Contro la strategia della tensione (dalla FAI)

Comunicato stampa 17/12/2009

CONTRO LA NUOVA STRATEGIA DELLA TENSIONE CONTRO OGNI PROVOCAZIONE PER LA DIFESA DI TUTTE LE LIBERTA’

La Federazione Anarchica Italiana- FAI e la Federazione Anarchica Reggiana denunciano la natura oggettivamente provocatoria e antianarchica delle esplosioni di Milano e Gradisca d’Isonzo.

Il nome degli anarchici viene strumentalmente associato a deliranti rivendicazioni che accompagnano detonazioni e fiammate, in un momento assai significativo: a poche ore dallo svolgimento di decine e decine di manifestazioni pubbliche che il Movimento anarchico ha promosso in tutta Italia per tenere viva la memoria della strage di Stato, dell’assassinio di Pinelli e delle montature antianarchiche che quarant’anni fa a piazza Fontana aprirono la stagione della strategia della tensione. Di più, gli anarchici tanto in Italia quanto in Europa e più in generale nel mondo intero, sono impegnati quotidianamente nelle lotte per trasformare gli assetti societari affermando quel socialismo libertario fondato su solidarietà ed umanità, eguaglianza e libertà.

Per tutto questo la strategia della tensione continua con infame puntualità attraverso la polvere da sparo, utilizzata nel tentativo di coprire la miseria in cui si dibatte la classe dirigente del paese e soprattutto la deriva politica di stampo autoritario introdotta dal governo.

Ancora una volta, la lotta antirazzista e l’opposizione alla legge Maroni e più in generale le battaglie per la libertà nel paese vengono criminalizzate attraverso l’esercizio autoritario della provocazione, proprio in un momento in cui il livello del conflitto espresso dagli immigrati, dai giovani e dai lavoratori svela giorno per giorno la natura totalitaria e razzista di questo governo.

L’acronimo FAI, associato a una presunta “federazione anarchica informale”, torna a essere vigliaccamente utilizzato per creare confusione e gettare discredito sull’impegno quotidiano profuso a viso aperto dai militanti e dai simpatizzanti della Federazione Anarchica Italiana aderente all’Internazionale di Federazioni Anarchiche.

Respingiamo fermamente questa nuova provocazione, invitiamo i cittadini a non lasciarsi confondere dal clamore mediatico ed esortiamo gli operatori dell’informazione a non prestarsi a logiche di interessata disinformazione.

Nel denunciare questo miserabile copione, esprimiamo tutto il nostro sdegno per questi atti banditeschi che non posso appartenerci, funzionali alle logiche del comando, con cui si cerca di distruggere e infangare quello che gli anarchici tentano di costruire ogni giorno: una società libera dal potere, libera dalla sopraffazione, in cui la solidarietà, l’uguaglianza e la giustizia sociale siano pratiche reali e quotidiane.

FAI- Federazione Anarchica Italiana, Federazione Anarchica Reggiana

www.federazioneanarchica.org Cel. 329-0660868 (Simone)

nb. La Federazione Anarchica Italiana nasce nel 1920, viene messa fuori legge dal fascismo, promuove la lotta antifascista in esilio, contribuisce in maniera determinante alla lotta della Resistenza, si ricostruisce nel 1945 a Carrara, è presente in tutti i movimenti emancipativi dal dopoguerra ai giorni nostri (sociali, sindacali, giovanili,civili). Ha sedi, circoli, gruppi, federazioni locali in tutto il paese. Ogni 2 anni tiene il proprio congresso nazionale. Ogni 4 partecipa al congresso dell’Internazionale di Federazioni Anarchiche. L’ultimo congresso della FAI, il XXVI°, si è svolto a Reggio Emilia nel marzo 2008.

“Politica alla puttanesca”

Il Guardian: politica alla puttanesca
“Dal Pdl intimidazioni inaccettabili”

LONDRA – Un editoriale del Guardian, il più importante quotidiano filolaburista britannico, interviene sulle polemiche che divampano in Italia sull’attacco a Silvio Berlusconi. Con un titolo mezzo in inglese, mezzo in italiano, “Politics alla puttanesca” (Politica alla puttanesca), il commento nella pagina degli editoriali e senza firma, dunque espressione della direzione del giornale come è tradizione della stampa anglosassone, comincia osservando che da due giorni il nostro Paese è in preda a un dibattito per stabilire se l’aggressione al premier è il prodotto di quello che egli ha definito il “clima di odio” contro di lui.

L’articolo parla quindi del discorso tenuto da Fabrizio Cicchitto, leader del Pdl alla Camera dei deputati, che ha elencato i “presunti responsabili della suddetta campagna di odio” contro il primo ministro: la Repubblica, L’espresso, Marco Travaglio, i partiti di opposizione, certi giudici. “Indicare un giornalista come qualcuno che ha a che fare, direttamente o indirettamente, con l’attacco di un folle, è una vecchia tecnica sperimentata nel periodo più buio della storia europea”, afferma l’editoriale. “Non contento di dichiarazioni offensive, Berlusconi intende legiferare. Il suo ministro degli Interni ha annunciato che domani il governo valuterà due nuove leggi che limitano le dimostrazioni di protesta e i ‘siti dell’odio’ su internet. Ma invece di cercare un capro espiatorio politico, il 73enne tycoon dei media dovrebbe chiedersi perché 250 mila italiani sono scesi in piazza per il No Berlusconi Day”.

Nel resto d’Europa, continua il Guardian, “ci sono dimostrazioni contro una politica o un governo. In Italia la gente protesta contro il primo ministro non per ciò che rappresenta, ma per quello che è. Ed è una protesta con buone ragioni. E’ un uomo coinvolto in scandali di sesso che rivelano il suo uso di prostitute. Persa l’immunità giudiziaria, egli è ora sotto processo per frode, corruzione ed evasione fiscale. E per tutto questo, cerca di dare la colpa a giornalisti, giornali, magistrati che insistono a fare il proprio mestiere e rifiutano di farsi intimidire da lui”.

L’attacco fisico che Berlusconi ha subito è stato “perfido ed esecrabile”. Ma “non ci sono prove che sia stato organizzato da altri”. I gruppi spuntati su Facebook che inneggiano all’aggressione sono “di cattivo gusto”, ma non richiedono una campagna per chiudere siti internet giudicati “incitatori della violenza”. In conclusione, scrive il Guardian, la risposta di Berlusconi e del suo partito “ricorda una repubblica dell’Asia centrale”. E a questo punto “i leader mondiali dovrebbero cominciare a prendere le distanze da un uomo simile”.

Giornali e telegiornali di tutto il mondo continuano a seguire gli sviluppi del caso, riportando bollettini sullo stato di salute di Berlusconi e le conseguenze politiche dell’attacco. L’Independent nota che l’aggressore rischia una pena di cinque anni di carcere per il suo gesto e scrive che le statuine del Duomo di Milano, del tipo usato da Massimo Tartaglia per colpire Berlusconi, “si vendono più in fretta del panettone e sono addirittura esaurite in certe bancarelle del centro” nel capoluogo lombardo. Il Times pubblica invece una riproduzione di una statuina di Berlusconi sanguinante col volto tumefatto, rimarcando che va a ruba a Napoli e in altre città, dove alcuni la mettono fra le statuine del presepe.

Il francese Le Monde parla di “isteria” del dibattito politico italiano e scrive che “la statuetta lanciata al volto del Cavaliere a Milano somiglia molto al temuto epilogo di una lunga stagione di odio”. Dopo aver analizzato la situazione sul versante dell’opposizione e dei media, il quotidiano definisce quello italiano “un clima da fine regno”. E conclude che “Berlusconi ha poche possibilità di ottenere un quarto mandato nel 2013, al termine di quello in corso”. Questo perché “debolezza politica, conflitto di interessi, fibrillazioni della maggioranza, esasperazione dell’opposizione, semplificazione del dibattito e saturazione dello spazio mediatico” constituiscono “un cocktail che forse è esploso il 13 dicembre (il giorno dell’aggressione, ndr) portanto a una prima risposta alla domanda che pone Berlusconi: “Perché tanto odio?””.

http://www.repubblica.it/2009/12/sezioni/politica/giustizia-22/rassegna-16dic/rassegna-16dic.html

Il corpo ferito del Capo (Marco Belpoliti)

Che cosa suggerisce la visione del viso insanguinato del Presidente del Consiglio? Quello di un uomo che ha subito un incidente, che si è rotto il labbro, che si è fratturato il naso, che sanguina copiosamente. Un accidente casalingo, un incidente d’auto, un’effrazione improvvisa e inattesa. Qualcosa di fortuito e casuale. In realtà, come sappiamo tutti per averlo visto nei telegiornali, o su You Tube, Silvio Berlusconi è stato colpito da un oggetto scagliato con forza da un uomo.
Un attentato dissennato, dato l’oggetto usato per ferirlo – un souvenir, un simbolo della città di Milano in miniatura –, e vista la situazione. Un gesto folle, eclatante, assurdo. Un attentato in miniatura, si dovrebbe dire, perché non mortale, nonostante la situazione e il contesto, simile a quello di mille altri attentati a uomini politici negli ultimi due secoli: all’aperto, tra la folla, all’inizio o alla fine di un comizio. Qualcuno si sporge tra la massa dei sostenitori e compie l’atto fatale. Ma qui non accade.

La follia ha sempre metodo, e più di una ragione. Chi ha scagliato l’oggetto contro il Presidente del Consiglio, Massimo Tartaglia, voleva violare il corpo del Re, un corpo sacro, che diventa tale attraverso l’investitura del potere, i rituali della vestizione, le cerimonie della proclamazione, il culto che lo circonda. In queste settimane Silvio Berlusconi ha spesso parlato dell’investitura che avrebbe ricevuto dal Popolo; ha parlato, seppure con metodi mediatici da telegiornale e tele-spot, del proprio potere in termini sacrali, simili a quelli dei sovrani medievali e rinascimentali. Ha caricato di segni e simboli la sua stessa persona.
Si tratta di un processo che va avanti da tempo, in modo postmoderno, e non più medievale, attraverso tecniche che tendono a rendere giovane e quasi eterno il suo corpo: fitness, lifting, liposuzioni, trapianti dei capelli, cure di vario tipo e grado. L’eternità del corpo di Berlusconi sfida la mortalità stessa del corpo tradizionale del Re, destinato, alla pari di tutti i corpi, a invecchiare e morire. Nella tradizione medievale e moderna la regalità, il corpo immortale del Re, è trasmessa ai discendenti: “Il Re è morto, viva il Re”, si proclama quando muore il vecchio re e gli succede il nuovo.
Nel caso di Berlusconi il corpo vivo coincide con la regalità. Il corpo del Capo è diventato il corpo politico stesso, la sua regalità riposa sul suo stesso corpo che egli cerca di sottrarre al passare del tempo, al suo naturale logoramento, per renderlo, e qui sta il paradosso, eterno nel tempo: “una giovinezza eterna senza passato”.
È una mescolanza di aspetti antichi e moderni, medievali e postmoderni. L’aver posto tutta l’attenzione sul proprio corpo, in sintonia con quello che accade all’intera società occidentale, fondata sul “narcisismo di massa” e sulla cura ossessiva del corpo, è l’elemento centrale della sua politica. Abbiamo un solo corpo, ci dice continuamente la pubblicità, bisogna curarlo. Si tratta dell’unico bene di cui disponiamo, per questo va conservato, modellato, ringiovanito. Berlusconi si trova al culmine di questo processo, lo incarna e lo orienta con i suoi stessi comportamenti.
Ma la sacralizzazione del corpo mortale del Capo ha sempre messo in moto meccanismi opposti di desacralizzazione, come è accaduto molte volte nella storia. Nel 1990 a Sofia, la folla inferocita assaltò il mausoleo del Capo, Gheorghi Dimitrov, fondatore del Partito comunista bulgaro, e cercò di bruciare la sua mummia. Nel 1945 il corpo morto di Benito Mussolini fu gettato sul selciato di Piazzale Loreto, e dissacrato mediante una sconcia impiccagione a testa in giù. La folla l’aveva acclamato, ora la folla l’ha deturpato. Sono tanti i gesti del genere che traggono la loro motivazione nel rovesciamento della sacralità stessa del leader.
Il messaggio sacrale della ritualità moderna, ci spiegano gli antropologi, fa a meno della sfera religiosa tradizionale, e non ha più bisogno di ricorrere alle magie e alle superstizioni del medioevo, quando ai Re di Francia veniva attribuito il potere taumaturgico del tocco che guariva dalle malattie perniciose della pelle. Tuttavia il sacro non è scomparso, si è solo trasformato. Meglio: si è travestito, è entrato a far parte della nostra vita quotidiana attraverso gli schermi televisivi, le riviste patinate, i messaggi pubblicitari, i personal computer. Che lo sappia o no, che sia studiato o meno, Silvio Berlusconi mette in moto meccanismi che funzionano per gli attori come per i santi, per Marylin Monroe e per Padre Pio. Il corpo è sacro nella sua stessa materialità, in quanto corpo che muore, per questo viene investito di una significato totale e totalizzante.
Due gesti compiuti da Silvio Berlusconi ferito dall’atto del folle di ieri colpiscono. Col primo egli si china, si copre il viso con un pezzo di stoffa. Qui c’è il gesto umano, della persona ferita, che cerca riparo, che è stordita, che non capisce cosa gli è accaduto, e vacilla. Col secondo il Capo ritorna tale: dopo essere entrato nell’auto, spinto dai suoi guardiaspalle, esce di nuovo. Si mostra alla folla. Vuole far vedere che è vivo, certo, rassicurare i suoi sostenitori, ma vuole anche compiere un gesto di ostensione. Una sorta di Sacra Sindone al vivo: viva e sanguinolenta.
Si mostra perché è nell’ostensione che il suo potere corporale esiste e prospera. Ha compiuto tutto questo in modo istintivo, senza ripensamenti. Fossimo stati negli Stati Uniti, la sicurezza lo avrebbe caricato in auto e sarebbe partita a tutta velocità. Poteva esserci ancora pericolo. No, Silvio Berlusconi sfida il pericolo, si espone di nuovo, seppur dolorante, col sangue sul viso, atterrito ma vivo, allo sguardo dei fedeli, perché questo è la natura stessa del patto che ha stretto con loro.
La politica dell’immagine di Silvio Berlusconi, che passa attraverso sempre più attraverso la politica del proprio corpo, mostra qui qualcosa d’inquietante: il suo legame con la vita e insieme con la morte.
Il folle gesto simbolico di Tartaglia rivela quel lato in ombra che la sacralizzazione quotidiana delle immagini televisive e fotografiche nasconde, e che al tempo stesso ne è il rovescio: l’inconscio desiderio di desacralizzazione. Lo sfregio, l’abrasione, il colpo al viso sono antropologicamente – sacralmente, si dovrebbe dire – parte stessa di quella politica d’incentivazione del corpo. L’ostensione chiama implacabilmente la violazione. Il gesto di ieri a Milano è stato compiuto da un folle, che nella sua follia ci manifesta qualcosa di terribile. Il potere del sacro non perdona.

http://www.nazioneindiana.com/2009/12/14/il-corpo-ferito-del-capo/

I punti fermi del “Fatto”

Viviamo momenti difficili ed è quindi necessario fissare alcuni punti fermi a cui noi del Fatto Quotidiano intendiamo attenerci. Primo. Silvio Berlusconi è stato oggetto di un’aggressione violenta che sgomenta e che deve suscitare in tutti la più ferma condanna. Il suo volto insanguinato e sofferente è una pagina nera per il nostro Paese. Secondo. L’autore dell’aggressione è uno psicolabile da dieci anni in cura per problemi mentali, e tanto basta per individuare la matrice del gesto. Terzo. Ieri a Milano il tanto celebrato sistema di sicurezza del premier ha fallito su tutta la linea. Si doveva e si poteva impedire che l’esagitato si avvicinasse a Berlusconi anche perché il suo atteggiamento era apparso subito sospetto. Quarto. La domanda sul clima infame che ha provocato l’aggressione è fuori luogo vista la personalità dell’aggressore. Ma se si vuole porre il problema di chi questo clima ha creato sottoscriviamo il giudizio di Rosy Bindi: il responsabile di questo clima è chi da mesi attacca tutte le istituzioni di questo paese, dal Quirinale, alla Corte costituzionale, alla magistratura. Quinto. Subito le teste di cuoio berlusconiane, politiche e giornalistiche si sono mobilitate per scatenare la caccia all’opposizione, politica e giornalistica. Sappiano costoro che per quanto ci riguarda non arretreremo di un millimetro nella contrapposizione civile e rigorosa al peggior governo della storia repubblicana.

Antonio Padellaro

http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578

L’equivoco dei falsi sinonimi (Moni Ovadia)

La mancata adesione ufficiale del Pd alla straordinaria manifestaszione “viola” dello scorso sabato è stata davvero una grande occasione mancata. Profondi sono stati il disagio e la delusione della maggioranza degli elettori dello stesso Pd. Ma oltre alla delusione si percepisce nell’elettorato del centro-sinistra una crescente incredulità di fronte alle titubanze, ai comportamenti ondivaghi ed alle inesplicabili prudenze di parte significativa della dirigenza del grande partito riformista. Quale senso può avere la costituzione di un nuovo ed inedito partito riformatore se non quella di essere leader nel cogliere le novità epocali e i nuovi orizzonti del quadro politico? Quale ruolo può esercitare in una società degradata da un governo padronale con vocazioni populiste ed anticostituzionali se non quello di mettersi alla testa di un’opposizione netta e riconoscibile in cui possano trovare cittadinanza gli italiani che credono alla democrazia? Il Pd sembra invece avvitato sugli schemi frusti della politique politicienne del dopo crollo del Comunismo, sembra preda del ricatto di una destra avventurista e cortigiana che li intimidisce con il vecchio trucco dell’anticomunismo senza comunisti, sembra afflitto da una morbosità endemica che gli fa temere la propria ombra ombra che, Dio ci scampi, potrebbe ancora rivelare qualche traccia rossa. È ora di risvegliarsi da questa sorta di maleficio, ora di liberarsi dagli insensati complessi di colpa e dall’equivoco dei falsi sinonimi: lotta non è sinonimo di violenza, ma di passione, decisione non è sinonimo di aggressività, ma di chiarezza, fermezza non è sinonimo di intolleranza ma di responsabilità, coraggio non è sinonimo di mancanza di pragmatismo, ma di visione del futuro e senza futuro non c’è vita, c’è solo una malinconica sopravvivenza da zombie.

http://www.unita.it/news/moni_ovadia/92571/lequivoco_dei_falsi_sinonimi

Riaprire le indagini (C.Lucarelli)

Domani è l’anniversario della strage di Piazza Fontana, un anniversario importante che sarà ricordato in tante altre occasioni, più complete di questa. Io vorrei aggiungere una cosa.
Abbiamo uno strana percezione di quell’evento che ce lo fa considerare un insondabile mistero. Non è così. Di quello che è successo quel 12 dicembe 1968, di cosa lo ha preceduto e del contesto in cui si inquadra sappiamo molto. Molto rimane da sapere ma nella sua struttura e in molti suoi dettagli la storia è abbastanza chiara: una strage organizzata nell’ambito della strategia della tensione, compiuta dalla destra eversiva e coperta dai servizi segreti italiani e americani. Mancano ancora molte cose, i nomi degli assassini e dei loro mandanti in una sentenza, per esempio – e non è poco – ma molto si sa. Se gli studenti interrogati dai sondaggi ancora la attribuiscono alle Brigate Rosse o al terrorismo islamico, è solo perché manca un immaginario narrativo e divulgativo che solo adesso stiamo costruendo.
Ma vorrei andare oltre. Dall’ultima sentenza, di novità sulla strage ne sono uscite parecchie. Novità importanti. Gente che ha parlato, da oscuri attivisti a figure di primo piano come il generale Maletti. Ci sono libri che anche se discussi e discutibili in alcune loro tesi aggiungono tanti dettagli, come il libro di Paolo Cucchiarelli. C’è, soprattutto, il tempo, che è passato e rende le testimonianze più disponbili.
Insomma, è arrivato il momento di fare qualcosa di più. Riaprire le indagini e trovare anche quelle verità che ancora mancano. Lo chiedono i parenti delle vittime, lo chiedono le vittime stesse e lo chiediamo anche tutti noi, che pure se non c’eravamo sentiamo ancora aperta quella ferita.

http://www.unita.it/news/carlo_lucarelli/92526/riaprire_le_indagini

«Berlusconi, un leader in crisi che va sconfitto con il voto. Il popolo viola? È gia politica»

«Berlusconi, un leader in crisi che va sconfitto con il voto. Il popolo viola? È gia politica» (di Pietro Spataro)

Il popolo viola è già politica, ma i partiti evitino strumentalizzazioni…». Miguel Gotor, giovane storico all’Università di Torino, è convinto che in Italia si sia aperta una fase nuova ma non si fa illusioni: «Il tramonto di Berlusconi sarà lungo e velenoso ». Ritiene che l’«antiberlusconismo democratico» sia un fenomeno importante. «Dobbiamo sapere però che in Italia ci sono due minoranze mobilitate, berlusconiani e antiberlusconiani. Il resto è altrove».

Quindi lei è convinto che si stia chiudendo l’era Berlusconi?
«Credo sia in crisi la leadership di Berlusconi. Su questo aspetto ho tre certezze. La prima è che l’uscita di scena sarà lunga, difficile e velenosa. La seconda è che sarebbe un errore pensare di sconfiggere il premier attraverso la via giudiziaria o con una spallata. Se mi passa la metafora:come in un combattimento “Sumo” Berlusconi deve essere “schienato” per via elettorale. Cioè messo a terra, ma politicamente: il centrosinistra deve entrare nel suo blocco sociale ».

E la terza certezza?
«L’Italia sta vivendo una crisi di rappresentanza. Il nostro linguaggio pubblico gira attorno a due minoranze mobilitate. C’è poi una maggioranza di non mobilitati e insoddisfatti che aspetta una proposta politica che sia fuori dal ricatto su cui ha puntato Berlusconi: o stai con me o contro di me».

Non crede che se si fosse fatta una legge sul conflitto di interessi non staremmo in questa situazione?
«Guardi, io sono infastidito quanto lei da questo enorme conflitto di interessi. Però credo sia una semplificazione dire che una legge avrebbe risolto il fenomeno Berlusconi, ossia una questione politica e di consenso. Il problema sta alla radice: dentro la fine della prima repubblica c’erano i presupposti dell’arrivo del Cavaliere».

Però poi lui vince provocando rotture nel sistema…
«Sì, certo. Ma non dimentichiamo che il primo governo non aveva la maggioranza al Senato e durò solo sei mesi. Nel 1996 vinse Prodi e poi ci fu la responsabilità storica di Bertinotti che aprì la crisi…».

Insomma, lei non ritiene che si sia affermata una egemonia culturale berlusconiana?
«Sì, però in politica vincere o perdere conta molto. So bene che nei libri di storia questa sarà ricordata come l’età berlusconiana. Però non sottovalutiamo la dialettica o lo scontro che ci sono stati. Prodi e l’Ulivo non sono stati una meteora, in questi quindici anni c’è stata per la prima volta l’alternanza. Insomma non esiste un paese berlusconiano».

Eppure a guardarsi attorno non si direbbe: qualunquismo, assenza di regole…
«Guardi, l’egemonia di Berlusconi è stata anche frutto degli errori del centrosinistra. Non sipuò stare in un eremo con lo specchio che riflette indignazione e purezza e lasciare che il paese vada altrove. Dirò di più: se Berlusconi fosse un buon politico, con i mezzi economici che ha e con il suo impero mediatico, avrebbe un potere ancora più forte e il centrosinistra non sarebbe nelle condizioni di giocarsi la partita».

È d’accordo con chi dice che in Italia c’è un regime?
«No, perché le parole sono pietre. Vi è una situazione anomala che tende alla patologia: quando non ci sono contrappesi forti e manca il rispetto per l’equilibrio dei poteri si tende inevitabilmente a debordare. Però credo sia un errore evocare Mussolini e il fascismo. Mi colpisce quanto la politica in Italia abbia bisogno di continui riferimenti al passato e alle ideologie. Abbiamo sempre la testa rivolta all’indietro e poca capacità di costruire narrazioni del presente e del futuro ».

Che cosa vede nel futuro?
«È difficile dirlo. Intravedo uno scontro non più tra centrosinistra e centrodestra ma tra populisti e riformisti. Potrebbe essere un’evoluzione interessante a patto che nessuno pretenda che l’altro sia diverso da ciò che è. Credo esista un minimo comun denominatore che può unire pezzi di centrosinistra, del centro e della destra per battere Berlusconi ».

Sta immaginando per caso un’alleanza con Fini?
«No, nel quadro attuale non arrivo a tanto anche se credo che il tentativo di Fini vada guardato con molta attenzione. Quel che voglio dire è che il centrosinistra non vince su una piattaforma berlusconismo-antiberlusconismo. Bisogna immaginare diverse configurazioni ».

Dove ha sbagliato il centrosinistra?
«Negli anni dell’ascesa di Berlusconi è mancato il realismo. Si è pensato che bastasse l’efficienza di alcuni bravi sindaci e cavalcare tangentopoli per cavarsela. Si è pensato che mentre il mondo comunista veniva preso a picconate si potesse andare avanti indisturbati. È stata una linea velleitaria».

E oggi?
«Oggi il centrosinistra deve sapere che non è vero che tutti i buoni sono dalla sua parte e tutti i cattivi con Berlusconi. Che non è vero che il qualunquismo è solo a destra. Che non è vero che la borghesia illuminata e socialmente virtuosa sta tutta con il centrosinistra. Insomma, non si è migliori per principio. Bisogna dimostrarlo ogni volta».

E questo che cosa comporta?
«Si deve capire che la crisi del sistema democratico non si risolve con le manifestazioni e basta».

Però servono: il “popolo viola”, nato spontaneamente sul web, ha portato in piazza tanta gente. Quale segnale manda alla politica?
«Il popolo viola è già politica. L’anno scorso il Pd ha riempito il Circo Massimo. Il punto è non contrapporre le due piazze, anche perché la loro somma non credo sia un’addizione: i partecipanti sono più o meno gli stessi, elettori delusi o motivati del centrosinistra, iscritti ai partiti, esponenti della società civile ».

Proprio perché in piazza c’erano tanti suoi elettori non pensa che il Pd abbia sbagliato a essere un po’ tiepido con quella manifestazione?
«Non credo. L’antiberlusconismo democratico è un fenomeno importante, parte costitutiva, ovviamente, di un’alternativa all’attuale maggioranza, necessario ma non sufficiente per battere Berlusconi. Bisogna però evitare la strumentalizzazione dei partiti, lasciar vivere questo movimento, giungere a una sintesi che sia anche una proposta di governo nuova. Il Pd in tal senso ha un ruolo fondamentale».

E allora che cosa si deve fare per riuscire a battere Berlusconi?
«I problemi del centrosinistra sono legati a due questioni: unità e leadership. Ha vinto con Prodi perché era unito e aveva una leadership. Bisogna ricreare quelle condizioni. E poi c’è il grande tema delle alleanze. Veltroni ha commesso un errore: ha giocato la partita al momento sbagliato e nelle condizioni peggiori. Se si fosse candidato nel 2006 oppure nel 2013…».

Quella sconfitta del 2008 ha pesato molto…
«Ecco, oggi il centrosinistra deve liberarsi dalla sindrome del “perdismo”. Ogni volta che si perde sembra una catastrofe. L’altra sindrome da evitare è il “consumo di eventi ».

Cioè?
«Il centrosinistra non riesce mai a costruire dalle imprese importanti. Guardi le primarie del Pd: un segretario legittimato come Bersani è una novità forte, è il segno della vitalità di un partito. Eppure sono già cominciati i distinguo».

Chi sarà il prossimo leader di governo del centrosinistra?
«Bella domanda. Immagino che non verrà dagli attuali gruppi dirigenti. Il centrosinistra deve individuare qualcuno che sia in grado di entrare nel blocco sociale di Berlusconi. E poi credo che il futuro leader debba essere qualcuno che non abbia la testa rivolta all’indietro e non sia permeato dalle divisioni che hanno segnato la storia degli ultimi venti anni».

http://www.unita.it/news/italia/92387/berlusconi_un_leader_in_crisi_che_va_sconfitto_con_il_voto_il_popolo_viola_gia_politic

Il neo-anticomunismo

Il neo-anticomunismo
Ilvo Diamanti

E’ il tempo dell’anticomunismo senza il comunismo. In cui il “comunismo” ritorna come un mantra, nei discorsi del premier, dei suoi ministri, degli uomini del suo governo. Proprio-e tanto più-perché non c’è più. Ma serve. Come ha confessato Confalonieri a Sabelli Fioretti sulla Stampa: “E’ un ottimo argomento di vendita”. Utile a catalogare gli Altri, quelli che stanno a centrosinistra. Ma anche al centro, perfino a destra. Comunque: a est del muro di Arcore che ha sostituito quello di Berlino. Dove si stende la terra del neo-comunismo. Costellata di riferimenti reali ad alto contenuto simbolico e di simboli ad alto contenuto realista. Recitati ad alta voce da testimonial e leader d’opinione. Gli ideologi del neo-anticomunismo (senza il comunismo). Che colgono fratture antiche e latenti e le proiettano nel presente. Con un linguaggio e argomenti popolari. Parole gridate, sempre più forte, secondo le regole della “politica pop”.
Pensiamo, in primo luogo e soprattutto, al ministro Brunetta Onnipresente sui media. Sempre alla ricerca della provocazione. Buca lo schermo. Suscita, epr questo, grande consenso, ma anche ostilità. Nel suo stesso governo (com’è avvenuto di recente con Tremonti). Il suo marchio è la missione contro l’inefficenza della pubblica amministrazione. Contro i “fannulloni” che vi si annidano. Nell’intento-meritevole-di coniare un’etichetta onnicomprensiva e indelebile, per chiunque insegni oppure operi negli uffici pubblici. Condannato, ora e sempre, a una carriera da “fannullone”.
Altra figura importante-e popolare-è la ministra Gelmini. Si occupa della scuola e dell’università. Persegue, in modo determinato, l’obiettivo di ridurre gli sprechi e aumentarne l’efficienza. Anche la riforma dell’università, appena presentata, segue un disegno virtuoso. Introdurre criteri di qualità ed efficienza: nell’offerta formativa, dell’insegnamento, nel reclutamento, nell’organizazione. Ma appare mossa da una preoccupazione dominante-anche legittima per carità. Destrutturare il sistema di potere fondato sul ruolo dei professori ordinari. Disarmare i famigerati “baroni”. Senza chiarire cosa dovrà diventare questa università. Scossa da un processo di riforma continua. Da oltre 10 anni. Con una sola costante: la riduzione continua di risorse destinate all’università e alla ricerca. Prevista, puntualmente, anche da questa finanziaria. Con il rischio che insieme ai baroni affondi anche l’università. La meno finanziata di tutti i paesi dell’Ocse.
La scuola, l’università, la burocrazia, insieme, definiscono il regno della sinistra. Che ancora oggi attinge i suoi consensi maggiori proprio in quest’area sociale. Nell’impiego pubblico, fra gli insegnanti e nelle professioni intellettuali. Gli intellettuali.
Invece il neo-anticomunismo rappresenta il mondo di “quelli che lavorano sul serio”. Interpretato efficacemente dal ministro Sacconi. Spietato con gli ex-comunisti o presunti tali. Con la Cgil. Il sindacato comunista (e chi lo è stato in passato è destinati a rimanerlo per sempre). Accusato di agire ispirato da pregiudizio politico più che dagli interessi dei lavoratori. I suoi iscritti operai, d’altra parte, resistono solo nelle grandi fabbriche. Quasi estinte. Oppure sono pensionati. Ex lavoratori che non lavorano più. Assistiti dallo Stato. Anche per questo votano prevalentemente a sinistra.
Contro la sinistra pubblica e intellettuale agisce la Lega popolana plebea. Immersa nel territorio delle piccole imprese. Ma anche nelle campagne. Come rammenta Zaia. Ministro dell’agricoltura. Un drago della comunicazione. Contadino fra i contadini, allevatore fra gli allevatori. Anche se non è mai stato né l’uno né l’altro.
E’ su questa linea di demarcazione che è stato costruito il muro del neo-anticomunismo senza il comunismo. Il nuovo muro. Da una parte, a ovest, il mondo dei lavori e dei lavoratori “che usano le mani”. Gli imprenditori e gli artigiani che producono, faticano. Fanno. Dall’altra parte, quelli che parlano, dicono, predicano. A spese dello Stato. Da un lato il privato e dall’altro il pubblico. Da un lato le cose concrete dall’altro quelle virtuali. Da un lato i “fannulloni” e dall’altro i “fantuttoni”, per citare Francesco Merlo. Quelli che fanno e quelli che dicono. I piccoli imprenditori e i lavoratori “veri” contro gli statali, i maestri,i professori, i baroni. Contro i giornalisti. Ma anche contro “attori e attrici, artisti e commedianti, registi e teatranti, cantanti e cantautori…Schiavi e proni. In attesa di una nuova rivoluzione”. Come li ha apostrofati il ministro Bondi, in una lettera al Foglio, a commento della visita degli artisti al Quirinale. Bondi: fino a ieri persona mite e rispettosa. Si è adeguato al linguaggio e allo stile del tempo. All’ideologia  che fa ritenere “L’industria culturale” quasi un ossimoro.
Berlusconi non si limita a ispirare questa rappresentazione del mondo. Ne scrive il copione, ne sceglie i personaggi. Delinea la scena con obiettici simbolicamente reali e realmente simbolici. Offerti dall’emergenza presente. Luoghi come Napoli-da liberare dall’immondizia; L’Aquila-da ricostruire sulle macerie del terremoto. Oppure il ponte sullo Stretto. Più che una infrastruttura: una sovrastruttura marxiana. Ideologia allo stato puro. Berlusconi è l’uomo-che fa, alla guida del governo italiano, che-ha fatto-più di tutti-negli ultimi 150 anni. Cioè da quando esiste l’Italia unita. Un vitalismo che schiaccia l’opposizione. Rappresentata e guidata da funzionari, uomini di Stato. Politici di professione. Giornalisti. Artisti. E intellettuali. Quindi ex oppure neo-comunisti. L’opposizione. Dovrebbe certamente avvicinarsi di più al mondo dei lavori. E magari rifiutare, senza rassegnarsi, questa ideologia. Che considera la cultura inutile. E l’intellettuale una figura improduttiva. Più che una categoria: un insulto.

La Repubblica, 15.11.2009

Salvate (non solo) il soldato Shalit

Salvate (non solo) il soldato Shalit
di Sergio Luzzatto

Da tre anni e mezzo a questa parte, da quando cioè un commando palestinese attaccò un posto di frontiera israeliano nel sud della striscia di Gaza, uccidendo due militari di Tsahal e catturandone un terzo, la sorte del ventenne soldato Gilad Shalit è divenuta in Israele un autentico psicodramma. Né la vicenda è rimasta confinata entro i confini dello Stato ebraico: nel frattempo, il soldato prigioniero si è visto attribuire la cittadinanza onoraria di Parigi e di Roma. Ma adesso, alla possibile vigilia della liberazione di Shalit per opera di Hamas in cambio della liberazione di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, anche altri nodi della questione meriterebbero di venire al pettine.

Per gli israeliani, Gilad Shalit è un simbolo di martirio. Segregato tre anni e passa in qualche misterioso sottoscala di Gaza, senza poter inoltrare ai familiari niente più che tre lettere, senza nulla poter ricevere da loro, e senza che Hamas abbia permesso neppure alla Croce Rossa di verificarne lo stato di salute, in spregio al diritto internazionale umanitario: a tali condizioni, come stupirsi che la salvezza del soldato Shalit sia vissuta in Israele come una priorità nazionale? Pellegrinaggi, fiaccolate, raduni, cortei. E la prevalenza sempre più netta di un “partito della trattativa” su un “partito della fermezza”. Se pure, per liberare Shalit, Hamas richiede allo Stato ebraico un prezzo altissimo, gli israeliani appaiono ormai pronti a pagarlo.

Il governo di Benjamin Netanyahu sembra disposto a trattare sulla base di una proporzione esorbitante: mille a uno. I termini esatti del negoziato restano segreti, ma domenica scorsa fonti governative israeliane hanno parlato di 980 palestinesi che ritroverebbero la libertà in cambio di Shalit. Nei fatti, può ben succedere che la trattativa finisca con l’arenarsi, laddove Hamas insistesse per la scarcerazione di alcune decine di terroristi che Israele rifiuta di includere nello scambio. In ogni caso, una cosa è sicura. Dopo essersi lungamente dichiarato indisponibile a negoziare, Israele sta trattando. E sta trattando sulla base aritmetica di quanto Hamas ha sempre richiesto, dal 2006 a oggi: mille contro uno.

Nel momento in cui sembra pronta a inchinarsi davanti alla dismisura della richiesta palestinese, Israele dimostra quanto consideri sacra la vita di ogni suo militare. Per lo Stato ebraico, salvare il soldato Shalit (promosso caporale durante la prigionia) significa salvare l’anima di un Paese nato da una guerra e cresciuto nelle guerre. Il 2 ottobre scorso, il governo Netanyahu ha liberato venti detenute palestinesi in cambio di un semplice video, che mostrava Gilad Shalit ancora vivo e in buona salute. Per il bene di Israele, salvate il soldato Shalit. Il resto – la striminzita contabilità dei numeri – non deve contare. Abbasso l’aritmetica, viva l’etica.

Senonché, da tre anni e mezzo in qua, altri numeri e altre proporzioni esorbitanti hanno scandito questa drammatica storia. Numeri e proporzioni di cui l’opinione pubblica israeliana ha scelto di non tenere conto, e che l’opinione pubblica internazionale rischia di dimenticare. I numeri sono quelli dei palestinesi uccisi per opera dell’esercito israeliano dal giorno del sequestro di Shalit, 24 giugno 2006, fino a oggi, attraverso quattro offensive massicce nella striscia di Gaza. Durante i primi due anni dopo il rapimento, circa seicento vittime palestinesi (civili, nella stragrande maggioranza dei casi) contro una manciata di soldati israeliani. Fra dicembre 2008 e gennaio 2009, con la cosiddetta operazione “Piombo fuso”, addirittura 1330 morti palestinesi (civili nella stragrande maggioranza) contro 13 vittime israeliane (dieci militari, tre civili). Sono numeri più parlanti di qualunque discorso: nell’ultima offensiva di Tsahal, la proporzione dei morti è stata esattamente di cento a uno.

Abbasso l’aritmetica, dunque, ma abbasso anche l’etica. Oggi, nessun osservatore internazionale minimanente assennato può condividere un mito che pure resta diffuso entro i confini di Israele, il mito secondo cui Tsahal sarebbe l’unico “esercito morale” rimasto al mondo. Non è morale un esercito che combatte la guerra più asimmetrica della storia, il fior fiore delle tecnologie militari più avanzate contro un milione e mezzo di civili (e qualche migliaio di terroristi) rinchiusi a forza in 360 chilometri quadrati. Non è morale un esercito che maramaldeggia da decenni sopra un avversario privo di un singolo aereo o di un singolo tank. Non è morale un esercito che saluta come brillanti vittorie operazioni militari dove si uccide a cento contro uno. Soprattutto, non è morale un esercito che accetta a cuor leggero di annientare i bambini e gli adolescenti: nei venti giorni dell’operazione “Piombo fuso”, i minorenni palestinesi uccisi da Tsahal sono stati almeno 430.

Così, si ha ragione di denunciare Hamas per violazione del diritto internazionale umanitario nel trattamento di Gilad Shalit. E si ha ragione di elevare il soldato Shalit a simbolo planetario, facendolo cittadino ad honorem di Roma o di Parigi. Ma si ha altrettanta ragione di denunciare Israele per violazione sistematica del diritto internazionale umanitario, nelle norme che regolano la proporzionalità del rapporto fra un’azione militare e le sue conseguenze sui civili. E si avrebbe ragione di conferire la cittadinanza onoraria in memoriam a uno qualsiasi delle centinaia di bambini o ragazzi palestinesi caduti sotto il piombo israeliano dopo il sequestro di Shalit, in questa nuova (e inutile) strage degli innocenti.


http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Italia/2009/commenti-sole-24-ore/6-dicembre-2009/medio-oriente-salvate-soldato-Shalit.shtml

Our favourite prime minister. Time to say addio

Da: The Economist, 3.12.2009

Our favourite prime minister Time to say addio

Silvio Berlusconi’s political career is teetering on the brink. He should go.

EVEN by his standards, it has been a bad week for Silvio Berlusconi, Italy’s prime minister. A court demanded surety for a huge fine on his Fininvest company, over its 2000 purchase of Mondadori, Italy’s biggest publisher. His wife, Veronica, is seeking a vast divorce settlement. His trial on charges of bribing a British lawyer, David Mills, is restarting after his immunity was quashed. New claims are being aired of one-time Mafia connections. A “No Berlusconi Day” protest is being staged in Rome this weekend. Mr Berlusconi has made political survival an art, but even he now looks to be in trouble ….

The Economist’s view of Mr Berlusconi has been consistent. We criticised his political debut in 1993-94. In 2001 we said he was unfit to rule Italy. In 2006 we advised Italian voters to say “Basta!” to his government. We urged them to back his centre-left opponent in March 2008. Yet we have been cautious over joining the extensive and prurient commentary on a lurid array of sex scandals that have engulfed the 73-year-old prime minister this year. We prefer to judge him on two more substantive matters: the conflicts of interest between his business and political jobs, and his government’s performance.

This week’s events have thrown a dark light on the first. The resumption of various court cases involving him or his associates, plus a series of other business and legal issues, are distracting him and his government from their other responsibilities. The damage is visible. With the financial crisis and the recession, attention has shifted from Italy’s economic difficulties to the plight of places like Greece. Yet although Italy’s admirable small businesses in the north are thriving, the country as a whole still lags behind badly. In the year to the third quarter its GDP shrank by more than the euro-area average, and it is expected to fall by almost 5% in 2009, as big a drop as in any other big west European country.

Mr Berlusconi’s government has been shockingly dilatory in its response. For a long time the prime minister denied that Italy would go into recession. He used the parlous public finances as a reason to justify why Italy’s fiscal stimulus should be much smaller than in other big countries. Unlike a few braver political leaders, he also failed to promote the sorts of economic reform needed to restore the country’s competitiveness, which has deteriorated sharply against Germany’s. Italy remains over-regulated and comes out distressingly badly in international league tables for such things as the ease of starting a business, the extent of corruption, the level of a country’s research spending and the quality of its education.

In his third government Mr Berlusconi has also pursued an eccentric foreign policy out of kilter with Italy’s Western allies. He has cosied up to Russia’s Vladimir Putin and Libya’s Muammar Qaddafi in pursuit of Italian energy interests (this week he was in Belarus, chatting up another dictator, Alyaksandr Lukashenka). Under Mr Berlusconi, Italy continues to punch below its weight in the European Union and the world.

Go, go, Silvio
Partly thanks to his own machinations, there is no obvious successor if Mr Berlusconi quits. Indeed, some supporters say it is better to stick with him because the alternative would be chaos. Yet Italy has other potential leaders: Gianfranco Fini in his own party, who is openly plotting to oust Mr Berlusconi; Pier Ferdinando Casini in the centre, who held aloof from his third government; even the new centre-left leader, Pierluigi Bersani, who pushed reforms in the government of Romano Prodi. One of these would surely come to the fore were Mr Berlusconi to go. Whoever does might even complete the country’s transformation, which Mr Berlusconi halted in its tracks when he entered the political stage in the 1990s. Italy would be better off if il cavaliere now rode out of the scene.

http://www.economist.com/opinion/displaystory.cfm?story_id=15017197