Avviso ai lettori

copj13.asp.jpegAvviso ai suddetti 25 lettori: se qualcuno fosse interessato a leggersi il classico “Sangue al bosco del Lupo” sulla vicenda di Azor, vicecomandante della 76a Brigata SAP, ucciso dai suoi nel marzo 1945 si faccia vivo. Negli oscuri meandri di Fortezza Bastiani sono emerse alcune copie del saggio che, vista la mia amicizia con l’autore, consiglio vivamente di leggere…

Camilleri legge se stesso e svela l’imbecillità del regime

copj13.jpgDiavolo d’un Camilleri: questa volta se la suona e se la canta. L’ha scritto e lo legge. Il nipote del Negus, il nuovo romanzo della serie storica, da oggi in libreria per Sellerio (pp. 277, euro 13), esce in volume e contemporaneamente in versione audio, un cofanetto di cinque cd con la lettura integrale da parte dell’autore. Cinque ore e 28 minuti in cui il papà di Montalbano si cala con gusto mimetico nel dedalo di linguaggi che danno vita a questo racconto-resoconto costruito per accumulo di materiali disparati, con la tecnica già felicemente sperimentata per La concessione del telefono e La scomparsa di Patò.

Qui la vicenda, che come di consueto trae spunto (non più che uno spunto) da un fatto reale, è ambientata nella Vigàta del 1929, piena èra fascista. Il diciannovenne nipote del Negus d’Etiopia, «che chiamasi Grhane Sollassié Mbssa», dopo essersi diplomato a Palermo ha chiesto di potersi iscrivere alla Regia Scuola Mineraria dell’immaginaria cittadina siciliana. È l’inizio di una grande agitazione, tra Roma e le autorità isolane, perché il regime pensa di potersi servire del ragazzo come utile tramite in una fase di rapporti problematici con Addis Abeba (siamo sul piano inclinato che porterà di lì a cinque anni all’incidente di Ual Ual e quindi alla guerra d’Abissinia). Di conseguenza, a partire dal Regi Ministeri degli Esteri e dell’Interno, si prende ogni precauzione affinché il giovane – il quale, «benché Principe, è pur sempre un negro» – non abbia a soffrire sgarbi, magari attizzati da «qualche losco sovversivo comunista», «sì da far nascere uno scandalo internazionale che la stampa estera, al Fascismo ostile, sarebbe ben lieta di ingigantire a dismisura».

La narrazione si sviluppa attraverso tre «carpette» zeppe di documenti amministrativi, comunicazioni burocratiche e articoli di giornale, intervallate da altrettanti «frammenti di parlate» che registrano in una fantasmagoria di accenti, fissazioni verbali, secondi e terzi fini, le reazioni dei vigatesi all’arrivo dell’ospite ‘bissino (in questa pagina anticipiamo un dialogo registrato nella «camera da letto di casa Butticè, 8/9/1929, ore 22»).

Con Il nipote del Negus Camilleri torna per la terza volta alle grottesche atmosfere del Ventennio – dopo La presa di Macallè e Privo di titolo – per farne vedere in atto, sotto la grancassa ufficiale, tutta la fondamentale imbecillità. Ben lungi dal farsi strumentalizzare, il giovane gaudente capisce al volo la situazione e la volge a proprio vantaggio. Organizza una trama amorosa a quattro, manovra e persuade. E chiede soldi, sempre più soldi – 5 mila lire per scrivere una lettera al Negus, 20 mila per scriverla in un certo modo, 25 mila per recarsi di persona a Roma… Alla fine saranno tutti beffati, tronfi gerarchi e federali, obbedienti zelatori e piccoli intriganti. Il «negro» si è rivelato più intelligente di loro.


Maurizio Assalto

Autore: Andrea Camilleri
Titolo: Il nipote del Negus
Edizioni: Sellerio
Pagine: 277
Prezzo: 13

http://www3.lastampa.it/libri/sezioni/il-libro/articolo/lstp/169102/

Presentazione

Copertina_Il primo.jpgPresentazione All’Arco. La sala piena, la musica di Virgiglio Rovali, suonata da Emanuele Reverberi e Paolo Simonazzi. Un libro è come una freccia: si prepara, si appuntisce, si equilibra e poi si scocca. E il libro va, segue la sua strada, lo leggi e non ti ricordi subito di averle scritte tu quelle righe, di avere pensato tu quella struttura, quell’ordine nel racconto. Il libro va e tu resti solo, a pensare al prossimo libro, alla prossima freccia che, forse, riuscirai a scoccare. O forse no. Questo forse, per quanto mi riguarda, è stato il libro-finora-più personale, quello in cui ho dovuto temperare il mestiere dello storico con la passione della scrittura. Quello in cui ho “incontrato” di più le persone, cercando di ridare loro quello spazio, quella vita che non avevano potuto godere. Piccolissima cosa.

E poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare (F.De Andrè,  Il suonatore Jones).

In fondo è un modo anche questo, come Fortezza Bastiani, per non arrendersi a questa decomposizione trionfante, a questa volgarità lucente a questa completa mancanza di vergogna. Cose così, per i miei 25 lettori. Grazie a tutti.

Ci hanno portato via anche la vergogna (Marco Belpoliti)

Si intitola “Senza vergogna” il nuovo saggio di Marco Belpoliti appena pubblicato da Guanda. Scritto come un racconto, è un’indagine a tutto campo sulla vergogna nell’attuale società. Il libro conduce il lettore dal carcere iracheno di Abu Ghraib, alle camerette degli hikikomori a Tokyo, alla Città del Capo di J. M. Coetzee, alla New York di Andy Warhol, alla Londra multietnica di Salman Rushdie, alla Las Vegas del porno di David Foster Wallace.

senzavergognagrande.jpgIl tempo della vergogna è forse finito? Non passa giorno che uomini politici, affaristi, immobiliaristi, costruttori edili, banchieri, attrici, alti funzionari dello Stato vengano sbugiardati nelle loro affermazioni, messi alla berlina, esposti al pubblico ludibrio, senza che nessuno debba pentirsi di ciò che ha detto o fatto, rassegnare le dimissioni, ritirarsi a vita privata, o chiedere semplicemente scusa. Tutto resta eguale, come se quel sentimento, che per Brunetto Latini era «passione d’animo, e non è virtude», non li pervadesse, sino a spingerli a gesti estremi. Dal Giappone giunge invece la notizia che il conduttore di un treno superveloce, in ritardo di cinque minuti, si è tolto la vita per l’onta. Un gesto eccessivo, probabilmente, ma perfettamente simmetrico a quello che ha invaso la società italiana negli ultimi vent’anni.
La vergogna, sostengono gli psicologi, è un’emozione intrinsecamente sociale e relazionale: si prova davanti a un pubblico più o meno virtuale che ci guarda, ci biasima, ci giudica; ma al tempo stesso la vergogna appare una emozione «focale», cioè selettiva, per cui ci colpisce solo se abbiamo una disposizione a esserne toccati. Per una persona la contestazione d’eccesso di velocità da parte di una pattuglia di vigili urbani è fonte d’indubbia vergogna, per altri è solo una scocciatura. Naturalmente tutto questo dipende dal giudizio che la società in cui si vive attribuisce a quell’infrazione. Se la nostra società non reputa il peculato, l’interesse privato in atto pubblico, il clientelismo, l’affarismo, il conflitto d’interessi, la prostituzione atti morali riprovevoli, allora è evidente che i singoli che v’incorrono difficilmente proveranno vergogna.
Forse per capire se è scomparsa la vergogna nella società italiana basta fare un piccolo esperimento: per quale ragione abbiamo un’immagine negativa di noi stessi? Probabilmente la maggioranza risponderebbe: per la vergogna di non aver successo, di non essere notati, per la terribile vergogna d’essere nessuno. Vige oggi una vergogna di tipo amorale, emozione e sentimento di superficie che non intacca l’immagine profonda di sé. «Il tempo delle figure di merda è finito», dice un amico, rivolto al protagonista del romanzo di Nicolò Ammaniti Che la festa cominci. La frase coglie nel segno e indica il rovesciamento anche di un codice morale. Ma come siamo arrivati a questo? Forse perché le istituzioni deputate ad ammaestrare i singoli circa le norme e i comportamenti sociali, ovvero la scuola, la Chiesa, i partiti tradizionali, i sindacati, sono andate tutte in crisi? Probabilmente sì. Tuttavia il problema è: perché è accaduto?
In un celebre saggio, di cui in questi mesi si è celebrato il trentennale della pubblicazione, La cultura del narcisismo, lo storico americano Christopher Lash metteva in luce il rapporto esistente tra l’affermazione del narcisismo e il dominio delle immagini nell’ambito della vita individuale e collettiva. Viviamo, scriveva, in una sorta di vortice d’immagini e di risonanze che arrestano l’esperienza e la riproducono al rallentatore. In quel periodo, anni 70, si erano diffuse le piccole fotocamere, ma anche i registratori portatili e altri riproduttori, così la vita americana appariva una immensa camera dell’eco, una sala degli specchi. La stessa crescita della televisione rendeva il fenomeno ancora più pervasivo, così che oggi la nostra vita quotidiana è a tal punto mediata dalle immagini elettroniche che nessuno risponde più delle proprie azioni, presi come siamo da questa continua esibizione di noi stessi, e insieme degli altri.

Siamo sempre davanti a una «camera», come scriveva già negli anni 60 Thomas Pynchon, per cui il nostro atteggiamento è quello dello «Smile!». Il sorriso è sempre stampato sul nostro viso, e tutti conoscono perfettamente l’angolazione fotografica, o televisiva, con cui mettere in luce il lato migliore del proprio viso. Andy Warhol, con la sua arte, è stato uno dei profeti più acuti di tutto questo.
La civiltà dell’immagine ha dunque divorato la vergogna? Probabilmente sì. Come scriveva negli anni 50 Günther Anders, il filosofo tedesco riparato in America durante la guerra, la televisione ha la capacità di defraudarci dell’esperienza e della capacità di prendere posizione. Certo, grazie al video il nostro orizzonte si allarga a dismisura, ma solo attraverso le immagini. Con formula icastica il filosofo, che era stato operaio alla Ford e uomo delle pulizie a Hollywood, affermava che chi consuma nella propria stanza ben riscaldata l’immagine di un’esplosione nucleare fornita a domicilio è defraudato della capacità di concepire la cosa stessa, le sue conseguenze concrete, e dunque di prendere posizione.
La moralità è legata strettamente a esperienze dirette che nell’ambito della vita quotidiana vengono sempre più a mancare, con il loro corollario di giudizio che inevitabilmente vi si forma. La barriera del pudore si è abbassata, e non solo quella del pudore sessuale, ma anche del pudore legato allo scambio delle merci. Il sesso stesso, grazie alla pornografia, è sempre più una merce, separato dalla sfera dei sentimenti, e quindi anche dalla vergogna stessa, o almeno quella cosiddetta morale; le merci si sessualizzano grazie alla pubblicità.

La vergogna amorale appare legata non già a norme, bensì a modelli di consumo, a etichette sociali, in particolare al potere personale. La psiche individuale e collettiva reca non i segni della vergogna, bensì quelli di un transitorio senso d’imbarazzo. Chi nel romanzo di Ammaniti pronuncia la frase sulla «figura», un chirurgo, si siede, accende una sigaretta e aggiunge: «Si è estinta come le lucciole». Con buona pace di Pasolini e della sua mutazione antropologica.

da “La Stampa”, 28 aprile 2010

Il primo giorno d’inverno. Cervarolo. La storia e la memoria

Cervarolo. La storia e la memoria

La strage del 20 marzo 1944 insieme a quella della Bettola del 24 giugno rappresentano i due episodi più drammatici in provincia di Reggio Emilia di quella che fu la guerra “auch gegen Frauen und Kindern (anche contro donne e bambini)”  condotta dalle truppe tedesche e fasciste nei venti mesi di occupazione del paese. Due stragi, diverse per dinamiche, autori, tipologia delle vittime e costruzione della memoria , che hanno però lasciato un segno forte nell’identità collettiva.
Ma se la strage di Bettola non poteva far riferimento ad una comunità univocamente individuata (le vittime erano ospiti occasionali della locanda sulla SS63), Cervarolo, invece, è riuscito ad assumere e rielaborare il proprio tragico vissuto non solo con la ricostruzione fisica del paese nel dopoguerra ma anche con la conservazione di una memoria collettiva e di rapporti intracomunitari forti, suggellati ogni anno dall’incontro conviviale che si tiene proprio nello stesso luogo dell’eccidio, quasi a “riconsacrare” quel luogo di morte e riconsegnarlo alla sua funzione storica di luogo di lavoro, d’incontro e di festa, tragicamente infranta in quel lunedì di marzo.
Una memoria forte e una salda consapevolezza, sorretta nei decenni anche dalle amministrazioni pubbliche e dalle associazioni partigiane, ma che non aveva mai potuto trovare il riscontro della giustizia a sanzionare le responsabilità di quel crimine. Prima la concessione dell’amnistia verso i fascisti repubblicani aveva cancellato, già nel 1946, le colpe di quanti, seppur con compiti di supporto e spionaggio, avevano contribuito alla tragedia, poi la scelta, compiuta nel 1960 di relegare in un armadio presso la Procura militare di Roma i 695 fascicoli relativi alle 2273 stragi compiute in Italia da tedeschi e fascisti  ha impedito fino al maggio 1994, quando i fascicoli furono ritrovati ed inviati alle Procure Militari competenti per territorio, di garantire a quella stessa comunità di Cervarolo, fra le tante altre, un percorso di giustizia e di affermazione di una verità giudiziaria .
L’impegno, la capacità e la caparbietà (si consenta il termine) degli inquirenti in questi anni hanno portato all’avvio di questo percorso di giustizia e verità.

Sulla strage, in questi 65 anni, sono stati editi tre testi  ma solo con gli studi di Carlo Gentile  e il saggio di Giovanni Fantozzi  del 2006 è stato possibile inquadrare in maniera compiuta e precisa, ricorrendo finalmente ad inequivoche fonti documentarie tedesche, gli avvenimenti del 20 marzo a Cervarolo nell’ambito delle azioni di strage e rappresaglia condotte dall’esercito tedesco sul nostro Appennino nella primavera del 1944.
Diversamente da quanto verificato dalla storiografia sull’argomento in relazione ad altre stragi compiute da truppe tedesche e fasciste nel 1944, non è si è consolidata, nel caso di Cervarolo, una memoria “divisa”, cioè, una memoria sostanzialmente antipartigiana che identifica nelle azioni armate delle bande partigiane operanti nella zona la causa scatenante della distruzione portata dalle truppe tedesche con il sostegno logistico e operativo dei reparti repubblicani. Al contrario proprio la riapertura delle indagini e l’avvio del processo hanno confermato la partecipazione compatta dei congiunti e discendenti delle vittime alla richiesta di una punizione dei responsabili, i militari tedeschi della Divisione Hermann Göring.

Solo negli ultimi anni, nel clima di un generalizzato e sconclusionato “processo alla Resistenza”  anche la strage di Cervarolo è stata utilizzata strumentalmente in chiave antipartigiana, suggerendo pretestuosamente un legame causa-effetto tra gli avvenimenti seguenti allo scontro di Cerrè Sologno (fucilazione di alcuni prigionieri a Monte Orsaro) e l’azione di rappresaglia del 20 marzo. Un legame che non è possibile rintracciare non solo in nessun documento ufficiale tedesco sull’accaduto, dove l’obiettivo Cervarolo viene identificato in quanto luogo di appoggio e residenza di “ribelli” e l’azione viene decisa nonostante la consapevolezza dell’avvenuto spostamento delle bande partigiane dalla zona (e non viene quasi fatta menzione dell’uccisione di propri militari), ma neppure nella stessa lettera del vescovo Brettoni inviata, quasi un mese dopo, a Papa Pio XII, informandolo dell’accaduto:

Ho chiesto al capo della Provincia e al Comandante della Milizia quale reato sia stato riconosciuto o attribuito al parroco don Pigozzi per scusare un trattamento così inumano, con anche il ludibrio della denudazione. Nulla sono riuscito a conoscere di concreto se non che, essendo Cervarolo tenuto come molto favorevole ai partigiani, i tedeschi hanno compiuto contro di esso una spedizione di rappresaglia, non solo per punire il passato ma per incutere terrore per l’avvenire. Ma il parroco si era tenuto sempre alieno, assolutamente, da qualsiasi favoreggiamento ai partigiani, dai quali, anzi, temeva qualche rappresaglia. La morte del buon parroco don Pigozzi ha destato in tutta la Diocesi, specie nel clero, molto rimpianto .

La lettura dell’accaduto è tutto in quella rappresaglia compiuta “non solo per punire il passato ma per incutere terrore per l’avvenire.”
E’ la stessa vicenda della borgata prima e dopo l’8 settembre a decretarne la condanna alla distruzione. In quel lunedì viene in qualche modo a soluzione il contrasto di lungo periodo fra il villaggio sovversivo di Cervarolo, fatto di operai, contadini migranti e antifascisti e i limitrofi centri fascisti, il capoluogo Villaminozzo ma, soprattutto, Gazzano. Cervarolo viene colpita con una strage insieme punitiva e preventiva, preparata con una sorveglianza attenta prima e poi non solo con l’azione di due spie locali  che informeranno e guideranno i militari, ma anche con l’invio di spie giunte dall’esterno nelle settimane precedenti .
Da questi elementi matura la tragedia di Cervarolo che si compie in una fase in cui si fronteggiavano, sulle opposte sponde, le diverse debolezze delle parti in campo. Da un lato una resistenza ancora embrionale, che chiude la sua prima fase dopo il vittorioso scontro di Cerrè Sologno con il ferimento dei suoi comandanti e con lo sbandamento della banda reggiano-modenese che aveva condotto le azioni delle prime settimane di lotta. Dall’altro la tragica alleanza fra un rinato fascismo, già macchiatosi delle stragi dei Cervi e di don Pasquino Borghi, ma incapace a svolgere i compiti di controllo del territorio (e costretto per questo, nei confronti dell’alleato, a ingigantire, scientemente, il pericolo effettivo dei “ribelli”) e la presenza tedesca ancora vincolata alla prima fase di repressione delle bande, quella che poteva immaginare una loro completa distruzione attraverso attacchi mirati di altissimo impatto svolti da truppe specializzate (come era la Divisione Hermann Göring) nelle politiche di massacro di civili.

“Cervarolo cosa?”

Copertina_Il primo.jpgPremessa

“Cervarolo cosa?” Erano i giorni dell’aprile 2008 quando,  tornato dal mio primo incontro con il Procuratore Militare di La Spezia, incontrai un paio di amici e parlando loro del lavoro di ricerca che stavo conducendo sulla strage, lessi nei loro occhi lo smarrimento di chi non capiva bene quale fosse l’oggetto del mio interesse. Certo sapevano di Cervarolo, almeno dalla toponomastica cittadina, ma per loro, persone pur colte e informate, non si andava oltre quei “martiri” che, appunto, la intitolazione di una grande strada in città indicava.

Forse questo libro nasce in quel momento, nell’accorgermi di come questa “strage dimenticata”  rimanesse quasi ignota agli stessi reggiani, abitanti di un territorio ancora ricco di tanti segni e della memoria di tante ferite ma ormai esposti, soprattutto per le giovani generazioni, al rischio di una perdita del proprio patrimonio storico. Una perdita che diventa, inesorabilmente, la breccia dove poi far passare altre storie, altri valori, quasi sempre in contrasto con quelli che fondano la nostra convivenza civile.

Un libro che nasce anche come riconoscimento della passione civile di un magistrato e del desiderio di verità e di giustizia di un’intera comunità, rappresentata da un’amico che porta il nome di quel ragazzo di diciassette anni caduto quel giorno nell’aia del suo paese.

In questo modo, unendo la storia alla memoria e riproponendo i tanti, sparsi materiali prodotti negli anni sulla vicenda, abbiamo voluto restituire una voce, una identità a quei “martiri” relegati, per troppo tempo, alla locale toponomastica.

Consigli di lettura

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Marco Revelli, Controcanto, Chiarelettere 2010.

“Questo “disagio dell’inciviltà” ci opprime. La svolta c’è già stata: le torture a Bolzaneto, le leggi contro i vagabondi, la caccia ai Rom, la segregazione degli immigrati, i “pacchetti sicurezza” del centrosinistra e la scelta a favore della guerra, la violenza contro i diversi e gli Altri. La “pedagogia del disumano” sembra essere oggi l’unica politica possibile. I diritti conquistati nel Novecento – uguaglianza, lavoro, libertà, cittadinanza – non sono più acquisiti in forma universale ma se mai concessi in modo selettivo. Il “Controcanto” di Revelli racconta la mutazione di questi anni, ponendosi dalla parte “sbagliata”, di chi non ha nessuna garanzia e rappresentanza ed è escluso dal grande gioco della democrazia mediatica, plebiscitaria e disciplinare, dove è assente qualsiasi responsabilità civile e politica. Allora è necessario spezzare questa “rappresentazione” con un gesto estremo di secessione estetica ed etica, prima che politica. Un “controcanto” appunto, con un nuovo coro.”

…a pagina 52
“Bisognerà lavorare a lunga scadenza, senza illusioni, senza speranze né scorciatoie né espedienti tattici. Sapendo il perché, senza più chiedersi
quando.”

…a pagina 62
“Se una resistenza può nascere oggi, credo che non possa che costituirsi su un fronte per così dire impolitico… Occorre mettere insieme chi continua a non voler rinunciare alla propria residua umanità.”

Marco Revelli insegna Scienza della politica e si è occupato prevalentemente dell’analisi dei processi produttivi e delle forme politiche del Novecento. Tra i suoi ultimi libri vanno ricordati: “Fuori luogo. Cronache d aun campo Rom” (Bollati Boringhieri 1999), “Oltre il Novecento” (Einaudi 2001 e 2006), “La politica perduta” (Einaudi 2003), “Sinistra destra. L’identità smarrita” (Laterza 2007 e 2009).

 

9788842092087.jpgLuciano Canfora, L’uso politico dei paradigmi storici, Laterza 2010.

“La storia – si dice – la scrivono i vincitori, ma il problema è capire chi sono i vincitori. Anche se questo è un campo che si presta ai paradossi, è ben vero che molto dipende dalla periodizzazione che si adotta: cioè dal senso che si attribuisce a determinati eventi, dalla lettura che se ne da e ancora una volta dalle ‘analogie diagnostiche’, nonché dalla comparazione e valutazione di differenti, possibili, analogie”. Il nostro giudizio sui fatti storici è determinato dalla nostra comprensione di essi: comprensione che avviene appunto attraverso il tipo di analogia in cui caliamo quei fatti. Quell’analogia in cui riteniamo appropriato pensarli (in quanto ci sembra maggiormente comprensiva di elementi che si ritrovano e si rispecchiano a distanza di tempo e reciprocamente si chiariscono) comporta necessariamente il nostro schierarci rispetto a essi. Dunque le analogie utilizzate nella indagine storica sono sempre soggettive e sempre provvisorie, anche perché passibili di essere soppiantate, nello svolgersi stesso degli eventi. Il tema dell’analogia guida l’interpretazione di Luciano Canfora su due grandi svolte della storia: la rivoluzione francese e la rivoluzione d’ottobre.”

Indice

Prefazione Trent’anni dopo – Nota – I. L’analogia come forma della comprensione storica – II. Macroanalogia, microanalogia, narrazione «orientata» – III. Analogia e politica: l’analogia diagnostica – IV. «Pensare» la Rivoluzione francese: la tolleranza e la virtù – V. Tra i barbari e l’impero: analogia o cliofilia? – VI. Il filantropo e il politico – Appendice – Conclusione L’inquietante mestiere dello storico – Indice dei nomi

Luciano Canfora Luciano Canfora insegna Filologia classica all’Università di Bari. È direttore della rivista “Quaderni di storia” e collabora con il “Corriere della Sera”.

Lo chiamavano Moshè lo Shammash…

Lo chiamavano Moshè lo Shammash*, come se dalla vita non avesse avuto un cognome. Era il factotum di una sinagoga chassidica. Gli ebrei di Sighet-questa piccola città della Transilvania dove ho trascorso la mia infanzia-gli volevano molto bene. era molto povero e viveva miseramente. Di solito gli abitanti della mia città, anche se aiutavano i poveri, non è che li amavano tanto: Moshè lo Shammash faceva eccezione. Non dava fastidio a nessuno, la sua presenza non disturbava nessuno. Era diventato maestro nell’arte di farsi insignificante, di rendersi invisibile.

Fisicamente aveva la goffagine di un clown, e suscitava il sorriso con quella timidità da orfano. Io amavo quesi suoi grandi occhi sognanti perdti nella lontananza. Parlava poco. Cantava, o meglio canticchiava. Le criciole che si potevno cogliere parlavano della sofferenza della Divinità, dell’Esilio della Provvidenza, che, secondo la Cabala, attendeva la Sua liberazione in quella dell’uomo. (segue)

*in ebraico: inserviente

(E.Wiesel, La notte, Giuntina 1980, pag.11)

Domenica 24 gennaio, Sinagoga di via dell’Aquila, ore 15,30 Lettura integrale.

La bolla

copj13.asp.jpegUn consiglio di lettura:

Curzio Maltese, La bolla. La pericolosa fine del sogno berlusconiano, Feltrinelli 2009.

“L’Italia vive da quindici anni in una bolla politica e mediatica, il berlusconismo. Mezza Italia, per la verità: la più felice. chi guarda la bolla da fuori si preoccupa, si incazza, si strazia per capire come un trcco tanto facile abbia stregato milioni di adulti che non volevano crescere. Chi vive dentro la bolla si sente leggero, avvolto, protetto come un bambino, in un mondo pieno di colori, dove sono scomparse le faccende complesse, noiose. E’ ottimista, per lui nessun problema può sfuggire alla più facile delle soluzioni. Osserva quelli in basso e ride, keep it simple, stupid”.

“Chi si illude che tutto si risolverà con la fine di Berlusconi, magari accelerata dagli scandali, dimostra di non capire quanto e come ha agito il berlusconismo in questi anni nella società. Non è stato fascismo, ma ha svuotato la democrazia. In maniera sistematica e diffusa, nei palazzi delle istituzioni come nelle teste dei cittadini. Ha snervato il parlamento, la magistratura, la libera informazione, la scuola. Siamo ridotti come il paese di Macondo, che dovrà un giorno rinominare gli oggetti. Non è stato facile arrivare a tanto e non sarà semplice uscirne”.

1791, come nacque Trachimbrod

In queste giornate di quasi riposo ho letto. Un libro mi è rimasto nel cuore e voglio condividerlo con gli amici di Fortezza Bastiani, si tratta di Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer ora uscito anche in versione economica presso Guanda. E’ un libro non semplice ma prezioso, un passaggio importante da non perdere. Inserisco una schedina di presentazione e un piccolo brano:

Con una vecchia fotografia in mano, un giovane studente, che si chiama Jonathan Safran Foer, visita l’Ucraina per trovare Augustine, la donna che può aver salvato suo nonno dai nazisti. Jonathan è accompagnato nella sua ricerca da un coetaneo ucraino, Alexander Perchov, detto Alex. Alex lavora per l’agenzia di viaggi di famiglia, insieme a suo nonno che, a dispetto di una cecità psicosomatica fa l’autista, e in compagnia di una cagnetta maleodorante, chiamata Sammy Davis Jr Jr, in onore del cantante preferito dal nonno.

UN’ALTRA LOTTERIA. 1791.

Il Riverito Rabbino pagò a metà prezzo tredici uova e una manciata di mirtilli affinché sul bollettino settimanale di Shimon T fosse stampato il seguente annuncio: un irascibile magistrato di Lvov aveva fatto richiesta di un nome per uno shtetl anonimo, da usarsi per nuove carte geografiche e censimenti, tale da non offendere la raffinata suscettibilità della nobiltà ucraina né polacca, né essere di pronuncia troppo difficoltosa: e su ciò si sarebbe dovuto deliberare entro una settimana.
UN VOTO! dichiarò il Riverito Rabbino. LO METTEREMO AI VOTI. Poiché, come una volta aveva elucidato il Venerabile Rabbino, E SE CREDIAMO CHE OGNI EBREO MASCHIO SANO DI MENTE, RIGOROSAMENTE MORALE, AL DI SOPRA DELLA MEDIA, POSSESSORE DI AVERI, ADULTO, OSSERVANTE SIA NATO CON UNA VOCE CHE DEVE ESSERE SENTITA, ALLORA NON LI SENTIREMO TUTTI?
L’indomani mattina un’urna fu collocata fuori dalla Ritta Sinagoga e gli aventi diritto si misero in coda lungo la linea di demarcazione ebreo/umana. Bitzl Bitzl R votò per Gefilteville; il defunto filosofo Pinchas T per Capsula Temporale di Polvere e Fune. Il Riverito Rabbino per SHETL DEI PII RITTISTI E INNOMINABILI SCOMPIGLIATI CON CUI NESSUN EBREO DEGNO DI NOME DOVREBBE AVERE NULLA A CHE FARE A MENO CHE LA SUA IDEA DI VACANZA SIA INFERNO.
Il possidente folle Sofiowka N – avendo tanto tempo e così poco da lavorare – si incaricò di far la guardia alla scatola tutto il pomeriggio per consegnarla poi all’ufficio del magistrato quella sera a Lvov. La mattina era una cosa ufficiale: a ventitre chilometri a sudest di Lvov e a quattro a nord di Kolki, e a cavalcioni del confine polacco-ucraino come un rametto posatosi sul recinto, era situato lo shetl di Sofiowka. Il nuovo nome, con gran smacco di coloro che dovevano sopportarlo, era ufficiale e irrevocabile. Sarebbe rimasto legato allo shtetl fino alla morte.
Inutile dire che nessun abitante di Sofiowka lo chiamò Sofiowka. Fino a quando non gli diedero un nome così spiacevole, nessuno aveva sentito il bisogno di chiamarlo in alcun modo. Ma adesso che c’era di mezzo l’ingiuria – doveva essere omonimo di quell’emerito testa di cazzo – i cittadini avevano un nome da non usare. Alcuni addirittura chiamavano lo
shtetl non-sofiowka e continuarono a chiamarlo così anche quando fu scelto un nuovo nome.
Il riverito Rabbino dichiarò che occorreva un altro voto. IL NOME UFFICIALE NON PUO’ ESSERE CAMBIATO, disse, MA DOBBIAMO AVERE UN NOME RAGIONEVOLE PER I NOSTRI PROPOSITI. Anche se nessuno sapeva esattamente cosa intendesse per propositi – Avevamo dei propositi, prima? Qual è esattamente fra i miei propositi, il mio proposito? – la seconda votazione sembrò ineluttabilmente necessaria. L’urna fu posta davanti alla Ritta Sinagoga e stavolta a sorvegliarla furono le gemelle del Riverito Rabbino.
Il fabbro ferraio artistico Yitzhal W votò per Confine. l’uomo di legge Isaac M votò per Prudenza dello Shetl. Lilla F, discendente del primo Scapigliato a lasciar cadere il libro, convinse le gemelle a lasciargli infilare alla chetichella un bussolotto con scritto Pinchas. (Votarono anche le gemelle: Hannah per Chana e Chana per Hannah.)
Il Riverito Rabbino quella sera contò i bussolotti. Era un pareggio: ciascun nome aveva ricevuto esattamente un voto. Lutsk Minor. RITTONIA. Nuova promessa. Demarcazione. Joshua. Toppa-e-chiave.. Arguendo che il fiasco fosse durato abbastanza, egli decise – partendo dall’idea che in una simile situazione Dio avrebbe fatto così – di prendere dalla scatola un pezzo di carta a caso e chiamare lo shetl con qualunque parola ci fosse stata scritta.
YANKEL HA VINTO ANCORA, pensò annuendo, mentre leggeva quella zampa di gallina che gli era diventata familiare. YANKEL CI HA CHIAMATI TRACHIMBROD.

Nel 2005 è stato realizzato il film omonimo, potete vederlo sul web: http://www.veoh.com/search/videos/q/ogni+cosa+è+illuminata#watch%3Dv15431832FZAQkDgW