I Cavalieri Del Nulla. L’Ordine e la Regola (di Martino Branca)

L’Ordine dei Cavalieri Del Nulla è una Regola, non una struttura. Prende forma definita e concreta a periodi, con geometria variabile. Si incarna, assumendo la veste e la consistenza di un esercito multiforme, ogni volta che l’accenno di un movimento o addirittura un segno di vita in un punto qualsiasi dello suo spazio geografico segnalino l’urgenza di un intervento repressivo. Tuttavia di norma l’Ordine è dormiente, vive in sonno allo stato potenziale, disaggregato nelle sue componenti: le Confraternite del Nulla. Queste viceversa hanno carattere stabile, continuità e organizzazione; all’interno si articolano in diete, comitati, organi fiduciari, funzioni condottiere. Per evidenziare la durata e la quadratura culturale del proprio impegno esse assumono quasi sempre nomi riferiti all’universo scientifico: l’astronomia (“Cinque Stelle”), la botanica (“Sinistra Radicale”), la ginecologia (“Travaglio”) eccetera.

Le Confraternite non sono uguali né equipollenti. Pur nell’osservanza rigorosa della Regola, esse si differenziano per l’indole, la taglia e soprattutto quanto ai modi dell’operare, che sono tipici di ciascuna: l’inquisizione (“Travaglio”), l’ostruzione (“Cinque Stelle”), il deragliamento (per i radicalisti c’è sempre, di lato, qualche altra priorità), il rinvio ad una palingenesi cosmica futura (tutti).

Unità operativa di ogni Confraternita, e attraverso questa dell’Ordine, sono i Cavalieri Del Nulla, insieme opliti ed eroi, materia e simbolo.

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L’orizzonte dell’Ordine Del Nulla è la quiete assoluta, l’assenza di quantità di moto. L’Ordine esiste in funzione dell’esistente. Il suo imperativo è la preservazione dell’immobilità dell’essere, perciò esso combatte ogni possibile divenire del contesto di cui è parte. Tocca ai suoi organi costitutivi, le Confraternite, il compito di segnalare accenni anche minimi di cambiamenti, embrioni di processi evolutivi, focolai di movimento. Non appena percepita una vibrazione, una Confraternita si attiva e sollecita le altre a fare squadra, a destare l’Ordine dalla sonnolenza, per incarnare tutte insieme attivamente – s’intende pro tempore –  il verbo della Regola.

All’interno di ogni Confraternita i Cavalieri riproducono il dispositivo che governa la relazione tra l’Ordine e il mondo. Essi sono votati a preservare la Confraternita dal divenire, a mantenerla per sempre uguale a sé stessa. Accade raramente che un Cavaliere, violando la Regola, colto da una inopinata pulsione vitale tenti di modificare lo statuto o lo stile della sua Confraternita, ovvero che, assurto per combinazione a responsabilità di governo, dispieghi un progetto ambizioso, diverso dal Nulla. In quei casi un Campione o una Cerchia cavalleresca si ergono,  disarcionano il traditore, lo espellono o lo inviano in un paese lontano.

Come alle Confraternite anche ai Cavalieri è imposto il vincolo dell’eterna uguaglianza a sé stessi. Ad esempio, se all’atto dell’Ordinamento e dell’assunzione del Voto di fedeltà un Cavaliere indossa i baffetti, quello sarà il suo vessillo fino al termine dei suoi giorni.

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Ogni Cavaliere del Nulla dispiega la sua opera su tre livelli – la nazione, la Confraternita, la persona – ma con metodi differenti. Nella dimensione più ampia egli non ostacola la formazione di governi esterni all’Ordine, altrimenti non vi sarebbe stabilità né stasi. Simula ostilità e assalti ma osserva attentamente i governanti: purchè non causino alcun tipo di cambiamento egli nel suo cuore li ama e li rispetta, e senza apparire spende la sua indole generosa per aiutarli a superare le loro crisi.

Diverso è il portamento del Cavaliere all’interno della sua Confraternita di pertinenza. Qui egli è inflessibile nell’impedire che la Confraternita dia vita o prenda parte all’amministrazione della nazione o di un segmento di essa. Qualora per un capriccio del popolo o per una sfortunata combinazione astrale la sua Confraternita sia indotta a governare, il Cavaliere del Nulla attacca quella compagine esecutiva fino a provocarne la caduta e procede contro i responsabili affinché siano sfiduciati per sempre. Se si è distinto nella battaglia gli vengono tributate ovazioni, poi viene dimenticato. Non è escluso tuttavia, benché accada raramente, che un Cavaliere dall’intelligenza spregiudicata partecipi, per astuzia tattica, ad un’attività di governo. In quel caso egli trasgredisce in apparenza, allo scopo di procurarsi un’occasione più alta di diniego. Ad esempio, la mattina partecipa all’attività del consiglio dei ministri, il pomeriggio scende nell’Arengo e da lì marcia in massa contro il proprio Ministero. Per questa via il Cavaliere, reprimendo nel medesimo tempo la Confraternita e sé stesso,  raggiunge la condizione del Sublime.

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La storia procede, in un modo o nell’altro. Il Cavaliere Del Nulla è ben conscio di non poterne fermare il corso. Tuttavia resta tranquillo perché sa che la logica è dalla sua parte. Egli non perde mai di vista la Regola e difende con tutta le sue capacità lo stato di cose esistente. È il Campione del Presente e il nemico implacabile del Futuro e del Passato: si impegna con pari energia tanto per bloccare qualunque moto di avanzamento quanto per impedire ogni tentativo di ripristino. Quando le circostanze avverse o la preponderante forza del nemico producono, nonostante i suoi sforzi, una innovazione qualsiasi Il Cavaliere De Nulla non si scoraggia. Egli sa attendere che il cambiamento si affermi e si consolidi, e perciò stesso termini di prefigurare Futuro e diventi attualità. A quel punto il Cavaliere lo riconosce come Presente e si dispone a difenderlo, anzi  diventa il suo Campione. E così via.

In forza del medesimo logos, Il Cavaliere Del Nulla si oppone sempre alla riparazione di guasti prodotti da attività pubbliche pregresse, perché le ritiene ormai legittimate dal tempo trascorso. In generale egli non cade mai in contraddizione perché è attento alle circostanze. Lo spirito della Regola gli consente, anzi gli impone, di colpire duramente iniziative e intenzioni oggi pericolose per la quiete, incluse quelle che in passato aveva sostenuto quando un diverso contesto le rendeva innocue.

Il Cavaliere agisce sempre in funzione del Principio Superiore del Nulla e non indulge alle categorie della morale comune, quali il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, l’utile e il dannoso.

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IL Cavaliere Del Nulla combatte strenuamente contro la vita, ispirato dalla Regola dell’Ordine. In generale egli agisce come oplita dell’alleanza delle Confraternite, nel rispetto delle disposizioni statutarie che sono parte inevitabile delle condizioni al contorno. Ma è all’interno della sua Confraternita che egli da il meglio di sé, dimostrando di saper coniugare il rigore con la licenza, la creatività con la norma.

Egli non dimentica mai la scala dei valori autentici, che pone il Nulla al disopra di tutto, perciò non si lascia influenzare da ricatti ideologici. Dentro la Confraternita accetta il gioco democratico, ma con riserva, solo  finchè questo gli garantisce spazio nella maggioranza degli adepti. Ma non appena si accorge di trovarsi ai margini della partita egli ripudia la democrazia, riconosce la maggioranza come forza nemica della Regola e la combatte. Se la battaglia volge a suo sfavore il Cavaliere è colto da un sospetto crescente. Ha motivo di credere che la sua Confraternita sia in contrasto con l’Ordine, perciò la abbandona senza rimpianti. E con i compagni ed i seguaci ne fonda immediatamente una nuova, più piccola ma più aderente alla Regola.

Non sempre l’atto rifondativo risolve la contraddizione. Può darsi che nella nuova Confraternita il Cavaliere si ritrovi nello stato di minoranza che lo aveva indotto a lasciare quella originaria. Egli non si avvilisce per questo. Sa dalla logica che lo spazio politico è divisibile all’infinito, e provvede ad una ulteriore scissione. Sicché avviene che esistano Confraternite talmente numerose che solo la rete di interconnessione globale può governarle, accanto ad altre piccolissime, consistenti in una sola persona (“Travaglio”, “Civati”).

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Così come combatte e si ingegna per mantenere il Tempo in un eterno Presente, allo stesso modo il Cavaliere Del Nulla difende la forma dello Spazio da ogni tentativo di alterazione. E poiché l’Architettura è l’insieme delle modifiche e delle alterazioni operate sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane, essa è il principe dei suoi nemici. Esperto di comunicazione e arte retorica, il Cavaliere non la nomina mai, ma vi allude con disprezzo, usando i nomi dei materiali ordinari da costruzione: “Il Mattone”, “Il Cemento”. L’astuzia gli consiglia di evitare, nella sineddoche, parole altrettanto pertinenti (Pietra, Acciaio, Vetro, Titanio) ma pericolosamente suggestive per la semplice psicologia del popolo. Egli sa di essere il custode dell’inerzia delle sue città e dei suoi contadi, perché lui solo è indifferente agli esempi inquietanti forniti dal resto del mondo: sviluppi impetuosi di reti, innumerevoli e monumentali opere pubbliche, torri spericolate.

Con analoga, simmetrica lucidità il Cavaliere Del Nulla si oppone all’anastilosi dei monumenti caduti. Egli è conscio del pericolo insito nel ripristino: la restituzione della forma architettonica perduta. Conservando ai ruderi la condizione attuale, mantenendoli a terra, muti e inerti, garantisce la funzione di preziosa testimonianza degli eventi banali che li hanno ridotti al silenzio: i cataclismi, i terremoti, le guerre.

https://ytali.com/2016/11/03/i-cavalieri-del-nulla-lordine-e-la-regola/

La sinistra immobile e la svolta di Theresa May

29 ottobre 2016

La sinistra immobile e la svolta di Theresa May

Secondo il Washington Post la sinistra europea sta morendo. Il voto su Brexit e l’ultimo discorso della premier britannica sulla Gig Economy lo confermano

EDITORIALE

 Dal numero di pagina99 in edicola il 29 ottobre 2016
Sul Washington Post del 24 ottobre Sheri Berman, docente di Scienze politiche al Barnard College di New York, ha scritto che la sinistra tradizionale europea sta morendo. Più esattamente il titolo suonava così: Europe’s traditional left is in a death spiral. Even if you don’t like the left, this is a problem (“La sinistra europea tradizionale è in una spirale di morte. Anche se non amate la sinistra, questo è un problema”). Si può essere d’accordo o meno, ma il ragionamento merita attenzione.

Berman dice che la crisi economica, il disastro greco, la sfiducia verso le istituzioni comunitarie hanno molte origini: per esempio il neoliberismo e la scarsa credibilità dell’Europa. Ma il declino del centro-sinistra in molti Paesi è certamente una delle cause di questa crisi. La sinistra si sta consumando come una candela: i socialdemocratici tedeschi sono al 20%, i laburisti britannici sono in una crisi senza precedenti, i socialisti francesi sono al minimo storico nei sondaggi. E persino i socialdemocratici del Nord Europa hanno subito pesanti batoste elettorali.

La sinistra ha perso il ruolo di stabilizzatore sociale che aveva svolto nel Dopoguerra, quando fu il pilastro fondamentale che consentì di consolidare un mercato economico scosso dalla crisi del ’29 e dal conflitto che ne seguì. Allora aveva una visione del mondo che le consentiva di governare una società in trasformazione. Poteva tenere sotto controllo le spinte centrifughe di un capitalismo rampante e di una classe di lavoratori in cerca di benessere. Sapeva tenere insieme le esigenze della crescita economica, l’efficienza della democrazia e la stabilità sociale.

Dopo il crollo del 2008, sostiene Berman, questa capacità sembra essersi esaurita. Da allora il centro-sinistra sembra incapace di fornire nuove idee per promuovere l’economia senza compromettere il benessere dei cittadini comuni di fronte agli squilibri del libero mercato. È una difficoltà che ha le sue radici nei decenni precedenti, quando il mondo globalizzato ha imposto al fronte progressista di coniugare i tradizionali principi di solidarietà sociale nei confronti delle classi sociali meno abbienti con le idee emergenti del multiculturalismo che si sono imposte come effetto naturale delle grandi migrazioni.

Secondo Berman la crisi cominciò allora, in assenza di una sintesi che consentisse di tenere insieme i diversi gruppi sociali e le diverse culture; e questo ha portato a una frammentazione che ha indebolito la sinistra in tutta Europa. Questo declino ha lasciato spazio a forze alternative, che spesso si ispirano alla destra che vorrebbe risolvere la crisi tagliando il welfare, o addirittura alla destra xenofoba, che individua negli immigrati il nemico da combattere e nell’autarchia la soluzione ai problemi della globalizzazione.

La terza opzione – quella di Corbyn in Gran Bretagna, di Syriza in Grecia, di Podemos in Spagna – è in grado di mobilitare molti scontenti ma, dice Berman, incapace di fornire soluzioni adeguate. Tutto ciò ha portato larghi strati di popolazione, un tempo legati alla sinistra, a spostarsi verso la destra populista. È accaduto nel Regno Unito nel corso dell’ultimo referendum sulla Brexit e anche negli Stati Uniti, dove larga parte dei lavoratori bianchi sembra orientarsi su Donald Trump.

È istruttivo, da questo punto di vista, quello che ancora sta accadendo in Gran Bretagna. Negli ultimi anni l’evoluzione dell’economia digitale ha cambiato i connotati di milioni di posti di lavoro trasformandoli in occupazioni precarie e mal pagate. È quella che negli Stati Uniti è stata battezzata Gig Economy, l’economia dei lavoretti (a cui dedichiamo la copertina del numero in edicola questa settimana), dove a guadagnare sono gli azionisti di poche grandi piattaforme tecnologiche (come Uber) mentre a lavorare, per pochi soldi e senza garanzia, sono milioni di giovani sottopagati. In altri tempi ci si sarebbe aspettato che la sinistra avesse preso la guida di un movimento di protesta contro una modernità che sta peggiorando le condizioni di vita dei cittadini.

Invece niente di tutto questo è accaduto. A scendere in campo è stato invece il neo primo ministro britannico, la conservatrice Theresa May. In un discorso che molti hanno considerato storico, alcuni giorni fa la May ha detto che i diritti tradizionali dei lavoratori vanno estesi a quelli della cosiddetta Gig Economy, sostenendo che è necessario adattare le vecchie regole al mondo del lavoro che cambia, riferendosi esplicitamente ad aziende come Uber e Deliveroo. E ha affermato che è necessario aumentare la sicurezza e i diritti del lavoratori «per costruire un Paese che funzioni per tutti, non solo per pochi privilegiati», «mantenendo la flessibilità del lavoro ma garantendo la sicurezza e i diritti dei lavoratori», forse anche imponendo un loro ingresso nei board aziendali. Sono chiacchiere, certo, ma forse varrebbe la pena rifletterci.

La crisi della sinistra mette a rischio la democrazia (Aldo Schiavone)

Le nuove forme di lavoro sono diverse dal passato: attraverso di esse spesso non passa più alcuna strada verso eguaglianza ed emancipazione

di Aldo Schiavone

C’ era una volta la sinistra italiana. Ora, sono rimaste solo le sue lacerazioni e i suoi contrasti. Ma dove più le idee, i progetti, le interpretazioni nutrite di analisi e di previsione? La campagna per il referendum si sta rivelando per entrambi gli schieramenti (nonostante le molte ragioni del sì) la rivelazione spietata di una condizione penosa: con i rancori e le divisioni invece del pensiero. Certo, si potrebbe dire che quando rifletteva la sinistra non vinceva: e vi sarebbe persino qualcosa di tragicamente vero nella battuta; e però, chi ha stabilito che per governare bisogna smettere di pensare?

Fuori d’Italia, tuttavia, le cose non vanno meglio. Dov’è la socialdemocrazia tedesca, che in un momento cruciale per il suo Paese — di nuovo, dopo settant’anni, proiettato sulla scena del mondo — sembra ridotta al silenzio, e non ha una proposta, un’alternativa, una critica? E cosa ne è dei socialisti francesi, che balbettano senza uno straccio di riflessione su cosa stia diventando la Francia? Per non dire (sorvolando sugli spagnoli e gli inglesi) dei democratici americani, alle prese, anche se non solo per colpa loro, con la peggiore campagna elettorale che si ricordi, in cui non viene sollevato un tema, o indicato un orizzonte, né politico né sociale, davvero all’altezza di una leadership globale — altro che presidenza del pianeta!

La verità è che siamo di fronte a un problema che coinvolge le sinistre dell’intero Occidente: alle prese con una crisi di identità e un deficit di pensiero che sono probabilmente i più gravi di tutta la loro storia, dalla Rivoluzione francese in poi. Ma denunciare questo vuoto ormai non basta più. Bisogna scoprirne la causa, e cercare di porvi rimedio. Non è in questione solo il destino di una parte politica (che potrebbe anche non stare a cuore). Senza una sinistra degna di questo nome, o di qualcosa che ne prenda il posto, è l’intera democrazia dell’Occidente, se non addirittura l’idea stessa di politica, a ritrovarsi in pericolo: come infatti dovunque sta puntualmente avvenendo.

La causa, innanzitutto. Il pensiero democratico moderno — sia nella versioneliberalamericana, sia in quella europea, di impronta socialista — è rimasto fondamentalmente una cultura legata al mondo industriale; al mondo, cioè, che lo aveva prodotto. Presupponeva un tessuto sociale centrato sulla grande industria manifatturiera e sul lavoro intellettuale che ne era premessa e conseguenza — classe operaia e professioni «borghesi» o di middle class.

Quando quell’universo si è polverizzato nell’impatto con la rivoluzione tecnologica, alla fine del ventesimo secolo, la tradizione democratica e socialista non è stata capace di analizzare la profondità sconvolgente della trasformazione, né tantomeno di adeguarvisi. È rimasta aggrappata ai molti relitti del vecchio mondo, ed è diventata, suo malgrado, obbiettivamente conservatrice: vorrebbe parlare del futuro, ma non fa che evocare i fantasmi del suo passato; non sa più rivolgersi ai popoli, ma riproduce solo élite. I rimedi. Non c’è speranza senza ricostruire in modo radicale le categorie fondamentali del pensiero democratico-socialista (questo vale anche per l’America), a cominciare dalla coppia fatale che regge tutto il resto: il lavoro e l’eguaglianza.

La modernità si è formata intorno alla forza di socializzazione e di eguagliamento del lavoro di massa produttore di merci, e del suo contraltare intellettuale. Il lavoro come straordinario motore di emancipazione e di legame sociale. Quel lavoro, oggi, è in via di estinzione, almeno in Occidente: le sue nuove forme sono completamente diverse, e attraverso di esse spesso non passa più alcuna strada verso l’eguaglianza e l’emancipazione, ma solo frantumazione e competitività. Come rispondiamo? E di quanta — e soprattutto di quale — eguaglianza ha bisogno una democrazia, perché continui a funzionare? Siamo perduti, se non rispondiamo.

Referendum. Il sì di Obama. E perché no? (di Guido Moltedo)

Scrive Ida Dominijanni sul suo profilo facebook, a proposito delle dichiarazioni di appoggio a Renzi da parte di Obama, nel discorso di benvenuto al presidente del consiglio alla Casa Bianca martedì.

Certo che se uno va negli Usa preceduto da una mega campagna che spaccia la riforma della Costituzione (escludo che Obama o chi per lui ne abbia letto l’articolato) per una bacchetta magica che elimina la burocrazia, rilancia la crescita e dà sprint all’Europa intera, il Presidente americano lo prende in parola. Specialmente se gli serve a dare una botta a Merkel – di cui gli Usa diffidano profondissimamente – e a Putin. Il che non toglie che sarebbe stato quantomeno più saggio, per Obama, esporsi di meno e magari informarsi di più. L’unica cosa certa tuttavia è che lo spot è fatto a uso dei soli italiani. Ero negli Usa per la visita di Berlusconi a Bush e a Obama medesimo e i giornali e le televisioni americane non si sono accorti né della prima né della seconda.

Successivamente si è sviluppato un dibattito, come accade su fb, e Ida è intervenuta più volte, che si può seguire sul profilo di Ida Dominijanni. Pubblico qui il mio commento che appare nella discussione che segue:

Credo che una visita di stato vada osservata e valutata con una visione un po’ diversa da quella che tu proponi, specie se si tratta di un incontro in pompa magna tra due alleati di vecchia data (o, come qualcuno ritiene, dell’incontro tra un re e un suo vassallo, una cornice però – sarai d’accordo – che a mio avviso non s’attaglia ai tempi attuali, né ai due protagonisti, per tantissime ragioni, molte delle quali evidenti. Chi lo dice è semplicemente orfano degli schemi della guerra fredda, schemi che – già, neppure quelli, forse! – non spiegavano la realtà, come si riteneva a quei tempi).

Chiunque osservi l’Italia in questo momento, occupando un posto di leadership, come Barack Obama, o come Merkel, o come Putin, ha lo sguardo rivolto al 5 dicembre molto più che al 4 dicembre. Ogni cancelleria valuta, secondo il proprio metro, le conseguenze del referendum, il day after. E che cosa vedono da fuori? Quale scenario considerano migliore?

Può darsi che sbaglino tutti, da Washington a Berlino, che sbagli anche il Pse, certo è che colpisce la comune percezione di un’Italia messa molto peggio dopo la vittoria del no rispetto a un’Italia, il giorno dopo un successo del sì. Merito della propaganda del sì. Chapeau! Se è così, la macchina di Renzi funziona in modo eccellente, non altrettanto quella di chi s’oppone al presidente del consiglio.

Ma non sarebbe forse più facile e semplice considerare che i media stranieri che lavorano in Italia, le sedi diplomatiche, le filiali della imprese internazionali che operano nel nostro paese non si lascino incantare da una propaganda governativa, per quanto ben fatta e martellante, ma s’attengano soprattutto ai risultati di proprie indagini e valutazioni? Non hanno antenne proprie? E anche se un po’ acciaccati, non sono attivi anche i servizi d’intelligence?

Con l’uscita del Regno Unito dalla Ue, con la crisi profonda della Turchia, con il protrarsi dei problemi in Grecia, con l’instabilità politica senza fine della Spagna, basta dare un’occhiata alla carta geografica per capire l’importanza geopolitica che ha l’Italia. L’ha sempre avuta, non l’ha mai sfruttata (diversamente dalla Turchia di Erdoğan e direi, in tempi ormai remoti, dalla Grecia di George Papandreou senior e Andreas), ma oggi è evidente anche a un bambino, con il dramma infinito dei profughi, con i focolai mediorientali, il ribollire dell’Africa, la nuova conflittualità nei Balcani, che la nostra Penisola è il perno forte di qualsiasi politica mediterranea e mediorientale. A condizione, dicono, gli alleati dell’Italia, che a Roma ci sai un governo che governi. Renzi è considerato il leader più adatto a governare l’Italia in questa fase, anche in riferimento a quest’ordine di problemi. Su questo si discute anche in Italia, non si vede perché non debba esserci una risonanza all’estero.

S’aggiunga poi che, dal punto di vista americano (del “sistema” americano, non di Obama), l’uscita del Regno Unito dalla Ue può consegnare all’Italia il ruolo di partner “speciale” finora avuto da Londra, non solo per la sua posizione geopolitica ma anche per essere con Germania e Francia l’unico paese di rilievo nell’Unione Europea, un’Unione europea che l’America oggi vuole più solida, più coesa, più dinamica, e non un’Europa fragile, nei nuovi equilibri planetari, determinati dal protagonismo di Cina, Russia e India (oltre che Corea, Indonesia e, in parte ormai minore, dall’America latina).

Di fronte allo scenario che ho molto schematicamente tratteggiato, e che merita altri tasselli per essere completo e ben altro approfondimento, Obama avrebbe dunque dovuto riservare a Renzi un’accoglienza di minore profilo? Avrebbe dovuto prendere in considerazione il testo della riforma costituzionale prima di esporsi in un endorsement a Renzi e al sì? Certo, avrebbe fatto meglio a non dire la sua. Ma non perché Obama, o qualsiasi altro leader straniero, possa considerare non conforme a parametri di democrazia il testo proposto agli elettori il 4 dicembre, come fosse partorito da un Erdogan o da un Sisi! Un testo già approvato dal parlamento italiano!

Non credo neppure – più in generale – che sia prova di buon senso indignarsi se il mondo osserva con interesse, facendo le sue valutazioni, quanto accade in Italia. Non fosse così, ne sarei molto preoccupato, significherebbe semplicemente che siamo fuori del mondo, e a me non piace un’Italia – lo è già troppo – fuori del mondo. Un simile destino per l’Italia mi preoccupa molto, molto più delle immaginarie derive autoritarie attribuite a Renzi, queste sì, eventualmente, propiziate da una nostra estraneità al mondo, da un’orgogliosa autosufficienza nel mondo interconnesso. Un’Italia politicamente, culturalmente autarchica, sì, questa sì mi spaventa.

Del discorso di Obama, in riferimento ai fatti italiani, a me ha infatti colpito un altro passaggio, nel quale sottolinea la centralità di internet, dell’interconnessione, che caratterizza il nostro tempo, e che implica una velocità molto maggiore dei processi, compresi quelli democratici: “in un mondo globale guidato da internet un governo dovrebbe potersi muovere in modo veloce e trasparente” (in a global internet driven world a government ought to move quickly and transparently)

Senza ficcarsi in un falso, sterile e fuorviante dilemma – idealizzare o demonizzare la rete (similmente come si è fatto e si fa con la globalizzazione) – è un fatto che il mondo di oggi è un altro mondo rispetto a quello novecentesco, e sempre più lo sarà, sempre più rapidamente, innanzitutto per via della rapidità dei processi in ogni campo, politica compresa, ovviamente, e della continua interazione tra loro. Chiunque si occupi di “regole di gioco” nella politica, nella rappresentatività, nei processi di decisione di governo, deve dare la massima priorità, nelle sue considerazioni, al nuovo “ambiente” in cui viviamo. A me personalmente, interessa molto di più entrare in una grande conversazione su quest’ordine di problemi che intrappolarmi in una discussione dai contorni continuamente cangianti, tra politica immediata e assetto istituzionale, secondo i modi e i tempi del secolo scorso, con in più l’immancabile contorno del Grande Fratello americano – un gigante oggi molto piccolo – che ci dice cosa dobbiamo fare.

 

https://ytali.com/2016/10/19/referendum-il-si-di-obama-e-perche-no/
 19 ottobre 2016

Referendum. I “due” Pd a un punto di non ritorno (Patrizia Rettori)

Da qualunque prospettiva la si guardi, la direzione Pd di lunedì 10 ottobre appare un punto di non ritorno. La frattura tra le due parti in conflitto non potrà più essere composta, neppure nel caso di un’improbabile tregua pre-referendaria, quale sarebbe la costituzione in tempi rapidissimi della “commissione” proposta da Renzi per indagare la possibilità di riformare l’Italicum. E allora davvero il referendum si trasforma in una specie di giudizio di Dio, da cui dipende non solo la sorte della Costituzione, ma anche il destino del partito democratico e, per ovvia ricaduta, anche quello di tutti gli altri attori politici del momento.

Inutile affannarsi nella ricerca dei colpevoli. Come insegna il buon senso, le responsabilità sono distribuite. Magari non equamente, perché un leader, per definizione, è sempre più responsabile degli altri, ma certo i suoi avversari non sono innocenti. In ogni caso, si tratta ormai di un esercizio improduttivo. È più utile riflettere su quel che potrà accadere d’ora in poi, e cioè dopo il referendum.

Se vincesse il Sì, è difficile che Renzi usi clemenza verso gli sconfitti. Non l’ha fatto quando avrebbe potuto tornargli utile, figuriamoci se lo farà gratis. Tanto per fare un esempio: quando si liberò la poltrona del ministero delle Infrastrutture il premier avrebbe potuto offrirla a Bersani, e la storia del Pd sarebbe stata diversa. Non è successo perché Renzi non procede così e magari il tempo gli darà ragione. Ma sta di fatto che, se uscirà vittorioso dal referendum, la minoranza sarà annichilita dentro il partito e non avrà altra strada che uscirne. Bersani, per quel che se ne sa, non vuole, ma non si vede quale scelta alternativa abbia, tranne che ritirarsi a vita privata.

A quel punto si formerebbe, a sinistra del Pd, una formazione con qualche speranza di ottenere una percentuale elettorale a due cifre. Che tuttavia, per il meccanismo dell’Italicum, difficilmente riuscirebbe ad essere in partita. Ma ci sono due incognite, e la prima è nel giudizio della Consulta sull’Italicum: se infatti alcune parti della nuova legge elettorale fossero bocciate i giochi si riaprirebbero e per Renzi potrebbe essere necessario coalizzarsi proprio con i suoi ex avversari interni.

La seconda incognita deriva dalla presenza in campo del M5S. È vero che l’eventuale vittoria del Sì potrebbe segnare l’inizio del declino anche per i grillini, ma è altrettanto vero che l’Italicum in un sistema multipolare rischia di avere una funzione punitiva per il partito più forte, e cioè il Pd. Col risultato che, in caso di vittoria del M5S alle elezioni politiche, Renzi sarebbe spazzato via, e il Pd dovrebbe rifondarsi su nuove basi. Destino che toccherebbe anche alla destra. Se invece Renzi vincesse alle politiche, il suo Pd finirebbe per assomigliare molto all’antica Dc e renderebbe marginali sia la sinistra che la destra, tanto estrema quanto berlusconiana.

Se invece vincesse il No, ipotesi tutt’altro che peregrina visti gli schieramenti in campo, è evidente che Renzi, pur non obbligato alle dimissioni, sarebbe giunto al capolinea. In ogni caso non si potrebbe andare subito alle elezioni perché saremmo di fronte ad un sistema elettorale paradossale: l’Italicum, legge già approvata, è in vigore solo per la Camera, mentre il Senato, salvato appunto dal No, dovrebbe essere eletto con il proporzionale, derivante dal cosiddetto Consultellum, ovvero ciò che rimane del vecchio Porcellum dopo la sentenza della Corte costituzionale. Sarebbe dunque giocoforza rimettere mano alla legge elettorale: compito da far tremare le vene e i polsi visto il tasso di litigiosità tra i partiti e dentro i partiti. E nel frattempo bisogna governare, cioè fronteggiare una crisi economica che non accenna a diminuire. Oneri che peserebbero tutti sulle spalle dell’attuale minoranza Pd, alla quale la vittoria del No regalerebbe un futuro denso di possibilità ma anche di trappole micidiali.

Entrambi gli scenari sono poco piacevoli. Poteva andare diversamente? Certo che sì, ma ormai la frittata è fatta e i rimpianti sono fuori tempo massimo.

https://ytali.com/2016/10/11/referendum-i-due-pd-a-un-punto-di-non-ritorno/

La Repubblica Ceca ha dei problemi con Oskar Schindler

Il progetto di trasformare l’ex campo di concentramento ed ex fabbrica di Oskar Schindler, vicino a Praga, in un memoriale per l’Olocausto sta incontrando diverse difficoltà: finanziarie, innanzitutto. Ma c’è anche una certa resistenza in Repubblica Ceca nei confronti dell’ex industriale che lì era nato e che da molti è ancora oggi considerato come un traditore e un truffatore.

La storia di Schindler è diventata famosa grazie al romanzo dello scrittore australiano Thomas Keneally intitolato “La lista di Schindler”, a cui nel 1993 Steven Spielberg si ispirò per il film Schindler’s List, che vinse diversi Oscar. Nel 1939, all’inizio della Seconda guerra mondiale, Oskar Schindler si trasferì a Cracovia, in Polonia, dove acquistò una fabbrica che all’inizio produsse pentole e in seguito munizioni. Nel 1944, quando l’Armata Rossa cominciò ad aprirsi la strada verso Berlino, i nazisti di Cracovia intensificarono i rastrellamenti. Schindler, con il pretesto di non perdere i suoi 1.200 operai, abili specialisti nella produzione di materiale bellico utile alla Germania, riuscì a trasferirli in una fabbrica in Cecoslovacchia, a Brněnec, a nord-est di Praga: e dunque, di fatto, a salvarli.

Fabbrica SchindlerL’ex fabbrica tessile – che risale al 1840 e che oggi è fatiscente – è il principale progetto dell’Endowment Fund for the Memorial of the Shoah and Oskar Schindler, associazione creata dallo scrittore Jaroslav Novák, che dopo una lunga battaglia legale è riuscita a ottenere a un prezzo simbolico la proprietà degli edifici per trasformali in un memoriale dell’Olocausto e dedicarlo alla storia di Oskar Schindler. Novák sta cercando di avere i finanziamenti necessari dall’Unione Europea e da altre fondazioni nel mondo. Ha raccontato al Guardian di aver ottenuto la promessa di un impegno economico anche dal governo regionale e di essere a buon punto con le trattative con il ministero della Cultura della Repubblica Ceca. L’obiettivo sarebbe ricostruire le strutture originali del campo di concentramento, comprese le torri di guardia, la fabbrica, il lazzaretto e il campo dei prigionieri. I costi della ristrutturazione sono stati stimati intorno ai 140 milioni di corone ceche, circa 5 milioni di euro. La situazione è però critica a causa del pessimo stato degli stabili, che avrebbero bisogno di interventi profondi e immediati.

Oltre ai problemi finanziari il progetto deve superare anche un altro ostacolo, e cioè i sentimenti contrastanti nei confronti di Oskar Schindler. Schindler era nato nel 1908 a Svitavy, nei Sudeti, le regioni di confine nel nord e nell’ovest della Cecoslovacchia, dove viveva una popolazione prevalentemente di lingua tedesca. Diventato membro del Partito tedesco dei Sudeti, legato al Partito Nazista di Hitler, Schindler accettò di lavorare per l’Abwehr, il servizio di intelligence militare della Germania. Prima del film pochi cechi conoscevano Schindler per la storia della sua celebre lista, e in molti hanno continuato ad associarlo alla reputazione che aveva prima della guerra o alla descrizione che ne viene fatta nella storiografia marxista, che non era molto positiva: era considerato un truffatore, un uomo a cui piacevano la bella vita, le donne e il gioco d’azzardo, e un imprenditore che ebbe successo sfruttando il lavoro dei prigionieri ebrei.

L’attuale proprietario della casa dove Schindler è nato, per esempio, si è rifiutato di permettere che venisse affissa una targa in suo onore. Un piccolo monumento dedicato a lui in un parco vicino è stato imbrattato con una svastica pochi giorni dopo la sua inaugurazione, nel 1994. Jitka Gruntová, ex deputata e autrice di un libro molto critico su Schindler, lo descrive come «un traditore e un criminale di guerra» la cui fama di salvatore è basata solamente su «una leggenda falsata». Gruntová sostiene che Schindler fosse un collaborazionista del nazismo e che a un certo punto decise di fare quello per cui è diventato famoso solo per salvare se stesso e i suoi affari. Lo storico locale Radoslav Fikejz è invece più cauto: «Sì, Schindler era un nazista, un criminale di guerra e una spia. Ma ho incontrato 150 ebrei che erano nella sua lista, che sono stati trasferiti nel campo di Brněnec e che dicono di essere vivi solo grazie a quel trasferimento».

Alla fine della guerra Schindler venne accusato di collaborazionismo, riuscì a emigrare in Argentina, ma tornò in Germania nel 1958. Tentò di risollevarsi economicamente avviando alcune attività, ma senza successo. All’inizio degli anni Sessanta visitò per la prima volta Israele, dove venne accolto con entusiasmo e dove il 18 luglio 1967 venne riconosciuto “Giusto tra le Nazioni” dall’apposita commissione dello Yad Vashem. Quella di “Giusto tra le Nazioni” è un’onorificenza concessa ai non-ebrei che agirono in modo eroico a rischio della propria vita e senza interesse personale per salvare la vita anche di un solo ebreo dal genocidio nazista. Schindler morì il 9 ottobre del 1974 ad Hildesheim, in Germania, a causa di un infarto; per suo volere venne sepolto in un cimitero di Gerusalemme.

http://www.ilpost.it/2016/10/12/repubblica-ceca-schindler/

Il linguaggio dell’immaturità (Francesco Cataluccio)

Da parecchio tempo sembra di assistere a ciò che, lucidamente e drammaticamente, aveva descritto il Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov (1880) di Fëdor M. Dostoevskij:

«Ecco l’odierna sorte degli uomini: piccoli bimbi che si sono ribellati in classe e hanno cacciato il maestro. Ma anche l’esaltazione dei ragazzetti avrà fine e costerà loro cara. Essi abbatteranno i templi e inonderanno di sangue la terra. Ma si avvedranno infine, gli sciocchi fanciulli, di essere bensì dei ribelli, ma dei ribelli deboli e incapaci di sopportare la propria rivolta. (…) Noi invece proveremo loro che sono deboli, che sono soltanto dei poveri bimbi, ma che la felicità infantile è la più dolce di tutte».

Alcuni sabati sera fa, quando ho acceso la televisione per vedere le notizie del telegiornale, davano in diretta il comizio di Beppe Grillo a Palermo. Preso da un raptus di curiosità mi sono seduto sul divano e ho iniziato a seguirlo. Mio figlio tredicenne mi si è accovacciato accanto, pronto ad addormentarsi. Invece ho percepito che stava seguendo anche lui. A un certo punto ha sussurrato: «Però su certe cose ha ragione, e poi le dice in modo chiaro e divertente!».

Grillo è indubbiamente un uomo di spettacolo: tiene bene il palcoscenico, capisce quando deve piazzare la battuta, urla e fa finta di arrabbiarsi per rafforzare quel che dice, salta di palo in frasca senza perdere il filo, ma facendolo perdere spesso a chi lo ascolta. Il suo argomentare però pare a volte quello di uno spaccone da bar. A un certo punto, per sottolineare il fatto che l’Italia è in ritardo mentre le tecnologie altrove permettono già una migliore e più giusta qualità della vita, ha fatto un esempio incredibile: «Nel Nord dell’Europa hanno delle auto elettriche che funzionano come degli accumulatori di energia. La sera si attaccano alla spina. La notte l’energia costa la metà perché le fabbriche sono chiuse. La mattina se usi la macchina te ne vai con la tua energia pulita a basso costo, ma se non la usi rivendi l’energia che ha accumulato, sempre con la spina, a chi, a quel punto, te la paga il doppio…».

Bella visione del futuro (se solo la volessimo realizzare!): semplice ed entusiasmante. La ricchezza virtuosa alla portata di tutti. Anche un ragazzino capisce e apprezza. Ciò che fa impressione è l’uso di un linguaggio immaturo, senza riferimenti precisi, basato sul sentito dire da ribadire in una modalità infantile da leggenda metropolitana.
Questo modo di parlare e fare politica non è certamente una cosa nuova, né una prerogativa esclusiva del leader di Cinque Stelle. Come ho mostrato nel libro Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; ed. ampliata e aggiornata: 2014), dalla metà dell’Ottocento, in Europa, ha preso sempre più il sopravvento il mito di una vita priva di riflessione, senza intrusione dell’intelletto. Si guarda con orrore alla maturità come a un sinonimo di conformismo e a un venir meno della propria identità scendendo a patti con un presente che non ci piace (ma che si finisce poi per accettare passivamente e amaramente perché, tutto sommato, più comodo). Aveva ragione Milan Kundera, nel suo capolavoro Il libro del riso e dell’oblio (1981):

«I bambini non sono l’avvenire perché un giorno saranno adulti, ma perché l’umanità si avvicina sempre di più a loro, perché l’infanzia è l’immagine dell’avvenire».

La storia del Novecento ci ha mostrato drammaticamente che una cultura giovanilistica e immatura, e la pratica su di essa basata, sono in realtà assai reazionarie e foriere di disastri: la più grande esaltazione del mito della gioventù è stata fatta dai regimi totalitari, che convincono/costringono i giovani a fermarsi sulla soglia e rimanere immaturi, come farà anche il protagonista del Tamburo di latta (1959) di Günter Grass.

Le avanguardie artistiche, che spesso si piccavano di essere anche avanguardie politiche, sono state il trionfo dell’infantilismo. In modo puerile hanno ritenuto di poter spazzar via il mondo giocando a fare i bambini. E allora abbiamo le poesie fatte di sbang, bum, zang, e bing di Marinetti e degli altri poeti Futuristi; la confusione irrazionale del movimento Dada (cavallino a dondolo); le sterili grida dei surrealisti. Tutti questi movimenti finirono per sposare tragicamente la causa dei due grandi movimenti autoritari del Novecento: il Fascismo e il Bolscevismo. Gli adulti-infantili, come i protagonisti di Zelig di Woody Allen o de Il giovane Holden (1951) di J. D. Salinger, ricercano, più o meno consapevolmente, un padre autoritario, sostituto di quello che non hanno mai avuto, perché ormai privo di qualsiasi credibile autorevolezza. Lo scrittore polacco Witold Gombrowicz, con il suo romanzo Ferdydurke (1937), fu il primo a mostrare che il segno distintivo della Modernità non era la crescita o il progresso umano, ma al contrario il rifiuto di crescere, e che da ciò sarebbero derivati, come puntualmente avvenne pochi anni dopo, soltanto lutti e dolori.

Oggi si assiste in Europa, ma anche in molte altre parti di un globo interconnesso nelle cose peggiori, al dilagare dell’immaturità politica. Le vecchie classi dirigenti hanno perso il sostegno degli elettori a causa della loro incapacità di affrontare gli enormi problemi di un mondo che si fa sempre più piccolo e complesso e, in molti casi, si sono screditate a causa della loro corruzione. Ma “la politica è un’arte”, come ribadì sovente Nicolò Machiavelli: arte della mediazione, conoscenza delle regole, coraggio di andare anche contro l’opinione della maggioranza, rischiando in nome del bene la popolarità, la carriera e, a volte, anche la libertà e la vita. Proprio perché è un’arte, la politica non si impara all’università: la si impara nella pratica, con il ragionamento, non certo per cooptazione. E poi, purtroppo, come si vede continuamente, non basta essere onesti per saper ben governare. Non è sufficiente identificarsi con la gente comune e parlare il loro linguaggio semplice per riuscire ad affrontare le questioni della “cosa pubblica” con saggezza, diplomazia ed efficacia. Semplificare tutto e ragionare meccanicamente e pigramente secondo categorie Bene/Male, Ladri/Onesti, Giovani/Vecchi, Casta/Popolo è segno di immaturità e disabitudine metodica al Dubbio come bussola, grazie alla quale funziona bene la nostra testa e si aprono squarci di comprensione della realtà. L’immaturo ritiene ingenuamente che tra il Bianco e il Nero non esista una vasta, e spesso difficilmente comprensibile, Zona Grigia di tutto. Se non si è abituati a vederla e comprenderla non si potrà mai essere né intelligenti né tolleranti.

Il politico immaturo si mette in sintonia continua con la pancia della gente, rincorre i suoi volubili umori, solletica gli istinti più egoistici. Non pratica un’utile politica e non fa fare nessun passetto avanti per tentare di risolvere i problemi. La cinica demagogia può anche portare alla vittoria nelle elezioni, ma soltanto per una breve ed effimera stagione, che aggraverà ulteriormente i problemi ed esacerberà poi la rabbia e l’aggressività.
L’immaturità politica la si coglie poi ovunque nella popolarità crescente dei movimenti religioso-politici radicali. Una volta che, a partire dalla Rivoluzione francese, la politica non si giustifica più sulla base dell’esperienza e del passato, ma su quella delle aspettative e del futuro, si spalancano le porte alle derive religiose, che in quanto a futuro e ad aspettative sono imbattibili. E naturalmente se la politica manca del tutto di aspettative future (come accade oggi sia in Occidentale che in Oriente) allora il fanatismo religioso e quello politico diviene doppiamente imbattibile.

Appaiono alla ribalta capipopolo immaturi, mossi soltanto dall’ambizione personale e dalla voglia narcisitica di vedere nella gente la conferma delle proprie sciagurate idee. È sempre stato così sin dall’antichità: in ogni epoca storica ci sono stati demagoghi che hanno aizzato con successo folle disperate e quindi miopi. Ma oggi il grande pericolo è il populismo sostenuto dall’immaturità diffusa, prodotto dello scadimento del livello dell’istruzione, dalla crisi di valori tradizionali non più sostenibili in un mondo globalizzato e dai nuovi mezzi di comunicazione che ingigantiscono qualsiasi follia, grazie alla “democrazia della rete”.

L’immaturo è oggi un immaturo continuamente attaccato a internet. Sta in mezzo in quello “sciame” del quale parla il filosofo sudcoreano, che insegna e scrive in Germania, Byung-Chul Han. La sua è forse la riflessione più acuta sulla vita di oggi, fortemente condizionata da un uso acritico del digitale. Nel suo libro Nello sciame. Visioni del digitale (Im Schwarm. Ansichten des Digitalen, 2013; trad. it. Nottetempo, 2015), racconta come la trasparenza e i dispositivi digitali abbiano profondamente cambiato gli uomini e il loro modo di pensare. La sua critica mostra che cosa significhi abdicare al significato e al senso per un’informazione reperibile ovunque, ma spesso inaffidabile. Il paesaggio patologico della nostra epoca è causato da eccesso di positività piuttosto che da negatività. La stessa ideologia della community o dei beni comuni collaborativi, che è spesso evocata oggi, conduce alla capitalizzazione totale della comunità: non è più possibile nessun rapporto umano disinteressato. Airbnb ha trasformato in merce anche l’ospitalità, così come ha fatto Facebook con l’amicizia o BlaBlaCar con il passaggio disinteressato (che un tempo si chiamava autostop). In questo bel «condividere», paradossalmente, nessuno più dà qualcosa spontaneamente e si guadagna da tutto, senza nemmeno pagare le tasse. Trionfa un egoismo immaturo che si spaccia per sociale.

Il cittadino digitale crede di poter dire la sua su ogni cosa e di poter votare e decidere da casa propria tramite i tasti del computer o del telefonino; di poter metter mediaticamente alla gogna i “potenti” che ha individuato come suoi nemici; non crede nelle istituzioni democratiche e nell’amministrazione della giustizia; è convinto di poter finalmente governare assieme alla sua comunità perché grida più forte la “sua” verità.

L’immaturità pubblica ha prodotto, negli ultimi decenni, uno stato generale di paranoia. Il presidente della Società italiana di psichiatria, Claudio Mencacci, fece tre anni fa una diagnosi della situazione italiana purtroppo sempre più vera (C. Mencacci, Una società paranoica, in «Corriere della Sera», 13 maggio 2013):

«Siamo sempre piú contagiati da una venatura paranoica. La diffidenza, il sospetto, la rissosità che permeano e inquinano i rapporti tra le persone, le accuse che acriticamente e in modo stereotipato uno schieramento rivolge all’altro, la negazione della possibilità di un dialogo che non si traduca in un alterco o in un pubblico dileggio, accompagnati dalla proiezione sistematica sull’altro delle responsabilità di programmi disattesi, dimostrano quanto gli aspetti, appunto paranoicali, siano operanti nel tessuto sociale attuale. Questo “virus della paranoia” è già in azione, circola nella nostra vita, amplifica la diffidenza dello Stato sui comuni cittadini che a loro volta ricambiano diffidenza e sospetto. E la Storia ci ha insegnato che il passaggio, a volte indolore, dallo Stato di diritto a quello paranoico, non è improbabile».

http://www.ilpost.it/francescocataluccio/2016/10/06/linguaggio-immaturita/

Il “tradimento” di Benigni (Massimo Recalcati)

Repubblica, 7 ottobre 2016

LA SCADENZA per il voto sul referendum costituzionale si avvicina e, come è normale, il dibattito politico si infiamma. In ogni referendum che ha marcato il passo, il paese si è inevitabilmente diviso (monarchia e repubblica; divorzio, aborto). Accade in democrazia che vi sia una maggioranza e una minoranza.

LA COSA che più mi colpisce non è quindi né l’infiammarsi del dibattito politico, nè la divisione del paese, ma un sintomo che manifesta una grave malattia che ha da sempre storicamente afflitto la sinistra (ora pienamente ereditata dal M5S). Ne ha fatto recentemente le spese Roberto Benigni aspramente attaccato per la sua presa di posizione a favore del Sì. A quale grave malattia mi sto riferendo? Si tratta della malattia (ideologica) del ” tradimento”. Anche una parte del fronte di sinistra del No ne è purtroppo afflitta. Non coloro che ragionano nel merito dei contenuti della riforma non condividendoli (come provò a fare con cura Zagrebelsky in un recente confronto televisivo con Matteo Renzi), ma coloro che vorrebbero situare il confronto sul piano etico impugnando, appunto, l’antico, ma sempre attualissimo, tema del tradimento degli ideali. L’accusa patologica di tradimento implica innanzitutto l’idea di una degradazione antropologica del traditore, di una sua irreversibile corruzione morale.Non un cambio di visione, non la formulazione, magari tormentata, di un giudizio diverso, non l’esistenza di contraddizioni difficili da sciogliere, non il travaglio del pensiero critico. Niente di tutto questo. Il traditore è colui che ha venduto la propria anima al potere, al regime, al sistema. È l’accusa che risuona oggi, non a caso, nella bocca di diversi intellettuali schierati per il No rivolta verso quelli che sostengono le ragioni del Sì: venduti, servi, schiavi dei “poteri forti”. Non a caso agli inizi della campagna referendaria Il fatto quotidiano ne pubblicò addirittura una lista di 250 per mostrarne l’indegnità e la consistenza risibile. L’accusa è che il traditore abbia subdolamente cambiato idea o abbia condiviso un’idea ingiusta per difendere avidamente i propri interessi personali. Il che lo rende moralmente ancora più infame. Egli ha barattato in modo sacrilego la purezza assoluta dell’Ideale con la volgarità interessata e meschina del proprio Io. Ambizione personalistica, prevalenza dell’individuale sul collettivo, incapacità di servire umilmente la Causa perché l’attaccamento “borghese” al proprio Io prevarrebbe cinicamente sul senso universale della storia e sulle sue ragioni. Questo fantasma del tradimento non anima evidentemente solo la vita politica della sinistra – recentemente Alfano fu accusato da Berlusconi e dai suoi di alto tradimento, come Hitler accusò alcuni suoi generali dissidenti, o, per fare un esempio un po’ più modesto, la Lega inveii con il Trota impugnando le scope che avrebbero dovuto ripulire il partito dall’ombra della corruzione – . E, tuttavia, è proprio a sinistra che esso trova il suo terreno di attecchimento più fertile. Perché? Perché l’accusa di essere un traditore degli Ideali è un sintomo tipico della sinistra? Tocchiamo qui la radice profondamente stalinista di questa cultura che è dura a morire.

Ogni uomo di sinistra – quale io mi ritengo d’essere – dovrebbe provare a fare sempre i conti con questa radice oscena. Dovrebbe sforzarsi, innanzitutto soggettivamente e non solo collettivamente, di confrontarsi con il suo carattere scabroso, anti-liberale e anti-libertario: dovrebbe provare a fare sempre attenzione allo stalinista che c’è in lui per lavorarci contro, per impedire che questo grave morbo lo accechi e lo condizioni nella sua azione. La radice inconscia del fantasma del tradimento porta alle estreme conseguenze un principio che appartiene a sua volta al fondamentalismo insito nel concetto “marxista” di militanza. La Causa obbliga alla spogliazione di sé, al sacrificio assoluto della propria individualità, alla soppressione del pensiero critico come un bene superfluo e borghese. Il traditore della Causa è insopportabile perché sancisce invece il ritorno dell’Io e della sua puerile meschinità laddove l’affermazione militante del collettivo avrebbe dovuto estirparne ogni ambizione soggettivistica. Se una personalità pubblica di sinistra oggi difende le ragioni del Sì, le accuse di incoerenza (ma come? prima era per il no ed ora ha cambiato opinione?) ne ricoprano, in realtà, altre ben peggiori. È il caso tipo di Benigni: lo fa per avere contratti, soldi, potere, riconoscimenti o, peggio ancora, perché è servo della finanza, delle banche, dell’Europa dei burocrati o degli Stati Uniti imperialisti, o di chissà quale altro, non meglio identificato, “potere forte”.

Lo fa, insomma, perché si è smarrito moralmente. Vizio storico, ancestrale, primario della sinistra anti- liberale, anti-libertaria e anti-riformista. È la corruzione etica a spiegare la ragione ultima del ragionamento politico, nel senso che quest’ultimo non è altro che il frutto di un calcolo cinico e puramente strumentale del “traditore”. In esso non c’è nessun senso del bene comune, nessun senso della Causa, ma solo un incontenibile protagonismo narcisistico dell’Io. Ai tempi di Stalin questo portava dritti verso il plotone di esecuzione oppure verso i campi di rieducazione (il modello maoista fu, in questo, un esempio notevole di applicazione della pedagogia autoritaria al servizio dell’ideologia). Oggi, in un sistema democratico, conduce tendenzialmente alla diffamazione. La corruzione morale non viene soppressa con la morte, ma con il linciaggio mediatico. La lista dei degenerati attende sempre di essere completata con una tessera in più.

Lentamente muore (M.Medeiros)

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza, per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi
non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente
chi distrugge l’amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i
giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non
fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli
chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
respirare.
Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida
felicità.

Martha Medeiros