Non esiste libertà senza regole. È lecito cambiarle, non ignorarle (Claudio Magris)

Una mia parente, da bambina, aveva appiccicato sulla porta della sua stanza un foglio di carta con la scritta: «Rispettare le regole». Era una bambina tutt’altro che docile e riguardosa, bensì avventurosa e vivace. Forse proprio per questo aveva istintivamente capito, senza aver letto alcun libro di diritto, che delle regole non si può fare a meno, se si vuole star bene insieme. La regola non ha mai goduto di buona stampa. È una delle prime vittime della retorica sentimentale che falsifica il profondo sentimento della vita e delle sue contraddizioni. Non c’è poetastro che non vanti la propria sofferta e appassionata fantasia insofferente di norme stilistiche, anche se il suo collega Dante Alighieri ha dimostrato che rispettare la metrica, l’ordine della terzina e della rima e il numero di sillabe del verso può essere efficace per rappresentare il caos delle passioni, il mistero del mondo e di ciò che sta oltre.

La vita è un continuo confronto con la regola, che essa si dà per non dissolversi nell’indistinto e che essa creativamente muta, per renderla più adeguata ad affrontare la realtà sempre nuova, costruendo incessantemente nuove regole. Le creative rivoluzioni artistiche infrangono alcune leggi dei loro linguaggi, scoprendo così nuove forme del mondo e della sua rappresentazione, che a loro volta obbediscono a criteri rigorosi. Faulkner o Kafka, che sconvolgono l’ordine tradizionale del romanzo, ne creano un altro, non meno inesorabilmente cogente e proprio perciò creativo. Nessuna regola è un idolo, nemmeno la regola per eccellenza, la legge. Le leggi possono e talora devono cambiare, come avviene. Ma il cambiamento, anche sostanziale e radicale, deve avvenire secondo modalità e regole precise. Ciò che oggi è impressionante nel nostro Paese e contribuisce a degradare Stato e società ad accozzaglia confusa, non è la violazione delle leggi, che è sempre esistita, bensì la crescente indifferenza nei loro confronti. Più che barare al gioco – il che presuppone comunque tener conto, sia pure con intenti truffaldini, delle regole – si mescolano le carte da poker con quelle dello scopone, se un avversario tira già una scala reale si risponde facendo briscola.

Nella vicenda delle liste presentate dal Pdl in vista delle prossime elezioni nessuno ha barato, perché non si bara con l’intenzione di perdere. Si è trattato di una goffaggine, poco importa se dovuta a risse interne o a inettitudine, fondata sulla consapevole o inconsapevole convinzione che regole e leggi possano venire tranquillamente disattese. Questa disinvoltura alla fine autolesionista è offensiva in primo luogo nei confronti dei potenziali elettori del Pdl (e sono molti) che rischiano di perdere, per colpa del Pdl, il loro diritto di votare per esso. L’indecoroso ruzzolone ha creato, come è noto, un problema: la necessità di conciliare il rispetto della legge con la possibilità di molti cittadini di votare, come è loro diritto, per il Pdl, partito maggioritario che masochisticamente si toglie di mezzo. Per i maldestri autori dell’autogol, comprensibilmente desiderosi di porvi rimedio, sembra che quella violazione delle regole non conti nulla. Si sente gridare al cavillo, al giochetto; si accusa di arido e astratto formalismo chi cerca di risolvere il dilemma senza violare la legge. Sembra non ci si renda conto che ogni violazione ne tira dietro un’altra e che considerare uno sfizio l’esigenza di rispettare la legge significa minare alla radice i fondamenti della vita civile. Una società che si abitua a disattendere le norme non è più una società; non è nemmeno il branco di lupi di Kipling, che si fonda su una legge.

L’unica via era e rimane, come ha detto fra gli altri il Presidente emerito Scalfaro, il rinvio delle elezioni, sola soluzione atta a consentire il voto di tutti i cittadini a tutte le liste senza calpestare il diritto. Ma l’insensibilità all’osservanza delle leggi sembra diffondersi come un liquame gelatinoso; la sua sorgente è la classe politica, ma non so se a quest’ultima si contrapponga un Paese reale più sano e meno inquinato. In questo caos è sempre più difficile distinguere guardie, ladri e derubati. Certo, siamo tutti insofferenti di leggi e di regole, sempre impari, nella loro inevitabile convenzione, al fluire della vita. La maturità di un individuo e di una società consiste nell’armonia con cui si sanno conciliare giustizia ed equità, rispetto delle leggi e capacità di risolvere umanamente i conflitti che in certi casi la loro rigidezza può provocare, senza passare disinvoltamente al di sopra di esse, ma trovando una modalità anche formale di risolvere quel conflitto. Talvolta il summum ius può diventare summa iniuria, massima ingiustizia, e allora si pone un conflitto che va risolto. Ma se non c’è nessun ius, c’è sempre e soltanto la massima iniuria, il trionfo dell’ingiustizia ovvero dei più forti privi di freni nella loro oppressione dei deboli. Nessuno può amare la legge, perché essa esiste in quanto esistono i conflitti e ognuno di noi vorrebbe vivere in un mondo in cui non ci fossero conflitti né contraddizioni, in una beata innocente età dell’oro in cui ogni pulsione e desiderio potessero essere appagati senza ledere nessuno.

L’amicizia, l’amore, la contemplazione del cielo stellato non richiedono codici, giudici, avvocati o prigioni e nemmeno regole precise come quelle del golf o del calcio. Ma codici, giudici, avvocati e prigioni diventano necessari quando qualcuno impedisce con la forza a un altro di amare o di contemplare il cielo stellato. «Il dominio del diritto – scriveva il grande poeta romantico tedesco Novalis – cesserà insieme con la barbarie». I meandri della legge possono incutere angoscia e paura, come testimonia tanta letteratura. Ma la barbarie non cessa e c’è bisogno di diritto. E anche di regole nei rapporti umani; regole, in questo caso, non certo codificate o imposte né rigide, ma tacitamente presenti nel tono, nella modalità, nella musica ossia nella sostanza umana di ogni relazione, anche di amicizia e di amore. Pure il quotidiano vivere civile ha bisogno di regole non scritte, ma fondanti, che esprimano il rispetto dell’altro; un senso immediato e spontaneo che nasce dall’osservanza di regole intimamente accettate e divenute naturale modo di essere. Non è questo lo stile di chi oggi ci governa. Mi auguro che chi lo desidera possa votare per il partito che ha rischiato di impedirglielo con quell’improvvida sciatteria, purché ciò avvenga senza violare le leggi.

Quel partito usurpa il nome di liberale; sarebbe paradossalmente più coerente se usurpasse il nome di democratico, perché ha assai poco di quell’illuminato sistema di leggi, pesi e contrappesi, poteri e contropoteri che il liberalismo ha elaborato per tutelare umanamente le libertà. Il Pdl appare piuttosto talvolta una versione scivolosa della democrazia: l’appello al Popolo, l’investitura plenaria, la concezione della politica quale rapporto privilegiato, unico e permanente del leader con una specie di assemblea generale degli italiani ricordano – in forme abnormi – piuttosto Rousseau che Stuart Mill; si richiamano al mareggiare della folla in piazza più che alla divisione dei poteri. Anche quello che è avvenuto con le liste elettorali sembra fatto più in nome del «Popolo» (disinvoltamente identificato col proprio partito o con la propria fazione) che in nome delle garanzie, delle distinzioni e della legalità liberale. Che i due maggiori partiti italiani, reciprocamente avversi, debbano scambiarsi il nome?

http://www.corriere.it/editoriali/10_marzo_15/claudio_magris_la_regola_e_liberta_anche_se_non_piace_90a6f712-2ffe-11df-9bdf-00144f02aabe.shtml

La meditazione (N.Mandela)

La meditazione


La nostra paura più profonda
non è di essere inadeguati.
La nostra paura più profonda,
è di essere potenti oltre ogni limite.
E’ la nostra luce, non la nostra ombra,
a spaventarci di più.
Ci domandiamo: ” Chi sono io per essere brillante,  pieno di talento, favoloso? “
In realtà chi sei tu per NON esserlo?
Siamo figli di Dio.
Il nostro giocare in piccolo,
non serve al mondo.
Non c’è nulla di illuminato
nello sminuire se stessi cosicchè gli altri
non si sentano insicuri intorno a noi.
Siamo tutti nati per risplendere,
come fanno i bambini.
Siamo nati per rendere manifesta
la gloria di Dio che è dentro di noi.
Non solo in alcuni di noi:
è in ognuno di noi.
E quando permettiamo alla nostra luce
di risplendere, inconsapevolmente diamo
agli altri la possibilità di fare lo stesso.
E quando ci liberiamo dalle nostre paure,
la nostra presenza
automaticamente libera gli altri.


Nelson Mandela

E noi dove stiamo? (Enzo Bianchi)

VI Domenica del tempo ordinario. 14 febbraio. (Lc 6,17.20-26)

Nelle Sante Scritture leggiamo sovente delle affermazioni che proclamano la felicità, la beatitudine riservata al credente che vive determinate situazioni e assume comportamenti precisi. È detto beato «chi trova gioia nell’insegnamento del Signore e lo medita giorno e notte» (Sal 1,5); è «beato chi discerne il povero» (Sal 41,2; cf. Pr 14,21); è «beato il popolo che ha come Dio il Signore» (Sal 33,12)… Vi sono però anche dei «guai», cioè degli avvertimenti, delle messe in guardia, dei forti richiami, soprattutto nei libri profetici: «Guai a chi costruisce la casa senza giustizia» (Ger 22,13); «Guai al popolo peccatore» (Is 1,4)…

Anche Gesù, in continuità con i profeti, ha proclamato alcune beatitudini e ha annunciato dei guai severi. Nella sua predicazione che è sempre invito alla conversione, al cambiamento di mentalità e di vita, in vista del regno di Dio che in lui si è fatto vicinissimo (cf. Mc 1,15), Gesù ha pronunciato più volte parole riguardanti la povertà e la ricchezza, la fame e la sazietà, il pianto e il riso, l’ostilità e l’applauso corale. Se è vero che non conosciamo con esattezza quale sia stata la forma delle beatitudini sulla bocca di Gesù, ne abbiamo però due testimonianze fedeli nei vangeli secondo Matteo e secondo Luca. Avviene così che uno stesso messaggio ci è pervenuto in due forme: le parole di apertura del «discorso della montagna» in Matteo (cf. Mt 5,1-12) e quelle con cui inizia il discorso in un luogo pianeggiante, ossia il brano lucano su cui oggi meditiamo.

Perché due forme diverse delle parole di Gesù? Perché gli evangelisti nel trascrivere queste parole pensavano alle loro comunità cristiane, in cui esse sarebbero state predicate. Ecco perché Matteo, che conosce la sua chiesa come chiesa di poveri, attualizza le parole di Gesù proclamando beati quelli che sono «poveri in spirito» (Mt 5,3), cioè poveri anche nel cuore; Luca invece, nella cui comunità vi sono molti che continuano ad essere ricchi, guarda ai discepoli poveri e a loro indirizza le beatitudini: «Beati voi discepoli che siete poveri; beati voi che siete affamati; beati voi che piangete; beati voi che siete osteggiati dal mondo. Al contrario, guai a voi che siete ricchi e sazi, a voi che ridete e che tutti applaudono: state attenti!».

Sono parole taglienti come una spada (cf. Eb 4,12; Ap 1,16), rivolte al «voi» dell’assemblea cristiana riunita e in ascolto, e, come tali, capaci di provocare un salutare discernimento in ciascuno di noi. Chi si trova in una condizione di povertà e di pianto sente rivolta a sé la promessa di un capovolgimento della sua situazione; chi si riconosce ricco o sazio deve sapere con chiarezza che pende su di lui un guai, un avvertimento accorato oggi, che domani potrebbe essere maledizione! Certamente questo messaggio è scandaloso, è agli antipodi del sentire mondano, del pensiero della maggioranza; anzi, è letteralmente incredibile, non-credibile… Se però poniamo a capo di quella folla di credenti, di quel «voi», lo stesso Gesù, il Povero, il Piangente, il Perseguitato, allora comprenderemo anche la possibilità della beatitudine: colui che ha vissuto in pienezza le beatitudini è Gesù Cristo, e a noi è chiesto semplicemente di seguire la via da lui tracciata.

Ripensando alla vita di Gesù, possiamo dunque domandarci con franchezza: chi è beato, felice? Il ricco che giorno dopo giorno vede aumentare la sua solitudine e il suo amore di se stesso, o il povero che nella sua indigenza forse deve aprire la mano per implorare un’elemosina, ma in quel gesto esprime il suo bisogno dell’altro, e così apre vie di condivisione e di comunione? È beato chi è sazio e non cerca né attende più nulla, o chi è sempre alla ricerca di giustizia umana e in attesa di un intervento di Dio? È felice chi nella sua follia ride, o chi piange sapendo di avere una ragione per cui spendere la vita a caro prezzo, fino a donarla per gli altri, fino a morire?

Sì, le beatitudini devono risuonare così come sono, senza essere attutite o smorzate. Esponendoci al loro annuncio nell’assemblea domenicale, noi dobbiamo percepire in queste parole la spada che divide ricchi, sazi e gaudenti da coloro che sono poveri, affamati, piangenti. Fino a chiederci: e noi dove stiamo?

19 gennaio: una ricorrenza

Oggi è il 19 gennaio. Una data importante. Giusto ricordare. Giusto valutare l’insieme della storia. Giusto. Il 19 gennaio va ricordato come la giornata di una persona importante.

19 gennaio, magari se Napisan stava zitto era pure meglio. Comunque il 19 gennaio io lo ricordo e lo festeggio.

19 gennaio 1994 nasceva mio figlio Nicola. Auguri Nico!

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Il vescovo Bux: «A Rosarno immigrati accolti come fratelli»

Domenica, in tutte le chiese della diocesi di Oppido-Palmi, verrà letto il messaggio scritto dal vescovo Luciano Bux (che pubblichiamo di seguito) dopo la guerriglia urbana, con agguati e ferimenti, che per alcuni giorni, ha sconvolto la cittadina calabrese di Rosarno, nel cuore della piana di Gioia Tauro, contrapponendo lavoratori stranieri – in maggioranza giovani africani –  e residenti della zona, probabilmente manovrati dalla criminalità organizzata.

Dopo la confusa campagna dei mezzi di comunicazione, specie le tv a livello nazionale, e dopo tante dichiarazioni di personaggi locali e nazionali ritengo di dover dire una parola al clero e ai fedeli della nostra diocesi.
Tralascio ogni considerazione di carattere sociale, civile, politico e culturale: non si addicono a una sacra celebrazione. Ritengo sia mio grato dovere, di vescovo, dire un grazie al Signore per il comportamento della Chiesa di Oppido-Palmi non solo in questi giorni, ma per tutti i lunghi anni in cui è nato e cresciuto il fenomeno degli immigrati in diocesi, specie a Rosarno.
In tutti questi anni la nostra Chiesa ha dato esempio di come si possa essere “servi inutili” (Lc. 17, 10), a cominciare dal vescovo, ma servi che si sentiranno dire dal Signore: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto» (Mt. 25, 35).
Poi, il Signore dirà a tanti sacerdoti e laici di parrocchie, aggregazioni ecclesiali, organismi diocesani:  «Non vi chiamo più servi… ma vi ho chiamati amici» (Gv. 15, 17). La misericordia di Dio praticata dal nostro clero e dai nostri laici mi è stata di grande conforto nelle recenti tristi giornate. Abbiamo accolto gli immigrati non solo come persone umane, ma come nostri fratelli, a cominciare dai fedeli di Rosarno guidati dai sacerdoti operanti nelle tre parrocchie insieme ai diaconi e alle suore, fino a comunità e gruppi operanti in tante altre località della diocesi. Quando li abbiamo invitati, in anni diversi, a due convegni diocesani per rallegrare con la loro presenza e i loro canti i nostri intervalli di convegno, sono venuti con gioia, e più di uno rinunciando a mezza giornata di lavoro e di guadagno… Ricordo anche dei ragazzi stranieri e musulmani felici di far parte della squadretta di calcio parrocchiale… Dico:  “Grazie”  al Signore e grazie ai preti e ai laici che si sono affaticati con amore generoso per anni, non solo nei giorni passati.
A quei fedeli che sono stati solo a guardare dico:  ogni volta che vedete un essere umano che è nel bisogno, non state solo a guardare e a parlare, ma rimboccatevi le maniche e datevi da fare come potete per alleviare le loro sofferenze.  Questo ci insegna Gesù nella parabola del buon Samaritano (cfr. Lc. 10, 30 ss.).
Alle persone che vivono con la mente e il cuore lontano da Dio, anche se si mostrano religiosi credenti, ricordate loro che Gesù dice:  «Nessuno può servire due padroni, perché … si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.  Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt. 6, 24).

Concludo con le parole che il Santo Padre, il Papa, ha pronunciato domenica scorsa, con attenzione anche alla nostra Terra:  «Un immigrato è un essere umano, differente per provenienza, cultura e tradizioni, ma è una persona da rispettare e con diritti e doveri, in particolare nell’ambito del lavoro dove è più facile la tentazione dello sfruttamento, ma anche nell’ambito delle condizioni concrete di vita».  «La violenza non deve essere mai, per nessuno, la via per risolvere le difficoltà.  Il problema è anzitutto umano.  Invito a guardare il volto dell’altro e a scoprire che egli ha un’anima, una storia e una vita:  è una persona e Dio lo ama come ama me».
O Signore, nostro e di tutti i popoli, o Signore della Chiesa e di questa Chiesa particolare che è in Oppido-Palmi, grazie a Te e grazie a voi, sacerdoti e fedeli. Per il futuro restiamo nella fedeltà al Vangelo di Gesù nostro Signore e alla Sua Chiesa, che è il Suo mistico Corpo.


Luciano Bux vescovo di Oppido-Palmi

http://www.avvenire.it/Cronaca/A+Rosarno+immigrati+accolti+come+fratelli_201001140832071970000.htm

27 gennaio. Leggiamo “La notte” (E.Wiesel)

Venerdì 8 gennaio presso la Gabella di via Roma alla presenza di rappresentanti della scuola, degli istituti storici e di ricerca, delle istituzioni, dei sindacati, delle comunità degli immigrati e del mondo del teatro e dell’animazione si è tenuto l’incontro – promosso dal consigliere provinciale Marcello Stecco e da Lorenzo Capitani, Carmen Marini e Chiara Morelli – per promuovere la lettura de “La Notte” (del premio Nobel per la letteratura Elie Wiesel) in occasione del “Giorno della Memoria”, celebrazione istituita dieci anni fa per ricordare la tragedia della Shoah, delle leggi razziali, della persecuzione degli ebrei e di tutti coloro che hanno subito la deportazione, la prigionia e la morte nei campi di concentramento nazisti.

Sarà una lettura del testo in forma partecipativa, con 100 lettori che domenica 24 gennaio dalle ore 15 alle 19 si alterneranno per declamare ciascuno una delle pagine del libro nel contesto della Sinagoga di via de L’Aquila: nello stesso pomeriggio, presso la stazione ferroviaria, si effettueranno letture tratte da “Le donne e la Shoah” di Giovanna De Angelis.

L’amministrazione provinciale è quindi ora alla ricerca di cittadini interessati ad essere coinvolti nel progetto e disponibili per la lettura di uno stralcio del testo, che possono mettersi in contatto direttamente con i promotori attraverso i rispettivi indirizzi di posta elettronica (marcellostecco@gmail.com, capitanilorenzo@libero.it, carmen.marini@fastwebnet.it, ceres.m@libero.it, 27gennaio@istoreco.re.it, odescalchi@libero.it, massimo.storchi@fastwebnet.it, mammant@libero.it e antoniettacento@libero.it).

Se la croce è brandita come una spada

Se la croce è brandita come una spada (Enzo Bianchi)
in “La Stampa” del 7 dicembre 2009


Prima la polemica sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche in Italia, poi il risultato del referendum popolare in Svizzera che vieta l’edificazione di minareti. Le due tematiche sono solo apparentemente affini. In un caso si tratta infatti della presenza di un simbolo religioso in aule pubbliche non destinate al culto, nell’altro invece di un elemento caratterizzante un edificio in cui esercitare pubblicamente e comunitariamente il diritto alla libertà di culto. Resta il fatto che si fa sempre più urgente una seria riflessione sugli aspetti concreti e quotidiani della presenza in un determinato paese di credenti appartenenti a religioni diverse e delle garanzie che uno Stato democratico deve offrire per salvaguardare la libertà di culto.
La paura esiste, è cattiva consigliera e porta a percezioni distorte della realtà – come dimostra anche il recente sondaggio sui timori degli italiani nei confronti degli immigrati -ma proprio per questo non deve essere lasciata alla sua vertigine, ma va oggettivata, misurata e ricondotta alla azionalità, se si vuole una umanizzazione della società. Del resto è proprio l’essere «concittadini», il conoscersi, il vivere fianco a fianco, condividendo preoccupazioni per il lavoro, la salute, la salvaguardia dell’ambiente, la qualità della vita, il futuro dei propri figli, che porta a una diversa comprensione dell’altro. Dirà pure qualcosa, per esempio, il fatto che tra i pochissimi cantoni svizzeri che hanno respinto la norma contro i minareti ci siano quelli di Ginevra e di Basilea, caratterizzati dalla più alta presenza di musulmani.
In Italia l’esito del referendum svizzero contro i minareti ha rinfocolato le polemiche, e non è mancato chi ha invocato misure analoghe anche nel nostro paese, impugnando di nuovo la croce come bandiera, se non come clava minacciosa per difendere un’identità culturale e marcare il territorio riducendo questo simbolo cristiano a una sorta di idolo tribale e localistico. Così, lo strumento del patibolo del giusto morto vittima degli ingiusti, di colui che ha speso la vita per gli altri in un servizio fino alla fine, senza difendersi e senza opporre vendetta, viene sfigurato e stravolto agli occhi dei credenti. La croce, questa «realtà» che dovrebbe essere «parola e azione » per il cristiano, è ormai ridotta a orecchino, a gioiello al collo delle donne, a portachiavi scaramantico, a tatuaggio su varie parti del corpo, a banale oggetto di arredo.
Tutto questo senza che alcuno si scandalizzi o ne sottolinei lo svilimento se non il disprezzo, salvo poi trovare i cantori della croce come simbolo dell’italianità, all’ombra della quale si è pronti a lanciare guerre di religione. Ma quando i cristiani perdono la memoria della «parola della croce», e assumono l’abito del «crociato», rischiano di ricadere in forme rinnovate di antichi trionfalismi, di ridurre il Vangelo a tatticismo politico: potenziali dominatori della storia umana e non servitori della fraternità e della convivenza nella giustizia e nella pace.
Va riconosciuto che la Chiesa – dai vescovi svizzeri alla Conferenza episcopale italiana, all’Osservatore Romano – ha colto e denunciato quest’uso strumentale della religione da parte di chi nutre interessi ideologici e politici e non si cura del bene dell’insieme della collettività, ma resta vero che in questi ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva erosione dei valori del dialogo, dell’accoglienza, dell’ascolto dell’altro: a forza di voler ribadire la propria identità senza gli altri, si finisce per usarla e ostentarla contro gli altri. Se la croce è brandita come una spada, è Gesù a essere bestemmiato a causa di chi si fregia magari del suo nome ma contraddice il Vangelo e il suo annuncio di amore.
La vera forza del cristianesimo è invece il vissuto di uomini e donne che con la loro carità hanno umanizzato la società, mossi dall’invito di Gesù: «Chi vuol essere mio discepolo, abbracci la croce e mi segua» e dal suo annuncio: «Vi riconosceranno come miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri». Quando i cristiani si mostrano capaci di solidarietà con i loro fratelli e sorelle in umanità, quando rinunciano a guerre sante e restano nel contempo saldi nel rendere testimonianza a Gesù, a parole e con i fatti, allora potranno essere riconosciuti discepoli del loro Signore mite e umile di cuore.
Sì, le dispute su crocifissi e minareti non dovrebbero farci dimenticare che la visibilità più eloquente non è quella di un elemento architettonico o di un oggetto simbolico, ma il comportamento quotidiano dettato dall’adesione concreta e fattiva ai principi fondamentali del proprio credo, sia esso religioso o laico.

Il senso del dono: per un Natale di gratuità (E.Bianchi)

Il senso del dono: per un Natale di gratuità

Assaliti dall’ansia del regalo, nel mese di dicembre sembriamo ormai smarrire il legame con l’Avvento e, con esso, anche l’autentica dimensione umana e cristiana del dono. Sommersi dai doni da fare o da ricevere, abbiamo perso il senso della gratuità, non riusciamo più a vederla come ricchezza nelle nostre vite e nelle nostre relazioni, convinti di essere noi gli unici protagonisti di ogni cosa, coloro che determinano l’evolversi delle vicende e delle società. Eppure il Natale cui ci prepariamo dovrebbe ricordarci sia il dono per eccellenza che è ogni vita nuova che nasce, sia il dono inaudito che Dio ha fatto all’umanità e alla creazione intera con la venuta nella carne di Gesù, vero Dio e vero uomo.

Come la vita, infatti, il dono è qualcosa che ci precede, che esula dai diritti-doveri, che non può mai essere pienamente ricambiato, che nasce da energie liberate e origina a sua volta capacità inattese. La gratuità non è tale solo perché non comporta un prezzo, ma più ancora perché suscita gratitudine e, più in profondità ancora, perché sgorga da un cuore a sua volta grato per quanto già ha ricevuto. Nel dono autentico non si riesce mai a tracciare un confine certo e invalicabile tra chi dà e chi riceve: non perché vi sia il calcolo di chi pesa il contraccambio, ma perché, come dice Gesù, “c’è più gioia nel dare che nel ricevere” (Atti 20,35). Chi dona, infatti, gode a sua volta della gioia che suscita in chi riceve. D’altronde, il fondamento dell’amore è la rinuncia alla reciprocità e alla sicurezza che ne deriva: occorre indirizzare l’amore verso l’altro senza essere sicuri che l’altro ricambierà.

E non dovremmo pensare al dono solo come a una possibile forma di scambio tra le persone: riscoprire la gratuità come istanza anche sociale costituisce un’esperienza liberante e arricchente per ogni tipo di convivenza. Lo ricorda con parole forti Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate: “La gratuità è presente nella vita dell’uomo in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza… Lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità”.

Forse il tempo del Natale e la maggiore sensibilità alla dimensione del dono che questa festa suscita potrebbe aiutarci proprio in due percorsi di approfondimento del senso delle nostre vite. A livello personale e relazionale, possiamo riscoprire la libertà profonda che il donare richiede e la gioia che suscita sia in colui che dona che in colui che riceve: A livello sociale, ci è dato di prendere coscienza di come, anche nell’ottica mercantile ormai dominante, si possano concretamente immettere istanze di gratuita fraternità: la solidarietà umana, uno stile di vita più sobrio ed essenziale, una ritrovata dimensione di fratellanza universale non sono alternative alle ferree leggi economiche o all’esercizio della giustizia, ma sono anzi correttivi preziosi per una più equa distribuzione di quei doni naturali che sono intrinsecamente destinati a tutti. Come cristiani testimonieremo così l’unicità del Signore di cui celebriamo la venuta nella carne e attendiamo il ritorno nella gloria: un dono sceso dall’alto che non ha cercato né atteso il nostro contraccambio per portare a tutti le ricchezze della sua grazia, il volto divino della gratuità. Senza il concetto di dono e di dono gratuito non sarebbe possibile un parlare cristiano perché, non lo si dimentichi, nel cristianesimo persino l’alleanza, che di per sé è bilaterale, è diventata alleanza unilaterale di Dio offerta all’uomo nella gratuità.

Enzo Bianchi

Avvenire, 13 dicembre 2009