La memoria vi renderà liberi

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Sotto quella scritta sono passato due volte. Il lavoro rende liberi. La sensazione strana. Dovresti sentirti scosso e invece no. Perchè quella scritta è divenuta altro. Da tanto tempo. E’ diventata un’icona, come i ritratti multipli di Marylin, la lingua rossa degli Stones, un’altra scritta “Coca Cola”. Altre cose mi hanno emozionato in quel luogo, l’enormità silenziosa di Birkenau nella neve, i mattoni sbrecciati dei crematori, i camini alzati al cielo e intorno il vuoto. I vestitini da bimbo e le scarpine nel Museo. Sono uscito fuori e ho pianto. Senza vergogna. Erano i vestitini e le scarpine di mia figlia, a casa.

Se questo è un uomo, io l’ho sempre inteso a rovescio. Se questo è un uomo, quello che ha preso per mano quel bambino e lo ha portato alla camera a gas, se questo è un uomo, quello che tornava alla sera a casa dai suoi figli. Se questo è un uomo, tutti quelli che vivevano lì intorno, sapevano e, scrupolosamente riconsegnavano alle SS i (pochi) prigionieri fuggiti. Erano uomini, quelli?

Quando siamo tornati la prima volta da Auschiwitz, passata la frontiera italiana ci siamo fermati in autogrill. I ragazzi sono venuti a cercarmi: “Prof., guardi che roba!” e mi hanno indicato la vetrina del negozio. In bella vista bottiglie di Cabernet con etichette grigie e nere. Foto. Himmler. Hitler. Mussolini. Il gen.SS Piper (quello di Boves). Mancava quella con Kappler, chissà forse l’avevano finita. Ho comprato una di quelle bottiglie, l’ho ancora in cantina ma non la berrò mai. La tengo lì a ricordare questo paese “orribilmente sporco”, un paese in cui tutto è uguale, basta far due soldi. Apologia di fascismo? No, libera vendita di oggetti a tema storico, questa la legislazione vigente. Denunciare, querelare, chi? Soldi buttati via. Meglio farli quei due soldi, tanto qualche imbecille passa sempre e compra.

Ora quella scritta non c’è più. Rubata, sparita. Come modesto storico di quartiere provo il dolore di chi perde il pezzo unico, quasi una sofferenza da collezionista di francobolli. Come modesto uomo credo che quella scritta non sia scomparsa, proprio perchè è divenuta un’icona e le icone non muoiono più. Scompare il cimelio (a parte l’osservazione che feci la prima volta: ma si lascia lì alle intemperie un pezzo originale?) ma resta l’icona, l’immagine ormai tanto celebre che fa quasi meno effetto di quello che uno si aspetterebbe. In fondo quella scritta l’avevo vista tante volte che ritrovarmici lì la prima volta mi sembrò “normale” (anche se il termine normale è l’unico che non si dovrebbe mai usare ad Auschwitz).

Ora quella scritta non c’è più. Non so se la ritroveranno, ovviamente spero di sì, se però così non fosse pensiamo magari ad un’altra scritta da mettere lì, magari più piccola, fatta di tante piccole foto tessera di persone che lì entrarono e non uscirono più. Una scritta semplice: “Erinnerung macht frei”. La memoria vi renderà liberi.

Prima si corrompono le parole…

Ancora sul nostro Aureliano Buendia da Gallipoli. Prima si corrompono le parole, poi le idee, e il gioco è fatto.

INCIUCIO. Il termine è entrato nel gergo della politica italiana in seguito all’uso che ne fece il giornalista Mino Fuccillo, in un’intervista a Massimo D’Alema per il quotidiano la Repubblica, il 28 ottobre 1995. Da allora, “inciucio” è divenuto un termine comune per riferirsi ad un accordo informale fra forze politiche di ideologie contrapposte che mette in atto un do ut des o addirittura una vera e propria spartizione del potere. Nel caso italiano, un tacito patto di non-belligeranza sarebbe stato stipulato, secondo alcuni giornalisti, tra Massimo D’Alema, presidente dei Democratici di Sinistra, allora ancora segretario, e Silvio Berlusconi, durante una cena a casa di Gianni Letta, il cd. “patto della crostata” (in riferimento al dolce preparato per quell’occasione dalla signora Letta).
Secondo questa versione, D’Alema si sarebbe impegnato a non fare andare in porto una legge sulla regolamentazione delle frequenze televisive: a tale fine si sarebbe prestato l’allora presidente della ottava Commissione permanente del Senato, Claudio Petruccioli, non calendarizzando l’esame degli articoli del disegno di legge n. 1138 per tutta la XIII legislatura. Tale legge infatti avrebbe costretto il gruppo Mediaset a vendere una delle proprie reti (in tal caso avrebbe scelto probabilmente la meno importante, Rete 4). Inoltre, in quel periodo, Mediaset era in procinto di quotarsi in borsa, e una legge di quel calibro avrebbe fatto colare a picco il valore delle azioni. L’eventuale prezzo che l’altro contraente (Silvio Berlusconi) avrebbe promesso come merce di scambio, non è noto. D’Alema bollò come “inciuci” (cioè pettegolezzi privi di fondamento) tali affermazioni. A causa probabilmente della scarsa conoscenza dei dialetti meridionali da parte dell’intervistatore, al termine fu attribuito un significato distorto, che è poi quello per il quale oggi viene più frequentemente utilizzato.

http://it.wikipedia.org/wiki/Inciucio

«I comunisti italiani hanno sempre dovuto difendersi da questo tipo di accuse – ricorda D’Alema – C’è sempre stato qualcuno più a sinistra, una cultura azionista che ha sempre contestato questo, …dall’articolo 7 in giù che è stato il primo grande “inciucio”… ma questi “inciuci” sono stati molto importanti per costruire la convivenza in Italia, oggi è più complicato, ma sarebbero utili anche adesso. Invece questa cultura azionista non ha mai fatto bene al paese…».

http://www.repubblica.it/2009/12/sezioni/politica/giustizia-22/dalema-elogio/dalema-elogio.html

Alcune cosette al nostro Aureliano che pare dilettarsi con parole più grandi di lui. L’accordo fra Pci e DC per l’inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione all’art.7 fu un inciucio tanto quanto la moltiplicazione dei pane e dei pesci fu un’operazione gastronomica…Si trattò di un’operazione politica, che personalmente da cattolico non approvo, ma giocata alla luce del sole, nel quadro di un dibattito politico ed etico di altissimo livello, in sede di Assemblea Costituente. Un accordo fra parti uguali, con uguali diritti e che godevano il reciproco rispetto. Anzichè infliggerci le sue geniali trovate, il buon Aureliano si rilegga i verbali della Costituente e poi torni a settembre.

Si parla di accordi fra uguali, diversi magari per ideologie, storie e prospettive ma uguali nel rispetto della controparte e delle regole del gioco. Quando invece si va a trattare, di nascosto, nei salotti o nei caminetti, con una sorta di banda Bassotti quale quella che ci governa, allora le cose cambiano e i termini con loro. Il lessico è importante. Togliatti non è D’Alema e De Gasperi non è il vecchio satiro. Se tratto con qualcuno che so che gioca sporco, che cerca scappatoie per i propri fini e ne accetto le trasgressioni per il mio tornaconto, allora quello è un inciucio. Se poi Aureliano ha ereditato la parte peggiore del Pci, la vecchia morale leninista per cui è giusto e corretto quello che in quel momento serve ai miei scopi, il problema è aperto. Ricordo almeno che l’orizzonte ideale leninista era la dittatura del proletariato e si risolse nel massacro che tutti sappiamo, quello del nostro Aureliano è-per fortuna (sua)- il semplice mantenimento del proprio ruolo di travet del potere, disposto a tutto pur di conservare sè stesso e i propri famigli.

Ultima cosa che mi ha reso se non (quasi) felice, certamente orgoglioso. La critica fatta dal nostro: “Invece questa cultura azionista non ha mai fatto bene al paese…”. Gli azionisti (insieme ai socialisti) votarono contro l’art.7, ispirandosi all’idea di un’Italia repubblicana e laica, rispettosa di tutte le confessioni. Un’Italia rigorosa, moderna ed europea che non ha mai visto la luce. In quel partito militavano uomini come Parri, Calamandrei, Ernesto Rossi, Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi. Non fecero bene al nostro paese? Caro Aureliano, forse il problema è che non fecero abbastanza bene al nostro paese…

E’ tornato Aureliano Buendia di Gallipoli

“E’ un mondo difficile è vita intensa felicità a momenti e futuro incerto…” ci ricorda il poeta, ma per fortuna abbiamo i nostri punti fermi, pochi ma sicuri. Il nostro Aureliano Buendia di Gallipoli è uno di questi. Ha promosso 32 sollevazioni armate e le ha perse tutte. Ma che importa? Quando si è il più intelligente, il più astuto, il più migliore, che si pretende? Anche di vincere? Signora mia, non si può avere tutto nella vita! Abbiamo sperato tutti, per un istante, nell’impossibile vittoria in Europa. Magari si levava dai cabasisi e da Ministro degli esteri europeo andava a tramare un po’ più in là, magari avrebbe fatto scoppiare una guerra fra Lituania e Banato, o una crisi navale fra Svizzera e Liechtenstein, ma almeno risparmiava il bel paese dalle sue genialate. Invece no, “E’ un mondo difficile è vita intensa felicità a momenti e futuro incerto…” e rieccolo qui a proporre, supporre, disporre, imporre, transporre, frapporre le solite trovate geniali (secondo lui) a noi, poveri mortali che non abbiamo capito nulla.

Una leggina per il premier, per dargli respiro, perchè no? Del resto il suo scherano latorre, quello del pizzino a bocchino (scusate, ma non è una battuta oscena, è peggio, è la realtà) ci ricorda che “le vicende giudiziarie sono un conto e il dovere di governare è un altro. Berlusconi ha vinto le elezioni e deve svolgere questa funzione: i governi, infatti, cadono quando viene meno una maggioranza parlamentare”. Da ciò deduciamo che un premier, ancora supportato dalla sua maggioranza, potrebbe governare anche da Regina Coeli. Interpretazione garantista e fantasiosa da non trascurare.

“Molti anni dopo il colonnello Aureliano Buendìa, di fronte al plotone d’esecuzione, si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.” Ecco, noi non abbiamo avuto la fortuna di quel padre che ci abbia avviato ai misteri della conoscenza, però una cosa l’abbiamo capita, e bene: “Con questi dirigenti non vinceremo mai…Ci vorranno generazioni prima che il centrosinistra torni a vincere” (N.Moretti, Piazza Navona, 3 febbraio 2002).

Finalmente!

SANREMO – Pupo ed Emanuele Filiberto: è questa la coppia (canora?) più bizzarra al prossimo Festival di Sanremo, condotto da Antonella Clerici in programma dal 16 al 20 febbraio. In gara sedici «big» e molti «giovani». Sicuramente l’accoppiata più strana è quella di Pupo ed Emanuele Filiberto con il tenore Luca Canonici con la canzone Italia amore mio. Non manca la vincitrice delle nuove proposte della scorsa edizione, Arisa, che si cimenta in Ma l’amore no, canzone sull’ambiente. La pupilla di Caterina Caselli, Malika Ayane, è stata promossa fra i big con Ricomincio da qui, mentre Simone Cristicchi propone Meno male.

http://www.corriere.it/spettacoli/09_dicembre_18/festival-sanremo-coppie_8a16bcfe-ebff-11de-b41e-00144f02aabc.shtml

Finalmente! Questa sì che è una buona notizia! Emanuele Filiberto Savoia Carignano si dà al canto. Meglio tardi che mai: pensate se anche i suoi antenati si fossero dati allo spettacolo: il bisnonno Vittorio Emanuele II al cancan (con tutte quelle ballerine scosciate..), Umberto I al circo (con Bava Beccaris come uomo-cannone), Vittorio Emanuele III come clown (alto un metro e una vigorsol era perfetto) e il papino Umberto II al teatro impegnato (come italo Amleto sarebbe stato grande). Tanta arte in più e tanti danni in meno a questo povero paese….

“I” come italiano

Quella «I» come «italiano» che la scuola ha trascurato
Un documento della Crusca e dei Lincei lancia l’allarme: i ragazzi ignorano la lingua madre

L’ italiano a scuola è minacciato. Da chi? Da tutti (o quasi): dalla politica, e cioè dalle riforme previste o, meglio, minacciate, dagli allievi che non vogliono saperne di regole in gene rale, figurarsi di quelle grammaticali, persino dai professori, e vedremo per ché. L’insegnamento dell’italiano è minacciato anche (o soprattutto) dalla società, che offre poli di attrazione ben diversi dall’approfondimento della lingua-madre: immagini, tecnologie, internet, l’immancabile televisione eccetera.
La riforma, si diceva: per alcuni indirizzi della scuola superiore prevede una riduzione. Ma non è questo quel che conta davvero: a preoccupare è l’atteggiamento di genera le superficialità con cui si guarda alla nostra lingua. Per esempio, a molti addetti ai lavori è sembrata una provocazione, con questi chiari di luna, la recente crociata leghista per il dialetto nelle scuole. I chiari di luna sono quelli che impietosa mente emergono dalle classifiche internazionali (Ocse-Pisa) riguardanti le competenze linguistiche dei nostri giovani, collocati agli ultimi posti. Per queste buone ragioni, le due maggiori accademie italiane, la Crusca e i Lincei, hanno deciso di lanciare un appello su Lingua italiana, scuola, sviluppo, partendo da un principio solo apparentemente assodato: «una padronanza medio-alta dell’italiano è un bene per il Paese e il suo sviluppo culturale ed economico ». Assodato? Niente affatto, sarebbe meglio non dare niente per scontato. Vi ricordate il famoso slogan delle tre «I» su cui un passato governo Berlusconi fondava la prospettiva di una scuola rinnovata? C’era di tutto (inglese internet impresa) salvo che l’italiano che pure aveva la stessa iniziale.

L’appello degli accademici, steso da Francesco Bruni, sostiene che «una conoscenza della lingua materna sicura e ricca, che non si limiti ai bisogni comunicativi primari, elementari (…) è una precondizione per un Paese civile». Quel che si propone è insomma «un deciso rafforzamento dell’italiano nell’insegnamento scolastico». Con una sottolineatura: che le ore dedicate alla lingua siano tenute ben distinte da quelle riguardanti la lettura dei testi. Il che riduce l’antica prevalenza crociana della letteratura come disciplina regina, per ripartire più terre à terre dalla lingua d’uso. Il paradosso vuole addirittura che studenti Erasmus venuti da noi dopo aver imparato l’italiano all’estero siano più preparati dei nostri sulle strutture morfologiche e sintattiche e persino sul lessico.

Il filologo Cesare Segre, professore universitario di lungo corso, conosce bene le carenze degli studenti: «Sanno poche parole, non sono capaci di costruire frasi complesse e fanno errori di ortografia gravissimi, insomma non sanno usare la lingua: riassumere, raccontare, riferire. Questo significa che non hanno il dominio della realtà, perché la lingua è il modo che abbiamo per metterci in contatto con il mondo: e se non sei capace di esprimerti non sei capace di giudicare. Per di più la civiltà dell’immagine in genere usa la lingua per formulare slogan e non ragionamenti». C’è poi la questione della presunta concorrenza dell’inglese: «Se non possiedi la struttura della tua lingua non sei in grado di imparare le altre, per questo le campagne a favore dell’inglese non hanno senso se non si legano a un miglioramento dell’italiano».

Basterà rivedere i programmi? Aggiungere un’ora? O mantenere le attuali? Il presidente d’onore della Crusca, Francesco Sabatini, punta su un aspetto che definisce paradossale: «Non c’è nessun collegamento tra la formazione universitaria e l’immissione degli insegnanti nella scuola: si richiederebbe una competenza linguistica e tecnico-didattica specifica. Un tempo poteva insegnare italiano nelle superiori anche un laureato in giurisprudenza che aveva fallito la carriera di avvocato oppure un laureato in pedagogia. Ma ancora oggi se io chiedo a cento professori di italiano quanti hanno studiato linguistica o storia della lingua, rispondono positivamente soltanto in dieci. Il predominio della letteratura è un tardo influsso crociano». Non per niente Sabatini ha scritto già un paio d’anni fa un saggio intitolato Lettera sul ritorno alla grammatica. Ma contro la grammatica sembrano schierarsi persino i professori, che forse sarebbero i primi a doverla imparare: «È vero, c’è un blocco dei docenti, i quali sostengono che chi sa bene la letteratura può insegnare tranquillamente la lingua. Per non dire poi dei ministeri, che ignorano persino l’esistenza di una disciplina che si chiama linguistica». Insomma, ci vorrebbe, secondo Sabatini, una politica mirata all’insegnamento dell’italiano, tenendo conto del fatto che l’italiano serve a tutti i cittadini e a tutti i professionisti: non solo ai docenti di italiano, ma ai magistrati, agli avvocati, ai medici, agli ingegneri eccetera.

E il dialetto? «È importante culturalmente, storicamente, strutturalmente. Va bene presentarlo, ma insegnarlo sistematicamente sarebbe una follia: il dialetto si impara, non si insegna». Bisogna andare sul campo, come si dice, per avere una voce ancora più netta sulla questione. Carla Marello è glottodidatta all’Università di Torino e si occupa molto dell’insegnamento a stranieri. Una prospettiva diversa? «No, tutto ciò che vale nell’insegnamento dell’italiano agli stranieri, serve a maggior ragione per i parlanti nativi. Oggi poi…». Oggi? «Con le classi multilingue l’insegnamento dell’italiano è cambiato per forza. Se poi sentiamo in televisione il Grande Fratello, si capisce subito che la lingua dei giovani è diversa da quella delle antologie scolastiche e dalle scritture artificiali che si richiedono nei temi». Dunque? «La scuola continua a in segnare un italiano fittizio, c’è un distacco enorme tra l’esempio che diamo e ciò che gli allievi sono in grado di recepire. Dunque se vogliamo che l’italiano scritto dei nostri ragazzi migliori dobbiamo impegnarci a farli scrivere di cose concrete, con un insegnamento molto pratico che non guardi più alla lingua letteraria come al solo modello». Bandire la letteratura? «No, si arriverà alla letteratura come massimo grado di utilità e bellezza, ma prima punterei su forme di scrittura meno belle e più concrete, senza ostinarmi a perseguire norme utopiche e senza dare per scontato niente». Proprio niente? Neanche la differenza tra scritto e orale? «Tra scritto e parlato c’è uno scollamento enorme: puntando sul parlato, alzeremo anche il livello dello scritto. Sempre meglio dire: ‘se lo sapevo non venivo’ piuttosto che ‘se non lo saprei non verrei’. Che bisogno c’è di pretendere a tutti i costi ‘se l’avessi saputo non sarei venuto’? Pazienza se non sarà lo scritto di Igor Man o di Scalfari, ma quello più realistico della Littizzetto! ».

Paolo Di Stefano

Vedi alla voce “Amore”

Il bon ton con gli avversari
“Veltroni è un coglione” (Berlusconi, 3/9/95). “Veltroni è un miserabile” (Berlusconi, 4/4/2000). “Giuliano Amato, l’utile idiota che siede a Palazzo Chigi” (Berlusconi, 21/4/2000). “Prodi? Un leader d’accatto (Berlusconi, 22/2/95). “La Bindi e Prodi sono come i ladri di Pisa: litigano di giorno per rubare di notte” (Berlusconi, 29/9/96). “Prodi è la maschera dei comunisti” (Berlusconi, 22/5/2003). “Prodi è un gran bugiardo pericoloso per tutti noi” (Berlusconi, 21/10/2006). “Prima delle elezioni ho potuto incontrare due sole volte in tv il mio avversario, e con soli due minuti e mezzo per rispondere alle domande del giornalista e alle stronzate che diceva Prodi”. (Berlusconi alla scuola di formazione politica di Forza Italia, 2 luglio 2007).”Con Prodi a Palazzo Chigi è giusto dire: piove governo ladro” (Berlusconi, 10/4/2008). “Il centrosinistra? Mentecatti, miserabili alla canna del gas” (Berlusconi, 4/4/2000).”Signor Schulz, so che in Italia c’è un produttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapò” (inaugurando la presidenza italiana dell’Unione europea e rispondendo a una domanda del capogruppo socialdemocratico, il tedesco Martin Schulz, sul conflitto d’interessi, 2 luglio 2003). “Sono in politica perché il Bene prevalga sul Male. Se la sinistra andasse al governo l’esito sarebbe questo: miseria, terrore, morte. Così come avviene ovunque governi il comunismo (Berlusconi, 17/1/2005).

Il rispetto per gli elettori
“Lei ha una bella faccia da stronza!” (alla signora riminese Anna Galli, che lo contestava, 24/7/ 2003).“Non credo che gli elettori siano così stupidi da affidarsi a gente come D’Alema e Fassino, a chi ha una complicità morale con chi ha fatto i più gravi crimini come il compagno Pol Pot” (Berlusconi, 14 dicembre 2005). “Ho troppa stima dell’intelligenza degli italiani per pensare che ci siano in giro così tanti coglioni che possano votare facendo il proprio disinteresse” (discorso di Berlusconi davanti alla Confcommercio il 4/4/2006). “Le nostre tre “I”: inglese, Internet, imprese. Quelle dell’Ulivo: insulto, insulto e insulto” (27/5/2004).

La sacralità delle toghe
“I giudici sono matti, antropologicamente diversi dal resto della razza umana… Se fai quel mestiere, devi essere affetto da turbe psichiche” (Berlusconi, The Spectator, 10/9 2003). “In tutti i settori ci possono essere corpi deviati. Io ho una grandissima stima per la magistratura, ma ci sono toghe che operano per fini politici. Sono come la banda della Uno bianca” (Berlusconi, dopo l’arresto del giudice Renato Squillante, 14/5/96. Ma il riferimento è per quelli che l’hanno arrestato). “I Ds sono i mandanti delle toghe rosse. Noi non attacchiamo la magistratura, ma pochi giudici che si sono fatti braccio armato della sinistra per spianare a questa la conquista del potere” (Berlusconi, 1/12/99). “I giudici di Mani Pulite vanno arrestati, sono un’associazione a delinquere con licenza di uccidere che mira al sovvertimento dell’ordine democratico” (Vittorio Sgarbi, “Sgarbi quotidiani”, Canale5, 16/9/94).“Gian Carlo Caselli è una vergogna della magistratura italiana, siamo ormai in pieno fascismo: si comporta come un colonnello greco, in modo dittatoriale, arbitrario, intollerante. I suoi atti giudiziari hanno portato alla morte” (Vittorio Sgarbi, 8/12/94). “Nelle mie televisioni private non ci sono mai state trasmissioni con attacchi, perchè noi siamo liberali” (Berlusconi, 21/ 5/2006). “Silvio Berlusconi, durante l’ufficio di presidenza del Pdl ancora in corso, secondo quanto riferito da alcuni partecipanti, ha parlato di una vera e propria persecuzione giudiziaria nei suoi confronti , che porta il paese sull’orlo della guerra civile” (Ansa, 29/11/09)

La fiducia nella democrazia
“Si è messo mano all’arma dei processi politici per eliminare l’opposizione democratica. Non siamo più una democrazia, ma un regime. Da oggi la nostra opposizione cessa di essere opposizione a un governo e diventa opposizione a un regime” (Berlusconi, dopo una condanna in primo grado tangenti, 8/8/98). “La libertà non si può più conquistare in Parlamento, ma con uomini lanciati in una lotta di liberazione. Senza la devoluzione, da qui possono partire ordini di attacco dal Nord. Io sono certo di avere dieci milioni di lombardi e veneti pronti a lottare per la libertà” (Umberto Bossi al “parlamento padano”, presente Berlusconi, Ansa, 29/9/2007). “Boicotteremo il Parlamento, abbandoneremo l’aula, se necessario daremo vita a una resistenza per riconquistare la libertà e la democrazia” (Berlusconi, 3/3/95). “In Italia c’è uno Stato manifesto, costituito dal governo e dalla sua maggioranza in Parlamento, e c’è uno Stato parallelo: quello organizzato in forma di potere dalla sinistra nelle scuole e nelle università, nel giornalismo e nelle tv, nei sindacati e nella magistratura, nel Csm e nei Tar, fino alla Consulta. Se si consentirà a questo Stato occulto di unirsi allo Stato palese, avremo in Italia un regime vendicativo e giustizialista, mascherato di legalità e ostile a tutto ciò che è privato” (Berlusconi, 5/4/2005). “Adesso diranno che offendo il Parlamento ma questa é la pura realtà: le assemblee pletoriche sono assolutamente inutili e addirittura controproducenti”.(Berlusconi, 21/5/2009)

Il galateo istituzionale
“Il presidente Scalfaro è un serpente, un traditore, un golpista” (Berlusconi, La Stampa, 16/1/95). “Altro che impeachment! Scalfaro andrebbe processato davanti all’Alta Corte per attentato alla Costituzione. E di noi due chi ha maneggiato fondi neri non sono certo io. D’altra parte, Scalfaro da magistrato ha fatto fucilare una persona invocandone contemporaneamente il perdono cristiano. Bè, l’uomo è questo! Ha instaurato un regime misto di monarchia e aristocrazia” (Berlusconi 18/1/95). “Io non sono in contrasto con il capo dello Stato, non ne ho nessun motivo, anzi sono un suo sostenitore convinto. Ho con lui un rapporto molto cordiale” (Berlusconi, 28/2/95). “Ma vaffanculo!” (Berlusconi, accompagnando l’insulto con un gesto della mano, mentre il presidente emerito Scalfaro denuncia in Senato il «servilismo» della politica estera del suo governo nei confronti degli Usa sull’Iraq, 27/9/2002). “Italia vaffanculo” (Tre eurodeputati leghisti, commentando in aula a Strasburgo l’intevento del presidente Carlo Azeglio Ciampi, 5/7/05). “Questi signori, che hanno vinto delle elezioni taroccate, hanno arrogantemente messo le mani sulle istituzioni: il presidente della Repubblica è uno di loro” (Berlusconi, riferendosi al presidente, Giorgio Napolitano, 21/10/06).

http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578

Contro la strategia della tensione (dalla FAI)

Comunicato stampa 17/12/2009

CONTRO LA NUOVA STRATEGIA DELLA TENSIONE CONTRO OGNI PROVOCAZIONE PER LA DIFESA DI TUTTE LE LIBERTA’

La Federazione Anarchica Italiana- FAI e la Federazione Anarchica Reggiana denunciano la natura oggettivamente provocatoria e antianarchica delle esplosioni di Milano e Gradisca d’Isonzo.

Il nome degli anarchici viene strumentalmente associato a deliranti rivendicazioni che accompagnano detonazioni e fiammate, in un momento assai significativo: a poche ore dallo svolgimento di decine e decine di manifestazioni pubbliche che il Movimento anarchico ha promosso in tutta Italia per tenere viva la memoria della strage di Stato, dell’assassinio di Pinelli e delle montature antianarchiche che quarant’anni fa a piazza Fontana aprirono la stagione della strategia della tensione. Di più, gli anarchici tanto in Italia quanto in Europa e più in generale nel mondo intero, sono impegnati quotidianamente nelle lotte per trasformare gli assetti societari affermando quel socialismo libertario fondato su solidarietà ed umanità, eguaglianza e libertà.

Per tutto questo la strategia della tensione continua con infame puntualità attraverso la polvere da sparo, utilizzata nel tentativo di coprire la miseria in cui si dibatte la classe dirigente del paese e soprattutto la deriva politica di stampo autoritario introdotta dal governo.

Ancora una volta, la lotta antirazzista e l’opposizione alla legge Maroni e più in generale le battaglie per la libertà nel paese vengono criminalizzate attraverso l’esercizio autoritario della provocazione, proprio in un momento in cui il livello del conflitto espresso dagli immigrati, dai giovani e dai lavoratori svela giorno per giorno la natura totalitaria e razzista di questo governo.

L’acronimo FAI, associato a una presunta “federazione anarchica informale”, torna a essere vigliaccamente utilizzato per creare confusione e gettare discredito sull’impegno quotidiano profuso a viso aperto dai militanti e dai simpatizzanti della Federazione Anarchica Italiana aderente all’Internazionale di Federazioni Anarchiche.

Respingiamo fermamente questa nuova provocazione, invitiamo i cittadini a non lasciarsi confondere dal clamore mediatico ed esortiamo gli operatori dell’informazione a non prestarsi a logiche di interessata disinformazione.

Nel denunciare questo miserabile copione, esprimiamo tutto il nostro sdegno per questi atti banditeschi che non posso appartenerci, funzionali alle logiche del comando, con cui si cerca di distruggere e infangare quello che gli anarchici tentano di costruire ogni giorno: una società libera dal potere, libera dalla sopraffazione, in cui la solidarietà, l’uguaglianza e la giustizia sociale siano pratiche reali e quotidiane.

FAI- Federazione Anarchica Italiana, Federazione Anarchica Reggiana

www.federazioneanarchica.org Cel. 329-0660868 (Simone)

nb. La Federazione Anarchica Italiana nasce nel 1920, viene messa fuori legge dal fascismo, promuove la lotta antifascista in esilio, contribuisce in maniera determinante alla lotta della Resistenza, si ricostruisce nel 1945 a Carrara, è presente in tutti i movimenti emancipativi dal dopoguerra ai giorni nostri (sociali, sindacali, giovanili,civili). Ha sedi, circoli, gruppi, federazioni locali in tutto il paese. Ogni 2 anni tiene il proprio congresso nazionale. Ogni 4 partecipa al congresso dell’Internazionale di Federazioni Anarchiche. L’ultimo congresso della FAI, il XXVI°, si è svolto a Reggio Emilia nel marzo 2008.

La via d’uscita (da cosa?)

La via d’uscita dall’estremismo (Angelo Panebianco)

L’intervento di Fabrizio Cicchitto alla Camera due giorni fa, dedicato all’identificazione, nomi e cognomi, di quelli che egli considera i «mandanti morali» dell’aggressione fisica al premier, è stato del tutto sbagliato e inopportuno. Non aiuta il clima politico. Soprattutto, non aiuta il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, a sciogliere i nodi che egli sa di dover sciogliere. Sarebbe anche nell’interesse del centrodestra, e del Paese, che questo avvenisse. (Sublime! Un requisitoria come quella del fratello 2232 della P2 contro Repubbblica e c. in qualunque paese liberale sarebbe messa nel museo degli orrori e lo stesso fratello messo alla berlina, qui è “del tutto sbagliato e inopportuno” perchè? Non perchè sia più vicino a Goebbels che a De Gasperi, ma perchè “Non aiuta il clima politico”!)

Possiamo mettere in questi termini il problema dell’opposizione. La sua componente estremista ha un capo riconosciuto, con un profilo netto, Antonio Di Pietro. Bersani, invece, deve ancora dimostrare di saper essere, al di là della carica politica, il capo riconosciuto, con un profilo altrettanto netto, della componente democratica dell’opposizione. Quando si dice che il Pd dovrebbe rompere l’alleanza con Di Pietro si dice una cosa giusta ma banale. Si perde di vista che «rompere con Di Pietro» sottintende una complessa operazione politica che, per essere attuata, ha bisogno di una leadership coi fiocchi. Si tratta di un’operazione che implica sia la resa dei conti con il «dipietrismo interno» al Partito democratico sia una ricalibrazione dei rapporti con le forze esterne (certi magistrati, certi giornali, eccetera), che sul dipietrismo interno al Pd hanno sempre fatto leva per condizionarne la politica. (Il “dipietrismo interno” che condiziona la politica del PD? Certamente un po’ di rigore da fastidio al nostro stracciobianco che sogna di aver finalmente davanti un PD, non più di opposizione, ma “diversamente concorde”).

Opporsi alla persona di Berlusconi o opporsi alle politiche del governo? La risposta rivela la concezione della lotta politica, nonché il giudizio sullo stato della nostra democrazia, di ciascun singolo oppositore. Da quando c’è Berlusconi le due anime hanno convissuto e, quasi sempre, quella antiberlusconiana pura ha prevalso, essendo stato fin qui l’antiberlusconismo il vero ancoraggio identitario della sinistra. (Ma come si può scindere l’opposizione a B. con quella alla sua politica? Il leader è la sua politica, tanto più quando si parla di un movimento populista e demagogico come quello berlusconiano)

E’ evidente che Bersani, per la sua storia personale, ambirebbe a portare il Pd fuori dall’orbita del massimalismo antiberlusconiano, dare a quel partito ciò che esso non ha: un chiaro profilo riformista. E’ anche evidente che egli (legittimamente) si preoccupa di non perdere consensi. Poiché il massimalismo antiberlusconiano è ben presente nell’elettorato e fra i militanti del Pd un’operazione che separi nettamente i destini politici degli estremisti da quelli dei riformisti appare, sulla carta, assai rischiosa. (Capissi una volta cosa sono sti’ riformisti? La Torre? D’Alema? Ma dove sono? Per dirla con Stalin: quante divisioni hanno? O per dirla con Moretti: fino a quando ci faranno perdere?)

Ma qui entra in gioco la questione della leadership. Immaginiamo che Bersani batta il pugno sul tavolo e dica: «Di Pietro non è un alleato ma un avversario da isolare e i dipietristi interni al partito sappiano che non sarà più tollerato chi tiene il piede in due staffe. A loro volta, le forze esterne che pretendono di condizionarmi sappiano che la linea politica del Pd la detto solo io a nome della maggioranza congressuale che mi ha espresso. Se vogliono opporsi a me e logorarmi si accomodino ma sia chiaro che, così facendo, favoriranno il centrodestra ». Gli antiberlusconiani duri e puri (anche quelli del Pd) griderebbero al tradimento ma ciò potrebbe essere compensato dalla scoperta, da parte degli elettori di sinistra, del fatto che c’è ora in circolazione un leader riformista forte e vero, dal profilo netto, che potrebbe domani anche portarli alla vittoria. (Portarli alla vittoria? Chi? Domani? Dopodomani, magari, o forse quello dopo ancora, perchè partire da un 10%-azzardo-non è che si vada lontani..e poi perchè chiamarlo PD? Facciamo Rutelli segretario e confluiamo noi nell’API).

La politica, si dice, è ormai troppo debole per non essere condizionata da forze esterne. Tramontata l’epoca dei partiti di massa, è solo la leadership che può ridare forza alla politica. (Questa stracciobianco dove l’ha letta? Sulla biografia di Homer Simpson?)

Angelo Panebianco

http://www.corriere.it/editoriali/09_dicembre_17/editoriale-panebianco-uscita-estremismo_03ff3c50-ead2-11de-9f53-00144f02aabc.shtml

“Cicchi” chi?

Vita e opere di Fabrizio Cicchitto: la P2 e i progressisti, l’antiamericanismo e i versi di Bondi (Luca Telese)

Per noi che (a sentir lui) saremmo “un mattinale delle procure” affiliato al “network dell’odio” (di al Qaeda stranamente non ha parlato) è doveroso premettere che Fabrizio Cicchitto (oggi la più frenetica testa d’ariete della falange di attacco berlusconiana) è una persona amabile: il suo inconfondibile sorriso mascellato da Joker è in realtà segnato da una storia politica complessa e dolorosa.
In questi giorni lo si vede sempre in tv: speciale Tg1, al Tg2, Tg5, impegnato a spiegare che Tartaglia non è un ragazzo psicolabile, ma un giovane pasdaran prodotto da “una campagna d’odio” (la nostra, pare). Chissà come mai Cicchitto non dice che la famiglia Tartaglia non era girotondina ma, lo dice il padre, craxiana come lui.

Esordi. Il primo a notarlo, questo focoso ragazzo uscito dal turbine del 1968 (“Quando con i fasci ci facevo a botte – sorrideva Cicchi – ma prendendole”) fu il mitico Fortebraccio. Alla penna più affilata dell’Unità, il furore ideologico di questo giovane – antiamericano e massimalista – che usciva dal movimento per diventare socialista lombardiano ispirò una definizione divina, che battezzava una nuova corrente ideologica: “Il marxismo-cicchittismo”.

Tessera 2232. “Cicchi” era già come oggi: ardimentoso, intellettualmente spericolato, amante delle parole grosse, un debole per le polemiche. La sua prima vita politica si interruppe drammaticamente ai tempi in cui la corrente lombardiana frequentava il convento delle convertite e lui era uno dei discepoli del vecchio maestro socialista.
Erano già uscite le voci sulla sua affiliazione alla P2 e Cicchitto risultava essere intestatario della tessera 2232 (data di iniziazione 12 dicembre 1980). In una riunione drammatica il vecchio Lombardi gli chiese: “E’ vero che sei affiliato?”. Lui, mesto, rispose: “Sì”. Allora Lombardi gettò il suo bastone per terra e lo schiaffeggiò platealmente: “Ammetti tutto. E basta”.
Chicchitto ammise (e fu uno dei pochi): “La politica italiana è una guerra per bande – disse – mi sentii isolato, mi iscrissi per cercare protezione”. Raccontò tutto dopo una celebre lettera aperta di Giampiero Mughini (“A un fratello smarrito”). Nell’Italia in cui tutti negavano, questa confessione gli costò 7 lunghi anni di purgatorio.
A riabilitarlo fu Bettino Craxi, che nell’ottobre del 1987, da Milano, lo evocò in una assemblea socialista, pur senza nominarlo: “Abbiamo affrontato il problema di un compagno che ammise di essersi iscritto alla P2 e di aver commesso un errore… E’ stato 7 anni ai margini del partito, ci siamo chiesti se era giusto che continuasse così”. Craxi fece una delle sue storiche pause e concluse: “Abbiamo concluso che non era giusto”.

“Progressista berlusconiano”. Tornò con una responsabilità minore, nel settore economico, e quello stesso gusto per la polemica. Si cosparse il capo di cenere e (intervistato da Giuliano Ferrara) giurò: “Non mi associo più nemmeno a una bocciofila”. Poi, amarissimo: “Quando sei in disgrazia quelli a cui hai dato una mano non te lo perdonano”. Raccontò cosa gli aveva detto Craxi: “Devi ricominciare da zero”.
Ma una volta tornato in pista ci prese gusto. Amava sparare sul Pci (“Non c’è niente di peggio che il sovversivismo moderato”) e le tv di Berlusconi (“Tv privata? Gli squali attendono”). Riesce a diventare capogruppo del Psi nel 1994, ma di nuovo il mondo gli cade sulla testa (con Tangentopoli il garofano si estingue).
Una volta incrocia le lame con Giuliano Ferrara: Giulianoferraratogliatticraxiberlusconi, lo battezza. L’Elefantino risponde coniando un feroce acronimo parallelo: Fabriziocicchittosignorileortolanigelli (la peggio l’ha avuta lui).
Nerio Nesi, ex compagno, testimone del drammatico colloquio con Lombardi: “Quando parla della sinistra, lo fa con astio. Sembra un prete spretato”. Lui avvalora: “La sinistra è finita nel ‘92, la casa dei socialisti è nel Pdl”. Pochi ricordano però, che nel 1994, ai tempi della discesa in campo, “Cicchi” si candidò in Puglia. Con il Cavaliere? Macché: contro di lui, con i Progressisti. Ne uscì con amarezza dopo la mancata elezione (aveva davanti Occhetto). Inizia una fase (come racconta il suo compagno di allora, Bobo Craxi) “di carboneria socialista”. Tempi grami e difficili, scampoli di eleggibilità.

Il convertito di Arcore. Così nel 1999, con Margherita Boniver, approda alla corte del Cavaliere, a cui viene presentato da Gianni De Michelis. Scrive articoli, saggi, libri: da quelle parti serve come il pane. Il polemismo è sempre il suo tallone d’Achille. Querela l’Unità per aver citato la via dove abita, dà del “traditore di Craxi” a Claudio Martelli. a Barbara Romano su Libero dice: “Ho fatto due grandi errori, nella vita. Il primo iscrivermi alla P2″. E l’altro? “Corteggiare le ragazze citando Weber, col risultato che quelle scappavano dai palestrati”.
Dopo le elezioni del 2008 diventa capogruppo del Pdl a Montecitorio. Purgatorio finito?. Berlusconi grida a Italo Bocchino: “Gli serve un sarto! Portalo da Mazzuoccolo!”.
Arriva persino la consacrazione letteraria degli indimenticabili versi che il ministro Bondi gli dedica: “La mia fede/ è la tenerezza dei tuoi sguardi./ La tua fede è nelle parole che cerco”.
Malgrado l’idillio è lui il protagonista della rottura con An che precede il Predellino.
Lo fischiano al Lirico di Assisi: “Questi stronzi – lo sente gridare al telefonino Francesco Specchia di Libero – mi hanno messo davanti al plotone d’esecuzione”.
Di nuovo grida all’imbarbarimento, di nuovo esibisce quel sorriso da Joker triste in tv. E a noi “del network dell’odio”, quel malinconico zelo fa simpatia. Sarà, come dice Bondi, la tenerezza dei suoi sguardi?
E’ il cicchi-berlusconismo, bellezza.

da Il Fatto Quotidiano del 16 dicembre