La malattia della Lega

Riporto integralmente l’intervento di oggi dell’amico Andrea Canova su “Reggio 24h”:

La malattia della Lega
Non so a voi, ma a me non è mai capitato di incontrare un’orda di ciclisti ubriachi. Uno sì: un tossico quasi sempre ubriaco che di norma fa cinque sei metri con la bici poi casca per terra, però salvando la bottiglia. Oramai è un acrobata, è bravissimo, la bottiglia non la rompe mai, né mai ne rovescia un goccio. Per questo, sinceramente, lo ammiro.

Se non fosse che è una legge dello Stato, il nuovo Ddl sulla sicurezza è grottesco. Così come è grottesco chi l’ha voluto, la Lega Nord e questo governo. Bossi, Maroni, Calderoli, la Lega in generale, mi fanno compassione. Sono un B movie all’italiana, una nebbia che offusca una serena percezione del mondo, sono un grumo di nervi disfatti. Dei comici falliti… ma, e qui c’è la tragedia, dei comici falliti che sono al governo di un paese.

Finisce la compassione e si chiudono le risate, per cercare di capire qualcosa che, forse, è incomprensibile, oppure che ha una sua logica.

In questa estate, ho letto che in un certo luogo di mare è vietato usare gli zoccoli perché fanno rumore; da un’altra parte non si possono fare i castelli di sabbia; poi avevano tolto le panchine, poi le impronte digitali, poi un sindaco che gridava al genocidio degli zingari; i ciclisti ubriachi; due persone sono un assembramento vietato, ho letto per qualche parte d’Italia; sentimenti xenofobi dilaganti e potremmo continuare a lungo. Ma non lo facciamo perché, di dettaglio in dettaglio non si va da nessuna parte. Meglio, secondo me, provare a cercare una matrice di fondo.

Quindi, divieti: divieti particolari e divieti generali. L’Italia si sta riempiendo di divieti.

Come nella Torah, come nel Corano, come nella Bibbia – anche se un po’ meno – il pensiero e l’azione politica della Lega intendono regolamentare la vita degli italiani e degli stranieri, in generale e nei dettagli, come in una religione. Sì, perché nella Lega, nella cultura che sospinge e che esprime, c’è, di fondo, una logica religiosa, cioè un pensiero magico. Una logica che si regge, principalmente, su due coppie: puro/impuro e lecito/illecito, dove la prima coppia è l’architrave che porta l’intero edificio. La coppia puro/impuro è la fune trainante dell’ideologia leghista, quella lecito/illecito la sua manifestazione pubblica e il sentimento di fondo che genera queste coppie, come nelle religioni e nel pensiero fascista, è la paura: una paura irrazionale, infantile e infondata ma, tuttavia, potente perché ripetuta come un mantra.

Il grande Pascal diceva che, indipendentemente dall’esistenza o meno della fede, è necessario comportarsi “come se” la fede ci sia, pregando e pregando, che poi la fede arriva davvero. La Lega fa un po’ la stessa cosa: le paure che scatena da vent’anni a questa parte non esistono, ma loro si comportano “come se” fossero fatti certi e reali fino a farli diventare davvero fatti certi e reali. Come i tre monoteismi, fondati su una nevrosi, la Lega, per poter convivere con le proprie nevrosi, ne fa un modello del mondo: invece di usare la ragione, la Lega preferisce nevrotizzare il mondo perché ha paura del mondo, non avendo gli strumenti per leggerlo e per capirlo e non avendo la cultura per assaporarne la vitalità e la novità. Da questo nevrotico analfabetismo di ritorno la paura e, da qui, la chiusura, le radici, le tradizioni, i dialetti, l’identità, la xenofobia, ossia la ricerca di una purezza che, appunto perché non esiste, li porta ad imporla con la forza della legge (per ora).

Il puro è ciò che è senza mescolanza, è ciò che non contamina, è ciò che non sporca, ossia è il puro spirito contro l’impura realtà; l’impuro è l’eretico, il diverso, lo straniero, il meticciato sotto ogni forma. La Lega, al contrario, è prigioniera di una logica magica che, alla fine, è anche una logica di tradizione fascista e nazista: dall’alto ti purifico con la forza della legge, impedendoti di sbagliare (l’illecito) e impedendoti di mescolarti (l’impuro), cioè di vivere.

John Stuart Mill ha detto: “Se la società lascia che un considerevole numero dei suoi membri rimanga in uno stadio infantile, incapace di comportarsi sulla base di una valutazione razionale dei fatti non immediatamente presenti, essa non deve rimproverare se non se stessa per le conseguenze di ciò”.

Andrea Canova
http://www.reggio24ore.com/Sezione.jsp?titolo=La+malattia+della+Lega&idSezione=5185

Cronache marziane

Cronache dall’altro mondo:

La Merkel offrì una festa al capo della Deutsche Bank a spese dei contribuenti

Per i 60 anni di Josef Ackermann cena in cancelleria

BERLINO – L’amministratore delegato della Deutsche Bank, Josef Ackermann, ha festeggiato i suoi 60 anni in cancelleria, ospite della cancelliera tedesca Angela Merkel (Cdu), a spese dei contribuenti: la notizia arriva dal programma «Report Mainz» della tv pubblica Ard e in Germania scoppia la polemica. Lo stesso Ackermann non aveva fatto segreto, durante una recente intervista tv, di essere stato invitato dalla Merkel in ancelleria per il suo compleanno insieme a circa 30 amici. Ma la Ard riporta, citando un rapporto della cancelleria del maggio scorso, che le spese sostenute per la festa sono atate messe in bilancio come «costi personali e materiali» della cancelliera e dell’ufficio della cancelleria e quindi a carico dei contribuenti.

LA CENA – Il governo, riporta l’emittente, dovrà rendere conto di queste spese alla Commissione di bilancio del Bundestag mercoledì. Il costo della cena, secondo il rapporto, non è stato calcolato, ma il costo del personale esterno chiamato per l’occasione ammonta a 2.100 euro. Né la Deutsche Bank, né la cancelleria, si spiega nel programma tv, hanno voluto commentare le indiscrezioni dell’emittente, ma sembra che già lo scorso aprile la vice-capogruppo della Linke, Gesine Loetzsch, abbia chiesto chiarimenti sulla festa. All’epoca, riporta l’emittente, la cancelleria aveva risposto che la Merkel aveva usato il compleanno di Ackermann – il 7 febbraio – come una «occasione» per organizzare una cena con rappresentati dell’economia. «Non si può, come cancelliera, decidere liberamente di celebrare il 60/mo compleanno di qualcuno con una festa in cancelleria con oltre 30 invitati, offrendo loro del buon vino e una buona cena a spese dei contribuenti», ha detto la leader del gruppo parlamentare dei Verdi, Renate Kuenast. Da parte sua, il portavoce della Spd al Bundestag, Carsten Schneider, ha definito l’invito della Merkel «inaccettabile» e il presidente dell’associazione dei contribuenti – Karl Heinz Daeke – ha detto che un incontro privato di questo tipo «non può essere pagato dai contribuenti».

http://www.corriere.it/esteri/09_agosto_25/merkel_festa_bufera_tv_8742e76a-914a-11de-b01b-00144f02aabc.shtml

Riformismo

Riformismo. Parola difficile. Inflazionata. Spesa da tutti, come un talismano, come un mantra. In realtà parola vuota che tradisce il vecchio principio “nomina sunt consequentia rerum”. Nessuna res quindi nessuna parola, così dovrebbe essere.

Al contrario di quanto sarebbe logico aspettarsi, la sinistra che del termine riformismo ha fatto un uso intensivo, viene percepita come conservazione, negazione del riformismo, che è innovazione, cambiamento, capacità di progettare oltre l’immediato. Paradossi. O no?

Di fronte a un governo che è palesemente incapace di andare oltre i proclami, inadatto a gestire un paese in profonda crisi, dovrebbe essere facile per una opposizione andare all’attacco, proporre soluzioni, interventi, modifiche, riformare insomma. Invece no. Lasciamo da parte la “sindrome da lemmings” tipica della sinistra, l’inveterata abitudine a volere essere uno più a sinistra dell’altro e altri fenomeni patologici. Credo ci sia un altro elemento che blocca alla radice il vero riformismo. Lo chiamerei la compromissione con il potere, l’avere accettato fino in fondo (e in certi casi oltre) le regole esistenti. E ora tornare indietro è difficile. Qualche esempio.

Ci hanno chiamato alla mobilitazione contro la gelmina che avrebbe distrutto l’Università. Questa Università. La “loro” Università. Andate a vedere chi sono i professori, incaricati, associati, a contratto, a ore, a minuti. La sinistra ha partecipato a pieno titolo al banchetto di occupazione “a prescindere”, sono diventati “prof” onorevoli, portaborse, congiunti, famigli, compagne, ètere. Deve essere rimasto fuori qualche animale domestico ma rimedieranno. E adesso? Quella sinistra che massacrò il povero Berlinguer per le sue timide riforme, cosa fa? Ti propone una bella riforma dove si cacciano a calci in culo i suddetti “prof”, inserendo vero criteri di merito, tipo pubblicazioni, preparazione, esami? Jamais. E allora si glissa e dalli alla gelmina che distrugge l’Università. In piazza a difendere questi qua? Volete nomi e cognomi anche a Reggio? Non ve li darò nemmeno sotto tortura, “tengo famiglia”, ma basta fare mente locale e ve ne accorgerete.

Giustizia? Non funziona. Certo. Angelino Jolie progetta sfracelli. In piazza per la libertà della Magistratura! Quale Magistratura? Questa che non funziona, anche in questo caso quanti magistrati “di sinistra” sono stati eletti in Parlamento? Quanti promossi secondo il principio “uno a me uno a te”? E allora? Difficile tornare indietro e tagliare cifre e somme dai loro emolumenti e restituirli al mondo del lavoro. Quindi dalli ad Angelino Jolie e via così.

Riforma elettorale. Preferenze? Primarie? Ma anche prima della porcata di calderoli (scusate la parolaccia) abbiamo mai scelto noi i nostri candidati di “sinistra”? C’erano. Erano bravi “per definizione”. Punto. Una, due, tre, quattro legislature. Che traccia poi abbiano lasciato lo scopriranno i poveri storici fra qualche anno chiamati a scrivere le loro biografie…Non li invidio. Quindi perchè una nuova legge? Siamo contro, è una porcata, ma…

Enti locali. Si decise che era ora (la moda è anche negli enti pubblici, un anno va di modo l’efficienza, un altro la funzionalità, un altro la professionalità…) di dare un taglio manageriale ai Comuni e Province. In Francia esistono scuole apposite che formano dai tempi di Napoleone i dirigenti pubblici. Noi abbiamo preso la scorciatoia. Quelli che erano i livelli dirigenziali nel vecchio assetto li abbiamo trasformati in “Dirigenti”. Un po’ come nella scuola, abbiamo preso i presidi (che come noto erano le serie B o C degli insegnanti e per questi riciclati in ufficio per limitare i danni) e li abbiamo fatti “dirigenti scolastici” a stipendio doppio. Facile. Oplà. Così negli enti locali. Non si è fatto un semplice passaggio indispensabile: vuoi diventare “dirigente” del ComuneProvincia? Bene. Dimettiti e io ti faccio un contratto privato da “dirigente” di 2,3,5 anni. Poi vedremo. Ehhh, signora mia, troppo duro, eh? No, così i vari dirigenti si sono accumulati, coi i privilegi del pubblico e senza nessuna responsabilità, a stipendio doppio (almeno). Autoassegnantesi premi di produttività e via così. Contemporaneamente si tagliavano i dipendenti, si esternalizzavano i servizi e si privatizzava appena si poteva.

Questo ovunque, nei Comuni di sinistra in primisi. Ho conosciuto assessori che alla parola “esternalizzare” avevano immediati orgasmi e “dirigenti” che, messi sul mercato non durerebbero più che un pesciolino rosso in una vasca di piranha. Ma sono ancora lì, magari in “staff” (cioè senza incarico) ma ancora a libro paga nostro, usque alla pensione, visto che ogni nuova amministrazione si porta dentro i “suoi” dirigenti di fiducia. Uhhh, dimenticavo! Salvo poi quelli che dopo aver fatto danni in servizio, una volta andati in pensione rientrano dalla finestra grazie ad apposito contratto….(pensiero brutto, di destra, potete non leggere: e se Brunetta avesse fatto bene a pubblicare i compensi di questi “dirigenti”? Non è un’azione riformista dire quello che è, visto che il denaro è pubblico..?)

Signora mia, e noi dovremmo essere innovatori? Riformisti? Pensi, cacciare a calci in culo questi docenti universitari, magistrati, presidi, dirigenti! Beh, qualche voto si perderebbe, certo (i loro), ma siamo sicuri che non ne acquisteremmo molti di più dai tanti cittadini davvero di sinistra, interessati a parole come giustizia, equità, lavoro?

Basta, Gianfilippo dice che ho esagerato e che inclino a destra. Mah, sarà, ma se questa è la sinistra…a me sembra davvero “sinistra”…

Dialogo significativo (II)

La storia è positiva

Ma protesta e paura oggi sono fondate
No, non è la lettera di un razzista la lettera di questo studente — un bravo studente, si può immagina­re — che il Corriere ha deciso di pubblicare per contribuire a far conoscere al Paese da quali sentimenti e di quali ragioni si fa forte l’opinione pubblica leghista così diffusa al Nord. Ha quasi sempre delle ragioni, infatti, anche chi non ha ragione: pure quando tali ragioni, com’è questo il caso, sono costruite su un ordito di vere e proprie manipolazioni storiche.

Quanto scrive Matteo Lazzaro dimostra innanzi tutto, infatti, il rapporto strettissimo che inevitabilmente esiste tra storia e politica; e di conseguenza, ahimè, il disastro educativo prodotto negli ultimi decenni nelle nostre scuole da un lato da una sfilza di manuali di storia redatti al l’insegna della più superficiale volontà di demistificazione, e dall’altro da una massa d’insegnanti troppo pronti a sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda. Gli uni e gli altri presumibilmente convinti di contribuire in questo modo alle fortune del progressismo «democratico» anziché, come invece è accaduto, a quelle di un autentico nichilismo storiografico di tutt’altro segno. Ecco infatti il risultato che si è fissato nella mente di molti italia ni: una storia del nostro Paese inverosimi le e grottesca, impregnata di negatività, violenza, imbrogli e sopraffazione. Una storia di cui «vergognarsi», come pensa e scrive per l’appunto Lazzaro, e che quindi può solo essere rifiutata in blocco: dominata dall’orco massone e da quello sabaudo, dalla strega della partitocrazia, dal belzebù del «clientelismo», sfociata in «uno dei debiti pubblici più alti del mondo». Nessuno sembra aver mai spiegato a que sti nostri più o meno giovani concittadini che il Risorgimento volle anche dire la possibilità di parlare e di scrivere liberamente, di fare un partito, un comizio e altre cosucce simili; o che ad esempio, nel tanto rimpianto Lombardo-Veneto di austriaca felice memoria, esisteva una cosa come il processo «statario», in base al quale si era mandati a morte nel giro di 48 ore da una corte marziale senza neppure uno straccio di avvocato. Nessuno sembra avergli mai raccontato come 150 anni di storia italiana abbiano anche visto, ol tre alle ben note turpitudini, un intero po polo smettere di morire di fame, non abitare più in tuguri, non morire più come mosche e da miserabile che era cominciare a godere di uno dei più alti redditi del pianeta. Così come nessuna scuola sem bra aver mai illustrato ai tanti Matteo Laz zaro quello che in 150 anni gli italiani hanno fatto dipingendo, progettando edifici e città, girando film, scrivendo libri: non conta nulla tutto ciò? E si troverà mai qualcuno infine, mi domando, capace di suggerirgli che la democrazia non piove dal cielo, che tra «uno dei debiti pubblici più alti del mondo» e l’ospedale gratuito sotto casa o l’Università dalle tasse presso ché inesistenti qualche rapporto forse esiste? E che la storia, il potere, la società, sono faccende maledettamente complicate che non sopportano il moralismo del tutto bianco e tutto nero, del mondo diviso in buoni e cattivi?

È quando viene all’oggi, invece, che il nostro lettore ha ragione da vendere, e alle sue ragioni non c’è proprio nulla da aggiungere. C’è semmai da capirle e interpretarle. Il che tira in ballo la responsabilità per un verso della classe politico-intellettuale di questo Paese, per l’altro quella dei nostri concittadini del Mezzogiorno. Per ciò che riguarda la prima è necessario e urgente che quello strato di colti, di giornalisti di rango, di scrittori, di attori della scena pubblica, i quali tutti insieme contribuiscono alla costruzione del «discorso » ufficiale del Paese, la smettano di assumere un costante atteggiamento di sufficienza, se non di disprezzo, verso ogni pulsione, paura o protesta che attraversa le viscere della società settentrionale (ma non solo! sempre più non solo!) tacciandola subito come «razzista», «securitaria », «egoista», «eversiva» o che altro. Pericoli di questo tipo ci saranno pure, ma come questa lettera spiega benissimo si tratta di pulsioni e paure niente affatto pretestuose ma che hanno un senso vero, spesso un profondo buon senso, e dun que chiedono risposte altrettanto vere, sia culturali che politiche: non anatemi che lasciano il tempo che trovano.

E infine i nostri concittadini del Mezzogiorno: questi sbaglierebbero davvero se non avvertissero nelle parole del lettore leghista l’eco neppure troppo nascosta di una richiesta ultimativa che in realtà ormai parte non solo da tutto il Nord ma anche da tante altre parti del Paese. È la richiesta che la società meridionale la smetta di prendere a pretesto il proprio disagio economico per scostarsi in ogni ambito — dalla legalità, alle prestazioni scola stiche, a quelle sanitarie, all’urbanistica, alle pensioni — dagli standard di un paese civile, tra l’altro con costi sempre crescenti che vengono pagati dal resto della nazione. Il resto dell’Italia non è più dispo sta a tollerarlo, e si aspetta che alla buon’ora anche i meridionali facciano lo stesso

Ernesto Galli della Loggia
19 agosto 2009

I commenti a domani.

Dialogo significativo (I)

Riporto, perchè stimolante, il dialogo, apparso oggi sulle pagine del Corriere fra uno studente leghista e Galli della Loggia

SCAMBIO DI LETTERE SUL PAESE TRA PASSATO E PRESENTE
Io, studente leghista
Perché mi vergogno dell’Unità d’Italia

Caro professor Galli della Loggia,
sono uno studente universitario di 24 anni con una certa pas­sione per la storia. Sono un leghista, abbastanza convinto. E lo confesso: se faccio un bilancio, certamente sommario, dall’Unità nazionale ad oggi, le cose per cui vergognarmi mi sembrano maggiori rispetto a quelle di cui essere fiero.

Penso al Risorgimento, alla massoneria e al disegno di conquista dei Savoia, rifletto sul fatto che nel Mezzogiorno furono inviate truppe per decenni per sedare le rivolte e credo che queste cose abbiano più il sapore della conquista che della liberazione. E penso, ancora, al referendum falsato per l’annessione del Veneto e al trasformismo delle elite politiche post-risorgimentali. E poi il fascismo, con la sua artificiosa ricostruzione di una romanità perduta e imposta a un popolo eterogeneo e diviso per 1500 anni che della «romanità classica » conservava ben poco: la costruzione di una «religione politica» forzata al po sto di una «religione civile» come invece avvenne in Francia con la Rivoluzione, che fu davvero l’evento fondante di un popolo. In Italia l’unica cosa «fondante» potrebbe essere stata la Resistenza: ma anche lì, a guardare bene, c’era una Linea gotica a dividere chi la guerra civile l’aveva in casa da chi era già in qualche maniera libero.

E poi la Prima Repubblica, che si salva in dignità solo per pochi decenni, i primi, e poi sprofonda nei buio degli anni di piombo con terrorismo di sinistra e stragi di destra (o di Stato?), nel clientelismo politico più sfrenato, nelle ruberie, nelle grandi abbuffate che ci hanno regalato uno dei debiti pubblici più grandi del mondo.

Quanto alla Seconda Repubblica, l’ab biamo sotto agli occhi: la tendenza dei partiti a trasformarsi in «pigliatutto» multiformi e dai programmi elettorali quasi identici, con le uniche eccezioni di Di Pietro e della Lega. Il primo però è destinato a sparire con Berlusconi, che è la ragione del suo successo: quando svanirà la causa, svanirà anche l’effetto. Anche la Lega dopo Bossi potrebbe sparire, ma almeno a sorreggerla ci sono un disegno, un’idea, per quanto contestabili.

Guardo allo Stato poi e alla mia vita di tutti i giorni e mi viene la depressione. Penso a mia mamma che lavora da quando aveva 14 anni ed è riuscita da sola a crearsi un’attività commerciale rispettabi le e la vedo impazzire per arrivare a fine mese perché i governi se ne fregano della piccola-media impresa e preferiscono continuare a buttar via soldi nella grande industria. E poi magari arriva anche qual che genio dell’ultima ora a dire che i commercianti son tutti evasori. Vedo i miei dissanguarsi per pagare tutto correttamente e poi mi ritrovo infrastrutture e servizi pubblici pietosi. Vedo che viene negata la pensione di invalidità a mia zia di 70 anni che ha avuto 25 operazioni e non cammina quasi più solo perché ha una casetta intestata. E poi leggo che nel Mezzogiorno le pensioni di invalidità so no il 50% in più che al Nord. Come faccio a sentire vicino, ad amare, a far mio uno Stato che mi tratta come una mucca da mungere e in cambio mi dice di tacere?

Non ho paura degli immigrati, né sono ostile a chi ha la pelle differente dalla mia. Mi preoccupo però di certe culture. Per esempio mi spaventano i disegni di organizzazioni come i Fratelli musulmani, ostili verso l’Occidente, e mi fan paura le loro emanazioni europee. Non vo glio barricarmi nel mio «piccolo mondo antico», ma ho realismo a sufficienza per pensare di non poter accogliere il mondo intero in Europa. La gente che entra va integrata, ma io credo che la possibilità di integrazione sia inversamente proporzionale al numero delle persone che entrano. Eppure, se dico queste cose, mi danno del «razzista». Non mi creano problemi le altre etnie, mi crea problemi e fastidio invece chi le deve a tutti i costi mitizzare, mi irrita oltremodo un multiculturalismo forzato e falsato. Mi spaven tano l’esterofilia e la xenomania, secondo le quali tutto ciò che viene da fuori deve essere considerato acriticamente come positivo, «senza se e senza ma». In pratica ho paura che l’Italia di domani di italia non avrà più nulla e che il timore quasi ossessivo di non offendere nessuno e di considerare ogni cultura sullo stesso piano, cancelli quel poco di memoria storica che ancora abbiamo. Mi crea profondo terrore la prospettiva che la nostra civiltà possa essere spazzata via come accadde ai Romani: mi sembra quasi di essere alle porte di un nuovo Medioevo con tutte le incognite che questo può celare. E ho paura, paura vera. Sono razzista davvero oppure ho qualche ragione?

Matteo Lazzaro
19 agosto 2009
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Atti di sovversione

Non mi capita spesso, per fortuna, ma talvolta finisco in quei iper-luoghi che sono i centri commerciali. Sono stato, lo confesso, ai “Petali” qualche settimana fa. Pochissima gente (estate o la crisi?), negozi sberluccicanti, commesse dall’età indefinita fra i 16 e i 61 anni, tutte uguali (forse alla sera una torna a casa dell’altra, ma nessuno dei congiunti se ne accorge…). In un megastore di elettronica un tizio stava trattando l’acquisto di un video da 50 pollici al plasma, roba che dovessi pagarlo io altro che il plasma dovrei dare, non basterebbe la milza e un paio di femori! Lo guardavo e lo ascoltavo (confesso, a me piace ascoltare gli sconosciuti, se ne imparano sempre delle nuove) richiedere uno schermo da appendere in “sala”. Ma dove abita il tizio? In un hangar? O in un loft dove si allestiva un cacciatorpediniere? Perchè per vedere un oggettino da 50 pollici le dimensioni sono quelle, mah, non l’ho capito, del resto non potevo avvicinarlo e chiedergli l’indirizzo, ma neanche seguirlo all’uscita, visto che mi sarei subito perso nel parcheggio, incerto fra il settore A5 e quello B6 (comunque affondato).

Sì, i centri commerciali mi piacciono perchè mi rendono consapevole di quante cose io NON abbia bisogno, di quanto io sia un consumatore poco consumatore, o limitatamente consumatore. E qui inizia la sovversione: non comprare, sfogare le proprie frustrazioni in altro modo. Non guardare gli spot dove volano anche gli stracchini o ci raccontano, a ora di cena, del problema di signore incontinenti in ascensore (per fortuna io vivo in centro e non ho il problema, dell’ascensore intendo). Fare altro insomma, non sentirsi sfigati perchè l’auto ha 11 anni o le scarpe sono quelle di 3 anni prima, peraltro ancora quasi nuove. Non comprare.

La mia mamma, magnifica figura italiana di ipercattolica-anticlericale, mi ha insegnato che il termine “consumare” equivale a sprecare. E lì sono rimasto. “Non consumare il pane, non consumare la roba…” quello è stato l’imprinting che scopro oggi essere eversivo, in un paese dove negli ultimi sei anni è calata la vendita di libri (maddai!) ed è esplosa quella di cellulari, dove il PIL è il nostro faro nella notte e arrivano voli charter dall’estero per giocare al superenalotto (a proposito: spero che i 136 fantabilioni di euro se li vinca uno sconosciuto herr Schmidt della Foresta Nera).

Che volete farci, uno inizia fin da piccolo a venir su male e poi da grande…

Tormentoni: l’ora di religione

Come nel teatro d’avanspettacolo il “tormentone” era quella macchietta ricorrente che a senso, o no, interrompeva il corso della scena, così anche noi abbiamo i nostri “tormentoni”. Quello ferragostano 2009 sarà “L’ora di religione”. Il TAR del Lazio, una volta tanto, ha emesso una sentenza logica e motivata, degna di uno stato laico. La religione come materia facoltativa non deve dare adito a “crediti” e gli insegnanti relativi (designati dal vescovo, motu proprio, senza concorsi o inutili orpelli ma pagati dallo stato, cioè noi) non devono partecipare agli scrutini.

Apriti cielo! Mamma li turchi, episodio di “bieco illuminismo” (ma alla CEI chi glieli scrive i testi? Il portiere del “Bagaglino”?), discriminazione, la gelmina tuona “la religione cattolica esprime un patrimonio di storia, di valori e di tradizioni talmente importante che la sua unicità deve essere riconosciuta e tutelata. Una unicità che la scuola, pur nel rispetto di tutte le altre religioni, ha il dovere di riconoscere e valorizzare», insomma per dirla con Orwell, tutte le religioni sono uguali, ma una è più uguale delle altre. Bene. Viva.

Io, da cattolico affaticato ma praticante, condivido in pieno la sentenza del TAR. Mi piacerebbe vivere in un paese dove i vescovi facciano i vescovi (mestiere già complicato di suo), senza perdere tempo ed energie in nomine, sia che si tratti di fondazioni bancarie che di insegnanti pagati dal denaro pubblico. Un paese dove nelle scuole si insegni, con docenti formati nelle pubbliche università, la materia di “storia delle religioni” (tutte) e si lasciasse ai singoli e alle famiglia la cura dell’educazione religiosa. Il mio dissenso lo esprimo da anni, contribuendo alla auspicata povertà della Chiesa, destinando il mio 8 per mille alla Chiesa Valdese (fra l’altro fra i promotori dell’azione legale oggi conclusa dal TAR del Lazio). Vorrei una Chiesa che fosse Chiesa e uno Stato che fosse Stato. Senza Concordati, accordi vari e giochini di soldi o peggio ad intercorrere fra i due. Vorrei.

Tanto si sa come finirà, la gelmina ricorrerà al Consiglio di Stato e la questione sarà riportata nei binari della “normalità”. Soldi e potere. Business as usual.

Dialetto a scuola? (G.Caliceti)

La solita politica scolastica eversiva-diversiva del governo. Lo scorso anno il ritornello dell’estate inventato dalla Gelmini era: ritorno al grembiulino a scuola, sì o no? Si è andati avanti su tutti i giornali per settimane fino all’inizio dell’anno scolastico, con questo giochetto. Sembrava questione di vita e di morte.

Quest’anno è stata la Lega a trovare il motivetto che piace tanto ai giornali e all’opinione pubblica: il dialetto. In tutte le sue versioni: dialetto a scuola? Test di dialetto per i docenti del sud? Motivetto che Gelmini non si è fatta scappare e ha subito rilanciato in numerose variazioni. Il fine di questa politica-scolastica è sempre lo stesso: distrarre l’opinione pubblica per perpetrare i tagli economici e dei docenti già iniziati lo scorso anno.

La funzione della Lega è quella del palo: distogliere l’attenzione, mentre si compie il «furto» della scuola pubblica. Insegnare il dialetto o fare un test ai docenti arruolati a seconda delle regioni italiane in cui entrano di ruolo è una cosa assurda: se non altro perché in Italia esistono migliaia di dialetti e ognuno ha una sua variazione; di più, spesso ci sono differenze di pronuncia e di cadenza. Però è vero che attraverso la questione del dialetto ci si avvicina al disegno finale: lo smantellamento totale della scuola pubblica italiana. Dalla sua autonomia si passerà alla sua regionalizzazione sempre più feroce: una volta smantellata e indebolito mortalmente il suo centro, la scuola pubblica italiana sarà affidata alla buona e cattiva sorte dei suoi amministratori locali. Diventerà sempre più luogo di mercificazione del sapere e di scambio di favori e potere, un po’ come è già avvenuto con la regionalizzazione del sistema sanitario nazionale.

Si tende sempre a prendere con sufficienza e come boutade le idee della Lega, o come goliardiche provocazioni che prima o poi rientreranno. In realtà sono la vera matrice ideologica di questo governo, la più sincera. L’ideologia è semplice: il razzismo, la guerra dei più deboli contro i più deboli per creare movimentismo, per fare propaganda, per riscaldare gli animi. Mi stupisco che in Italia non ci sia ancora un partito o un movimento politico che dichiari esplicitamente il ripristino della pena di morte. Tutti sappiamo che, da sempre, in quasi tutti i paesi del mondo – democratici o no, occidentali o no – se si facesse un referendum sulla pena di morte vincerebbero i favorevoli.

Anche nel nostro paese sarebbe così. Ma da quando l’Italia è Repubblica, per una sorta di patto – se non antifascista, comunque civile – nessuno ha mai tirato fuori un partito o un movimento del genere, che tra l’altro sarebbe fortemente osteggiato dalla Chiesa. Stessa cosa, per anni, è accaduto sul tema del razzismo: nessun partito o movimento poteva cavalcare i bassi istinti per creare consenso. Ma adesso questo argine, questo confine, non c’è più, siamo nell’era dell’indecenza. Chi, tra i docenti, pensava che la Lega e il governo di centrodestra si accontentassero di qualche poeta dialettale inserito nelle antologie e nei libri di lettura di scuola per alunni e studenti, si deve ricredere. E il razzismo non guarda in faccia a nessuno. Ieri si scagliava contro gli extracomunitari, oggi contro i docenti e i presidi meridionali. E domani?

Lettera aperta alla gelmini (C.Magris)

Dante e Verga? Basta. Mi son de Trieste

Ministro, cambiamo i programmi: «El moroso de la Nona» al posto della Divina Commedia

Signor ministro, mi permetto di scriverLe per suggerirLe l’opportunità di ispirare pure la politica del Ministero da Lei diretto, ovvero l’Istruzione — a ogni livello, dalla scuola elementare all’università — e la cultura del nostro Paese, ai criteri che ispirano la proposta della Lega di rivedere l’art. 12 della Costituzione, ridimensionando il Tricolore quale simbolo dell’unità del Paese, affiancandogli bandiere e inni regionali. Programma peraltro moderato, visto che già l’unità regionale assomiglia troppo a quella dell’Italia che si vuole disgregare.

Ci sono le province, i comuni, le città, con i loro gonfaloni e le loro incontaminate identità; ci sono anche i rioni, con le loro osterie e le loro canzonacce, scurrili ma espressione di un’identità ancor più compatta e pura. Penso ad esempio che a Trieste l’Inno di Mameli dovrebbe venir sostituito, anche e soprattutto in occasione di visite ufficiali (ad esempio del presidente del Consiglio o del ministro per la Semplificazione) dall’Inno «No go le ciave del portòn», triestino doc.

Ma bandiere e inni sono soltanto simbo­li, sia pur importanti, validi solo se esprimo­no un’autentica realtà culturale del Paese. È dunque opportuno che il Ministero da Lei diretto si adoperi per promuovere un’istru­zione e una cultura capaci di creare una ve­ra, compatta, pura, identità locale.

La letteratura dovrebbe ad esempio esse­re insegnata soltanto su base regionale: nel Veneto, Dante, Leopardi, Manzoni, Svevo, Verga devono essere assolutamente sostitui­ti dalla conoscenza approfondita del Moro­so de la nona di Giacinto Gallina e questo vale per ogni regione, provincia, comune, frazione e rione. Anche la scienza deve esse­re insegnata secondo questo criterio; l’ope­ra di Galileo, doverosamente obbligatoria nei programmi in vigore in Toscana, deve essere esclusa da quelli vigenti in Lombar­dia e in Sicilia. Tutt’al più la sua fisica po­trebbe costituire materia di studio anche in altre regioni, ma debitamente tradotta; ad esempio, a Udine, nel friulano dei miei avi. Le ronde, costituite notoriamente da pro­fondi studiosi di storia locale, potrebbero essere adibite al controllo e alla requisizio­ne dei libri indebitamente presenti in una provincia, ad esempio eventuali esemplari del Cantico delle creature di San Francesco illecitamente infiltrati in una biblioteca sco­lastica di Alessandria o di Caserta.

Per quel che riguarda la Storia dell’Arte, che Michelangelo e Leonardo se lo tengano i maledetti toscani, noi di Trieste cosa c’en­triamo con il Giudizio Universale? E per la musica, massimo rispetto per Verdi, Mozart o Wagner, che come gli immigrati vanno be­ne a casa loro, ma noi ci riconosciamo di più nella Mula de Parenzo, che «ga messo su botega / de tuto la vendeva / fora che bacalà».

Come ho già detto, non solo l’Italia, ma già la regione, la provincia e il comune rap­presentano una unità coatta e prevaricatri­ce, un brutto retaggio dei giacobini e di quei mazziniani, garibaldini e liberali che hanno fatto l’Italia. Bisogna rivalutare il rio­ne, cellula dell’identità. Io, per esempio, so­no cresciuto nel rione triestino di Via del Ronco e nel quartiere che lo comprende; perché dovrei leggere Saba, che andava inve­ce sempre in Viale XX Settembre o in Via San Nicolò e oltretutto scriveva in italiano? Neanche Giotti e Marin vanno bene, perché è vero che scrivono in dialetto, ma pretendo­no di parlare a tutti; cantano l’amore, la fra­ternità, la luce della sera, l’ombra della mor­te e non «quel buso in mia contrada»; si ri­volgono a tutti — non solo agli italiani, che sarebbe già troppo, ma a tutti. Insomma, so­no rinnegati.

Ma non occorre che indichi a Lei, Signor Ministro, esempi concreti di come meglio distruggere quello che resta dell’unità d’Ita­lia. Finora abbiamo creduto che il senso pro­fondo di quell’unità non fosse in alcuna con­traddizione con l’amore altrettanto profon­do che ognuno di noi porta alla propria cit­tà, al proprio dialetto, parlato ogni giorno ma spontaneamente e senza alcuna posa ideologica che lo falsifica. Proprio chi è pro­fondamente legato alla propria terra natale, alla propria casa, a quel paesaggio in cui da bambino ha scoperto il mondo, si sente pro­fondamente offeso da queste falsificazioni ideologiche che mutilano non solo e non tanto l’Italia, quanto soprattutto i suoi innu­merevoli, diversi e incantevoli volti che con­corrono a formare la sua realtà. Ci riconosce­vamo in quella frase di Dante in cui egli dice che, a furia di bere l’acqua dell’Arno, aveva imparato ad amare fortemente Firenze, ag­giungendo però che la nostra patria è il mondo come per i pesci il mare. Sbagliava? Oggi certo sembrano più attuali altri suoi versi: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!».

Con osservanza

Claudio Magris

Che dire al maestro? Grazie.

(http://www.corriere.it/cultura/09_agosto_07/dante_verga_claudio_magris_2bef846e-8316-11de-ac4b-00144f02aabc.shtml)

Libero fischio in libera piazza

Sandro Pertini, che come presidente fu odiato più dai craxiani che dai fascisti, sosteneva il principio: “Libero fischio in libera piazza”. Precetto quasi banale per una democrazia, dove l’agorà è/dovrebbe essere uno dei luoghi di libero incontro ed espressione. Invece pare di no. Anche i nostri compìti ed educati Dario e P.Luigi hanno “stigmatizzato” il “libero fischi in libera piazza” di ieri a Bologna. Che poi il fischiato di turno-sì perchè a Bologna negli anni hanno fischiato tutti o quasi gli oratori-fosse il gommoso e sdrucciolevole Bondi non aggiunge molto alla questione (salvo l’osservazione banale che nel 1980 il gommoso Bondi era un focoso esponente del PCI). La gente ha fischiato e si può capirla: in Italia le stragi, tutte le stragi, rimangono impunite. Se appena si beccano i colpevoli (Mambro e Fioravanti), così sanzionati dalla giustizia, rimane impossibile trovare i mandanti. Salvo poi rimettere in libertà i colpevoli perchè hanno già saldato-negli anni-i loro conti con la giustizia(Fioravanti). Non dovrebbe fischiare la “gente”? Dovrebbe starsene lì, disciplinata, ad essere offesa, insultata negli affetti, come per Piazza Fontana, Italicus, Ustica, etc.? Solo che ogni eccetera significa morte, dolore e ingiustizia. Non dovrebbe fischiare? Perchè, per non turbare un finto unanimismo (falso perchè l’orrido capezzone-scusate la parolaccia-ha subito sussurrato che la strage non è fascista…) o perchè si vorrebbero che i fischi partissero dalle piazze quando fanno comodo a Dario, P.Luigi, Pippo e altri?

Cosa hanno fatto i governi di centrosinistra per arrivare alla verità, o a quello che rimane di essa? Hanno tolto il segreto di Stato? Niet. Hanno promosso Commissioni d’inchiesta serie? Nisba. Hanno aperto gli archivi perchè gli studiosi possano mettere le mani nei vari verminai italici degli ultimi 60 anni? Non mi risulta. E allora perchè scandalizzarsi dei fischi? Saranno inutili, maleducati, forse infantili, ma cosa rimane alla gente per chiedere giustizia, per superare il disamore che le istituzioni hanno fatto di tutto per meritare?

“Libero fischio in libera piazza” almeno finche ci sarà una libera piazza, prima della definitiva resa alla superdemocrazia mediatica che si profila all’orizzonte.