La Corte dell’Aja dà ragione alla Germania: non dovrà risarcire le vittime italiane delle stragi naziste

Articolo di Dino Messina su Il Corriere della Sera (4.2.12) con interventi degli storici Filippo Focardi e Giovanni Punzo sul blog di Messina.

 

È difficile parlare di formalismi giuridici quando si tratta di massacri dei civili: in questo caso di una delle meno conosciute ma più atroci rappresaglie, compiuta da un reparto della Wehrmacht in ritirata, il 29 giugno 1944, tre mesi dopo le Fosse Ardeatine, tre prima di Marzabotto. Le vittime in Val di Chiana (a Civitella, San Pancrazio, Cornia), nell’Aretino, furono 204, molti delle quali bambini, anziani, donne, adolescenti, con una proporzione di cinquanta italiani per ogni soldato tedesco ucciso dai partigiani della banda «Renzino». Un criterio più duro del famigerato dieci a uno seguito all’attentato di via Rasella.

«Non c’è indennizzo sufficiente a risarcire ciascuna di quelle vittime», dice lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, autore del fondamentale saggio “L’occupazione tedesca in Italia” (Bollati Boringhieri). Eppure la Corte dell’Aja ha accolto il ricorso della Germania contro la sentenza della Cassazione che per la prima volta condannava lo Stato tedesco a risarcire le vittime delle stragi naziste in Italia.

La sentenza dell’Aja ha una spiegazione giuridica e una storica. Un tribunale interno, dice Umberto Leanza, professore emerito di Diritto internazionale all’università Roma 2, non può in alcun modo considerare responsabile uno Stato. È quel che ha fatto la nostra Corte di Cassazione ritenendo crimini internazionali le rappresaglie compiute dalle truppe tedesche in Italia dopo l’8 settembre 1943. Il crimine internazionale è una figura giuridica nata a partire dai tribunali di Norimberga e di Tokio. «Si tratta di crimini — chiarisce Leanza — che costituiscono tuttavia una eccezione all’immunità dalla giurisdizione non degli Stati ma degli organi statali che li hanno compiuti». Un criterio già seguito dai tribunali di Norimberga e Tokio. La Corte di Cassazione italiana ha ritenuto di estendere la responsabilità allo Stato tedesco sulla base della più recente giurisdizione internazionale che equipara la violenza sui civili ai crimini contro l’umanità.

La sentenza dell’Aja è l’ultimo atto della riapertura a metà degli anni Novanta dei processi archiviati nel cosiddetto «armadio della vergogna». Con i processi si è riaperto anche un contenzioso con la Germania che si riteneva chiuso dal 2 giugno 1961, quando con due accordi bilaterali tra Roma e Bonn, la Germania riconosceva un indennizzo complessivo di quaranta milioni di marchi per le vittime italiane dei campi di concentramento. «In totale — spiega lo storico Filippo Focardi — i beneficiari furono circa dodicimila, in maggioranza deportati politici ed ebrei e loro familiari. Solo mille i risarcimenti riguardanti gli internati militari, su un totale di seicentomila. Come contropartita ai risarcimenti, l’Italia garantiva la cessazione di tutte le cause contro lo Stato tedesco». Del resto la Germania riconobbe quegli indennizzi come un atto di buona volontà unilaterale, non come il riconoscimento di un diritto. L’Italia nel 1947, con il controverso comma 4 dell’articolo 77 del Trattato di Pace, aveva rinunciato a chiedere gli indennizzi per i danni dell’occupazione nazista. Faceva eccezione il diritto a chiedere la restituzione dei beni trafugati.

La sentenza dell’Aja ha dunque ribadito che l’immunità degli Stati, non solo di quello tedesco, non si tocca. E da un certo punto di vista è un bene anche per l’Italia, se si considera che lo stesso tribunale internazionale ha respinto un ricorso presentato contro il nostro Stato dai parenti delle vittime della strage di Domenikon, nella Grecia centrale, dove i fanti della Divisione Pinerolo, il 16 febbraio 1943, uccisero per rappresaglia 150 civili.

Resta però un dubbio: se le responsabilità dei crimini sono personali perché sedici ufficiali tedeschi condannati all’ergastolo per le stragi in Italia vivono ancora liberi in Germania?

 

Postato da Lettore-1214031 | 04/02/2012

Solo una precisazione sull’ultima parte del bell’articolo di Messina, ovvero sulle righe dedicate alla vicenda di Domenikon (che nella versione cartacea del “Corriere” figurano in forma di virgolettato a me attribuito).
Il tribunale cui si è rivolto uno dei familiari delle vittime, Stathis Psomiadis, è quello greco di Larissa e non la corte internazionale dell’Aja. Il tribunale di Larissa, competente per territorio, ha respinto la richiesta di aprire un’azione legale contro i responsabili italiani della strage. Successivamente Stathis Psomiadis ha espresso pubblicamente l’intenzione di rivolgersi alla corte dell’Aja, ma non ho elementi per accertare se lo abbia fatto o meno. Mi risulta comunque che lo scorso anno egli abbia avuto un incontro a Roma con il procuratore militare Marco De Paolis per avviare un processo in Italia per crimini di guerra contro i responsabili della strage. Ricordo che la strage di Domenikon fu una rappresaglia ad un’imboscata partigiana che aveva causato 9 morti fra i soldati della “Pinerolo”. Come ritorsione, furono passati per le armi tutti i maschi del paese di Domenikon – esclusi i bambini e i più vecchi – con una proporzione di circa 1 a 14 (dunque, maggiore rispetto alle Fosse Ardeatine). Sulle spietate caratteristiche della “guerra ai civili” condotta nella Grecia occupata dalle unità italiane agli ordini del generale Carlo Geloso rimando agli scritti di Lidia Santarelli.
Nel testo dell’articolo si afferma che “da un certo punto di vista”, il verdetto dell’Aja relativo agli indennizzi per i crimini tedeschi potrebbe essere considerato “un bene” per l’Italia alle prese con analoghi problemi (vedi Domenikon). Come ho detto al dott. Messina, può darsi che alcune autorità all’interno delle nostre istituzioni abbiano pensato in questi termini. Personalmente non sono di quest’idea. 
E’ opportuno fare una distinzione fra la posizione tedesca e quella italiana. Pur tardivamente, i nostri tribunali militari hanno svolto numerosi processi a carico dei responsabili dei crimini tedeschi in Italia con condanne (per lo più in contumacia). La richiesta di indennizzi da parte dei familiari delle vittime è stato uno sviluppo di queste azioni penali. Nel caso dei crimini italiani in Grecia o in Jugoslavia (per non parlare dei crimini nelle colonie) è mancato invece fino adesso qualsiasi tentativo di perseguire i responsabili. Insomma, la giustizia è mancata del tutto.
Può darsi che la via giudiziaria sia ormai preclusa. Resta però aperta anche per l’Italia, come per la Germania sopo l’Aja, la via degli accordi bilaterali e delle azioni spontanee di riparazione. Il minimo che si possa chiedere è un atto di responsabilità con la richiesta ufficiale di scuse alle vittime dei crimini commessi durante la guerra. Nel 2009 il governo italiano ha compiuto un primo passo in questa direzione attraverso la partecipazione dell’ex-ambasciatore in Grecia, Giampaolo Scarante, alle commemorazioni ufficiali della strage di Domenikon. Moltra strada resta però ancora da percorrere. Non si può pretendere dalla Germania quello che noi non siamo disposti a dare.

Filippo Focardi

Postato da Lettore_833947 | 05/02/2012

Capire a fondo la sentenza della Corte dell’Aja non è facile, perché il diritto internazionale resta una delle materie più interessanti, complesse e contraddittorie. Dietro questa decisione apparentemente incoerente e poco comprensibile ai più, si intrecciano aspetti storici, politici, identitari e solo alla fine giuridici in senso stretto. Esistono sempre una responsabilità ‘individuale’, perché i singoli sono ritenuti responsabili dei propri atti, ed un’altra responsabilità più generale, senza dubbio storicamente accertata, quanto non sostenibile sul piano giuridico, nemmeno di fronte a crimini particolarmente efferati come quelli contro i civili: insomma, come si diceva un tempo, «summum ius, summa iniuria». Senza pretesa di esaustività, solo due accenni.

Bisogna ricordare Mark Mazower (Le ombre sull’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Garzanti 2000) che non solo aveva rintracciato in radici prebelliche comportamenti comuni ad altri paesi europei – e quindi non solo alla Germania –, ma anche osservato che la necessità di liquidazione rapida di quanto avvenuto aveva imposto l’etichetta coprente di «patologia politica» nei confronti anche delle altre dittature europee.
«La Francia – scrive Mazower – canonizzò la memoria di un’opposizione unita a Vichy, mentre l’Austria sfruttò spudoratamente il proprio status di prima vittima di Hitler ed eresse monumenti celebrativi ai “combattenti della libertà austriaca” antinazisti». Molto prima un grande storico italiano aveva riesumato una vicenda semisconosciuta del mondo antico dando al popolo degli hyksos una notorietà forse maggiore del ruolo effettivamente rivestito.
Come in certe storie horror si seppellisce troppo frettolosamente il vampiro, la Francia è stata costretta a riaffrontare un passato sgradevole in tre processi: Klaus Barbie (ergastolo nel 1987), Paul Touvier (ergastolo nel 1994) e Maurice Papon (dieci anni), condannato per aver collaborato alla deportazione di 1500 ebrei francesi. Per ironia della sorte, Papon era un integerrimo funzionario degli interni che si era particolarmente distinto nella notte del 17 ottobre 1961, quando – nel corso di incidenti tra algerini residenti a Parigi e la polizia – erano morti una sessantina di dimostranti algerini in circostanze poco chiare.
In Austria invece, nei giorni dell’omicidio di Kennedy, si scoprì che il poliziotto che aveva arrestato la famiglia di Anna Frank prestava servizio nella polizia di Vienna e lascio immaginare con quali conseguenze.
In questo Paese poi è stato giustamente canonizzato un funzionario di PS per aver aiutato centinaia di perseguitati, ma francamente ancora troppo poco si sa sul ruolo di parecchi altri nella deportazione del resto.
Nel novembre 1945, prima dell’apertura del processo di Norimberga, alla corte fu presentata una istanza importante da parte del collegio di difesa: invocando i fondamenti della dottrina dello Stato, si sosteneva che «ogni Stato, in virtù della sua sovranità, ha il diritto di muovere guerra in ogni momento e per qualsiasi scopo». Era un attacco evidente alla principale accusa della corte di ‘aver attentato alla pace scatenando la guerra’ e alla teoria alleata che indirettamente ripristinava il c.d. ‘bellum iustum’. Le tesi dell’accusa – secondo il documento – avrebbero riportato al Medioevo per quanto riguardava il trattamento imposto ai tedeschi. Impossibile da accettare allora, gradatamente questo principio si è fatto spazio. Contemporaneamente, concluso il primo grande processo della corte ed eseguite le sentenze, rimase detenuto ed in attesa di giudizio un numero sempre minore di ‘grandi responsabili’, mentre le corti militari ordinarie (americane, francesi e inglesi) continuarono a mantenere la propria giurisdizione processando migliaia di ‘responsabili minori’. Solo presso il tribunale militare di Dachau gli americani ne processarono più di milleseicento, dei quali almeno due terzi proveniente dagli addetti ai campi di concentramento. Nel gennaio 1951, solo da parte americana, i detenuti erano ancora migliaia e alla fine dovette intervenire con forza il Dipartimento di Stato imponendo all’autorità militare di liberarne una parte e di ridurne le pene inflitte (compresi alcuni casi di pene capitali): comprensibilmente i militari non volevano infatti mettere in libertà i responsabili delle esecuzione sommarie di prigionieri durante la battaglia delle Ardenne. 
In parallelo all’ingolfamento giudiziario militare alleato, la Germania maturava le condizioni politiche interne per diventare la Repubblica Federale e alla conclusione di questo processo politico istituzionale rimase una sorta di accordo per cui i responsabili sarebbero stati processati da corti nazionali e non più da tribunali militari alleati. Sebbene sorto prima, in questa fase operò attivamente il c.d. Heidelberg Juristenkreis (circolo dei giuristi di Heidelberg) il cui personaggio di maggior spicco, Otto Kranzbühler (ex giudice militare della Kriegsmarine e difensore a Norimberga), era direttamente in contatto con Konrad Adenauer: sebbene un primo accordo tra autorità alleate e governo provvisorio tedesco stabilisse di rispettare le sentenze emesse, fu raccomandato al contrario di ribadire la sovranità tedesca anche attraverso il non riconoscimento delle sentenze. Era ormai il 1959.

Conoscevo la vicenda che ha narrato il professor Focardi. La giustizia in quel caso è mancata, in maniera non dissimile da come ho raccontato in un altro mio intervento su queste pagine a proposito dei crimini italiani nella ex Jugoslavia e della mancata Norimberga italiana. Tattiche dilatorie, intralci e indifferenza. Nemmeno quella è un bella vicenda.

Un saluto a tutti Giovanni Punzo

La Corte dell’Aja dà ragione alla Germania: non dovrà risarcire le vittime italiane delle stragi nazisteultima modifica: 2012-02-06T09:40:00+01:00da pelikan-55
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