25 aprile, ora e sempre Resistenza (A.D’Orsi)

25aprile1945.jpgIl 25 Aprile non può, nemmeno a 65 anni di distanza, essere considerata una tra le tante date celebrative: oggi più che mai quella data vibra di passione civile, e non soltanto di memoria storica. In fondo, è un quindicennio che la vittoria sul nazifascismo è ritornato ad essere un momento essenziale della battaglia politica, oltre che culturale, in questo sfortunato Paese. Bisogna, paradossalmente, dire grazie a Silvio Berlusconi, e ai suoi alleati-succubi, se ora noi crediamo di nuovo, con forza, nell’importanza della «celebrazione» del 25 Aprile. E non è un caso che in tante parti d’Italia, le vecchie sezioni dell’Anpi (la gloriosa associazione dei partigiani), siano state rivitalizzate da manipoli di giovani, mentre via via scomparivano, ad uno ad uno, i reduci di quella guerra fondativa della nostra Repubblica. Negli ultimi tre giorni, personalmente, sono stato invitato a parlare, da circoli Anpi, a Carpi, a Viterbo, ad Avellino. E in tutti i casi, si tratta di circoli nei quali i giovani – trentenni – hanno raccolto il testimone dai vecchi combattenti, e tentano, ben oltre la data canonica, di difendere princìpi, valori, e ideali dell’antifascismo.

Dopo i decenni dell’azione prima sotterranea, poi via via più palese del revisionismo, giunto negli ultimi anni a trasformarsi in «rovescismo», volto non solo a delegittimare i risultati politici della lotta partigiana, ma a rovesciare la verità acclarata dei fatti, siamo giunti alla resa dei conti finale. L’attacco prima storiografico, poi scopertamente ideologico, infine direttamente politico, alla Resistenza, è diventato attacco alla Costituzione Repubblicana, e ai fondamenti stessi dello Stato di diritto. Il Piano Gelli, in sostanza, con Berlusconi, è giunto alle soglie della sua piena realizzazione, e se la banda che si è impadronita del potere non è ancora riuscita a portare a termine il suo disegno di scasso istituzionale, ciò è dovuto anche alla mobilitazione permanente che, pur tra enormi difficoltà, si è manifestata e si manifesta ogni giorno, dovunque in Italia, dalle Isole alle Alpi, dal Sud che resiste alla mafia, alla camorra e alla ‘ndrangheta, al Nord che non vuole saperne di indossare la camicia verde, e men che meno di sfilare adunato in «ronde padane».

La guerra che si combatté in Italia fra l’8 settembre del ’43 e il 25 aprile del ’45 contenne, come ormai è noto, tre distinte guerre. Innanzi tutto, si trattò di una guerra di liberazione nazionale: non a caso parliamo di «liberazione», come sinonimo di Resistenza. La guerra contro un alleato trasformatosi nemico, occupante il suolo della patria. Guerra nazionale, dunque, anche se combattuta da un esercito di irregolari, anzi da un non esercito, contro due eserciti regolari, quello nazista e quello repubblichino, egualmente feroci.

In secondo luogo, una guerra sociale: lotta di classe, per un altro genere di liberazione, non più dal nemico esterno, ma dal nemico interno, il nemico di classe: fu l’improvviso ritorno, dopo le avvisaglie del marzo ’43, del protagonismo di vasti strati di ceti subalterni che, dopo un ventennio di compressione, si riaffacciavano, potentemente, a reclamare diritti sociali, economici e politici. In questa guerra emergeva l’ansia di una giustizia dei poveri, gli oppressi, coloro che erano rimasti senza voce per troppo tempo; c’era la speranza del cambiamento politico e sociale. Questo fu «il vento del Nord», espressione oggi compromessa da un improprio uso leghista: e la «Resistenza tradita» significò la mancata realizzazione di quegli obiettivi sociali, come per decenni la Sinistra, quando faceva il suo mestiere, denunciò.

Infine, una guerra civile: italiani contro italiani, antifascisti contro fascisti, guerra di ideali e di interessi insieme, di valori e di opzioni politiche. Sottesa a questo scontro c’era la necessità di individuare e combattere i nemici anche tra i connazionali (di lingua e di suolo), ma non nel senso della nazione democratica, come scelta condivisa di valori e ideali.

Le tre guerre si mescolarono. Nella guerra civile vi era la guerra di classe, nella guerra nazionale la guerra civile: i fascisti difendevano interessi padronali, perlopiù, ed erano alleati (subordinati) dei tedeschi: dunque combattendo i fascisti si combatteva il padronato e il nazismo. E combattendo i padroni si combattevano i tedeschi e i fascisti; mentre combattendo contro l’invasore tedesco (dunque per la patria italiana) si combatteva contro il regime fascista, che invano tentava di rinascere dalle proprie ceneri, proprio grazie al poco disinteressato aiuto tedesco.

Più che alle pure pregevolissime ricerche storiche, ci sono dei testi d’altro genere a cui occorrerebbe sempre ritornare, per capire la nuda essenza del 25 Aprile, e la sua luminosa bellezza: le Lettere dei condannati a morte della Resistenza (esistono in commercio sia quelle della Resistenza italiana, sia quelle della Resistenza europea). Vi possiamo trovare quanto basta per non perdere di vista il senso profondo di quella guerra. Difficile resistere alla commozione davanti alla semplicità innocente di quei ragazzi e ragazze, donne e uomini maturi, che si sono battuti, immolati, o hanno sacrificato affetti, beni, tempo, carriera, vita, per difendere un bene che oggi è di nuovo a rischio: la libertà di tutti. Da questo punto di vista, con un pizzico di retorica, vorrei ribadire forte e chiaro che nessun “rovescismo” può cancellare il significato della Resistenza, atto davvero di liberazione, di creazione di un nuova Italia, che cercava di ribaltare tutto quanto, dal punto di vista prima di tutto etico, aveva significato il fascismo e il suo regime.

Se oggi possiamo discuterne liberamente come liberamente possiamo discutere e litigare di politica e di qualsiasi altro tema (almeno finché ce lo lasceranno fare i nuovi padroni, che gli spazi di libertà cercano diuturnamente di comprimere e limitare), lo dobbiamo anche e, almeno sul piano morale, innanzi tutto a quegli eroi perlopiù sconosciuti, eroi ora per caso, ora per scelta, ora per necessità, i cui nomi a stento si leggono sulle sbiadite targhe delle nostre strade, davanti alle quali le amministrazioni comunali o le locali sezioni e i nuovi circoli dell’Anpi mettono un fiore pietoso ad ogni ricorrenza del 25 Aprile, aggiungendo magari un tricolore, a sottolineare che la Repubblica è il frutto di quel sangue. Ad esse gettiamo un’occhiata distratta e rapida, specie quando quei fiori sono freschi: e la prima cosa che ci colpisce è la varietà di collocazione sociale, con una netta prevalenza dei ceti popolari: operaio, tipografo, tramviere, impiegato, studente, insegnante, ferroviere, artigiano, manovale… Il secondo elemento che balza all’occhio pur distratto, è l’età: ad essere «barbarmente trucidati» – come spesso si esprime il canonico stile marmoreo – sono fanciulli (dai 14 anni in su) o poco più che tali; gente semplice, umile, ma determinata e forte.

Davanti a quelle pietre, come davanti ai testi dei condannati, scritti sovente su materiali di fortuna, prima che il boia giungesse a prelevarli dalle celle per portarli al patibolo, abbiamo il dovere morale non soltanto del rispetto e della memoria solidale, ma quello civile, ciascuno nel suo ambito, di raccogliere il testimone – come i giovani che animano le sezioni dell’Anpi, oggi – per le nuove battaglie che premono, a cominciare dalla strenua difesa della Costituzione Repubblicana, sottoposta a un attacco incessante, tendenzialmente devastante. Al cospetto di quei martiri, e dinnanzi alla necessità di questa battaglia (che difende tutti, anche coloro che la pensano diversamente), nessuno potrà dire, domani, che non aveva capito.

Angelo d’Orsi

25 aprile, ora e sempre Resistenza (A.D’Orsi)ultima modifica: 2010-04-24T17:30:00+02:00da pelikan-55
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