Cari colleghi storici, meno lati oscuri (Sergio Luzzatto)

Bene ha fatto Filippo La Porta, sull’ultimo numero di questo supplemento domenicale, a sottolineare quanto sia criptica la “teoria critica” nostrana, lanciando un appello: Critici italiani, parlate chiaro! Ha fatto talmente bene che viene voglia di estendere il suo appello, oltre i confini della critica letteraria e filosofica, a un altro campo della nostra produzione saggistica: il campo della storia. Dove il problema dello «scrivere oscuro» (secondo i termini di una magnifica riflessione di Primo Levi) è tanto più grave in quanto non viene neppure riconosciuto per tale: dove la malattia dello scrivere oscuro è talmente diffusa da somigliare a un’inavvertita pandemia.
Ha ricordato La Porta la battuta di un grande storico del primo Novecento, Gaetano Salvemini, che, docente a Harvard, aveva interiorizzato lo scrivere chiaro degli anglosassoni e preso in uggia l’oscurità delle lettere italiane fino al punto di affermare che nulla sarebbe rimasto neppure della Scienza nuova di Vico, se soltanto la si fosse tradotta in inglese… Concedendo meno alla facezia, è da ricordare qui la battuta di un grande storico del secondo Novecento, Carlo Ginzburg, lui pure aduso all’accademia anglosassone. Il più internazionalmente noto degli storici italiani ha spiegato di sottoporsi quando scrive a un’autoverifica preventiva. Per ogni frase della sua prosa, Ginzburg si domanda se sarebbe in grado di redigerla anche in inglese e in francese. Se la risposta è positiva, procede nella scrittura in italiano. Se la risposta è negativa, preferisce lasciar perdere…
Battute a parte, il caso di Ginzburg vale a porre la questione del rapporto fra trasparenza e influenza: cioè della correlazione – almeno nel campo degli studi storici – fra una prosa letterariamente scorrevole e un profilo scientificamente autorevole. Vuoi vedere che, facendoti leggere, riesci persino a farti tradurre, e addirittura a farti riconoscere all’estero? La cosa è di particolare rilievo nell’ambito delle discipline umanistiche, per le quali (a differenza di quelle scientifiche) l’inglese non rappresenta necessariamente la lingua veicolare. Nelle humanities, il criterio della traduzione all’estero appare tendenzialmente probante. Se un editore americano o francese o tedesco o polacco o giapponese o brasiliano affronta il rischio economico di investire sulla traduzione di un saggio storico scritto in italiano, ci sono buone probabilità che quel saggio abbia un valore aggiunto per la ricerca internazionale. Se, viceversa, i libri di uno storico italiano restano confinati al Bel Paese dove il sì suona, ci sono buone probabilità che non meritino un destino migliore.
Naturalmente, come tutte le generalizzazioni, anche questa ammette eccezioni. In linea di massima, è ultrasensato supporre che i rari storici italiani tradotti all’estero valgano di più delle legioni di storici italiani la cui produzione non supera la barriera delle Alpi (a volte, in realtà, neppure la barriera degli Appennini). Ma sarebbe ultrasbagliato elevare la ragionevole supposizione sino a farne una legge universale. A fronte del caso di Carlo Ginzburg stanno numerosi controesempi di storici italiani che non hanno avuto mai o quasi mai l’onore di una traduzione, e che pure sono stati maestri della disciplina internazionalmente riconosciuti.
Limitiamoci a evocare quattro nomi e cognomi, fra i primi che vengono a mente come campioni della storiografia italiana nel Novecento: Delio Cantimori, Marino Berengo, Rosario Romeo, Renzo De Felice. È impressionante constatare come nessun libro dei primi tre autori sia mai stato tradotto né in inglese né in francese, e come gli studi di De Felice stesso siano stati tradotti poco e male. Il che, evidentemente, non ha impedito a Cantimori, Berengo, Romeo, De Felice, di influenzare in maniera decisiva il dibattito storiografico sulla storia moderna e contemporanea d’Italia: anche perché i cultori stranieri di tale storia – com’è ovvio – leggevano correntemente l’italiano.
Vale tuttavia la pena di chiedersi quanto il gusto accademico nostrano dello scrivere oscuro abbia contribuito (e contribuisca) ad alimentare un paradosso: il paradosso di una cultura storica italiana insieme felicemente cosmopolita e infelicemente provinciale. Felicemente cosmopolita, perché gli editori italiani traducono libri di storia con una generosità ben superiore a quella dei colleghi stranieri. Infelicemente provinciale, perché la storiografia italiana anche più meritevole, non circolando abbastanza all’estero, rimane spesso esclusa dal dibattito internazionale.
Anche qui saltano agli occhi esempi concreti, concretissimi. Come l’esempio del Risorgimento. È questo un campo in cui la storiografia italiana ha compiuto notevoli progressi nell’ultima dozzina d’anni, in particolare grazie agli studi di Alberto M. Banti. Ma fuori d’Italia, il tono del dibattito sul Risorgimento italiano continua a venire dettato da oltre Manica. Dopo Denis Mack Smith cinquant’anni fa, adesso sono Lucy Riall e Christopher Duggan che illustrano urbi et orbi la storia del nostro Risorgimento, senza che gli studiosi italiani riescano a farsi sentire se non quando pubblicano direttamente in inglese (il che pur càpita, per fortuna, complice la famosa fuga dei cervelli).
Dovremmo forse concludere – memori delle battute di Salvemini e di Ginzburg – che l’italiano è lingua non grata alla storia? No: dovremo concludere piuttosto che gli storici italiani restano gravemente malati, e pandemicamente malati, di scriveroscurite. «Chi parla male pensa male», protestava il Nanni Moretti di Palombella rossa. Primo Levi, lui, era stato anche più severo di così: «Chi non sa comunicare o comunica male, in un codice che è solo suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. Se comunica male deliberatamente, è un malvagio, o almeno una persona scortese, perché obbliga i suoi fruitori alla fatica, all’angoscia o alla noia».
Il Sole 24 Ore, 19.2.2012

Cari colleghi storici, meno lati oscuri (Sergio Luzzatto)ultima modifica: 2012-02-19T18:11:57+01:00da pelikan-55
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