fare riferimento, come conferma la debolezza del mercato editoriale nazionale.

Una difficoltà ulteriore, indirettamente causata dalla scelta di fissare per legge una ricorrenza, la riscontriamo nelle amministrazioni pubbliche, costrette ad approntare iniziative per quella giornata che viene vissuta spesso come un “dovere”, al pari del 25 aprile o il 2 giugno. Il panorama è ovviamente (e per fortuna) articolato ma l’esperienza ci racconta spesso di assessori trafelati, in cerca di “qualcosa” da fare per il 27 gennaio, ovviamente a costo zero o quasi, come un dazio da pagare per poi riprendere il cammino quotidiano fatto, evidentemente, di cose più rilevanti.

Certo in questo contesto il lavoro dello storico diviene ancora più complicato e frustrante, ridotto a quello di un operatore sanitario in un “pronto soccorso della memoria”, impegnato a curare l’emergenza, dopo avere per i restanti dodici mesi predicato invano sulla necessità di un’opera quotidiana di “prevenzione”, di educazione capillare alla democrazia che non può non passare proprio attraverso un lavoro continuo sulla nostra memoria. Un lavoro che ha bisogno di strutture, di luoghi fisici, di spazi. Insomma di progetti e risorse che escano dall’emergenzialità fatta regola. Ma qui, l’esperienza di alcuni lustri di lavoro lo conferma, si entra nel territorio nebuloso della mancanza di interlocutori istituzionali, in un confronto con le amministrazioni dove la procedura del “silenzio dissenso” (a richieste, progetti non si dà neppure più un cenno di risposta) è divenuta la norma.

Celebriamo quindi il 27 gennaio (data dell’apertura dei cancelli di Auschwitz), torniamo pure con un migliaio di studenti su quei luoghi ma non dimentichiamoci come tutto questo si iscriva in un preciso “contesto” che certamente non possiamo giudicare né positivo né promettente.

 

Chiudo con una notazione locale: sono stato sollecitato da alcuni dei 25 lettori di FB (Fortezza Bastiani, non Facebook) in merito alla presentazione di un volume sulla resistenza letto da parte fascista e la relativa presentazione avvenuta la scorsa settimana. Non ero presente (pur avendo letto il volume) e quindi non esprimo un giudizio che non va oltre le righe apparse sulla stampa: mi sembra che, fatto salvo il diritto di ognuno di andare e dire qualsiasi cosa, l’iniziativa avesse poco a che fare con la storia. Un confronto, un esame, una ricerca si basano su fonti, sul dibattito storiografico. In parole povere esistono bibliografie, studi pubblicati, ricerche fondate scientificamente. Nulla di definitivo, da affrontare criticamente ogni volta. Ma esistenti e reali.

Si ricorre invece allo stereotipo antico ed usurato “dell’anno zero”. Non si produce nulla di nuovo ma si ignora bellamente l’esistente. È vero che non c’è nulla di più inedito che quello che è stato scritto, ma sentire ancora presentare come “vicende oscure” eventi già più volte approfonditi e descritti, fa capire come ci si trovi di fronte non ad un dibattito storiografico ma all’ennesimo uso pubblico della storia. Legittimo, ma appartenente ad un’altra categoria di pensiero e di azione. Rileggere, dopo venti anni, ancora illazioni sulla diretta responsabilità del Pci nell’uccisione dei Cervi, non può che far sollevare allo storico un interrogativo esistenziale: ma io (e gli altri come me) cosa abbiamo fatto/scritto/detto in questi anni? Pensavamo di aver lavorato/ricercato/analizzato e invece? Che fossimo tutti in montagna? O ancora chiusi in qualche gulag nella rossa Emilia? Attendiamo risposte che ci svelino l’arcano, nell’attesa continueremo a fare il nostro lavoro come si potrà, come saremo capaci. Good night and good luck!

 

Capitani coraggiosi di oggi e di ieri

naufragio.jpgCapitani coraggiosi di oggi e ieri. In tempi andati, più romantici e crudeli, il comandante fellone sarebbe stato appeso all’albero di maestra della nave ammiraglia con la flotta schierata a parata. Sepolto con infamia, senza insegne, in mare.

Oggi basta una raffica di twitter e un paio di blog..

Osservazioni lombrosiane a parte (rayban incollato, ricciolo unto, italiano approssimativo), il comandante Schettino sembrava più un figurante dimenticato a bordo dalla troupe di Vanzina che l’eroico discendente di una schiatta di navigatori (di poeti e santi parleremo un’altra volta). Eppure Schettino ci appartiene, è l’epigone (sgangherato e patetico) di una storia lunga e poco nobile del nostro paese, fatta di comandanti vili e felloni che mollano la truppa per salvare la chiappa.

Rinfreschiamoci la memoria: 9 settembre 1943, sua maestà Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e volontà della Nazione Re d’Italia e Albania, Imperatore etc…, prende armi e bagagli e fugge da Roma con la corte e l’argenteria. Roma era ben difendibile, avevamo una netta superiorità in termini di truppe e mezzi. Niente, tutti in auto e via nella notte. Direzione Pescara. Al porto attende la corvetta Baionetta per portare “Sciaboletta” e i suoi a Brindisi, al sicuro dagli alleati (nuovi, nuovi).

A parti invertite rispetto a oggi si verificò non la fuga ma l’arrembaggio alla nave. Generali, marescialli, colonnelli, attendenti, conti, baronesse, palafrenieri, ognuno a tentare di salire sulla nave, ognuno a spingere e urlare il più classico “lei non sa chi sono io!”. La scena superò talmente i limiti non solo della decenza ma dell’ordine pubblico stesso, che gli allibiti carabinieri di servizio dovettero intervenire per sedare la poco gloriosa rissa. La corvetta stracarica partì (purtroppo il mare era calmo ed il naufragio fu evitato) lasciando sul molo inviperiti generali con le decorazioni sbilenche, contessine con le trine scompigliate e carabinieri che a stento trattenevano le risa per quello che avevano visto.

Il Re aveva abbandonato non la nave ma un paese intero. Non ci fu nessuno quella notte a gridargli “Torni a Roma e faccia finta di essere un uomo!”. Il figliolino Umberto provò a pigolare qualcosa ma si arrese subito eroicamente davanti all’ordine del padre (non era il capo delle forze armate?) e si accodò all’eroico drappello verso Pescara.

Quasi un milione di militari furono lasciati al loro destino, in Croazia, Slovenia, Francia, Grecia, Italia, Albania etc…: I più fortunati arrivarono a casa, per gli altri una fucilata o il destino di IMI in Germania.

“Torni a Roma e faccia finta di essere un uomo (e un Re)!” Povero Vittorio, nessuno glielo gridò, magari avrebbe avuto un sussulto di dignità e di vergogna (non poteva sapere che suo pronipote avrebbe fatto il ballerino scemo in tv..). Ma la cosa più incredibile per chi abita oltre Chiasso è che solo tre anni dopo, quando si trattò di votare per la scelta istituzionale, al Referendum del 2 giugno, la monarchia perse di poco in sede nazionale e trionfò nel sud. Tutto dimenticato. Viva o’re! Non stupiamoci se fra un paio d’anni troveremo Schettino all'”Isola dei Famosi”, in fondo non è un uomo di mare?

E’ questa l’Italia, tutta insieme, l’Italia di chi, comandante, fugge e fa ammazzare gli altri, e poi magari cerca anche scuse (quella di “sciaboletta” fu di aver dovuto “salvare la continuità dinastica”, quella di Schettino cosa sarà? Uno scoglio nuotava in direzione contraria?) e l’Italia di chi rimane al suo posto, fa quello che semplicemente deve fare. Anche il 9 settembre fu così, fuggito il Re moltissimi lo seguirono abbandonando tutto, altri rimasero al loro posto, combattendo ove possibile (Cefalonia, Lero..) o semplicemente seguendo il destino dei propri sottoposti verso la prigionia.

Non ci sono eroi, ci siamo serviti del povero Salvo D’Acquisto per far dimenticare i suoi generali in fuga, anche il cap. De Falco non era forse al corrente degli “inchini” divenuti ormai abituali? Ma nel momento del crollo ha fatto il suo lavoro, non ha fatto finta. Semplice dovere. Ci sono queste due Italie, una migliore e una peggiore, una che fa il suo dovere e l’altra che al massimo lo fa se conviene, se non costa fatica, pronta al primo squillo d’allarme alla fuga, al tradimento, al silenzio. Sempre pronta a correre in soccorso del vincitore. L’Italia ben raffigurata da quella maschera che non ho mai tollerato che si chiamava Alberto Sordi. Ognuno valuti quale delle due è dominante, a seconda del periodo storico, delle congiunture, ricordando sempre, come diceva il poeta: “La storia siamo noi, nessuno si senta escluso”, ma neppure assolto o definitivamente buono.

Patria? Repubblica, semmai (Massimo Raffaeli)

e_nata_la_repubblica_italiana.jpgNon credo di avere mai pronunciato la parola “Patria” se non distanziandola ironicamente e cioè utilizzandola in un senso decisamente critico e talora persino revulsivo, lo ammetto. È vero che essa compare all’inizio della Marsigliese, il solo inno nazionale che tuttora riesca a emozionarmi, ma la “Patrie” del primo verso scritto da Rouget de Lisle per l’Armata del Reno è qualcosa che non riesco ad associare al nazionalismo e cioè al sentimento di orgogliosa superiorità, di più o meno dissimulata primazia, insomma di nazione in armi che la stessa parola, se detta in italiano, evoca immediatamente.

La “Patria” da noi si riferisce non a una comunità civica ma etnica e già virtualmente belligerante, essendo un termine che il militarismo della prima guerra mondiale e il fascismo hanno reso infetto, inerte, mortuario. “Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria”: il Carnefice e insieme Beccamorto del suo stesso paese che la pronunciò dal balcone di Palazzo Venezia il 10 giugno del 1940 non avrebbe potuto scegliere un’altra parola, dal suo punto di vista. Per parte mia, sono cresciuto in una famiglia di antifascisti, nessuno me ne ha mai vietato espressamente l’utilizzo ma fatto sta che in casa non l’ho mai sentita: crescendo, ho scoperto che si trattava di un tabù sia per la cultura dei Lumi sia per la tradizione marxista. Mio nonno Francesco, della classe 1898, un ciabattino giudeo con la terza elementare, mi raccontava sempre che a Trieste la mattina del 4 novembre entrando in un caffè dove si festeggiava la Vittoria non riuscì a trattenersi dal dire più o meno “… ma questi sono matti a venire in Italia…” Il fatto è che il nonno, un ragazzo di vent’anni, quella mattina aveva visto il pane bianco di farina per la prima volta in vita sua. Dunque che cos’era la Patria per lui? Il pane nero di vecce, la miseria. Lo stesso Primo Levi distingue cavillosamente fra troppe accezioni della parola “Patria” per poterla accettare d’acchito e infatti, sottotraccia, la respinge. È ovvio che chi prende le distanze dalla “Patria” non può che rigettare il ritorno (per cui oggi molti latrano, in Italia) alle Piccole Patrie pre-risorgimentali i cui segnacoli grotteschi, l’acqua del Po o il sangue di San Gennaro, rimandano direttamente alla metafisica del sangue e del suolo, insomma a una mistura postmoderna di xenofobia padana e sanfedismo meridionale. Patria? Non dovremmo mai dimenticare, specie festeggiando il centocinquantenario, che il nostro Risorgimento è stata la Resistenza: ora come allora, si dovrebbe dire solamente Repubblica.

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