I Quagliariello che si sono venduti l’anima (Pierfranco Pellizzetti)

soldi.jpgI Quagliariello che si sono venduti l’anima

“Si fa presto a dire: prendete le distanze da Berlusconi. Ma qui rischiamo tutti il licenziamento. Frase attribuita da l’Espresso a un deputato del Popolo della Libertà. E trattasi di un personaggio di prima fila, figurati gli altri… Per inciso, vale la pena osservare come – dipendenti per dipendenti – gli operai della Fiat abbiano dimostrato ben altra fibra morale.

Comunque, il significato profondo di tale immortale dichiarazione è che ci troviamo al cospetto di nient’altro che una genia di camerieri, tremebondi (Bondi!) e servili, su cui grava in permanenza la spada di damocle del perdere il posto a insindacabile capriccio del proprio padrone. Tra i vari orrori berlusconiani questo non è certo il minore: aver tratto il peggio dalle persone che gli stanno intorno. Perché c’è il Berlusconi satiro, che scatena i propri istinti lubrichi sui corpi di donne rese malleabili da ricompense varie, c’è il Berlusconi vampiro, che succhia giovinezza a minorenni ingnorantelle assai, quindi indifese, abbagliate da promesse di visibilità televisiva (della durata di qualche minuto) e di carriere politiche fulminanti (qui i casi sono ben noti); ma c’è anche il Berlusconi mefistofelico, che compra l’anima dei meschini alla ricerca di una qualche sicurezza.

Certo, si tratta di gente moralmente miserrima. Ma la grande abilità del Mefistofele di Palazzo Grazioli è stata quella di vedere in controluce l’intima natura di uomini e donne cogliendovi debolezze da strumentalizzare a proprio vantaggio. Con cui realizzare l’immensa opera corruttiva di un personale politico già malato da pluridecennali operazioni di scambio e maneggi sottobanco. Il dramma è stato che i disponibili a subire il richiamo della perdizione si sono rivelati ben più numerosi di quanto si potesse immaginare.

Forse ce lo siamo dimenticati, ma il primo della lista – agli albori di Forza Italia – fu nientemeno che un importante filosofo di estrazione marxista (tra l’altro con un passato persino da troskista) che rispondeva al nome di Lucio Colletti. A chi lo vedeva ingrigire sui banchi del Parlamento e gli chiedeva come mai si fosse ridotto così male, la risposta era sempre la stessa: “Avevo bisogno di una pensione”.

Lo ripensavo l’altra sera guardando con una sorta di umana pietà il volto verdognolo del senatore Gaetano Quagliariello, impegnato nella difesa a comando del proprio signore e padrone a Ottoemezzo de la Sette. Anche perché questo venefico tipetto lunare ha un curriculum che non tutti conoscono: iscritto in giovane età al Partito Radicale, negli anni Ottanta ne fu segretario cittadino a Bari e poi vice-segretario nazionale. Sicché ebbe un ruolo attivo nelle attività promosse dal partito di Marco Pannella, quali le campagne referendarie sull’aborto, il nucleare e la caccia; facendosi persino promotore della biocard, un testamento biologico in cui il sottoscrittore poteva rifiutare anche l’idratazione forzata. Nel suo medagliere brilla l’episodio vagamente sovversivo della marcia antinuclearista contro la centrale nucleare di Avetrana; quando addirittura venne arrestato, assieme a Francesco Rutelli, per essere entrato in una zona off limits. Insomma, un personaggio nato battagliero che ora ritroviamo ridotto a stuoino. Un laico (“laicista”, direbbe oggi) che si è abbassato all’ignominia di inveire contro il povero, dignitosissimo, Peppino Inglaro gridandogli “assassino”.

Indubbiamente, nel caso Quagliariello, può aver pesato la scuola del cinismo pannelliano troppo a lungo frequentata. Ma i Quagliariello, come le torme di yes-man/woman che Berlusconi ha immesso nel sistema politico italiano, rivelano un aspetto comune: quello di aver venduto l’anima. Con un di più a fare buon peso: la mutazione genetica verso il tipo “promoter Publitalia”, indotta dall’esposizione ai flussi “culturali” dell’ambiente in cui sono andati di buon grado a cacciarsi; traendone vantaggi materiali al prezzo dell’indecenza. Un’umanità zombizzata, la cui frequentazione nelle sedi politiche come nei talk-show ha pure infettato consistenti settori della cosiddetta opposizione: il loro morso venefico è nient’altro che l’uso corrotto e corrompente della parola (sia quando ripetono le assurdità che gli hanno fatto imparare a memoria, sia quando interrompono ad arte l’interlocutore; in base a precisi insegnamenti forniti loro dai sovrastanti berlusconiani).

È per questo che viene spontanea una domanda: ha senso fare finta che i camerieri-zombi del premier siano qualcosa di diverso da quanto effettivamente sono? Per cui ci si perde in disquisizioni, magari d’alta politica, quasi si avesse di fronte interlocutori disponibili a farsi convincere. Ha senso perseguire problematiche operazioni per recuperare pezzi di questa maggioranza al guinzaglio (quando – semmai – è Berlusconi a fare incetta di simil oppositori, zombizzabili per trenta denari)? Non sarebbe molto meglio uscire dalla finzione e chiamare con il vero nome tale genia? Ossia, gente che ha fatto mercato di se stessa.

Le malattie, specie se mentali, possono essere curate solo se riconosciute come tali.

Foibe: piccole bufale sulla stampa quotidiana

Foto_Foibe.jpgVabbè che Reggio sia ormai una metropoli di 170.000 abitanti (dati ufficiali al 31.12.2010) e che possa vantare ben quattro quotidiani, quello però che ogni giorno passa sotto i nostri occhi di attenti lettori spesso supera non solo il buon gusto ma anche quel moderato senso di ritegno che dovrebbe animare i cosiddetti “operatori della comunicazione”.

Il prossimo 10 febbraio si celebra il cosiddetto “Giorno del Ricordo”, nato all’insegna di “voi [ebrei, cattocomunisti, antifascisti] avete la “Giornata della memoria”? Noi [postfascisti, anticomunisti, etc..] abbiamo la nostra giornata!” E infatti a Reggio la ricorrenza viene appaltata dal Comune alla destra, e nella fattispecie al consigliere di lunghissmo corso (sedeva in Sala Tricolore già ai tempi di Breznev) Marco Eboli. Tutti felici. Il Comune che dimostra di essere “moderno”, la destra che può così piantare la propria bandierina (nera? azzurra?) nella già rossa Reggio.

Però. La ricorrenza è, oltre ogni evidenza, semplicemente una occasione politica. Non si propone nessuna lettura storica delle vicende del confine orientale. Si ripropone per il terzo anno la solita mostra (che negli anni trascorsi ebbe qualcosa come una cinquantina di visitatori), si chiamano in Sala del Tricolore (sì, proprio lì) Associazioni irredentistiche, si attribuiscono premi intitolati a personaggi discutibili, “reduci” dalle foibe.

Mi hanno spiegato che si chiama politica, a me sembra, per dirla con Fantozzi, “una boiata pazzesca”. Ma tant’è, chi siamo noi, per obiettare, storici?

La stampa segue. Oggi su “Il Giornale di Reggio” è apparso l’articolotto sopra esposto. Con tanto di foto. Didascalia “Una foto d’epoca delle vittime delle foibe”. Capperi! Guarda sti’ feroci slavi che fucilavano poveri italiani prima di buttarli nelle foibe (ma non li buttavano direttamente dentro senza sparare? Si faceva prima e costava meno..). Commozione e lacrime patriottiche.

Peccato che la foto riportata sia stata scattata il 31.7.1942 a Loska Dolina (Krizna Gora).   Didascalia corretta “Truppe italiane fucilano ostaggi del paese di Dane”. (http://www.criminidiguerra.it/immagini/f2fucilaz.jpg).

Ma vogliamo stare a guardare queste quisquiglie? Il paradosso è che gli eredi dei principali responsabili della reazione jugoslava all’invasione e alle violenze italiane sono oggi quelli che vengono a proporre queste belle iniziative che, purtroppo, coinvolgono anche le amministrazioni che noi abbiamo eletto e che ci vengono poi a parlare di “memoria”…

Tempi duri, non c’è che dire, tempi in cui, per dirla con le streghe del Macbeth “Il bello è brutto, il brutto è bello”.

Good night and good luck!

Don Pasquino e i “suoi”

jpg_3210397.jpgLunedì 30 gennaio ho commemorato don Pasquino Borghi e gli altri otto antifascisti fucilati dai fascisti il 30 gennaio 1944. Questo il testo del mio intervento (a stampa sul prossimo Notiziario Anpi).

Beati i miti perché erediteranno la terra

Non è facile parlare in questo luogo, prima della celebrazione ho passeggiato attorno a queste mura pensando alle parole più adatte a ricordare fatti di 67 anni fa e ho pensato di iniziare raccontandovi degli incontri, tre incontri avvenuti in quei mesi dell’autunno inverno 1943-1944.

Il primo incontro si svolge il 24 ottobre 1943, i giorni sono quelli dell’autunno dopo l’armistizio. Il nostro Appennino era diventato il crocevia di ragazzi in fuga, alleati dai campi tedeschi e italiani, italiani abbandonati dopo il disastro dell’8 settembre. Cercavano un rifugio, una casa, un luogo dove fermarsi, chi una notte, chi giorni e settimane. Sul nostro Appennino sono le canoniche ad aprirsi per prime. In quel 24 ottobre Don Pasquino prende possesso della sua parrocchia. Don Pasquino ha quaranta anni e arriva in quella parrocchia sperduta dopo un lungo viaggio, non solo interiore ma anche geografico: dall’Italia al Sudan, dal Sudan di nuovo in Italia, alla Certosa di Farneta, fino a Canolo. Don Pasquino arriva in quella montagna e incontra altri sacerdoti, un disegno della Provvidenza per chi crede, un caso fortunato per gli altri. Lo accoglie don Paolino Canovi, parroco di Gazzano, che sarà arrestato la vigilia di Natale per aver ospitato soldati inglesi, portato ai Servi e torturato; lo accoglie don Mario Prandi che ha già avviato a Fontanaluccia quell’esperienza eccezionale di carità che è giunta fino ad oggi; lo accoglie don Vasco Casotti, parroco a Febbio, che  nasconderà, dopo lo scontro di Cerrè Sologno, “Miro” e “Barbolini” feriti nella sua canonica che sarà poi la sede del Comando Unico della formazioni partigiane reggiane; lo accoglie don Venerio Fontana, arciprete di Minozzo che sfuggirà, il 1 agosto, alla strage dove cadranno sei dei suoi; lo accoglie il più anziano di quei sacerdoti: don Battista Pigozzi che cadrà il 20 marzo sull’aia di Cervarolo con 23 dei suoi parrocchiani. A poca distanza poi don Enzo Bonibaldoni, parroco di Quara, riconosciuto “Giusto fra le nazioni”, per l’aiuto dato alla salvezza di fratelli ebrei. Quella era la montagna reggiana, dove la “via delle canoniche” offriva soccorso e difesa ai più poveri di quelle tragiche giornate.

Il secondo incontro si svolge il 10 gennaio 1944, il luogo è la canonica di S.Pellegrino, don Angelo Cocconcelli, Giuseppe Dossetti incontrano don Pasquino che è già “in fuga”, dopo la lettera del 27 dicembre al vescovo Brettoni dove scrive “sembra di essere tornati alla catacombe”. Don Angelo e Dossetti lo invitano alla prudenza, la sua attività di aiuto ai fuggitivi e ai primi nuclei partigiani (i Cervi) ormai è nota ai fascisti. Quei ragazzi che ospita dovrebbero cercare altri rifugi, “ma dove li mando con trenta centimetri di neve gelata, se nessuno li vuole!”-obietta don Pasquino. Il buonsenso dei due amici incalza: “Ma è un pericolo mortale!”, ma lui taglia corto: “Ma si può dare anche dare la vita per la patria libera!”

Il terzo incontro, quello finale, si svolge nella notte fra sabato 29  e domenica 30 gennaio, carcere dei Servi (un luogo di memoria che abbiamo cancellato). Don Pasquino, che era stato imprigionato a Scandiano, viene unito ai “suoi”. Incontra Romeo Benassi, 40 anni, muratore; Umberto Dodi, 49 a., operaio alle “Reggiane”; Dario Gaiti, 47 a,  muratore; Destino Giovannetti, 53 a., operaio “Reggiane”; Enrico Menozzi, 53 a., piccolo proprietario; Contardo Trentini, 42 a., cordaio; Ferruccio Battini, 32 a, falegname; Enrico Zambonini, 51 a., anarchico, di Secchio. Vite diverse, lontane che si incrociano per finire insieme.
Qui al Poligono arrivano insieme alle 6,30, muoiono insieme alle 7,18 di quelle domenica mattina di gennaio.

Oggi noi siamo qui, dopo 67 anni, per commemorare, cioè per ricordare insieme, per fare memoria comune di quei fatti. Da poco abbiamo celebrato la “Giornata della memoria” per ricordare le vittime della Shoah, e usiamo molto questo termine “memoria”, ma cos’è la “memoria”? Dei tanti contenuti ne voglio sottolineare alcuni.

Ricordare è una forma di giustizia: nessuno dei 9 uccisi qui il 30 gennaio ha avuto giustizia. I 4 responsabili non hanno mai pagato per le loro azioni: due uccisi ancora in guerra, altri due, pur processati (contumaci) nel 1946 e condannati a 24 anni di carcere, hanno visto cancellata la loro giusta condanna dall’amnistia. Ricordare don Pasquino e i suoi è dare loro un po’ di giustizia.

Ricordare è una forma di educazione: “Noi siamo quello che ricordiamo” (M.Luzi) e, aggiungo io, noi diventiamo anche quello che abbiamo dimenticato. Oggi ce la prendiamo con gli immigrati: e ci scordiamo di essere stati un popolo di migranti (26 milioni di italiani hanno lasciato l’Italia nei 150 anni dell’Unità), costruiamo i CPT, moderni lager e ci scordiamo Ellis Island, a New York, dove i nostri migranti erano rinchiusi e schedati.
Il 27 gennaio siamo a commemorare la Shoah e dimentichiamo i nostri campi di concentramento in Libia, ad Arbe. Infatti, per meglio dimenticare, non abbiamo voluto aggiungere un’altra data per il giorno della Memoria da affiancare al 27 gennaio: ad esempio il 16 ottobre, memoria della razzia del ghetto di Roma.
Ce la prendiamo con gli zingari e i rom e dimentichiamo che furono i primi ad essere arrestati e sterminati perché di loro nessuno si curava. E la forza di una democrazia si misura sulla tutela che si dà ai più deboli non ai più forti della società.

Oggi siamo a commemorare un evento, parliamo di “dovere” della memoria, ma dobbiamo stare attenti, istituzioni e cittadini, che il “dovere” non si trasformi in “obbligo”, qualcosa da soddisfare una volta all’anno perché si “deve”, e basta. Se la memoria è educazione la memoria si costruisce sempre, non basta una giornata, si costruisce con un lavoro continuo, con i “Viaggi della memoria”, con le scelte culturali e amministrative.
Oggi si parla di “devastazione antropologica” ma se noi diventiamo quello che ricordiamo e non ricordiamo niente cosa diventiamo? Diventiamo il “nulla” che conduce, appunto, alla “devastazione antropologica”, un processo che è passato, silenzioso nel tempo, anche attraverso l’oblio, la riscrittura della storia, la sua cancellazione.
Oggi poi ci troviamo in un passaggio storico decisivo con la scomparsa dei testimoni. Noi abbiamo avuto la fortuna di ascoltare don Cocconcelli, Romolo Fioroni, Placido Giovannetti (il figlio di Destino che veniva qui al Poligono portando in tasca l’ultima lettera del padre ucciso) ma i nostri figli?
Senza testimoni come potremo ancora “fare memoria”? Certo tocca a ciascuno di noi adempiere all’invito biblico “Quello che avete visto e udito ditelo ai vostri figli”, ma non basta.
Dopo la scomparsa dei testimoni due elementi sono diventati decisivi per trasmettere memoria: i luoghi e le fonti, i documenti.
Allora perchè le parole non restino solo buoni propositi diamoci delle scadenze per il prossimo Giorno della Memoria, il Ghetto aspetta da 15 anni segni concreti che dicano al passante che lì è esistita per secoli una comunità che è stata cancellata; collochiamo le “pietre di inciampo” davanti alle case dove vissero i dieci ebrei reggiani finiti ad Auschwitz; in montagna segniamo le canoniche di Tapignola, di Febbio, di Quara come luoghi di coraggio e di salvezza.
Don Pasquino diceva che per la patria libera si può anche morire, a noi non è chiesto tanto, è chiesto però un impegno concreto e quotidiano per difendere quei valori, per trasmetterli ai nostri figli, per essere, in fondo, cittadini migliori.