Predicozzo di Natale

Auguri.

L’anno sta mollemente avviandosi alla fine sotto i cieli bigi e nebbiosi della Padania. Qui a Fortezza Bastiani, stelle fredde nella notte e tagli di luce nelle giornate più corte dell’anno. Intanto, come giusto, il “mondo continua e va avanti con noi o senza e ogni cosa si crea su ciò che muore e ogni nuova idea …”.

Per i miei amici credenti è arrivato il nuovo Vescovo, così potranno ricordarsi di me ogni domenica al momento della preghiera quando invocheranno Massimo, lo stesso per i miei antipatizzanti che non potranno fare a meno di risentire il mio nome. Basta poco per essere felici.

Noto che nelle scorse settimane si pregava ancora per “Adriano, il suo ausiliare Lorenzo e il vescovo eletto Massimo”. Eletto da chi? Residuo linguistico di quando davvero i vescovi erano eletti dai fedeli. Ora sarà meglio interpretare quel “eletto” nel senso latino, participio passato di eligo, scegliere, scelto. Scelto. Nominato. Vabbè, contenti loro…

Eletto, quindi elezioni. I miei 25 lettori avranno, forse, letto il post in cui raccontavo le mie disavventure di apprendista elettore primario. Il tempo passa ed è galantuomo. Mi stupisco, consentitemi una tantum l’immodestia, della mia inaspettata lucidità di analisi. La mia vecchia prozia Elvira, Dio l’abbia in gloria, talvolta bofonchiava “’gioun mèe…”, che nel suo bel dialetto significava “ho ragione io..”. Beh, avevo ragione io. Le cose erano sbagliate e ne abbiamo oggi la estrema dimostrazione. Consentitemi una sintesi: 1. Il 25 novembre si tennero le Primarie di coalizione (non del solo PD); 2. Si registrarono quindi anche, legittimamente, elettori di SeL (candidato Vendola) e dell’UDC (candidato Tabacci); 3. Al ballottaggio le iscrizioni non furono riapertee non lo saranno per le primarie del 30; 4. Per le Primarie del 30 (che sono primarie per i candidati del PD) faranno fede quelle liste.

Ergo la situazione gogoliana è questa: alle Primarie del 30 per i candidati del PD potranno votare elettori di SEL e UDC ma non potranno votare potenziali elettori del PD. Perfetto. Geniale. Primo caso in una democrazia occidentale in cui è il partito a scegliere i propri elettori, anzichè lasciare a questi il diritto di scelta.

Demagogia, demagogia, per piccina che tu sia…bastava poco per non cadere in questa ridicola situazione. Lasciar perdere le proclamazione di democrazia, perché porti alle urne un paio di milioni di persone, e dichiarare onestamente che quelle erano le primarie interne del PD e che, quindi (giustamente) erano ammessi al voto solo gli iscritti al PD. Punto, finito. Nessuna figuretta penosa e stop alle polemiche. Del resto se qualcuno avesse dubbi basta vedere gli esiti del sofisticato e geniale meccanismo di selezione dei candidati in terra reggiana: 7 su 7 persone (ottime, figurarsi) interne allle strutture politiche e amministrative del partito (2 parlamentari uscenti, 1 consigliere regionale, 1 sindaco, 1 assessore, 1 presidente Circoscrizione, 1 segretario comunale del PD). Il mondo esterno? Seguirà alle urne.

Il governo dello zio Mario ha rassegnato le dimissioni. L’ora di lezione è finita si può tornare alla ricreazione. Il buon vecchio Napo chiamò i tecnici perché i “politici” non erano presentabili, né credibili per salvare il paese dal crollo. Destra e sinistra. Buon senso avrebbe voluto che in questa ora di lezione i discoli avessero messo la testa a posto, qualcuno fosse stato cacciato, per ridare voce alla “politica”, come pomposamente si è sentito dire a destra come a sinistra in questi mesi.

Nulla. Il parlamento ha resistito fino all’ultimo, arroccato come neanche a Stalingrado, per difendere sè stesso e, a caduta, lobby, club, circoli, bocciofile, tutti impegnati e voraci a perpetuare un paese in agonia.

Perché in questo paese non funziona nulla, lo vediamo ogni giorno, dai cessi degli autogrill che non riusciamo a tener puliti, agli apparati di uno Stato che per mantenere gli inutili deve continuare ad essere inefficiente, nell’amministrazione come nella scuola, nelle forze armate come nella sanità. Eppure se solo si prova ad avviare, che so, una timida riforma delle viti e dei bulloni, ecco insorgere tre sindacati del cacciavite, due associazioni di categoria della rondella e subito un bel corteo e sciopero al grido “giù le mani dalla brugola”. Fine della riforma.

 fellini_prova_orchestra_r4_c1.jpgIn questi mesi ho ripensato ad un piccolo film dimenticato di Federico Fellini “Prova d’orchestra”: un gruppo musicale in sala prove litiga, urla, bercia, si ribella al direttore, lo esautora. Ognuno vuol dirigere a modo suo, caos completo. All’improvviso un rumore sordo, un tonfo sovrastano le grida dei professori, poi il muro di fondo dell’auditorium viene sfondato da un’enorme palla metallica che una ruspa usa per demolire l’edificio. Ecco da noi quella enorme palla è già arrivata, chiamatela crisi economica, morale, delle classi dirigenti. Ci siamo salvati, per ora, grazie allo zio Mario e ai sacrifici fatti da noi tutti ma siamo pronti già a ributtare via tutto.

Il mondo è cambiato, basta andare a Chiasso e guardare cento metri oltre ma noi ci ostiniamo in riti vecchi di un secolo (scioperi e cortei), crediamo nei complotti del capitale internazionale, promettiamo l’abolizione dell’IMU, pensiamo che basterà tirar fuori ancora soldi dello Stato (cioè da noi) per sistemare tutto e via andando. Si combatte il liberismo ma non si costruisce un’alternativa reale di società. Il vecchio Camillo (Prampolini) sapeva bene qual’era la meta poi fu sorpassato a sinistra da chi pensava che a fucilate si risolvessero le cose. Se ne sono accorti qualche milione di morti dopo. La Repubblica di Weimar fu abbattuta non solo dai nazi ma dai comunisti che volevano i soviet e disprezzavano la democrazia “borghese”. Tant’è che nel 1939 Ribbentrop e Molotov si trovarono benissimo a cena insieme. E l’Europa saltò in aria. Oggi l’Europa è il nostro cortile e la nostra speranza, ma ne siamo davvero convinti? L’ora di lezione sembra passata invano.

A destra un povero vecchio isterico plastificato urla e richiama il suo manipolo di manigoldi, puttane e ricattati contando sulla pancia oscura e melmosa di un paese da terzo mondo, qua e là incazzati in buona fede (più o meno) seguono l’ennesimo guru che fa sembrare Scientology quasi una cosa seria, al centro si aspetta la telefonata del card.Bagnasco anche per andare in bagno, un poco più a sinistra sono già pronti all’eterna gara “io ce l’ho più lungo del tuo..” (capite perché si dà poco spazio alle donne…), all’estrema si dà libero sfogo alla fantasia dadaista (“meno F35 e più asili”).

Il tutto con un contorno, per non farci mancare nulla, di nazisti della Garbatella, leghisti del rutto libero e integralisti del Sant’Uffizio.

Un bel paese, non c’è che dire. A me basterebbero anche soltanto i cessi puliti in autogrill, ma lo so, è chiedere troppo…

“La Storia del mondo è passata di qui. Ora questi luoghi parlino”

intervista di Gabriele Arlotti (Redacon, 6.12.2012)         

Lungo la Linea Gotica si fronteggiarono le cancellerie del pianeta. Lo storico Massimo Storchi lancia un appello: “venendo meno i testimoni, siano i luoghi a parlare”. L’Appennino al centro della storia del ‘900 “deve ritrovare il modo di raccontare degli uomini di quindici nazionalità diverse che qui si affrontarono”. “Le montagne sono state un crocevia di libertà: qui, tra guerra e orrori, accaddero gesti straordinari”. All’orizzonte anche “possibilità di un turismo culturale, con ricadute economiche” 

In Appennino, quasi settanta anni fa, si incrociarono i destini del mondo. E buona parte delle sorti del secondo conflitto mondiale. Ma nei luoghi che contribuirono a segnare le sorti del mondo, proprio nelle nostre montagne, non resta traccia. Una “denuncia” che accogliamo alla presentazione del libro “Si accende il buio” – oggi per altro ripresa da Repubblica – per voce di Massimo Storchi, storico della Resistenza, responsabile scientifico del Polo Archivistico Comune Reggio Emilia.

Massimo Storchi, stiamo parlando di vicende delle quali restano sempre meno protagonisti…

“Sì. Ma con la progressiva scomparsa dei testimoni i luoghi assumono un ruolo centrale nella trasmissione della memoria, assumendo a pieno titolo il ruolo di una fonte storica insostituibile. Però come ogni fonte deve essere possibile esaminarli, interrogarli, valutarli, inserirli nel contesto che li ha prodotti. Il rischio è una fonte ‘muta’, incapace di trasmettere alcunché”.

L’Appennino, il tal senso, ha luoghi di forte memoria?

“Le rispondo dicendole che la nostra montagna si pone come un ‘patrimonio culturale’ di assoluto rilievo per la nostra storia contemporanea e che rimane invece una risorsa inespressa. Un gigante sonnolento e incapace di mettere in campo tutte le sue potenzialità”.

In questi luoghi durante il secondo conflitto mondiale cosa è successo?

“Negli anni della guerra e ancor più della Resistenza la montagna reggiana (nel contesto della Linea Gotica) è stata, per la prima volta nella sua millenaria storia, al centro della storia mondiale. Quello che accadeva sui nostri monti era oggetto di interesse nella cancellerie europee da Londra a Mosca e oltreoceano. Sui nostri sentieri hanno marciato, hanno combattuto e si sono incontrati uomini di oltre quindici nazionalità, lasciando un segno, nel bene (come il caso del piccolo Francesco Zambonini, fatto nascere a Case Balocchi da un soldato tedesco), come nell’orrore (la strage di Cervarolo) indelebile”.

“Le nostre montagne – prosegue Storchi – sono state un crocevia di libertà: ufficiali inglesi hanno combattuto con i nostri ragazzi, con i soldati russi, con i tedeschi disertori, con olandesi, australiani per sconfiggere il progetto nazista e fascista di schiavitù. Hanno vissuto nei nostri borghi, accolti dalle popolazioni, alloggiati nelle canoniche, quotidiani luoghi di carità. Parroci hanno dato la vita come don Pasquino o don Battista, altri hanno rischiato la propria per salvare ebrei, come don Enzo Bonibaldoni (oggi riconosciuto Giusto di Israele a Gerusalemme). Questa una storia, fatta di gesti straordinari ma anche di sacrifici piccoli e grandi dimenticati e cancellati dal tempo, sacrifici della nostra gente, dura e tenace”.

Di questa storia e della memoria che ha sedimentato cosa rimane?

“Mi chiedo se i nostri luoghi, dove è passata la storia mondiale sanno parlare a chi vuole ascoltare? Chi sa che la canonica di Febbio fu sede del comando partigiano e a pochi metri fu ucciso Luciano Fornaciari, 19 anni, medaglia d’argento? La canonica di don Pasquino resiste un terremoto dopo l’altro, ma ce ne ricordiamo solo il 25 aprile. Lama Golese era sede del ‘distretto’ partigiano, ma per trovare il monumento bisogna frugare nel bosco. Non esiste fra Bettola (con il suo monumento “muto” e il Cusna un luogo dove il turista possa leggere, trovare, capire qualcosa. Stiamo lavorando per costruire un futuro consapevole o lasceremo (per inerzia e superficialità) che il tempo cancelli definitivamente ogni cosa?”

Il rischio quale è?

“Che tra poco i vecchi non potranno più raccontare la loro vita. A noi, cittadini e storici, il compito di non disperdere questo patrimonio: ‘quello che avete udito raccontatelo ai vostri figli’. Un impegno non piccolo ma necessario da svolgere senza retorica ma con la consapevolezza della sua importanza. Non esiste il “dovere della memoria”, si può anche scegliere l’oblio, ma assumendosene poi le conseguenze”.

Oltre alla memoria le prospettive di una simile operazione capace di far parlare i luoghi quali potrebbero essere?

“In questi giorni – risponde Storchi – si sono aperte le iscrizioni ai Sentieri Partigiani del settembre 2013, in poche settimane, come nell’edizione 2012, registreremo ancora ‘sold out’. Tutto esaurito, con relativa lista di attesa. Un centinaio di giovani europei verranno sui nostri monti, percorreranno i sentieri, vedranno i luoghi. E riporteranno in Europa la nostra montagna. Si chiama turismo culturale. Cultura ed educazione civile certo ma anche legittima (e benvenuta) ricaduta economica”. (G. A.)

Much ado for nothing (tanto rumore per nulla)

molto_rumore_per_nulla_09.jpgLunedì di sole in val Padana. Tutto bene quel che finisce bene. Le primarie si sono concluse con un bella partecipazione di popolo, forse un segnale positivo di recupero di parte di quel gap fra politica e cittadini di cui il belpaese ha bisogno. Belle giornate di democrazia. Bene. E io, chiederanno i miei 25 lettori? Renzi, Bersani? E prima ancora Vendola, Tabacci, Puppato? Spiacente. Storchi n.p.. Non pervenuto o, meglio, non partecipante.
Premetto che ritengo il voto un diritto troppo importante per non esercitarlo, penso solo a quanti si sono lasciati uccidere perchè noi potessimo liberamente scegliere chi ci rappresenta o, più modestamente, esprimere un giudizio, una opinione. Per questo ho sempre votato, a denti stretti, magari pensando ad altro (sempre più di frequente negli ultimi anni), ma ho votato.
Questa volta no. Domenica 25 per scelta, domenica 2 perché non mi è stato consentito.
Per scelta perché erano almeno quattro le questioni che mi tenevano lontano dai gazebo: 1. La lotta Bersani-Renzi mi sembrava troppo simile alla resa dei conti fra comunisti e democristiani e, non essendo mai stato nè uno nè l’altro, mi sembrava un segno dell’acronismo dei tempi presenti; 2. La stessa scelta di tanti personaggi (piccoli e grandi, locali e nazionali) fra B. e R. mi ricordava lo spettacolo delle formula 1 alla prima curva del GP: tutti lanciati a trovare lo spiraglio giusto per arrivare avanti e piazzarsi il meglio possibile; 3. La scelta di un candidato premier senza sapere con quale legge elettorale voteremo in primavera mi sembrava un po’ improvvisata; 4. La vaghezza dei programmi di tutti i candidati non mi rassicurava di fronte ai problemi del paese e non mi garantiva nel prosieguo dell’operazione-salvataggio avviata (pur con troppe difficoltà) dal governo Monti.
Non ho votato. Me ne sono stato a Fortezza Bastiani a scrivere, leggermi un libro e pensare alla caducità della vita. Lunedì ho visto e letto dei risultati e, chissà, forse memore del vecchio detto “Chi si estranea dalla lotta è un gran figlio di mignotta” e avendo troppa stima e riconoscenza per mia madre (che Dio la salvi nell’alto dei cieli, amen) mi sono informato come rientrare in gioco.
E qui inizia la parte divertente, gogoliana (le anime morte) o pirandelliana (il gioco delle parti). Cronistoria per l’inclito pubblico: martedì incontro 3 augusti esponenti del PD locale, compreso il leader dei renziani e chiedo loro lumi. Che devo fare per votare al ballottaggio? Si guardano in viso come avessi chiesto l’IBAN di Marchionne. Boh, non so, chissà… Vado a consultare il sito del locale PD e trovo la risposta: “Chi non ha votato il 25 e non è registrato potrà farlo solo nelle giornate del 29 e 30 presso le locali Federazioni”. Bene, giusto, logico. Un amico mi tranquillizza: on line c’è anche un video di Berlinguer (garante dei garanti) che conferma la stessa cosa. Solo due giorni e in luoghi limitati. Penso che un elettore mancato di Collagna non sia comodo venire fino a Reggio in giornate di lavoro, ma chi se ne frega, io abito in centro…
A questo punto parte una giostra che nemmeno Faydeau avrebbe immaginato. Si vota sì, no non si può, c’è la delibera, la controdelibera. E poi l’epifania, la rivelazione, il verbo si incarna ed il logos promana tutto il suo potere. Potrà votare solo chi, registrandosi nei giorni suddetti, porterà la “giustificazione” per l’assenza alla prima tornata. “Giustificazione” da presentare a tre “garanti” che valuteranno se accettarla o no.
Leggo e rileggo il testo della rivelazione. Anche Saulo, caduto da cavallo e rialzatosi, impiegò qualche giorno per riprendersi dalla cecità e capire cos’era accaduto sulla via di Damasco, figurarsi il povero Storchi.
Penso e ripenso e capisco una cosa: io che avrei voluto essere elettore del centrosinistra, ma non sono iscritto nè a Pd, SEL o PSI avrei dovuto presentarmi davanti a tre signori, espressi da questi partiti, per “giustificarmi”. Tre signori che non rappresentano nulla, anzi meno. Sia chiaro, non parlo delle tre persone (che pure conosco) ma del ruolo, della loro funzione. Presentarmi per “giustificarmi” di una scelta personale, libera e democratica? L’ultima volta che ho presentato una “giustificazione” correva l’anno 1973 e rimasi a casa per 25 giorni dal Liceo per polmonite. La mia mamma scrisse “motivi di salute” e tornai in classe (con relativo certificato medico). Ma ora? Giustificarmi? Ma se non mi giustifico nemmeno con mia moglie, vista la fiducia che regna fra coniugi!
Da piccolo storico di provincia mi viene in mente il febbraio 1951 quando, dopo lo strappo di Valdo Magnani, i compagni furono convocati davanti a una Commissione per ribadire la loro incrollabile fedeltà al partito e all’idea. 61 anni fa.
Mentre sono preso in queste considerazioni leggo cose meravigliose: un onorevole (nostro dipendente a caro prezzo) insulta che non si è registrato e poi ha cambiato idea; mi accorgo di essere divenuto ufficialmente un leghista-forzaitaliota-infiltrato; amici mi dicono compunti “le regole sono regole e non si cambiano” (Berlinguer manco lui le sapeva le regole?). Poi un amico un po’ più paziente e pietoso mi spiega che si tratta di difendere la sinistra dai nemici occulti della reazione in agguato, dai servi del neoliberismo che vogliono picchiare gli operai, togliere la pensione alle vecchiette e comperare gli F35.
Cionfoli! E io che avevo solo cambiato idea e mi sarebbe piaciuto dare il mio contributo alla scelta del (forse) leader! Vedi che roba la vita, ti distrai un attimo e ti trovi con la camicia nera addosso!
Ultima ratio tento la registrazione on line, motivazione che inserisco nella casellina “motivi di lavoro” (ma potevo scriverci “capperi miei”?), entro sabato mi faranno sapere…Ma sabato mi arriva una mail minacciosa:

Ricordiamo che solo il Coordinamento Provinciale “Primarie Italia Bene Comune” di Reggio Emilia può autorizzare la straordinarietà dell’iscrizione al ballottaggio del 2 dicembre.
Se non riceve l’accoglimento positivo della sua richiesta dal suddetto Coordinamento Provinciale, non è autorizzato al voto del ballottaggio in base all’art. 14 del regolamento per le Primarie approvato dal Collegio Nazionale Garanti il 19 ottobre 2012.
 
IL COORDINAMENTO PROVINCIALE DI REGGIO EMILIA
 
Sveno Ferri
Franco Ferretti
Silvio Prampolini 

Aargh. Era finita. Respinto. Bocciato. La prima reazione è stato il gesto di Alberto Sordi ne “I vitelloni”, poi, riflettendo con più calma e cercando meglio le parole mi è sgorgato dai precordi un reggiano “mo’ va’ a caghèr!”. Ho passato una domenica tranquilla in famiglia, leggendo un buon libro, dopo una santa messa in quel di Pratofontana.
Lunedi mattina apprendo di essere stato in buona compagnia: noi reprobi abbiamo sfiorato le 125.000 unità. A Reggio sono stati “giustificati” appena più di un centinaio (avevano conoscenze, si sono giustificati meglio? Sono stati convincenti nella loro autocritica?). Comunque i respinti sono stati il 4% dei votanti, fra Bersani e Renzi lo scarto è stato di oltre 30 punti percentuali. Come dire: Tanto rumore per nulla. Si potevano accettare tutti i reprobi e non sarebbe cambiato nulla (ammesso che tutti, io per primo, avessimo votato Renzi). Non ci sarebbero stati casini e il PD non avrebbe fatto una solenne figura di guano, anzi di merda del Volga.
Morale della vicenda? La deducano i miei 25 lettori. Per parte mia garantisco, per rispetto a chi si è sacrificato per noi, di votare sempre. Anzi aspetto le prossime primarie per la scelta dei candidati e stavolta mi registrerò il primo minuto della prima ora, con inchiostro indelebile e mano ferma. Ma, poco ma sicuro, comunque vada il mio voto dovranno sudarselo, tutto e intero.

Zagrebelsky: “I valori della Costituzione”

La democrazia dei 5 Stelle è inganno. La tecnica non basta a governare un Paese. Il logoramento è sfociato in astensionismo e violenza. La domanda ora è: siamo ancora in tempo per rimediare?

di CARMELO LOPAPA

ROMA – “Intorno a noi, vuoto politico. Ci voleva tanto a capire che la tecnica non basta a governare un Paese? Il governo tecnico poteva essere una medicina, ma la parola avrebbe dovuto riprendersela al più presto la politica. Ci voleva tanto a immaginare il logoramento che si sarebbe determinato: astensionismo, violenza, rifugio in forme di protesta elementari, prepolitiche? Siamo ancora in tempo per riprendere in mano politicamente la situazione, o non siamo più in tempo? Questa è la domanda”. C’è preoccupazione nella riflessione di Gustavo Zagrebelsky. Nel “Manifesto di Libertà e Giustizia”, da lui appena elaborato, viene indicata una possibilità, singolarmente consonante con quanto scrive Salvatore Settis nel suo ultimo libro che porta il sottotitolo “ritornare alla politica, riprendersi la Costituzione”.

Come affrontare l’emergenza, professore, ora che le piazze italiane somigliano a quelle di Atene e Madrid?
“Innanzitutto, invito a distinguere. Come sempre nei momenti di crisi, una parte della società sta a guardare, cercando di difendere posizioni e privilegi, per poi, eventualmente, schierarsi col vincitore. All’opposto, par di vedere atteggiamenti – alimentati da parte della stampa – schiettamente nichilistici: distruggiamo tutto, poi si vedrà. Infine ci sono coloro che comprendono e vivono le difficoltà del momento e non aspettano altro che potersi identificare in qualcosa di nuovo, per muovere in una direzione costruttiva.

 

Tra questi, ci sono, oggi, molti passivi, solo perché non si mostra loro come e perché possano rendersi attivi”.

Per la verità il Movimento 5 Stelle Grillo sembra, eccome, svolgere una funzione mobilitante.
“Sì. Ma bisogna onestamente dire che non sappiamo come e verso che cosa questa mobilitazione s’incanalerà. Non sappiamo se c’è un rapporto causa-effetto nella circostanza che, in Italia, dove esiste il M5S, non abbiamo avuto (finora?) l’esplosione di movimenti d’ultra destra, razzisti, nazionalisti. Se il rapporto c’è, dovremmo essere grati. Ma non conosciamo quale sarà l’esito: potrà costruire qualcosa o sarà votato alla distruzione? Su questo punto, sarebbe bene che i suoi sostenitori si ponessero domande fondamentali”.

Si riferisce all’assenza di programma?
“No. Il programma c’è e non si può dire che sia più vuoto di quello di tanti partiti. Ma io penso ad altro, alla concezione della democrazia”.

Che vuol dire?
“La democrazia del M5S vuole essere, attraverso l’uso della rete, una forma di democrazia diretta. Ma si dovrebbe sapere che la democrazia diretta come regola è solo la via per il plebiscito. L’idea della sovranità del singolo, il quale versa la sua voce nel calderone informatico, è un’ingenuità, un inganno. Su questo punto, il movimento di Grillo dovrebbe essere incalzato. Invece di scagliare vuote parole come “antipolitico”, si dovrebbe spiegare che cosa è una forza politica basata sulla rete: democrazia diretta, sì; ma diretta da chi? La rete informatica può facilmente essere una rete nelle mani di uno o di pochissimi. Il leaderismo del periodo di Berlusconi si nutriva almeno di pulsioni populiste. Qui, il controllo dall’alto, a onta dei bagni di folla puramente spettacolari, si prospetta come un algido collegamento – nemmeno definibile rapporto – telematico”.

Vuol dire che diventerebbe una democrazia eterodiretta?
“La logica parlamentare consiste nel dialogo e nel compromesso. Quando una spina di – si dice – centocinquanta deputati diretti dal web sarà piantata in Parlamento, che ne sarà di questa logica? La nostra democrazia rappresentativa già fatica, anche a causa dei tanti “vincoli di mandato” che legano i deputati a lobbies e corporazioni. Che cosa succederà in presenza d’un gruppo consistente che, per statuto, deve operare irrigidito dalla posizione che è in rete: o sarà ridotto all’impotenza, o ridurrà all’impotenza l’istituzione parlamentare”.

Quale alternativa offrite col “Manifesto di Libertà e Giustizia”?
“Può sembrare un ritorno all’antico. È la Costituzione. Non è una parola vuota, ma svuotata. Sono decenni che la si vuole cambiare e, con ciò, s’è dato da intendere che è superata. Invece non è affatto superata. La Costituzione non contiene la soluzione dei nostri problemi, ma la direzione da seguire per affrontarli. E questa traccia è contenuta nel più elevato, nel più pensato, nel più denso di consapevolezza storica tra i documenti politici che il popolo italiano abbia prodotto”.

Può fare qualche esempio?
“Basta scorrerne gli articoli, a partire dall’articolo 1, dove si parla del lavoro – non della rendita, non della speculazione, nemmeno della proprietà (che pure è riconosciuta e tutelata) – come fondamento della Repubblica. Non mi faccia fare un elenco. Ma voglio solo ricordare l’importanza che la Costituzione attribuisce alla cultura (non alla “tre i”) e alla scuola (pubblica), come premesse, o promesse, di cittadinanza”.

Nel confronto tv per le primarie, nessun candidato del centrosinistra ha inserito nel suo Pantheon personaggi della fase costituente. Che dire?
“Sciocca la domanda (non la sua, ma quella del conduttore), e sciocchissime le risposte. Invece di qualcuno che abbia a che fare con la loro formazione politica, con la propria identità, hanno evocato dal nulla nomi di degnissime persone, Papa Giovanni, Mandela, Martini… Io avrei potuto, allo stesso titolo, dire Giovanna d’Arco. Si è speculato sull’alta dignità di uomini assenti che avrebbero potuto dirti: ma come ti permetti d’utilizzarmi per farti bello, anzi per farmi fare da specchietto per allodole? Vuote e piuttosto ridicole parole”.

Nel vostro Manifesto, c’è, appunto, un atto d’accusa contro le “parole vuote” della politica.
“Sì. Il Pantheon suddetto appartiene alle parole vuote. Ma poi riforme, innovazione, giovani, condivisione, merito, e tante altre. Qualcuno è contro i giovani? Qualcuno e per il de-merito? Bisognerebbe, per non inzupparci di parole inutili, seguire questo criterio: ciò che è ovvio, non deve essere detto”.

Vi obietteranno che rischia di esserlo anche la fase costituente.
“No, No! Non “fase costituente”, ma “fase costituzionale”!”.

Ci spieghi.
“Vuol dire riportare la Costituzione al centro. Vorremmo un partito che dicesse: il mio programma è la Costituzione, il ripristino della Costituzione, nella vita politica, nella coscienza degli italiani: uguaglianza, libertà, diritti civili senza veti confessionali o ideologici, partiti organizzati democraticamente. Qualcuno dei nostri politici sa quale entusiasmo si suscita quando si parla di queste cose con la passione che meritano? E quale senso di ripulsa, invece, quando si parla dei partiti?”.

In questi tempi, in effetti, pare che tutto ciò che i partiti toccano si trasformi in rifiuto.

“Non bisogna generalizzare. Anzi, occorre aiutare a distinguere. Per questo, se un partito “toccasse” la Costituzione in modo corretto, per farsene il manifesto, ne uscirebbe nobilitato. Aggiungo: se lo facesse in modo credibile, otterrebbe una valanga di voti. Nel referendum del 2006, quasi 16 milioni di cittadini hanno votato per la difesa di questa Costituzione, contro le improvvisazioni costituzionali, magari coltivate per anni, ma sempre improvvisazioni”.

 La Repubblica, 16.11.2012

Il sito di L&G: http://www.libertaegiustizia.it/

Cataplasmi e antibiotici

 

farmacopea.jpgCataplasma: Poltiglia di sostanze vegetali cotte che, avvolta in garze, veniva posata su una parte del corpo a scopo curativo”, ci dice il dizionario della lingua italiana Sabatini-Colletti. Il cataplasma era uno dei rimedi tipici per i malanni dei nostri (bis) nonni: un raffreddore? Un bell’impacco. Reumatismi? Idem. Risipola, scrofola? Un cataplasma e via così. Oggi usiamo altri metodi un poco più scientifici (sì, vabbè, c’è anche chi usa rimedi omeopatici ma quella è un’altra storia..). Magari un antibiotico in un’infezione serve più che un cataplasma, o un anticoagulante è meglio che una sanguisuga applicata dal cerusico di turno.

In questi giorni mi sono tornati in mente i cataplasmi perché mi sono trovato davanti la proclamazione (e svolgimento) dell’ennesimo sciopero. E’ mai possibile usare ancora strumenti di lotta ottocenteschi nel XXI secolo? Lo sciopero e il corteo? Roba da Pellizza da Volpedo al tempo di twitter. E poi quale sciopero? Sciopero generale che nessuno se n’è accorto (perché il 14 era tutto aperto e tutto funzionava) e quali cortei? Cortei finiti malissimo, a botte con la polizia e con risse colossali fra fazioni interne come a Torino, Padova, Roma?

Cortei come momento di autorassicurazione, terapia di massa alle sfighe comuni? Piazze piene urne vuote, avvisava il buon Palmiro. Ma è possibile difendere i diritti di chi lavora (e i loro doveri) pensando a qualcosa di meno inutile e autolesionista? Dopo lo sciopero e i cortei è cambiato qualcosa? Siamo più vicini all’Europa o alla Grecia?

Lo so, qualche mio solerte lettore mi accuserà al solito di essere ormai un NdP (nemico del popolo) a tempo pieno ma davvero dover leggere oggi le cronache degli incidenti di ieri e della irrilevanza dello sciopero appena svolto mi da una grande tristezza. Non basta essere convinti dei propri diritti, o essere esasperati per cambiare le cose. L’incazzatura senza un’idea resta tale e di idee non se vedono. Sto parlando di idee vere e realizzabili, roba rara in questi tempi grami. Di una visione del mondo che abbia qualche chance di diventare vera e reale, che tenga conto che il mondo è cambiato senza di noi e che corriamo il rischio di essere trascinati via da una corrente tanto forte quanto incomprensibile se continuiamo ad usare metodi, idee e categorie di un secolo e mezzo fa. O qualcuno pensa che sfasciare un po’ di vetrine e dare qualche cazzotto serva a creare posti di lavoro? Qualcuno trova normale accogliere, anziché cacciare a pedate, gente che si presenta con maschere, passamontagna e caschi a manifestazioni come quelle di ieri?

Ieri, invece, si poteva/doveva inventare qualcosa per esprimere a livello europeo (e con uno “stile” europeo) la voglia di cambiamento, di futuro. Si è finito con il solito tragico spettacolo di botte, lacrimogeni, gente picchiata e la cronaca di oggi ha già dimenticato il perché quelle piazze europee erano piene ma ricorderà, ancora per qualche giorno, quelle botte, quei lacrimogeni. Politicamente una completa waterloo. Bene, bravi. Evviva.

E poi ci troviamo un comico che minaccia di arrivare al 20% dei consensi buttando lì quattro chiacchiere da bar o da forum di smanettoni da PC e rimaniamo lì senza sapere che fare, ancorati ai nostri cari vecchi cataplasmi, ai nostri cortei, ai nostri documenti programmatici, alle nostre manifestazioni che ci fanno tornare giovani per mezzora e ci lasciano poi esausti e frustrati per il resto del tempo. Quello accaduto ieri mi fa quasi superare il profondo scetticismo circa le future primarie, che restano almeno, se non il metodo per indicare il futuro presidente del consiglio (visto la nuova porcellinata elettorale che si prepara), un momento di democrazia diffusa e pacifica, per persone che vogliono discutere e pensare a cosa fare domani in termini di diritti/doveri, senza sanguisughe e cataplasmi, ma anche senza condannarsi all’eterno infantile antagonismo che rimane appollaiato come la classica scimmia sulle spalle di tanta sinistra italiana.

Antifascismo oggi, ancora?

resistenza23_img.jpgViviamo in un paese strano e lo sappiamo, una paese, per fortuna inserito nella buona vecchia Europa, in cui accade che una amministrazione pubblica (Regione Lazio) finanzi un mausoleo dedicato a un criminale di guerra o che il presidente della Camera di Commercio di Forlì proponga di intitolare il locale aeroporto non ad Eulalia Torricelli ma a Benito Mussolini. Per non dire poi di Predappio dove da anni, sotto amministrazioni “democratiche” si assiste a sfilate, inni, camicie nere e fez intorno alla tomba del caro estinto, all’insegna dell’antico “pecunia non olet”.

Cose inconcepibili in paesi come Francia e Germania (provate ad andare in piazza a Monaco, alzare il braccio teso e gridare “Sieg Hiel!” e poi vedrete…). Qui è diverso.

Accadono questi episodi (ultimo in ordine di tempo la folla di saluti romani alle esequie di Rauti, amen) ed ecco, comprensibile reazione, spuntare comunicati di protesta, inviti alle autorità ad intervenire e simili. Bene, ottimo, ma forse non basta.

Non mi interessa, per ora, ragionare sul (neo)fascismo, preferisco fare qualche considerazione sulla “nostra” parte, quella antifascista.

Nel Documento redatto da ANPI e Istituto Cervi nel luglio scorso si parla di “un nuovo impegno e una nuova cultura antifascista”. Bene, partiamo da qui. Prima osservazione logica (e domanda): se ci vuole una nuova cultura antifascista è lecito pensare che quella “vecchia” non sia più adeguata. Bene, quale cultura vogliamo proporre per il futuro?

Seconda osservazione (e domanda): gli episodi sopra riferiti e cento altri, piccoli e grandi, ci fanno porre una domanda forse spiacevole ma reale dalla quale non si può sfuggire:perchè l’Italia non è antifascista? Perchè l’antifascismo non è diventata la koinè culturale della Repubblica?

Ipotizzo, fra le tante, quattro risposte:


  1. Perché l’Italia è stata fascista, il fascismo ha saputo costruire un consenso, forgiare una cultura e una mentalità che si sono saldate con radici e legami profondi nella storia italiana. Alla vigilia dell’entrata in guerra l’antifascismo italiano ed europeo erano stati sconfitti, dalle politiche dei regimi e dall’accordo Molotov-Ribbentrop che aveva sancito l’allenaza fra nazismo e stalinismo. L’antifascismo viene “reintrodotto” dagli alleati dopo il 1942 come collante ideale nella lotta alle potenze dell’Asse. Residuale in Italia, paese invasore e poi sconfitto, l’antifascismo “seconda versione” e la Resistenza sono giocati come “alibi” per far dimenticare all’esterno, come all’interno, quanto noi italiani avevamo fatto nei vent’anni di regime.

  2. Perché la Resistenza non è stata un fenomeno nazionale, nè da un punto di vista geografico (il sud è stato liberato dagli alleati prima che potesse nascere un movimento di resistenza) che numerico (l’Italia non è stata l’Emilia e la stessa Emilia non è stata Reggio e Modena).

  3. Perchè nel dopoguerra si è scelto di valorizzare/mitizzare la figura del partigiano combattente e non si sono valorizzate le altre “Resistenze”, prima fra tutte quella degli internati militari in Germania, i primi a dire “no” a Salò e a resistere nei lager. E fra quei primi resistenti c’erano italiani di tutte le regioni, sud e isole comprese.

  4. Perché la transizione fascismo-democrazia si è svolta nella continuità di strutture, apparati e quindi di uomini, funzionari, magistrati, carabinieri passati indenni, o quasi, dal fascismo a Salò alla Repubblica. Il primo presidente della Corte Costituzionale che succedette a De Nicola nel 1957 fu Gaetano Azzariti che era stato Presidente del Tribunale della Razza dal 1938 al 1943, dopo essere stato fra i firmatari del Manifesto della Razza. Al luglio 1960 i 34 dei questori in servizio provenivano dall’Italia fascista o da Salò.

  5. Perché l’antifascismo italiano del dopoguerra è stato un fenomeno di parte che ha coinciso, dopo la scomparsa del Partito d’Azione, in buona parte, con il PCI,  che doveva scontare la zavorra, in termini di credibilità democratica, dei suoi legami con uno stato dittatoriale come l’URSS.

In questo difficile contesto non stupisce la progressiva marginalità dell’antifascismo. Nell’Italia della guerra fredda il partito di maggioranza relativa (DC) scelse altri valori di riferimento, come il filo-atlantismo e l’anticomunismo, relegando ai margini il ricordo della sua partecipazione alla Resistenza (il primo democristiano partigiano a divenire segretario del partito fu Zaccagnini nel 1975 e i ruoli rilevanti svolti da Taviani erano legati alla sua indiscussa fedeltà alla NATO).

L’antifascismo in Italia nel corso della guerra fredda rimase patrimonio di una parte politica e non ebbe capacità inclusiva.

Dopo la caduta del Muro di Berlino anche sull’antifascismo, come sulle altre basi ideali della “sinistra” non fu aperta alcuna riflessione. Scomparso il Pci, i partiti che seguirono preferirono cambiare più volte nome e simboli (mantenendo rigorosamente lo stesso personale politico) senza porsi il problema di cosa mantenere (e cosa abbandonare) di quello che era stato il sistema di valori fino a quel punto.

E mentre gli storici, di fronte anche al nuovo contesto europeo -dove nei paesi dell’est sovietico l’antifascismo era stata la ideologia ufficiale di uno stato dittatoriale- ricostruivano le vicende storiche dei vari “antifascismi” che si erano succeduti in Europa fra gli anni venti e la fine della guerra fredda e richiamavano la necessità di una riformulazione del concetto stesso di antifascismo, nella grande crisi di avvio della seconda repubblica l’antifascismo diveniva qualcosa-nel dibattito politico-di scomodo e ingombrante da rimuovere al più presto. Per far dimenticare di essere stati comunisti si decise che non esistevano più i fascisti e quindi perchè parlare ancora di anti-fascismo? Se si poteva invitare Fini alla Festa dell’Unità che senso aveva utilizzare quel vecchio residuo ideologico?

E così, acriticamente, si è superato un nuovo passaggio semplicemente aggirando la questione senza risolverla, nessuna citazione di antifascismo nello statuto del nuovo partito nato dalla fusione delle anime principali della Resistenza ma, paradossalmente, punto di riferimento per quei partiti dell’estrema sinistra che facevano (e fanno) riferimento al comunismo realizzato nell’esperienza dittatoriale dell’URSS.

Nuova cultura antifascista si richiede oggi (comprensibilmente) ma quali sono gli ambiti, i territori entro cui operare? Si può essere antifascisti e inneggiare al regime castrista di Cuba? Il termine antifascista non dovrebbe contenere al suo interno come elemento decisivo il concetto di “antitotalitarismo” riprendendo in questo il senso più completo dell’antifascismo degli anni venti e trenta, avverso ai regimi fascisti come allo stalinismo comunista? Se la nostra Costituzione è, come è, realmente antifascista (e antitotalitaria) la risposta è già data, ma si deve avere il coraggio di uscire dagli equivoci, anche se motivati da antichi e nobili (per l’Italia almeno) legami con l’esperienza comunista del secolo scorso.

Un’ultima osservazione che potrebbe superare, almeno nominalisticamente, il problema: e se abbandonassimo il prefisso anti- che in qualche modo definisce una identità culturale e politica contro qualcosa e qualcuno? Noi esistiamo anche senza i fascisti, siamo portatori di idee e valori “per”, non abbiamo bisogno di loro. Non basterebbe dire “costituzionali”?

Grazie ai miei 25 lettori (forse qualcuno in più..)!

NUMERI.jpgPreso da mania classificatorie e quantitativa ho voluto verificare i dati di accesso e lettura a questo modesto blog quasi montano. Il bello di questi nuovi strumenti di comunicazione è che sono impietosamente precisi, redigono statistiche complesse e dettagliate.

Ho compulsato le tabelle, sommato i numerini, diviso, calcolato e sono rimasto davvero sorpreso. Ho ricalcolato e ri-compulsato. Niente. I dati restano quelli. Pare che i miei 25 lettori siano qualcuno in più.

Per l’esattezza negli scorsi 12 mesi Fortezza Bastiani ha avuto 64.206 visite per un totale di 169.644 pagine lette. Con una media di 5350 visite/mese e 14.137 pagine lette/mese.

Che dire? Grazie a tutti gli amici, conoscenti, seguaci, ignoti apprezzatori e disprezzatori, la cosa mi riempie ovviamente di egoistica soddisfazione. Magari rifletto sul disagio diffuso socio-culturale (se tante persone si riducono a leggere queste “bagatelle” sparse), ma poi ripenso al buon vecchio Oscar Wilde (“Se mi esamino sono perplesso, se mi confronto esulto”) e quindi tirerò avanti, anche se il periodo non è certo dei migliori per nessuno.

Quindi ancora un “grazie” per la paziente attenzione e appuntamento alla prossima “bagatella”!

Primarie sì, primarie no..

pr-4486-img-Primarie1.jpgQualche volta mi sento proprio solo: non riesco ad essere contemporaneo al mio tempo. Primarie, si, primarie no, vota quello, vota l’altro. “Tu con chi stai?” mi chiede l’amico. E se io non stessi, e basta? Questo agitarsi prima delle primarie mi ricorda-da vecchio appassionato di Formula1-le vetture in pista nel giro di ricognizione: tutte a sterzare, schivare, accelerare, frenare per scaldare le gomme per la partenza. Per piazzarsi al meglio per il futuro, per essere sul carro del vincitore o avere il riconoscimento del posto di consolazione per lo sconfitto. Così per le primarie, chi bersa, chi renza, chi venda, chi puppa, ma poi per fare cosa? Cosa vogliamo in economia? Rapporti con l’Europa? Proseguiremo la cosiddetta “agenda Monti” o torniamo alla santa bisboccia? Avremo Fassina ministro dell’economia? Ribalteremo il sistema educativo o cancelleremo anche le poche timide riforme fatte in questo anno?

Chiedo scusa ma non l’ho capito, colpa mia. Schierarsi per cosa? Per avere un posticino poi? Con l’idea morettina “mi si nota di più se vengo..o mi si nota di più se non vengo..”? Lo so, non sono un raffinato politico ma ho provato a leggere i “documenti programmatici” E li ho trovati prolissi, pieni di tecnicismi e sindacalismi ma soprattutto non all’altezza delle crisi in cui siamo immersi. Documenti buoni, per l’amor di Dio, ma “tiepidi”, incapaci di dare una svolta reale alle varie questioni. Si lima un po’ là, si raddrizza un po’ qua. Certo come alternativa alla barbarie da bordello del berlusconismo era un bel passo avanti, ma in un anno il tempo è corso molto più veloce e quelle proposte sono invecchiate tanto da ricordare il programma prodiano, 200 pagine di bei propositi, sfumati in un pomeriggio. In un anno il mondo è cambiato, ce ne siamo accorti?

Vedo intorno una crescente desertificazione politica che alimenta fenomeni inquietanti come il grillismo, un movimento in bilico fra demagogia del terzo millennio (il mito della “democrazia diretta”) e Scientology. Ma sarebbe ingenuo prendersela con l’effetto e trascurare la causa. I partiti tradizionali, compresi quelli che adesso chiamano alle “primarie”, hanno avuto anni per cambiare, salvarsi, accorgersi di quello che stava accadendo e porre un rimedio. Zero. Nulla. Hanno continuato ad occupare tutto l’occupabile, a divorare il divorabile. Inamovibili: anche fra Cusna e Po abbiamo eletti che sono in giro dagli anni settanta. 35 anni di politica politicata. C’era ancora il muro, Breznev, doveva ancora uscire la Fiat Uno. Ancora lì.

Prendersela con Monti o la Fornero è, oltre che sciocco, anche antistorico. Abbiamo votato la peggior classe dirigente europea, per ignavia, quieto vivere o tornaconto. Abbiamo goduto tutti, chi pochissimo, chi poco, chi molto di un sistema che dava qualcosa a tanti, pensioni ai poveracci, evasione ai ricchi. Basta pensare al mondo della scuola, come ho accennato in un altro post di qualche giorno fa. In fondo è proprio come a scuola: non si studia, si va in giro, si gioca a pallone. Poi un giorno il professore ti interroga e ti da quattro. Che si fa? Ci si mette a studiare? Nooo, è chiaro: “il professore ce l’ha con me, è d’accordo col preside, con provveditore, col ministro, con Dio e chissà altri per colpire me, proprio me”. Italia 2012. Un paese in crisi totale per mancanza di classi dirigenti all’altezza: politiche, economiche, sindacali, religiose.

E ora dovremmo andare alle “primarie” per scegliere un candidato per elezioni in cui non avremo (al 80%) una nuova legge elettorale, in cui nessuno (alleanze ancora ignote a parte) avrà abbastanza voti per garantire un governo stabile e si rischia che metà degli elettori stia a casa? O stare a casa e votare sul web, le primarie virtuali per mandare a governare chi? Tanti giovani volenterosi e in buona fede, telecomandati dal capo della setta?

Lo so, il quadro non è consolante né in sede nazionale né sulle rive del Crostolo (ma questa è un’altra storia..). Del resto il mondo gira come vuole, domani sapremo se Obama sarà ancora presidente o se-eletto Romney-venerdì Israele attaccherà l’Iran, nel qual caso andare sì o no alle “primarie” sarà l’ultimo dei nostri problemi…

 

Modesta proposta scolastica

pallottoliere.jpgSo cosa sto per fare: in un attimo mi gioco alcune decine di lettori stipendiati da Profumo. Ma tant’è, stimo troppo chi fa seriamente il mestiere di insegnante per credere che proprio tutti mi toglieranno il saluto.

Giornate di polemiche, 18 ore, no 24, sì. No. Mah…

Osservo che solo due professioni a me note sono “a vita”: il sacerdote e l’insegnante. Vero è che per entrambe sarebbe richiesta la “vocazione” (o quanto meno fortemente consigliata) ma resta comunque il problema. Come genitore ho avuto esperienza, con i figli più giovani ancora in corso, di maestre, professori di ogni ordine e grado. Mi guardo bene dal generalizzare, parlando di “insegnanti”, come per i tubisti, gli storici o i maniscalchi, nella categoria c’è di tutto: l’ottimo, il pessimo, molto di frequente il mediocre.

Il problema è in quel lavoro “a vita”. “Semel abbas, sempre abbas”. Ottimo, pessimi, mediocri. Tutti uguali. Inamovibili. Una volta entrati nel tunnel dell’insegnamento, niente e nessuno, né Cesare né Dio potrà fare nulla. Come se il loro compito fosse quello di un qualunque guardiaporte e non quello, fondamentale, di educare, formare, costruire cittadini, prima ancora che persone in grado di affrontare il loro futuro di lavoro con un minimo di consapevolezza.

Una società avveduta selezionerebbe spietatamente chi dovesse svolgere un simile ruolo di costruttori di futuro. Premierebbe gli ottimi, caccerebbe i pessimi, stimolerebbe i mediocri e in caso di fallimento li accompagnerebbe alla porta. Insegnare non è obbligatorio, il reclutamento non è mai stato fatto manu militari dalle forze dell’ordine, ma è stato il frutto di una scelta. E qui nasce il primo problema: quante volte quella scelta è stata compiuta “perché non c’era altro da fare”? Perché gli sbocchi professionali di troppe facoltà non davano altre chance? Si è diventati insegnanti così”per caso”, “in attesa” di qualcosa che non è mai arrivato.

Poi, a chiudere un cerchio diabolico, si è saldato, negli anni, un patto scellerato fra Stato ed insegnanti, fra ministro della P.I. e docenti, fra potere democristiano e dipendente pubblico. “Tu fai quello che vuoi, io non ti controllo, ma ti ricordi di me nell’urna elettorale”. Nella I Repubblica due ministeri rimasero sotto il controllo della DC per decenni: gli Interni e la P.I. (solo nel 1979 Spadolini, laico, ricoprì tale carica strategica). Un caso? Non credo.

Così negli anni si è andato sedimentando il corporativismo più resistente e stolido. E’ esperienza condivisa aver avuto la fortuna di incontrare qualche insegnante in gamba affogato in un marea di mediocri e pessimi. Tutti uguali, tranne che nel ricordo, ma può bastare? Perché le istituzioni sono fatte, in gran parte, da persone e le scuole più che ogni altra struttura, quante occasioni perde uno studente incontrando un insegnante mediocre/pessimo? E dobbiamo pensare ai più deboli, quelli che hanno come unica occasione nella loro vita proprio la scuola, perché non hanno mammina e papino pronti a pagare lezioni, corsi e poi master e simili.

Perché allora rimanere chiusi in una corporazione ormai indifendibile? Ricordo il povero Berlinguer quando provò ad introdurre qualche timido cambiamento, ad esempio l’insegnamento della storia contemporanea come nocciolo centrale del percorso formativo. Fu linciato dagli stessi insegnanti “progressisti”, toccati nella loro “professionalità”, “autonomia didattica”, etc.. Schierati a sostenere quanto fosse indispensabile che lo studente si concentrasse sulla fase svedese della Guerra dei 30 anni (1618-1648), piuttosto che sul dibattito alla Costituente o sulla Guerra dei 7 giorni (1967) per garantire una “formazione” completa.

Adesso, dopo la desertificazione situazionista della Gelmini, la proposta di aumentare le ore di insegnamento. Ira, proteste. Sciopero (con partecipazione quasi irrisoria).

Come coniuge di un insegnante di scuola primaria conosco la quotidianità del docente, come storico conosco bene il crollo di valutazione sociale del ruolo dell’insegnante. Allora lancio una prima modesta proposta: amici insegnanti, di fronte alle accuse volgari e stupide di “lavorare poco”, la risposta esiste: richiedete, con decorrenza immediata, che nelle scuole siano installate, come in tutti i luoghi di lavoro, le macchinette marcatempo.

Entrate alle ore 8 e passate il badge, fate lezione, correggete compiti, preparate le lezioni. A scuola, non sul tavolo di cucina. Finiti i vostri incarichi, timbrate e uscite. Liberi di tornare alla vostra vita. A fine giornata ognuno avrà le sue ore svolte, certificate e garantite. Come in ogni ambiente di lavoro. Lavoro vero. Non il part-time cui ora siete destinati/abituati/costretti. Del resto che apprezzamento sociale può avere, appunto, un lavoro part-time? Se siete insegnanti a vita, siatelo anche a tempo pieno. Ma con valutazioni serie, periodiche, sul vostro lavoro da parti di veri dirigenti, non insegnanti riciclati a funzioni direttive non si sa su quali basi.

Ed infine la soluzione/selezione finale per cercare di accrescere gli ottimi e diminuire (se non eliminare) i mediocri/pessimi:

  1. Abolire i concorsi alle cattedre. Ma selezionare con corsi/esami solo la capacità, titoli e disposizione all’insegnamento;
  2. Ogni istituto scolastico stipuli contratti individuali a tempo determinato con i docenti, così selezionati, con compenso proporzionale alle capacità ed efficacia pedagogica e professionale. Ovvero si premi il merito, l’impegno, la capacità.
  3. I migliori verranno cercati, messi a contratto e adeguatamente stipendiati, i mediocri e i pessimi resteranno senza lavoro e (finalmente) andranno a fare altro nella vita con sicuro beneficio dei nostri figli e della società futura.

Lo so, è una proposta antisindacale, da “nemico del popolo”, ma ricordo che il buon Romanone Prodi ricordava che solo ad una generazione alla volta è ammesso essere stupidi. Il nostro turno l’abbiamo già malamente svolto, non sarebbe ora di cambiare?

Martedì 23 ottobre

 

Martedì 23 ottobre
ore 18
Libreria All’Arco di via Emilia,
Massimo Storchi presenta il suo romanzo
“Il patto di Katharine”
(Aliberti editore).


Reggio Emilia, 1941: pochi giorni di licenza, un breve ritorno a casa di Dario Lamberti, allievo ufficiale pilota, per ritrovare la propria città, gli amici, un amore che sembra vero. E invece, oltre la guerra ormai alle soglie di casa, Dario scopre che la fedeltà forse non esiste, e che anche morire non è un affare semplice nella Reggio fascista di fine regime. La licenza diventa una dura prova per un ragazzo di vent’anni, affascinato da signore sfuggenti e ragazze troppo facili, costretto a imparare, in fretta e sulla propria pelle, come la realtà sia sempre più complicata di quanto sembri.

 
Massimo Storchi, laureato in Storia Contemporanea e diplomato in  archivistica, ha pubblicato diversi saggi su fascismo, cooperazione, lotte politiche e sociali nel dopoguerra in Emilia Romagna. E’ Responsabile Scientifico del Polo Archivistico del Comune di Reggio Emilia.



Ne parlerà con l’autore

Frediano Sessi, scrittore, saggista, consulente editoriale e traduttore. I suoi ambiti di indagine privilegiata sono lo studio della Shoah e della Resistenza. Dirige presso Marsilio la collana “Gli specchi della memoria” e collabora alle pagine culturali del “Corriere della Sera”.