Giochino sul territorio reggiano

Continuiamo con il nostro giochino sulla semplificazione amministrativa facendo una simulazione sulla nostra realtà territoriale. Prendiamo i comuni della Provincia di Reggio Emilia: sono 45 per un totale di 530.343 residenti. Tutto regolare. Però. La zona montana ha qualche anomalia: Ligonchio ha 875 abitanti, Collagna 984, Ramiseto 1307, Busana 1319. Perchè non fare un’unico Comune di 4485 abitanti? Piccolo ma già più sostenibile.

Ponendo un livello ottimale di 10.000 abitanti si potrebbe così procedere accorpando: Carpineti-Viano-Baiso (11086 ab.),Casina-Vezzano (8808 ab.), Villa Minozzo-Toano (8529 ab.). Ma anche in pianura/ collina si può unire: Campegine-Gattatico (11122 ab.), Brescello-Boretto (10939 ab.), S.Polo-Canossa-Vetto (11702 ab.), Fabbrico-Campagnola (12344 ab.), S.Martino-Rio Saliceto (14058 ab.) etc…

Di 45 comuni ne resterebbero 29. Risparmi evidenti. Troppo facile. Impossibile: verrebbero a mancare 16 sindaci, 16 vicesindaci, un centinaio di assessori e altrettanti consiglieri comunali (perdita in parte mitigata dal numero aumentato di abitanti/eletti per comune).

Niente, come non detto. Mi viene in mente la provincia di Cuneo, con i suoi 250 Comuni. Vabbè, è estate, abbiamo scherzato.

Facciamo un giochino (le Province italiane)

Si parla tanto di costi della politica e la questione Province torna spesso d’attualità. Abolirle? Non abolirle? Il PD ha perso da poco una bella occasione. In realtà basterebbe il SBS (sano buon senso) per cercare di migliorare una situazione davvero grottesca/vergognosa.

Qualche esempio: esiste la Provincia di Oliastra. Dove? Sardegna. Capoluogo? Domandina carogna per i miei 25 lettori. Essendo una provincia con ben 57.965 abitanti (Reggio per capirci ne ha 530.343) ha logicamente 2 (due) capoluoghi: Tortoli (10.838 ab.) e Lanusei (5.656 ab.). Più o meno come Castelnovo Monti e Brescello. Bene. Viva le autonomie locali! Che vuol dire non solo una provincia per 23 comuni ma una Prefettura, una Questura, etc…

Ma veniamo al “continente” (ricordo che in Sardegna c’è anche la provincia del Medio Campidano con 102.409 ab., 28 comuni, capoluoghi (2) Sanluri (8530 ab.) e Villacidro (14454 ab.)): provincia di Verbano-Cusio-Ossola (163.247 ab.), capoluogo Verbania (31.243 ab.) con ben 77 comuni. Poffarre! Certo che 77 comuni sono un bel numero (Reggio ne ha 45), però…Comune di Cursolo (107 ab.), Intragna (114 ab.), Massiola (143 ab.), etc..

E come tacere le maraviglie di Cuneo, detta giustamente la “Provincia granda”? Non solo per la popolazione (592.303 ab.) ma soprattutto per il numero dei comuni: 250! Yes, non ho digitato male. Duecentocinquanta, two hundred and fifty (per dirla alla barese). Vi segnalo in questa deliziosa plaga il comune di Briga Alta (48 ab.), Macra (55 ab.), Torresina (62 ab.) e Valmala (66 ab.), un esempio perfetto di democrazia diretta: pargoli inclusi, basta aspettare e tutti i residenti prima o poi, nel corso della loro esistenza, potranno fare il sindaco o l’assessore…

Allora: non si possono abolire le Province perchè sono previste in Costituzione? Giusto, bene, riordiniamole, basta un procedimento amministrativo. Ponendo alla cifra di 500.000 abitanti il numero minimo per la loro esistenza e soprattutto facciamone un organismo tecnico eliminando i consigli provinciali. Che dite? Troppo facile, vero?

No, ci hanno già detto che ci vuole una riforma, per cui abbiamo già un progetto che istituisce una Commissione che verificherà nel contempo la fattibilità, etc, puff, plof…

Ah, dimenticavo: abbiamo anche la BAT provincia. Provincia di Barletta, Andria, Trani con 392.863 ab. e 3 (tre, drei, three) sedi per amministrare la bellezza di 10 (dieci) Comuni. Non ci facciamo mancare nulla, noi.

Alla prossima: un giochino sui Comuni, con una simulazione nostrana….

Sinistra di questi tempi…

Ecco qui le ultime imprese del nostro Aureliano Buendia di Gallipoli:

Pd, il giorno dei sospetti. E D’Alema attacca: “Voi del Fatto siete tecnicamente fascisti”  (Luca Telese)

Caso Tedesco, Parisi accusa: patto di Latorre con il Pdl. Quando gli si ricorda che lui ha scritto una lettera, pochi giorni fa, a questo giornale, lui risponde: “Era mio dovere rispondere agli avvisi di garanzia di Marco Travaglio. Ma il fatto che io risponda al fascismo giornalistico non mi impedisce di querelare”

Massimo D’Alema, nel Transatlantico di Montecitorio, solo poco prima del voto sull’onorevole Papa. Massimo D’Alema, nel Transatlantico di Montecitorio, palpebre spalancate, tono indignato, mi guarda fisso e dice: “Voi de Il Fatto siete tecnicamente fascisti…”. Che cosa succede perché il Lìder maximo sia così indispettito? Mentre gli chiedo perché sia così arrabbiato fa un gesto plateale. Si toglie gli occhiali da presbite, li infila nel taschino con un gesto ampio del braccio, mi dice con tono di sfida: “Sa, quando ero ragazzo, di solito, dopo che facevo questo gesto, l’interlocutore che si trovava al posto dove lei è ora, poco dopo si ritrovava con il naso sanguinante”.

Meraviglioso D’Alema quando ti parla così e non ti rendi conto se ci creda sul serio, o se stia giocando alla parodia del bullo, così per inscenare una prova di forza con l’interlocutore: “Lei forse non sa, ma vorrei ricordarglielo che ho fatto a botte tante volte. Ma sono più quelle in cui le ho date che quelle in cui le ho prese”. I bei giorni degli scontri al “Bussola”, correva l’anno 1968, quando il giovane leader della Fgci racconta di aver tirato una molotov. Il D’Alema di oggi – invece – sorride all’imbeccata e distende il palmo, tenendolo parallelo al ventre: “Il mio fisico, come può vedere, è ancora perfettamente allenato”. La mente corre a un memorabile pezzo di Concita De Gregorio in cui D’Alema si vantava di scolpire i suoi deltoidi con un meticoloso lavoro in palestra: “Vede, io non parlo con chi si permette di mettere in dubbio la mia moralità. Non parlo con chi conduce una campagna infame contro il Pd e contro la mia persona. Non parlo con la stampa tecnicamente fascista: non parlo, quindi, con Il Giornale, con Libero, con Panorama e con il Fatto. Ovvero con i quotidiani che stanno cercando di infangare me e il mio partito”. Provi a ricordargli, a D’Alema che ha mandato una lettera a questo giornale tecnicamente fascista: “Sì, è vero. Era mio dovere rispondere agli avvisi di garanzia di Marco Travaglio. Ma il fatto che io risponda al fascismo giornalistico non mi impedisce di querelare”. Fine del prologo e domanda inevitabile. Ma perché Massimo D’Alema era così teso e arrabbiato?

Epilogo. E venne il giorno del sospetto, dentro il Pd. Per qualcuno anche il giorno dell’ira. Sembrava che si celebrasse una vittoria, solo poche ore prima, nel giardinetto di Montecitorio, con Pier Luigi Bersani che esternava felice subito dopo il sì all’arresto per Papa: “È finito il vincolo di maggioranza!”. Ma solo dopo pochi minuti la notizia del rifiuto all’arresto per il senatore Tedesco infrangeva l’idillio e squadernava il vaso di Pandora. Tedesco è stato aiutato, oltre che dalla Lega (anche) da qualche compagno di partito? L’errore nel voto denunciato in aula dal senatore Nicola Latorre era davvero un errore tecnico, come spiegava a caldo l’interessato? La notizia di un accordo fra lo stesso Latorre e il vice capogruppo del Pdl Gaetano Quagliariello per anticipare il voto era il segnale rivelatore di un accordo trasversale? Tutte queste domande, ieri, hanno preso a turbinare con una furia devastante dopo le accuse lanciate a caldo da Arturo Parisi: “Mi auguro che Latorre possa dare una spiegazione che dimostri che non c’è stato nessun patto”. Latorre è pugliese, amico di Tedesco, uomo cardine della corrente dalemiana. Il perfetto identikit di un solito sospetto, in un giorno così. “Il suo comportamento è come minimo dubbio”, attacca ancora Parisi.

Ed è così che l’idillio si muta in un incubo. La settimana scorsa, durante un dibattito alla festa dell’Unità di Forlì, Pier Luigi Bersani risponde a una domanda del giornalista de L’espresso Marco Damilano. “Berlinguer diceva che la questione morale, tolto il problema giudiziario era l’occupazione dello Stato da parte dei partiti. Non è stato un errore avere un responsabile trasporti che siedeva anche nel consiglio di amministrazione dell’Enac, decidendo persino delle rotte?”. Sorprendentemente, prima ancora di sentire la risposta, la platea esplode in un caloroso applauso di consenso, per una domanda così critica. Bersani, come spesso sa fare, non tergiversa: “Sì. Forse è stato un errore”. Ieri i nomi di quel responsabile (bersaniano) Pronzato, quello del senatore Tedesco (ex socialista emigrato nel Pd, uomo vicinissimo a D’Alema) e quello di Filippo Penati (braccio destro e caposegreteria di Bersani fino a pochi mesi fa) turbinavano nella giornata del sospetto creando problemi politici. Ed è di questo che il segretario del Pd parla quando dice: “Noi non dobbiamo fare nessun mea culpa. Siamo stati lineari e coerenti”. Ma dietro questa professione di onestà intellettuale, c’è il dubbio.

Anticipare il voto su Tedesco, dopo mesi in cui la pratica languiva, poteva testimoniare sia una volontà di chiarezza, sia quello che Il Giornale ha perfidamente definito “lo scambio di ostaggi”. Non sapremo mai se la spaccatura della Lega ha impedito un baratto, o se un altro gioco di prestigio del Carroccio ha messo nei guai il Pd senza colpe. Nei giorni dell’anniversario del discorso di Berlinguer sulla questione morale, indagini e arresti dovrebbero richiedere risposte meno irate (D’Alema) o evasive (Bersani). Tedesco non si dimette, Penati si limita all’autosospensione dalla presidenza del consiglio regionale e i militanti assistono sconcertati alla distanza che separa le invettive di Parisi e le professioni di innocenza di Latorre.

Da Il Fatto Quotidiano del 22 luglio 2011

Ciao, Adriano (di Cervarolo)!

Aia%20Martiri%20di%20Cervarolo2_130x250.jpgIeri è morto Adriano Cappelletti, 83 anni, di Cervarolo. Quel giorno maledetto si salvò perchè i nazi lo videro così piccolo (anche se aveva 16 anni) che lo scambiarono per una ragazzina e lo lasciarono andare. Ha fatto in tempo, anche se di poco, a vedere i colpevoli condannati con la sentenza del 6 luglio scorso al Tribunale di Verona. Ricordo la sua gioia quando seppe che si faceva il processo, dopo 66 anni avrebbe avuto un po’ di giustizia anche lui. Ho raccontato (anche) la sua storia nel mio “Il primo giorno d’inverno”. Ciao, Adriano!

Alla fine di giugno invece è morto, tranquillo nel suo lettuccio, Fritz Olberg, di anni 90, sottotenente della Div.Hermann Göring che quel giorno fu fra i responsabili della strage. L’ergastolo l’ha schivato di poco, ma credo che sia niente a paragone di quello che il buon Dio vorrà riservargli.

Le vacanze hanno tanti lati positivi, relax, belle camminate, sole, panorami stupendi, lo speck sudtirolese. Ma anche non leggere la stampa reggiana tutti i santi giorni. Così sono stato graziato dall’ennesima, miserevole, tirata dei fascisti locali. So che non è da amici farlo, ma più sotto inserisco il link di questa triste cosa. Una sola osservazione: si può anche essere fascisti (ci sono i dianetici, i madjugoriani, i tatuati, i tamarri…), in qualche modo la Costituzione tutela anche loro, ma la cosa che mi fa girare i cabasisi come pale d’elicottero è la solita vecchia questione: i fatti, gli avvenimenti, non sono opinioni. Tacere i fatti, torcerli a piacimento è solo indice di mala fede. I fatti sono fatti. Allora, chiedo scusa per la noiosità, ripeto quanto segue (per gli appassionati c’è sempre il libro di cui sopra):

1. La strage fu condotta in perfetta consonanza con la strategia tedesca sul fronte italiano della primavera 1944. Gli ufficiali in comando, dopo la strage, non furono spediti al fronte per punizione ma per servizio con tutta la Divisione HG. Ci lasciarono la pelle. E’ la guerra. Von Loeben, il più alto in grado, morì invece nel marzo 1945 in Moravia.

2. Rassicuro i fascisti locali che  Tribunale di Verona ha avuto dagli “storici della Resistenza reggiana” (cioè il s/scritto, come Consulente della Procura) tutte le carte relative alla settimana 13-20 marzo 1944, comprese quelle tedesche, come ovvio e come il mio libro testimonia. E’ stato citato e riportato ogni fatto accaduto (scontro di Cerrè Sologno, fucilazione di Monteorsaro etc.), basta andarsi a leggere gli atti, sono lì, scritti e consultabili. I giudici hanno preso perfetta conoscenza delle azioni di Eros e compagni. La questione è semplicemente che in nessun atto tedesco si collegano le azioni (giuste o sbagliate) della banda partigiana con l’azione di Cervarolo e Civago. La controprova è che l’azione di stage è diretta contro i due paesini-in cui nulla era accaduto in quei giorni-e non contro Monteorsaro dove i tedeschi e fascisti erano stati fucilati.

3. I bombardamenti alleati su Reggio furono fatti per scopi militari (colpire le Reggiane prima, l’aeroporto dopo) con pesanti ripercussioni sui civili e non viceversa. E come, comunque, questi attacchi aerei fossero percepiti dalla popolazione sta a testimoniarlo il fenomeno del salvataggio dei medesimi piloti alleati caduti svolto da centinaia di civili reggiani, a rischio della fucilazione.

4. La “Giustizia” intanto è stata fatta a Verona. L’amnistia Togliatti impedirà di farla anche nei confronti dei criminali fascisti che alla strage collaborarono attivamente ma la Procura è già in possesso di tutti i loro nomi, defunti e viventi.

Detto questo, in rapida sintesi, e speriamo di non doverci tornare sopra (ma, conoscendo i “clienti”, ne dubito).

Ciao Adriano!

 

http://edicola.linformazione.com/archivio//20110710/13_RE1007.pdf

 

Odo un suon di corno…mi risponde un toc di tacco…

Sul castello di Verona batte il sole a mezzogiorno, da la Chiusa al pian rintrona solitario un suon di corno..”, ripensavo alla carducciana Leggenda di Teodorico l’altro giorno passeggiando per Verona, in attesa della sentenza del Tribunale Militare (67 anni dopo giustizia è stat fatta). C’era caldo, tanti turisti, il suon di corno non l’ho sentito, ma tant’è, non si può avere tutto, signora mia.

La sentenza è stata letta alle 20.45, dopo dieci ore di camera di Consiglio. C’erano i sindaci dei Comuni colpiti dalle stragi in Emilia e Toscana, c’erano i rappresentati delle Province di Modena e Reggio, c’era una rappresentante della Regione Emilia Romagna. C’erano anche tre consiglieri comunali di Reggio, ma a titolo personale o professionale. Non c’era il Comune di Reggio Emilia. E’ stato detto “ma che c’entriamo noi? Cervarolo mica è Villa Sesso..c’è già la Provincia“. Corretto, legalmente ineccepibile, ma moralmente e politicamente osceno. Sul gonfalone del Comune c’è la medaglia d’oro per quanto è stato fatto in quei 20 mesi, chi oggi ci amministra può farlo perchè qualcuno (per fortuna tanti) decise che valeva la pena di rischiare la pelle per avere la libertà. Non ci si pose il problema dei confini di comune o di quartiere, come non se lo posero neanche i nazi e i fasci quando ammazzarono tanti innocenti.

Quando non si hanno più ideali, principi, prospettive, insomma quelle cose per cui vale la pena vivere, ci si riduce ad amministratori di condomini più o meno grandi, più o meno organizzati. Così, prima o poi, arriverà un nuovo amministratore, più svelto e che ci costerà meno.

A Verona non ho sentito il “suon di corno”, in compenso a Reggio, la stessa sera del 6 luglio sono risuonati “suon di tacchi (a spillo)”. La distanza fra Piazza della Libertà (rieccola) e Fortezza Bastiani mi ha messo al sicuro ma il video è eloquente: http://www.youtube.com/watch?v=zoFdImqrCRo&feature=player_embedded

Abbiamo sentito dire dai nostri amministratori e dirigenti culturali tante volte che noi siamo “più avanti” e non capivamo dove fosse questo “più avanti”. Ora l’abbiamo capito. L'”American Run” (così si chiama mollare qualche sgallettata in corsa libera a rischio caviglia/malleolo) è di gran voga a NY, Sydney, Londra, Milano e Amsterdam. Ora ci siamo anche noi, finalmente!

L’American Run del 6 luglio, per chi non lo sapesse, fa parte del “Happy Animal Triathlon”. Le prossime prove? Il Petosound (con la speciale classifica “burning” con l’accensione delle emissioni gassose) e lo storico “Palio della Caccola”, dove 200 figuranti in abiti matildici, gotici, celtici e topici lotteranno per conquistare la “Caccola d’oro”, che sarà aggiudicata, nella prova di potenza, a chi lancerà a maggior distanza l’oggettino, nella prova di abilità a chi riuscira a formare l’oggetto tondeggiante più grosso. Previsti ricchi premi e cotillons…

That’s all folks! Anche questa è kultura….

Ustica: 31 anni dopo, in Italia esiste la verità? (Stefano Corradino)

ustica.jpgSono le 20:08 del 27 giugno 1980. Si alza in volo da Bologna il DC-9 I-TIGI. Destinazione Palermo. Parte con un ritardo di due ore, il doppio del tempo necessario per completare il viaggio. In un’ora fai giusto in tempo a sederti, allacciare le cinture, buttare un occhio sulle procedure di emergenza mimate dal personale di volo, sfogliare la rivista alloggiata nel retro del sedile davanti e bere un caffè che già inizia il momento della discesa. 69 adulti e 12 bambini aspettano di scendere dall’aereo per tornare a casa o per iniziare una settimana di vacanza. Come la famiglia Diodato. La moglie, la cognata, e i tre figli bambini di Pasquale detto Lino, muratore, muscoli possenti. Lino li ha messi sull’aereo per raggiungerli i giorni successivi. Ad attenderli all’aeroporto di Punta Raisi ci sono i nonni e gli zii ansiosi di stringere i loro cari.

Ma alle 21:04, quando dalla torre di controllo di Palermo parte il contatto radio per autorizzare la discesa sul Dc9 nessuno risponde. Elicotteri, aerei e navi si precipitano nelle ricerche ma il volo è disperso. Solo alle prime luci dell’alba viene individuata ad alcune decine di miglia a nord di Ustica, una chiazza oleosa. Lì ci sono i primi relitti e i primi cadaveri.

Sono trascorsi 31 anni da quella terribile notte. Anni e anni di indagini, migliaia di cartelle di atti per oltre un milione e mezzo di pagine e circa trecento udienze processuali. Inchieste ostacolate e manomesse come affermano gli stessi inquirenti che hanno ripetutamente parlato di depistaggi e inquinamenti delle prove.

A 31 anni di distanza da quella tragedia sappiamo molto e non sappiamo niente.

Sappiamo che nel cielo di Ustica il Dc-9 non era solo ma c’erano ben 21 aerei che circondavano il velivolo precipitato. Lo ha ricordato recentemente Andrea Purgatori, il giornalista che per primo seguì la vicenda sul Corriere della Sera.
Non sappiamo di quale nazionalità fossero questi aerei ma si ipotizza che alcuni fossero libici e che l’intento fosse quello di eliminare il colonnello Gheddafi che si presumeva essere su quel volo.
Sappiamo che oltre 30 anni fa abbiamo contratto un bel debito economico con il governo libico che è forse stato tale da tollerare attraversamenti dei loro aerei nei nostri cieli.
Non sappiamo (ma per le ragioni di cui sopra lo immaginiamo) perché fino a oggi nessuno ha chiesto perentoriamente conto a Gheddafi di quella notte del 27 giugno.
Sappiamo di avere un sottosegretario, Carlo Giovanardi che oltre a quella per i gay ha anche un’ossessione per i missili perchè “Nessun missile abbattè il DC9 dell’Itavia su Ustica” – ripete ossessivamente infischiandosene delle valutazioni della magistratura e dei familiari delle vittime.
Non sappiamo perché dobbiamo essere l’unico paese democratico in cui permane il segreto di stato sulle tante stragi che hanno insanguinato l’Italia.
Sappiamo, come scriveva Pier Paolo Pasolini, anche se non abbiamo né prove né indizi ma perché “cerchiamo di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; di coordinare fatti anche lontani, mettere insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico,  ristabilire la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.

“In Italia esiste la verità?” c’è scritto in alto a sinistra nel manifesto del film “Il muro di gomma”. L’ho rivisto ieri sera in tv e, per l’ennesima volta, mi si è accapponata la pelle alla straziante scena finale quando il giornalista Rocco dopo il processo detta il suo articolo al Corriere: “Perché chi sapeva è stato zitto? Perché chi poteva scoprire non s’è mosso? Perché questa verità era così inconfessabile da richiedere il silenzio, l’omertà, l’occultamento delle prove? C’era la guerra quella notte del 27 giugno 1980. c’erano 69 adulti e 12 bambini che tornavano a casa, che andavano in vacanza, che leggevano il giornale, che giocavano con una bambola. Quelli che sapevano hanno deciso che i cittadini, la gente, noi, non dovevamo sapere: hanno manomesso le registrazioni, cancellato i tracciati radar, bruciato i registri; hanno inventato esercitazioni che non erano mai avvenute, intimidito i giudici, colpevolizzato i periti e poi hanno fatto la cosa più grave di tutte: hanno costretto i deboli a partecipare alla menzogna, trasformando l’onesta in viltà… Perché?”

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/06/27/ustica-in-italia-esiste-la-verita/126471/

Perché la sinistra domina cultura, giornali (Marcello Foa)

Tratto da: http://blog.ilgiornale.it/foa/2011/06/26/perche-la-sinistra-domina-cultura-giornali-scuola/

KGB.jpgVisto da est, l’Occidente può apparire molto curioso; soprattutto se incontri personaggi del calibro di Serghei Kara Mourza. Immagino già la faccia del lettore: è chi sarà mai costui? E’ un sociologo che, pur vivendo a Mosca, riesce a capire in che modo e in quale misura le società occidentali sono soggette alla propaganda, soprattutto a quella non dichiarata, che, essendo invisibile, è la più insidiosa. Tema delicato che dovrebbe essere al centro della riflessione pubblica, ma che in realtà viene ignorato non solo dai media più autorevoli, ma anche dal mondo accademico, salvo rare eccezioni.

Scavando in questa direzione, si scoprirebbe, ad esempio, per quale ragione in un Paese di consolidata tradizione cattolica, nel dopoguerra tutto il mondo culturale sia diventato comunista, così come gran parte della scuola, dell’università e dell’informazione. Com’è possibile che persone colte, istruite d’un tratto abbiano adottato il pensiero unico bolscevico abiurando valori nazionali e identitari? Si trattò di un fenomeno spontaneo e frutto di tante scelte individuali e consapevoli, per quanto curiosamente simultanee? La risposta è no. Non fu affatto un moto spontaneo, bensì una raffinatissima operazione di condizionamento delle masse, nell’ambito di un tentativo di occupazione dell’Italia attraverso l’occupazione delle istituzioni dall’interno, come prescritto da Gramsci e con la decisiva pianificazione del Kgb, che in quegli anni dedicava a questi scopi addirittura un Dipartimento.

Certo, se oggi si dicesse a uno dei tanti intellettuali ex comunisti, che peraltro ancora dominano buona parte della cultura italiana, di essere stato uno strumento del Kgb, costui si arrabbierebbe moltissimo . E, verosimilmente, non avrebbe torto. La maggior parte degli intellettuali, dei giornalisti, dei docenti nemmeno sospettò di essere manovrata e proprio per questo l’operazione ebbe successo, come si spiega in uno dei libri più intelligenti degli ultimi 40 anni: “Il montaggio”, scritto Vladimir Volkoff, intellettuale francese di origine russa ed esperto di manipolazione delle masse, che nel 1982, avvalendosi dell’artificio romanzesco, descrisse le tecniche usate dagli strateghi sovietici. Libro strepitoso e scomodo, che naturalmente il mondo intellettuale europeo all’epoca ignorò. Ora l’editore Alfredo Guida lo ripropone  in italiano con un’iniziativa altamente  meritoria e che i lettori aperti di spirito apprezzeranno. Il Kgb non esiste più, ma i suoi montaggi continuano a produrre effetti.

Chi lo capisce troverà una chiave di lettura ancora attualissima per capire perché, dopo oltre mezzo secolo, nella cultura, nella scuola, nell’informazione e in parte della magistratura certi clan continuino ad essere prevalenti. Il sistema sopravvive al madante e all’ideologia, continuando a far danni.

E noi che pensavamo che la sinistra avesse conquistato la “egemonia culturale” perchè aveva intellettuali come Gramsci, Vittorini, Pavese, Pasolini, Visconti…Tutto sbagliato: erano/eravamo tutti manovrati dall'”Impero del Male”. Il KGB era dentro (e dietro) di noi e non lo sapevamo. Facile, no?

Resta comunque aperta la domanda “perchè la destra italiana non ha prodotto uno straccio di cultura europea”? Ma il sapido articolo di Foa dà già un’implicita risposta…

 

Per arrabbiarsi un po’ (ma non troppo)

Da povero cristiano sofferente ogni tanto mi infliggo qualche punizione. Tranquilli, lascio il cilicio alla Binetti e le camicie a fiori a Formigoni. Io mi limito ad andare su qualche sito “veramente” cattolico per capire cosa pensano altri credenti. Vi risparmio, per il momento, siti lefebreviani e simili delizia.

Vi segnalo “La Bussola quotidiana”, che è di qualche attualità visto che uno dei suoi animatori, Andrea Tornielli, è un noto vaticanista e sarà a Reggio nei prossimi giorni nell’ambito del Festincontro. In occasione del GayPride di domani segnalo l’articolo «L’Omofobia? Una grande bufala» Parola di ex gay militante di Raffaella Frullone, da cui traggo l’ultima domanda/risposta a Luca Di Tolve, gay “convertito”.

http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-lomofobia-una-grande-bufalaparola-di-ex-gay-militante–2112.htm

Quale è stata la molla che Le ha fatto pensare che qualcosa non andava nel mondo gay?

«Ad un certo punto, dopo anni di ricerca sfrenata, non solo non avevo trovato nulla, ma non avevo nemmeno capito bene cosa stavo cercando, e nemmeno se lo avrei trovato mai. Esausto, mi sono fermato, ho staccato. Poi ho scoperto che c’erano altre possibilità:  con grandissimo stupore e altrettanta sofferenza ho scoperto una cosa che nessuno, in 20 anni di Arcigay mi aveva mai detto, e cioè che potevo diventare eterosessuale. Perchè non me lo avevano detto? Mi hanno rubato 20 anni di vita. Ho cominciato a leggere i libri di Nicolosi, psicoterapeuta americano, che da anni negli Stati Uniti si occupava di terapia riparativa. Non sono stato convinto da subito, ma ho voluto tentare anche quella strada. Ho capito che la mia vita era cambiata quando ho cominciato a percepire la profondità del mistero della complementarità, e ho sentito dentro di me un desiderio, che nessuno mi aveva detto che avrei potuto sentire: quello di essere padre. Fino ad allora nessuno mi aveva mai detto che avrei potuto generare una vita».

Capisco che ci inoltriamo in territori di grande delicatezza ma mi chiedo: bisogna aspettare che qualcuno ci dica che esistono varie opzioni per la sessualità di ognuno di noi? Che la ricerca della nostra identità è un libero percorso, a volte semplice, a volte accidentato, ma che attiene la sfera dell’individualità più assoluta? Che frequentare associazioni come Arcigay è una libera scelta, non una chiamata alle armi o alla vocazione? Di Tolve è stato fortunato perchè ha trovato qualcuno che gli ha detto che poteva anche scegliere l’eterosessualità se quella era la sua strada? E tutti noi, tapini, che non abbiamo mai trovato nessuno che ci ha spiegato simile sconvolgente verità, come abbiamo fatto? Ci siamo aggirati inutilmente nei meandri della lussuria, singola o collettiva? Ma soprattutto in questa rivelazione sconvolgente quanto spazio si lascia alla libera scelta dell’individuo? E quanto emerge della solita tragica mania sessuofobica che tanto ha improntato la storia della Chiesa?

Per qualche riflessione vi segnalo: Piero Cappelli, Lo scisma silenzioso. Dalla casta clericale alla profezia della fede, Gabrielli Editore 2009. Segue schedina IBS:

La missione dei cristiani in un mondo laico è quella di ricordare che la finalità della storia, la finalità della vita e la finalità della politica è sempre la stessa: operare per la riconciliazione”. Su queste premesse, tratte dalla prefazione di Arturo Paoli, il libro analizza le contraddizioni e i conflitti, spesso duri e profondi, in atto da tempo all’interno della Chiesa Cattolica, tra la gerarchia, con il mondo clericale che la sostiene, e il variegato “popolo cattolico” – fedeli, sacerdoti e religiosi – che nella pratica e nel pensiero hanno posizioni diverse e contrastanti rispetto alla dottrina ufficiale. Si tratta di un vero e proprio “scisma”, seppur silente, non dichiarato, perché non è dato spazio alla sana controversia e al dialogo. I I dissidenti, soprattutto teologi e sacerdoti, pagano con l’emarginazione e l’esclusione. L’autore analizza i fondamenti teologici/biblici/comunicativi e i processi che sostengono questo tipo di Chiesa, e conclude indicando piste di lavoro e di comunicazione ecclesiale per una nuova comunità-chiesa dove il dialogo e la profezia permettano un rinnovamento nel segno della Fede, della Speranza e della Carità.

Famolo strano (Enrico Maria Davoli)

Nel numero di marzo-aprile 2011 di Reggio Comune, il periodico dell’Amministrazione Comunale di Reggio Emilia, è riprodotto il bozzetto con cui l’architetto Italo Rota  ridisegna l’ingresso dei Musei cittadini. Nessun commento, solo una didascalia che recita I Civici Musei secondo Italo Rota. Da ricordare che nel 2010 una proposta di riordino delle collezioni dei Musei Civici di Reggio Emilia era già stata commissionata a Rota in forma di mostra temporanea. Titolo: L’amore ci dividerà. Prove generali di un Museo, Reggio Emilia, Musei Civici, 15 maggio – 13 giugno 2010.

Italo Rota (Milano 1953) è una delle firme più note dell’architettura italiana d’oggi. Suo è il progetto del Museo del Novecento di piazza Duomo a Milano, inaugurato alla fine del 2010 negli spazi completamente sventrati di uno dei due palazzi gemelli dell’Arengario, il complesso costruito fra il 1939 e il 1956 su progetto di Griffini, Magistretti, Muzio e Portaluppi. Se l’Arengario fosse stato ultimato solo qualche anno prima, i cinquant’anni necessari per legge a scongiurarne lo sventramento sarebbero scattati in tempo utile. Ma di solito chi sventra è più tempista di chi costruisce.

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A tutt’oggi, poco o nulla si sa dei dettagli tecnici del progetto Civici Musei. Difficile dire se tanto silenzio sia da interpretare come segno di approvazione (“Chi tace acconsente”), di sgomento (“Oddio, che roba è?”), di entusiasmo (“Questa è l’architettura contemporanea, bellezza!”), o di uno starsene alla finestra cercando di sondare gli umori della popolazione (“Tiriamo il sasso e vediamo un po’ cosa succede”).

Proviamo a descrivere cosa si vede nel bozzetto pubblicato da Reggio Comune. Il cortile situato nell’angolo nord-ovest del Palazzo del Musei viene lastricato a somiglianza del tratto stradale antistante e piantumato di giganteschi funghi metallici (elementi ombreggianti di giorno e lampioni di notte?). Sotto ciascun fungo si vede l’immagine di un animale: rapace, trampoliere, pesce, rettile eccetera. Le due pareti che fanno da sfondo vengono ricoperte di un manto vegetale, un rettangolo verde grande come un campo da tennis.

Sineddoche è la figura retorica che serve a indicare una cosa nominando una sua parte (esempio: albero al posto di nave), o la materia di cui è fatta (ferro al posto di spada), o con altre sostituzioni (il felino al posto de il gatto). Ebbene, se si dovesse giudicare l’operazione di Rota in termini di eloquio, di Retorica appunto, si dovrebbe dire che l’architetto milanese ha forgiato una gigantesca sineddoche. Cioè ha usato il nesso vegetazione-animali per rappresentare la vasta gamma di forme viventi raccolte nelle stanze del Museo.

Brillante intuizione? Non esageriamo. L’architettura è sempre stata il luogo della Retorica, delle tessiture, delle polifonie. Gli elementi costitutivi degli ordini classici – colonna, capitello, architrave, timpano – le marmorizzazioni, le tinteggiature, le cornici, le mensole, i marcapiani, le balaustre, sono sempre serviti a produrre poemi figurati, spartiti musicali ricchi di variazioni. Non avendo né tempo né voglia di scrivere qualcosa che somigliasse a un poema o anche solo a una canzonetta, Rota ha pensato bene di accontentarsi di un cartello con su scritto Vietato dar da mangiare agli animali / Vietato calpestare le aiuole. Forse per questo il manto vegetale si arrampica sui muri. Per estrinsecare il divieto. La sua manutenzione in verticale sarebbe molto più costosa di quella del campo centrale di Wimbledon, e non lo si potrebbe calpestare nemmeno per le due canoniche settimane l’anno.

Siamo nel campo del copia-e-incolla, del famolo strano alla Carlo Verdone spacciato per il colpo d’ala di un artista spericolato. E’ l’architettura dei giochi di prestigio che si sostituisce all’architettura del decoro, della durata, del giusto rapporto costi-benefici. E’ l’architettura delle riletture che riletture non sono, non foss’altro perché denotano una condizione di analfabetismo, una totale incapacità di interrogarsi sul perché un edificio sia quello che è – nella fattispecie un Museo – anziché un Ospedale o una Centrale del Latte o un Autogrill.

E’ un’architettura che ha ormai così bene assimilato la nozione di “non-luogo” da non avere più alcun ritegno nel farsene scudo. E nel dire che, in fondo, il mondo intero è un unico, grande “non-luogo”. E che dove ancora non lo è, occorre dargli una mano a diventarlo.

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Alberi (e film) incomprensibili?

14655_big.jpgPer nove giorni presso il prestigioso Cinema Lumière di Bologna (presso l’ottima Cineteca) il film vincitore di Cannes “Tree of life” di Terrence Malick è stato proiettato a rulli invertiti. Nove giorni. Centinaia di spettatori hanno pagato, sono entrati, si sono gustati lo spettacolo e sono usciti. Soddisfatti? Immaginiamo i commenti “Però, questo Mallick, sempre un genio!”, “Difficile ma poetico!”, “Questo è cinema!”, “Sono commosso…”, “la Palma se l’è meritata tutta!”. E purtroppo non era un’esperimento situazionista della Cineteca ma un semplice, disgraziato infortunio. (le scuse dell’ente sono in: http://www.cinetecadibologna.it/news/n_121)

E’ pur vero che l’opera d’arte, in quanto tale, travalica i banali concetti di spazio, tempo e ordine (dei rulli) però che in nove giorni nessuno abbia obiettato, chiesto, suggerito…temo la dica lunga sul conformismo diffuso anche negli strati colti (e/o coltivati) del nostro paese. Perchè andare a vedere Malick ci vuole pazienza, preparazione, tempo e voglia. Lo dice chi si beccò ancora giovane al mitico Cineforum Capitol “La rabbia giovane” (1973), e ha gustato in tempi più recenti “La sottile linea rossa”. Nulla. Nessuno si è accorto? Si è posto una domanda?

300px-Bronenosets.jpgLo snobismo culturale provoca disastri. Viene  in mente la classica, tragica, battuta di Fantozzi: “La corazzata Potemkin è…”, sulla quale tutti abbiamo riso. Sbagliando. Primo perchè quel film è un grandissimo film e l’abbiamo visto sempre a rulli filanti. In secondo luogo perchè così abbiamo allontanato da quell’opera intere generazioni, regalandole alla orrenda filmografia  che ha portato i nostri ragazzi a seppellirsi nelle multisale a vedere quello che capita, incapaci di distinguere il (poco) accettabile dallla (tanta) paccottiglia.

Il linguaggio cinematografico necessita di educazione, formazione, delle Corazzate Potemkin come di “A qualcuno piace caldo” o “Paris Texas”, insultando allora un’opera d’arte non abbiamo fatto capire che era l’uso, perverso e snob, da condannare. Abbiamo buttato via, come al solito, bambino, acqua e bacinella e ci siamo sorbiti, soddisfatti e beoti, i Vanzina e Virzì.