Una bomba per fermare la storia col sangue (O.Pivetta)

Gli italiani appresero della bomba dal telegiornale della sera, Rauno. A Milano si sapeva: dapprima la caldaia che era esplosa, abbastanza presto dell’attentato. Appena dopo che erano stati i “comunisti”, ma subito prese a girare una raccomandazione: «Bisogna chiedersi a chi giova». Il senso comune stava già aggiustando le cose. La Rai non aveva pensato a edizioni straordinarie. Aveva richiamato un operatore da Bolzano e l’aveva spedito in piazza Fontana, alla Banca dell’Agricoltura. Fu lui a riferire in redazione: «Altro che caldaia. Una caldaia al tritolo». Glielo aveva sussurrato un ufficiale della Digos.

Dallo schermo in bianco e nero Rodolfo Brancoli cominciò a raccontare di tredici morti e settantotto feriti, di un buco largo un metro nel pavimento e delle assicurazioni del ministro dell’Interno Restivo: che si sarebbe fatto tutto il possibile per trovare i colpevoli. Già Brancoli chiarì: la caldaia era rimasta intatta, non ci sono dubbi che ci sia stata una bomba. Brancoli informò anche delle tre bombe di Roma, all’Altare della Patria, all’ingresso del museo del Risorgimento, nel sotterraneo della Banca nazionale del lavoro. Pochi minuti e chiuse: «Colleghiamoci con Milano, con Elio Sparano». E finalmente, oltre la voce grave di Elio Sparano, le immagini: dentro la banca le macerie, gli infissi divelti, i vetri infranti e il buco; fuori la gente al di là delle transenne nel buio di una serata fredda, nebbiosa, uggiosa. Sparano confermò: tritolo, sette otto chili, tredici morti… Poi gli ospedali: i feriti, bendati, fasciati, che dai loro letti sembravano guardare nel vuoto, incapaci a capire. Infine si seppe di un’altra bomba, collocata in una valigetta davanti alla Banca commerciale, poco lontano. Quella venne fatta esplodere per ordine del procuratore capo Enrico De Peppo: così si persero possibili tracce. A Mario Pastore toccò il pastone politico, cominciando dal messaggio del presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat. Dall’inizio alla fine in sei minuti e mezzo. La bomba era esplosa alle 16,37 del 12 dicembre, un venerdì pomeriggio. La Banca dell’Agricoltura era aperta, come non capitava per le altre banche: era un luogo di contrattazione e lì si ritrovavano commercianti e produttori per discutere di affari. Poco più in là, verso corso Vittorio Emanuele e piazza del Duomo, s’erano accese le luminarie di Natale. Le strade erano affollate. Lo scoppio si sentì anche lontano. Alla Statale gli studenti del movimento erano riuniti in assemblea. Qualcuno cercò di sapere che cosa fosse mai successo. Tornò in aula e riferì. Mario Capanna, il leader, invitò tutti a lasciare l’università e a tornare a casa in piccoli gruppi, senza dar nell’occhio: temeva provocazioni fasciste. Lo scoppio lo avvertì anche Ugo Paolillo, il pubblico ministero di turno. Paolillo avrebbe iniziato con scrupolo l’indagine, che però gli venne sottratta e subito trasferita a Roma, nonostante il giudice naturale fosse quello di Milano. Paolillo s’era avviato da casa in via Corridoni verso il Palazzo di giustizia. Arrivando, trovò una macchina pronta a condurlo in piazza Fontana. Là c’era già il sottufficiale di pubblica sicurezza Michele Priore. Viaggiava sull’autobus N, che faceva fermata pochi metri in là rispetto all’ingresso della banca. L’autobus dovette fermarsi, lui scese e si precipitò nel salone devastato. «Ai primi accorsi l’interno della banca offriva un raccapricciante spettacolo: sul pavimento, che recava al centro un grande squarcio, giacevano, tra calcinacci e resti di suppellettili, vari corpi senza vita ed orrendamente mutilati, mentre persone sanguinanti urlavano il loro terrore…»: così sta scritto nella sentenza di primo grado, la sentenza di Catanzaro, il 23 febbraio 1979, quella che condannò all’ergastolo per strage i fascisti Freda e Ventura e Guido Giannettini, il giornalista che era diventato con il nome in codice “Zeta” un agente del Sid, il servizio italiano di spionaggio. Il giorno dopo sarà il giorno dello sgomento, della paura, delle domande. Il telegiornale ne raccolse qualcuna tra la gente, al microfono di Romano Battaglia. La telecamera percorse i corridoi e gli stanzoni degli ospedali soffermandosi sul viso dolce di un bimbo: Enrico Pizzamiglio, tredici anni, che perse una gamba. Alla fine i morti furono diciassette: quattordici subito, altri due in ospedale, un altro morto si aggiunse un anno dopo, per le conseguenze delle ferite. Passati quarant’anni, anche lo Stato italiano riconobbe la diciottesima vittima: Giuseppe Pinelli, che tre giorni dopo la strage volò dalla finestra della Questura. «Morte accidentale di un anarchico», scrisse Dario Fo. Il telegiornale comunicò: «Giuseppe Pinelli stanotte veniva interrogato in una stanza al quarto piano della Questura. Durante una breve sosta dell’interrogatorio si è gettato nel vuoto da una finestra rimasta socchiusa, nonostante il tentativo di trattenerlo da parte del personale di polizia presente in quel momento… è caduto in questa aiuola…». La telecamera inquadrò il selciato e alcune pianticelle spezzate.

Tra le immagini degli archivi Rai anche quelle (mai andate in onda) della prima conferenza stampa di Marcello Guida, il questore che era stato durante il fascismo direttore delle guardie a Ventotene, l’isola degli antifascisti al confino. Sullo sfondo il quadro di un paesaggio invernale. Guida, panciuto con i capelli impomatati, come due funzionati che gli stavano accanto, assicurò i giornalisti che le indagini sarebbero state condotte nel migliore dei modi. Sorrideva sempre, come i due colleghi, come avesse dovuto raccontare una favoletta. La seconda conferenza stampa, indimenticabile, Guida la tenne la notte dopo la morte di Pinelli, davanti a cinque giornalisti (tra i quali la nostra Renata Bottarelli), con toni da aperitivo in salotto, fino alle tre del mattino. In sostanza, come racconta Corrado Stajano, altro testimone, disse di Pinelli: «Aveva gli alibi caduti. Un funzionario gli aveva rivolto contestazioni e lui era sbiancato in volto». «Un pezzo da antologia – scrisse Ibio Paolucci nel suo libro Il processo infame – per chi voglia insegnare a distinguere, in un resoconto ufficiale, le menzogne più sfacciate dalla verità…». La strada era stata però aperta dal ministro Restivo, in un telegramma alle polizie europee: non abbiamo nulla in mano, «ma dirigiamo le nostre supposizioni verso i circoli anarchici». Così toccò pure a Pietro Valpreda, proprio il 15 dicembre, riconosciuto come l’uomo della valigetta dal tassista Cornelio Rolandi, «che abita a Corsico”, Il giorno dopo Valpreda sarebbe diventato il “mostro”. Lo annunciò Bruno Vespa: «Pietro Valpreda è un colpevole…». Valpreda divenne il mostro sulle prime pagine di quasi tutti i giornali. L’Unità fu più prudente: «Ancora una fitta rete di misteri». Qualcuno si spinse in là: «Sono stati i comunisti». Un salto logico, ideologico, stupefacente. Non bastavano gli anarchici. Tutto quel venerdì 15 dicembre, anche i funerali in Duomo, con il cardinale Giovanni Colombo e il presidente del Consiglio Mariano Rumor, tanta gente, trecentomila persone e le sedici bare allineate, tanta gente e sopra la nebbia… In piazza era già stato alzato l’albero di Natale. Da quel giorno per quarant’anni, e non è ancora finita, davanti a giudici e tribunali sono sfilati i personaggi più diversi e insospettabili: esaltati manovali del crimine, generali e colonnelli, da Miceli a Maletti, capi del Sid, al capitano Labruna, che aveva favorito la fuga di Giannettini, e tanti ministri, da Andreotti a Rumor a Mario Tanassi. Valpreda fu del tutto discolpato. Per Pinelli non vi fu mai incrimazione. Si capì che la bomba avrebbe dovuto seminare il panico nel paese e provocare tensioni, scontri, violenze, giustificando l’intervento repressivo. Entrò in ballo anche la Cia. Il modello era la Grecia. Si capì che lo Stato occultava, copriva, tollerava, aiutava e si giunse però a una verità storica: che l’officina delle bombe era di estrema destra, la destra dei fascisti di Ordine nuovo, quello fondato da Pino Rauti.

http://www.unita.it/news/italia/92577/una_bomba_per_fermare_la_storia_col_sangue

Una bomba per fermare la storia col sangue (O.Pivetta)ultima modifica: 2009-12-13T18:26:00+01:00da pelikan-55
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