Nemico del popolo 2. Senza vendetta

01 azione reggiane grandew472003123922.jpgUn amico mi ha dato una tirata d’orecchi: “Non trattare troppo male la CGIL”. Siamo in un paese dove è ancora è ammesso tutto (meglio, molto) ma non invitare gli amici a fare qualche riflessione, dove prevale una logica di eterno conflittoe, si sa, sotto il fuoco nemico non si può stare tanto a sottilizzare. I miei 25 lettori si ricorderanno che le mie riflessioni non andavano tanto ai contenuti (di economia non ne capisco molto) quanto agli strumenti che venivano utilizzati per difendere/contrastare quei contenuti. Mi colpiva (e mi colpisce) come continuassimo ad usare nel XXI secolo tattiche e strumenti di lotta obsoleti e ormai autolesionisti. Non me la “prendo” con la CGIL, come non dimentico che CISL e UIL hanno mandato giù le peggio cose con il governo del satiro plastificato e di Sakkoni e si mettono a fare sciopero oggi che c’è il buon Monti.

Il mio mestiere mi costringe a guardare i tempi lunghi anche nella storia sindacale/politica e non posso fingere che sempre tutto sia stato fatto bene e che le “meravigliose e progressive sorti” abbiano sempre segnato lo scenario nazionale e locale. Non santifico Santa Romana Chiesa, figurarsi organizzazioni politiche e sindacali. Così (tanto per farmi qualche altro nemico) non posso dimenticare che la lotta delle Reggiane fu un’operazione politica (legittima) costruita su una lotta sindacale persa in partenza. La citazione mi viene dall’aver vissuto qualche ora in questi giorni proprio nelle defunte Reggiane, ridotte ad una ghost factory ad un non luogo per chissà quanto tempo. Propongo di fare ora un “open day” delle Reggiane per mostrare ai reggiani come può finire un luogo di lavoro, storia e identità.

Taccio per carità di parte le pensioni baby, la teoria del salario come “variabile indipendente” o la caduta del governo Prodi per la questione delle 36 ore. Credo che si debba essere rigorosi se vogliamo ripartire e lo si deve essere in primo luogo con se stessi e con i “propri”, non condivido il motto “Right or wrong my country”.

Ironicamente ho ricordato che Di Vittorio o Togliatti sarebbero inorriditi a sentire dire che “…non si tratta!”. Si ricordavano bene di Menotti Serrati e del massimalismo degli anni venti che fu il primo alleato del cavaliere di Predappio. Sempre si deve trattare e trattare significa ascoltare le proposte e proporne delle proprie, ma le nostre proposte non possono essere la litania “i diritti acquisiti non si toccano”, perchè con questa litania abbiamo già perso in partenza. Intanto perchè, comunque, le cose andranno avanti, con o senza di noi (Marchionne docet) e poi perchè dovremmo chiederci quanti di quei “diritti acquisiti” nel tempo si siano trasformati in “privilegi”. Si tratta, si negozia e poi, magari, si rompe, ma dopo e non a prescindere. Quando nel 1947, per protesta contro la destituzione del prefetto Troilo a Milano, Pajetta occupò la Prefettura chiamò trionfante Togliatti per comunicargli l’evento. Il “migliore” lo gelò: “E adesso cosa intendete fare?”. Silenzio. Si narra poi che, dopo l’episodio,  incontrandolo Togliatti spesso gli chiedesse: “Allora, come va la rivoluzione?”.

Per stare ai poeti:

Your old road is
Rapidly agin’.
Please get out of the new one
If you can’t lend your hand
For the times they are a-changin’.

I tempi sono cambiati. E’ possibile pensare che una legge fatta 41 anni fa possa essere rivista, ripensata, riscritta, rilanciata, magari proprio per favorire l’ingresso dei giovani nel lavoro, mantenendo le tutele di chi il lavoro ce l’ha già? Forse sì, forse no. Ma non è il quarto segreto di Fatima. 41 anni fa c’era Rumor al governo (con 27 ministri e 56 s/segretari), Lama diventava segretario della CGIL, in Grecia c’erano i colonnelli, in Spagna Franco, negli Usa Nixon. Nel frattempo qualcosa è successo? Degli ultimi 10 anni di lavoro ne ho passati sette come precario (coco, cocopro, chicchirichi, etc..) e nessuno mi ha mai tutelato o si è preoccupato di pensare, predisporre alcunchè. Ora sono assunto a tempo indeterminato ma so che, dovessero venire a mancare finanziamenti, tornerei nella medesima condizione senza un bao. In 41 anni qualcosa è cambiato. La vecchia strada è velocemente invecchiata, toglietevi per favore dalla nuova se non potete dare una mano perchè i tempi stanno cambiando. Pensavamo che stessero cambiando in meglio, ci siamo dovuti ricredere, ma poco importa. I tempi, comunque, non stanno (più) cambiando, sono già cambiati.

Cittadinanza a punti sì, ma per i leghisti (Federico Faloppa)

Sconvolti per quanto successo a Torino prima, e a Firenze poi. Quindi coinvolti in discussioni, ragionamenti, commenti. O semplicemente raccolti nell’indignazione silenziosa, nell’incredulità, nella commozione. Gli ultimi sette giorni sono stati vorticosi per tante, tantissime persone. Perché vorticosa è stata la gravità dei fatti. In un’escalation che dal tentato pogrom di sabato scorso ha portato all’omicidio assurdo di Samb Modou e Diop Mor. Due vicende non certo legate: comunque frutto di un clima che si è drammaticamente manifestato ora, ma i cui segnali erano già presenti da tempo, come dicono, non da oggi, molti attivisti e osservatori. E come sanno le tante vittime di atti di discriminazione, sopruso, violenza razzista.

In molti – e a ragione – si è puntato il dito sui mezzi di comunicazione mainstream. Sulle loro responsabilità. Sul loro modo di distorcere l’informazione. Sul loro «razzismo inconsapevole», come ha ammesso in un ormai celebre messaggio di scuse un caporedattore de «La Stampa», domenica scorsa. Pensavamo che quel messaggio rappresentasse una cesura, una nuova consapevolezza. Ma ci siamo stupiti di nuovo martedì pomeriggio, scorgendo sul web il primo titolo proprio de «La Stampa», che ha proposto la discutibile espressione di «Far West a Firenze» (immagine che ricorda scontri a fuoco tra pistoleri, più che un barbaro omicidio). O scorrendo le prime edizioni online di alcuni quotidiani, che hanno chiamato «vu cumprà» i due cittadini senegalesi morti, ma «ambulanti» i loro colleghi italiani; che hanno negato per tutto il giorno, alle due vittime, un nome e un cognome (mentre hanno fatto a gara per poter dare quello di Casseri). O leggendo un lancio dell’Ansa, in cui l’assassino veniva definito «giustiziere». E dallo stupore siamo passati alla rabbia quando abbiamo letto ieri, su «Il foglio», l’elzeviro di Camillo Langone.

In molti siamo rabbrividiti di fronte ai farneticanti proclami neo-nazisti zeppi di «scorrerà altro sangue», «punire gli invasori», «immondizia negra». Come siamo rabbrividiti a scoprire che in Italia l’estrema destra, in questi anni di razzismo strisciante, è cresciuta, si è organizzata, si è radicata.

In molti siamo rimasti increduli di fronte ai commenti di chi non ha perso occasione – neanche in questi giorni – per sostenere che un po’ di colpa ce l’hanno anche loro: gli zingari, gli immigrati. Come se la causa del razzismo dovesse essere cercata nelle presunte colpe delle vittime, più che nei comportamenti dei razzisti. A me personalmente è capitato di rimanere sbacalito ieri – durante il programma «Coffee Break» su La7 – di fronte alla pochezza di argomenti e alla protervia di un onorevole leghista che pensava di essere – sbagliando vergognosamente tempi e contesto – in campagna elettorale. Come sono rimasto sbacalito in questi anni, insieme alla maggioranza di noi, di fronte alle dichiarazioni razziste di molti esponenti della Lega: da quelle sugli «immigrati» che sono una «malattia», a quelle che paragonavano gli «zingari» ai «topi», a quelle che evocavano i «forni crematori» per gli «immigrati». Frasi che, se pronunciate in un altro paese europeo, avrebbero costretto i loro autori a dimettersi, immediatamente, da qualsiasi carica pubblica. E che da noi invece sono state fatte passare come «folklore».

In molti abbiamo sorriso – a denti stretti – di fronte alla massima (e di nuovo Lega dixit) «il razzismo esiste per colpa del buonismo». Perché è vero: c’è stato troppo «buonismo». Ma non certo nei confronti dei migranti, a cui progressivamente sono stati negati dei diritti. Piuttosto, nei confronti dei razzisti, a maggior ragione di quelli «istituzionali». Che non avrebbero dovuto dire, ripetere, fare – impunemente – certe cose. Altro che cittadinanza a punti per gli «immigrati». La cittadinanza a punti la si dovrebbe dare a chi non rispetta la Costituzione, a chi disprezza la dignità delle persone, a chi istiga al razzismo.

Ecco. Prendo spunto dalla provocazione per rovesciare uno stato d’animo. Dopo la commozione, l’indignazione, la condanna dovremmo passare all’azione. All’orgogliosa risposta. Alla proposta. Deve esserci una svolta. Una svolta nel nostro modo di ragionare, di discutere di certi temi. Respingendo l’approssimazione, il confronto al ribasso e le battute da bar. Ed esigendo – a partire da noi stessi, sapendo che ci costerà fatica – una nuova qualità tanto degli argomenti quanto dell’argomentazione. Ci deve essere una svolta in chi fa, per chi fa informazione. Che deve dimostrare di essere all’altezza del proprio compito, dell’intelligenza dei lettori, della complessità della realtà. Ci deve essere una svolta nelle risposte politiche. Non più ricalcate – a sinistra – su quelle della destra. O basate sui sondaggi del giorno prima, che negli anni scorsi hanno imposto il mantra della «sicurezza», intesa soltanto come «ordine pubblico».

Ci deve essere una svolta, insomma, nel pensare alla società «multiculturale». Non si tratta di trovare la pietra filosofale. Basterebbe, per cominciare, partire dalle tante elaborazioni, sperimentazioni, iniziative costruite negli anni da chi ha lavorato sul territorio. E a cui spesso urlatori, piazzisti, improvvisatori – anche a sinistra – hanno sottratto visibilità sui media, nelle istituzioni. È una voce collettiva quella che va ripresa. Una voce che leghi le tante esperienze già svolte, i tanti contenuti già discussi, negoziati, condivisi: all’interno di un progetto di lunga durata, svincolato – finalmente – dall’emergenza (altra parola a cui ci siamo, colpevolmente, assuefatti, nella mistificante retorica di questi anni). Una voce che non soltanto si opponga alla barbarie, ma che senza timore, a testa alta, si esponga. Una voce che – sui razzismi e sui leghismi – progressivamente si imponga.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/16/cittadinanza-punti-leghisti/178083/

Samb Modou 40 anni, Diop Mor 54 e Moustapha Dieng 34.

Samb Modou 40 anni, Diop Mor 54 e Moustapha Dieng 34 anni. Uccisi perchè neri, perchè invasori, perchè qualcuno pensa di poter usare la parola “razza”, di fare “giustizia”. Non mi interessa se l’assassino fosse pazzo o no:  non è molto importante. La storia è nota: si crea la cultura, si inizia un passetto alla volta, una storiella, una battuta. Poi arriva l’esaltato, lo sballato, il fanatico. Si lascia che passino idee, concetti. Quante volte abbiamo sentito la frase “Io non sono razzista, però…” e giù cose orrende su neri, arabi, ebrei, rom e via elencando. E noi ad abbozzare: cosa vuoi, metterti a litigare? In fondo che male c’è, è una battuta…Pochi giorni prima di Firenze, a Torino, è stato bruciato un campo Rom. Qualche protesta, un po’ di strilli e poi? Che dire? Lo sanno tutti che i Rom rubano, no?

L’assassino era di Casa Pound. Strano, pensavo fosse del Rotary o dei cavalieri del S.Sepolcro. Da anni ce li abbiamo davanti, vediamo che prendono spazi che abbiamo abbandonato, un po’ di sdegno, qualche raccolta di firme e amen. Siamo democratici. Vero. Ma la democrazia è una cosa strana, va difesa, va costruita, ogni giorno, non il 25 aprile perchè c’è il sole e siamo di festa. Ogni giorno. Io la chiamo “manovalanza democratica”. La democrazia si difende coi libri, con lo studio, non con le spranghe, qualcuno in passato ci ha creduto e stiamo ancora contando i morti.

Non dovrebbe esserci neppure bisogno di dire che Casa Pound e simili non devono avere spazi, non fisici ma culturali. La democrazia è una cosa delicata: consente la parola anche a chi vuole distruggerla, a noi tocca lavorare perchè quelle parole, quelle battute, quegli slogan cadano su un terreno arido. I fascisti parlino pure ma nessuno dovrebbe stare ad ascoltarli perchè tutti dovrebbero conoscere quella storia, una storia finita per noi italiani il 29 aprile a Piazzale Loreto.

E invece, lo sappiamo, non è così. Il nostro paese non ha mai fatto i conti con il fascismo, è andato avanti e basta. Ha usato la Resistenza come alibi, per lavarsi le mani e la coscienza in un bagno collettivo autoassolutorio, un bel giubileo nel peggior stile cattolico possibile. Un perdono sparso come un bel disinfettante su tutti, innocenti e colpevoli, vittime e carnefici. Passata la febbre ci siamo dichiarati guariti. In realtà, come certe malatte virali, qualcosa ci è rimasto dentro, sembriamo sani, tutto va bene e poi, bang, qualcosa succede. E allora ci guardiamo in faccia, stupiti, increduli. Ma con un po’ di ipocrisia dentro che ben conosciamo.

Il fascismo non è finito a Piazzale Loreto. Abbiamo dato una bella tomba di famiglia al dittatore per consentire agli ammiratori il cordoglio e l’esaltazione. I criminali nazisti sono stati uccisi, cremati e le ceneri sparse al vento. Noi abbiamo perdonato, ma un perdono senza verità è la peggiore ingiustizia.

Si vis pacem para veritatem. Devo questa bella massima all’amico Antonio Brusa ed essa contiene tutto l’impegno culturale, civile ed etico che ci viene richiesto. A noi storici, ai cittadini, agli insegnanti, genitori, persone impegnate in politica.

Anche questi tragici episodi sono l’esito della morte della politica, dell’incapacità di fare scelte e di tenerle ferme, della debolezza di idee e principi che spinge ad accettare anche che organizzazioni fasciste o razziste trovino spazio. Da almeno dieci anni subiamo una metastasi culturale. Abbiamo avuto per anni al governo un partito razzista e xenofobo, ce ne siamo resi conto o abbiamo accettato anche questo come una cosa quasi normale?

Se ci si comincia a convincere che, in fondo, il fascismo è un’opinione come un’altra, magari solo meno elegante, perchè così ci sentiamo più “moderni”, più in sintonia con “i tempi”, siamo già fuori strada, fuori pista, fuori da quella verità che, sola, ci può dare un orientamento, un senso in questi tempi difficili. Il fascismo non è un’opinione è un crimine. L’abbiamo scritto sulle nostre magliette qualche anno fa, per un Viaggio della memoria. Non lasciamo quelle magliette negli armadi.

Ma quanto di questa debolezza diffusa ricade anche sulle nostre spalle? Nel dramma, nel conflitto, ritiriamo fuori il nostro essere “antifascisti”, come una sorta di tachipirina ideologica buona a tutti gli usi. E ci accorgiamo ogni volta che l’Italia antifascista non è e ci sdegnamo perchè gli altri non capiscono. Ma siamo sicuri che quel farmaco sia ancora valido, abbiamo controllato la data di scadenza sulla confezione? Ne abbiamo meditato la storia, valutato il percorso, siamo certi che quella formula non vada rivista, ridiscussa, resa, finalmente, più efficace? O dobbiamo aspettare ogni volta che torni la febbre, che ci vengano i brividi addosso per porci qualche domanda?

Nemico del popolo?

tafazzi.jpgScioperi dei trasporti
e dei dipendenti pubblici
 
​Disagi nei prossimi giorni per gli scioperi indetti per protestare, tra l’altro, contro la manovra da oltre 30 miliardi del governo di Mario Monti. Giovedì e venerdì sarà la volta dei lavoratori delle ferrovie e del trasporto pubblico che manifesteranno a sostegno della vertenza per la sottoscrizione del nuovo contratto della mobilità, «rimasta irrisolta e aggravatasi con i tagli ai finanziamenti al trasporto locale ed al cosiddetto servizio ferroviario universale, a causa delle disposizioni del governo Berlusconi», come si legge in una nota.

Nell’ambito di questa agitazione – proclamata da Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasporti, Ugltrasporti, Orsa Trasporti, Faisa e Fast – incroceranno le braccia giovedì 15 dicembre tutti gli addetti ai bus che effettuano i servizi extra-urbani mentre venerdì 16 la protesta interesserà il personale di bus, metro e tram dei servizi urbani. Gli addetti al trasporto ferroviario si fermeranno dalle 21 del 15 dicembre alla stessa ora del 16.

DIPENDENTI PUBBLICI IL 19 DICEMBRE
La settimana prossima invece – lunedì 19 dicembre – sarà la volta dei dipendenti del pubblico impiego che si asterranno dal lavoro per otto ore per protestare contro la manovra del governo Monti. Anche in questo caso si tratta di uno sciopero unitario contro la manovra considerata «fortemente iniqua per lavoratori dipendenti e pensionati e che sconta l’inaccettabile assenza di confronto con le parti sociali».

A rischio di beccarmi la nomea di “nemico del popolo” o, più banalmente, di fissato antisindacale e sfidando le ire di amici e compagni, riporto il suddetto articoletto a stampa (viene da “Avvenire”, ma poco importa) per concretizzare quanto già detto e scritto sulla necessità di adeguare gli strumenti di protesta alla contemporaneità senza rimanere vincolati a strumenti ormai divenuti obsoleti, rituali e autolesionisti.

Il 15 e 16 sciopero dei trasporti. Bus fermi, metro ferme. Tutti in auto a bestemmiare come turchi (che poi di certo non bestemmiano: bestemmiano solo i cattolici e in particolare gli italiani, chissà perchè?). Pendolari appiedati, studenti a casa. Tutta gente che apprezzerà moltissimo-ne sono certo- le ragioni dell’agitazione. Come una sasso in una scarpa o una spina nell’alluce. Gente che lavora e studia, i famosi “deboli” che diciamo di voler difendere, mollati all’acqua. Immagino che Moretti, informato dell’iniziativa sindacale, sarà precipitato in un profondo stato di depressione, lo vedo dietro la sua scrivania megagalattica, versare calde lacrime sulla poltrona in pelle umana.

Eh, sì, gliel’abbiamo fatta vedere noi a quello lì!

Già. L’azione di protesta dovrebbe danneggiare il “padrone” e aumentare il consenso alle ragioni della protesta. Così era nel secolo scorso (e prima ancora). Ma oggi? Il 15 e 16 Moretti continuerà la sua politica, gli enti locali continueranno ad affidare i trasporti locali a un personale politico impresentabile e amen. La gente sarà solo incapperata verso chi lo sciopero lo fa e gli arreca un danno senza nessun ritorno, visto che ormai i trasporti locali sono per gli “sfigati”, proprio quelli per i quali si dice di scioperare.

Massimo danno (a se stessi) con il massimo sforzo. Perfetto.

 

Per tagliare bisogna studiare (Luca Ricolfi)

Ogni volta che un governo prova a tagliare la spesa pubblica – un mostro che ogni anno costa qualcosa come 700 miliardi di euro, più o meno la metà dell’intero prodotto nazionale – le reazioni sono immancabilmente due: la (comprensibile) protesta da parte degli interessi colpiti, e il biasimo nei confronti del governo.

Al governo si rimprovera di non essere capace di colpire i «veri» privilegiati, di non essere capace di individuare i «veri» sprechi, di non sapere intervenire sulle «vere» inefficienze. Parti sociali, gruppi di pressione e singoli cittadini più o meno indignati si uniscono in una sacra crociata contro i «tagli lineari», spesso dando ad intendere che, ove i tagli stessi non fossero lineari, coloro che protestano ne sarebbero esenti.

Tutto ciò, è importante sottolinearlo, succede indipendentemente dal colore politico del governo.
Di praticare tagli lineari, indiscriminati e quindi ingiusti, veniva accusato Padoa Schioppa, di tagli lineari veniva accusato Tremonti, di tagli lineari viene ora accusato Monti. I governi cambiano ma i tagli restano sempre lineari. Sembra proprio che nessun governo sia capace di procedere a tagli non lineari, ossia tagli mirati, selettivi, chirurgici. E anche per questo tutte le manovre, che le faccia la sinistra, che le faccia la destra, o che le faccia un governo tecnico, finiscono sempre per puntare più sugli aumenti delle tasse che sui tagli alla spesa.
È un fatto rilevante, perché una correzione di 20 miliardi fatta con 15, con 10, o con 5 miliardi di tasse in più ha effetti profondamente diversi sulla crescita, e quindi sul futuro di un paese. Se gli aumenti di tasse sono eccessivi e/o mal indirizzati, i rischi di recessione aumentano, e la correzione può non bastare. Si deve procedere a un’altra correzione, che a sua volta rischia di rendere ancora più difficile un ritorno alla crescita, in una spirale che può durare anni.

Ma perché è così difficile evitare tagli che sono o appaiono lineari, e quindi ingiusti?
Una ragione che spesso si dimentica è che, nella maggior parte degli ambiti di spesa, e in particolare nella sanità, nella scuola, nella giustizia, nei servizi pubblici locali, per disporre di un piano di tagli «non lineari» e ragionevoli, ci vogliono almeno un paio di anni di studi. Un partito, una forza politica, una coalizione che aspiri a governare un Paese, dovrebbe avere i cassetti pieni di decine e decine di piani operativi, frutto di studi accurati, analitici, dettagliati. Non basta sapere che nell’erogazione di un servizio ci sono 15-20 miliardi di sprechi (è il caso della sanità italiana) ma occorre sapere con estrema precisione dove gli sprechi si annidano: in quali regioni, in quali ospedali, in quali reparti, per quali prestazioni. Quel che occorrerebbe, in altre parole, non è solo una spending review, ossia una ricognizione generale delle inefficienze della Pubblica amministrazione come quella avviata a suo tempo dal governo Prodi (e colpevolmente congelata dal governo Berlusconi), ma una miriade di micro-analisi, una rete di piani di intervento, di progetti di trasformazione, supportati da anni di analisi particolari. Quando la politica «decide» qualcosa – riformare la sanità, dismettere parte del patrimonio pubblico, ridurre gli sprechi di un servizio – dovrebbe avere già i piani operativi pronti, come li hanno gli stati maggiori degli eserciti. Nessun Paese è privo di piani militari di difesa, nessun Paese rinuncia ad aggiornarli costantemente, perché in caso di attacco bisogna essere in grado di reagire subito, non c’è il tempo per riunirsi, studiare, discutere, dibattere, nominare commissioni. Invece le forze politiche, pur sapendo da almeno venti anni quali sono i problemi strutturali dell’Italia, sono del tutto prive di piani operativi (non hanno studiato!), tanto è vero che, quando decidono di intervenire su qualcosa, invariabilmente procedono nominando una commissione «per studiare il problema», come se il problema fosse sorto in quel momento. Ma quella commissione, di nuovo, non avrà tempo per studiare. E così la storia si ripete all’infinito.

Insomma, solo l’emergenza muove la politica, ma proprio la mancanza di piani operativi la rende incapace di fronteggiare efficacemente le emergenze. Così non siamo mai pronti, e rischiamo di perdere la guerra.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9540

Pensieri ingenui domenicali

images.jpgDivampa la polemica sui vari aspetti della manovra del Governo Monti. Bene. Giusto. Anche se per certi aspetti mi ricorda il cameriere che sul Titanic al cliente che protestava  perchè il whisky era tiepido rispose: “Stia tranquillo, sir, fra poco avrà tutto il ghiaccio che vuole!”

In compenso-come volevasi dimostrare-lunedì ci sarà uno sciopero, inutile e patetico, al quale nessuno parteciperà.

Ma si parla anche di ICI e di ICI e beni ecclesiastici. Come sanno gli amici e frequentatori di Fortezza Bastiani io, proprio perchè cattolico (seppur affaticato), da anni devolvo il mio 8 p/mille alla Chiesa Valdese. E ne sono ben felice. Presi la decisione ai tempi del card.Ruini presidente della Cei: l’idea che anche una sola delle mie lire fosse amministrata dal suddetto mi raggricciava nervi e sangue.

Però su questa questione consentitemi un pensiero ingenuo e domenicale. Io proprio non vorrei sentirne parlare non perchè la Chiesa debba pagare le tasse come tutti ma perchè sogno che la Chiesa non debba pagar niente…perchè niente possiede. Punto e basta. Una Chiesa che creda nella provvidenza e che venga sostenuta dai suoi fedeli. Una Chiesa che lasci roba come lo IOR, gli apparati, i ministeri allo stato estero del Vaticano, del quale a me frega tanto quanto della Slovenia, Uganda o Paraguay.

Cristo non aveva un cuscino su cui posar la testa, altro che norme concordatarie, rendita catastale, percentuali e ICI versata. Sulla montagna fece un certo discorso e tutti lo capirono, altro che Capo della Sala stampa Vaticana et similia. Io sogno un giorno in cui vedrò il Papa arrivare in visita su un auto normale con il suo autista (solo perchè non è obbligatorio per il vicario di Cristo avere la patente) e basta. Niente scorta, polizia, batmobile e anziani signori vestiti come uova di Pasqua al seguito.

Sogno una Chiesa povera e vera, credibile in ogni suo gesto, che accolga e non escluda, che ami i suoi figli e che risponda ai segni dei tempi. Una Chiesa dove ognuno abbia voce, dove uomini e donne siano ugualmente responsabili e non esista una gerarchia che non sia quella decisa e riconosciuta dai fedeli.

Che ingenuo sognatore, eh?

Sabato 10 Rai Radio 3

Sabato 10 ore 10,50 RADIO 3 RAI Rubrica “Passioni”. Intervista a Massimo Storchi (Resp.scientifico Polo Archivistico) e Alessandro di Nuzzo (Dir.Editoriale Aliberti) sulla storia e la cultura a Reggio Emilia.

Per gli appassionati disponibile in podcast sul sito Radio 3 da Lunedì.

Istantanea 2011-12-09 18-19-21.jpg

 

 

 

 

http://edicola.linformazione.com/archivio//20111209/43_RE0912.pdf

Attenti alla memoria corta (Guglielmo Pepe)

memoria.jpgLa manovra “salva-Italia” è criticabile sotto molti punti di vista: economico, sociale, culturale…E direi anche sotto l’aspetto etico, perché i più deboli sono quelli che continuano a pagare, mentre i grandi patrimoni rimangono praticamente intonsi. Senza sottovalutare il fatto che il Vaticano resta intoccabile con i suoi privilegi (come non pagare l’Ici).

Tuttavia questo giudizio non mi porta a dimenticare quello che l’Italia ha subìto in buona parte dell’ultimo decennio. Molti commentatori – tralascio quelli e i quotidiani di destra – e parte degli italiani che sostenevano le opposizioni nel precedente governo, e che sono fortemente critici nei confronti del nuovo governo, sembrano avere memoria corta. Perciò non sarebbe male se, al termine delle doverose e necessarie critiche a Monti & company, si dicesse: «Però non dimentichiamo che le maggiori responsabilità di quanto sta accadendo oggi, le ha il governo Berlusconi…».

Perché lui e la sua maggioranza hanno portato il Paese ad una situazione drammatica. Mentre Berlusconi riceveva nelle dimore di Stato e private, ragazze compiacenti e prostitute accertate (almeno sei), mentre un gruppo ristretto di bavosetti se la spassava con giovani poco più che ventenni (e qualcuna anche minorenne) al ritmo del Bunga-Bunga, l’Italia andava allo sfascio. E lui rideva, rideva, rideva e continuava ad arricchirisi, facendo ancora “vendite” da pescivendolo (con tutto il rispetto per la categoria), prendendo in giro gli Italiani, comprando i sostenitori in Parlamento a colpi di sottosegretariato e altre prebende, sporcanco le Istituzioni con i suoi comportamenti nemmeno da basso Impero, devastando l’immagine nazionale all’estero…Questa, fino a un mese fa, è stata l’Italia di Berlusconi.

E adesso c’è qualcuno costretto a fare il lavoro sporco. Perché la riforma delle pensioni – doverosa in ogni caso, anche se perfettibile – andava realizzata da anni. E avrebbe dovuto farla il maialino che pensava invece alle sue maialate; il ritorno dell’Ici è conseguenza del fatto che lo stesso maialino l’aveva eleminata, aprendo un “buco” colossale, e perché incapace di mantenere le promesse anti-tasse (ripetute in tutte le tornate elettorali e mai mantenute e metà degli italiani gli hanno creduto grazie alla propaganda dell’informazione televisiva: bocconi, bocconi, bocconi).

Oggi paghiamo un duro prezzo. Ma per colpa di Berlusconi, di quel poveretto di Bossi (che nemmeno scandalizza più con il dito medio alzato: fa solo pena) e del gruppo di potere che ha sostenuto il peggior governo della storia d’Italia.

Si attacchi Monti, si facciano scioperi, si chiedano miglioramenti al decreto e misure più eque. Ma, per favore, attenti alla memoria corta. Che, l’abbiamo visto altre volte in passato, è sempre in agguato.

http://pepe.blogautore.repubblica.it/?ref=HREA-1

Guarda un po’…

ArteGenioFollia1.jpgSempre a dir male della gente, che in fondo la politica è così perchè ci meritiamo quelli che eleggiamo, etc… Invece-forse-non è proprio così. Per quanto può valere un sondaggio, pare che la maggioranza degli elettori, pur giudicando non equa la manovra, ritenga indispensabile approvarla. Sano, diffuso, utile, buonsenso.

Mentre ci tocca leggere i lamenti e i barriti di pensionandi e affini (capisco che rompa andare in pensione 2 anni dopo, ma pensare a quelli che in pensione non andranno mai, no?), di sindacati, segretari e congiunti, forse qualcuno ha recepito, più o meno consciamente la questione: o così o arrivederci, pluf, sbang, crack! Le misure sono quelle che la realtà consente: Monti ha la fiducia di QUESTO Parlamento, non di quello che sognamo dopo un bella bevuta. Non c’è la patrimoniale! La Chiesa non paga l’ICI! Ma dai! Davvero? E queste due riformine chi te le votava? Casini? Alfano?

Primum vivere, deinde philosofari, dicevano i nostri padri. Appunto. Poi ognuno è libero di masturbarsi come vuole lanciando strali contro la Bocconi, le banche, le multinazionali, le spese militari et similia, ma sono-signora mia, scusi il termine poco elegante-pippe. Abbiamo vissuto per anni oltre le nostre possibilità, prima o poi la pioggia doveva arrivare. Abbiamo accettato l’evasione (quante fatture abbiamo preteso dall’idraulico?), la fine di ogni meritocrazia, abbiamo pensionati che pagheremo fino alla loro scomparsa il doppio o il triplo di quanto hanno versato, il liberismo domina perchè non abbiamo saputo pensare altro che un trito, eterno, assistenzialismo. Abbiamo eletto gente senza arte nè parte che nella migliore delle ipotesi non hanno fatto il nulla più spinto e ora veniamo a prendercela con chi deve fare il lavoro sporco per ripulire il nostro guano? Ogni riforma (piccola o grande) erode privilegi, cambia equilibri, il costume nazionale (destra e sinistra in questo affratellati) è nel più perfetto stile andreottiano: “Quieta non movere et mota quietare” (Non muovere ciò che è fermo e ferma ciò che si muove”), alla faccia dei giovani e dell’innovazione.

Per tre anni siamo stati amministrati da nani, puttane e buffoni con la logica di un macaco ubriaco e dopo 20 giorni di Monti già siamo a proporre scioperi? Ripeto il vecchio adagio “Quos vult perdere Deus dementat” (quelli che vuole mandare alla malore Dio li fa impazzire), perchè non trovo nessuna altra spiegazione onorevole a quello che sento proferire dai sindacati. Una specie di collettiva perdita di contatto con la realtà: si scambia la realtà con i nostri desideri, sogni, insomma l’ideologia più spinta e tragica, fingere il mondo per come lo si vorrebbe e non per quello che è.

Good Night and good luck!

 sondaggio in: http://www.repubblica.it/politica/sondaggi/2011/12/06/news/la_manovra_non_equa_ma_va_approvata_alla_svelta-26152452/?ref=HREA-1

Il medico salva, non uccide (Marco Travaglio)

Io non voglio parlare di Lucio Magri, che non ho conosciuto e non mi sognerei mai di giudicare: non so come mi comporterei se cadessi nella cupa depressione in cui l’avevano precipitato la vecchiaia, il fallimento politico e la morte della moglie. So soltanto che non organizzerei una festicciola fra i miei amici a casa mia, con tanto di domestica sudamericana che prepara il rinfresco per addolcire l’attesa della telefonata dalla clinica svizzera che annuncia la mia dipartita. Una scena che personalmente trovo più volgare e urtante di quella del pubblico che assiste alle esecuzioni nella camera della morte dei penitenziari. Ma qui mi fermo, perché vorrei spersonalizzare il gesto di Magri, quello che viene chiamato con orrenda ipocrisia “suicidio assistito” e invece va chiamato col suo vero nome: “Omicidio del consenziente”. Ne vorrei parlare perché è diventato un fatto pubblico e tutti ne discutono e ne scrivono. E molti tirano in ballo l’eutanasia, Monicelli o Eluana Englaro, che non c’entrano nulla perché Magri non era un malato terminale, né tantomeno in coma vegetativo irreversibile tenuto artificialmente in vita da una macchina: era fisicamente sano e integro, anche se depresso. Altri addirittura considerano il “suicidio assistito” un “diritto” da importare quanto prima in Italia per non costringere all’ “esilio” chi vuole farsi ammazzare da un medico perché non ha il coraggio di farlo da solo. Sulla vita e sulla morte, da credente, ho le mie convinzioni, ma me le tengo per me perché, da laico, non reputo giusto imporle per legge a chi ha una fede diversa o non ce l’ha. Dunque vorrei parlarne dai soli punti di vista che ci accomunano tutti: quello logico, quello giuridico, quello deontologico e quello pratico.

Dal punto di vista logico, non si scappa: chi sostiene il diritto al “suicidio assistito” afferma che ciascuno di noi è il solo padrone della sua vita. Ammettiamo pure che sia così: ma proprio per questo chi vuole sopprimere la “sua” vita deve farlo da solo; se ne incarica un altro, la vita non è più sua, ma di quell’altro. Dunque, se vuole farla finita, deve pensarci da sé.

Dal punto di vista giuridico c’è una barriera insormontabile: l’articolo 575 del Codice penale, che punisce con la reclusione da 21 anni all’ergastolo “chiunque cagiona la morte di un uomo”. Sono previste attenuanti, ma non eccezioni: nessuno può sopprimere la vita di un altro, punto. Se lo fa volontariamente, commette omicidio volontario. Anche se la vittima era consenziente, o l’ha pregato di farlo, o addirittura l’ha pagato per farlo. Non è che sia “trattato da criminale”: “È” un criminale. Ed è giusto che sia così. Se si comincia a prevedere qualche eccezione, si sa dove si inizia e non si sa dove si finisce. Se si autorizza un medico a sopprimere la vita di un innocente, come si fa a non autorizzare il boia a giustiziare un folle serial killer che magari è già riuscito ad ammazzare pure qualche compagno di cella?

Dal punto di vista deontologico, altro muro invalicabile: il “giuramento di Ippocrate” che ogni medico, odontoiatra e persino veterinario deve prestare prima di iniziare la professione: “Giuro di… perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale , ogni mio atto professionale; di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno…; di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione”. Non occorre aggiungere altro. Come si può chiedere a un medico di togliere la vita al suo paziente, cioè di ribaltare di 180 gradi il suo dovere professionale di salvarla sempre e comunque? Sarebbe molto meno grave se chi vuole suicidarsi, ma non se la sente di farlo da solo, assoldasse un killer professionista per farsi sparare a distanza quando meno se l’aspetta: almeno il killer, per mestiere, ammazza la gente; il medico, per mestiere, deve salvarla. Se ti aiuta ad ammazzarti è un boia, non un medico.

Dal punto di vista pratico, gli impedimenti alla legalizzazione del “suicidio assistito” sono infiniti. Che si fa? Si va dal medico e gli si chiede un’iniezione letale perché si è stanchi di vivere? O si prevede un elenco di patologie che lo consentono? E quali sarebbero queste patologie? Quasi nessuna patologia, grazie ai progressi della scienza medica, è di per sé irreversibile. Nemmeno la depressione. Ma proprio una patologia passeggera può obnubilare il libero arbitrio della persona che, una volta guarita, non chiederebbe mai di essere “suicidata”. Qui di irreversibile c’è solo il “suicidio assistito”: ti impedisce di curarti e guarire, dunque di decidere consapevolmente, cioè liberamente, della tua vita. E se poi un medico o un infermiere senza scrupoli provvedono all’iniezione letale senza un’esplicita richiesta scritta, ma dicendo che il paziente, prima di cadere in stato momentaneo di incoscienza e dunque impossibilitato a scrivere, aveva espresso la richiesta oralmente? E se un parente ansioso di ereditare comunica al medico che l’infermo, prima di cadere in stato temporaneo di incoscienza, aveva chiesto di farla finita?

Se incontriamo per strada un tizio che sta per buttarsi nel fiume, che facciamo: lo spingiamo o lo tratteniamo cercando di farlo ragionare? Voglio sperare che l’istinto naturale di tutti noi sia quello di salvarlo. Un attimo di debolezza o disperazione può capitare a tutti, ma se in quel frangente c’è qualcuno che ti aiuta a superarlo, magari ti salvi. Del resto, il numero dei suicidi è indice dell’infelicità, non della “libertà” di un Paese. E, quando i suicidi sono troppi, il compito della politica e della cultura è di interrogarsi sulle cause e di trovare i rimedi. Che senso ha allora esaltare il diritto al suicidio ed escogitare norme che lo facilitino? Il suicidio passato dal Servizio Sanitario Nazionale: ma siamo diventati tutti matti?

Il Fatto quotidiano, 2.12.2011