Luigino e l’automobile di papà

Luigino e l’automobile di papà

A Luigino piaceva tanto la macchina di papà, la Punto giallina. Ci saliva di nascosto in cortile e poi partiva. Di testa. Con la fantasia, che le chiavi erano su in casa nel borsello di pelle del sig.Antonio. Luigino arrivava appena ai pedali ma non importava: partiva e via, strade e ponti, curve e autostrade, tutto gli scorreva davanti. Girava il volante, le frecce, faceva click-clack, la leva del cambio, un po’ dura e col pomello morbidoso, si spostava qui e là. Prima, seconda, terza. Era un grande pilota, come faceva le curve lui! Era facile, che ci voleva? Bruumm, brummm, ed eccolo a Milano, poi a Roma, Torino e poi Firenze (la geografia non era il suo forte ma in 4a elementare che si può pretendere?). Com’era bravo Luigino in auto! Corse a tutta birra, frenate, sbandate, fantastico come sapesse guidare Luigino già a nove anni!

Un giorno la distrazione del signor Antonio giocò un brutto scherzo a Luigino. Il papà era di fretta, doveva correre in bagno, a volte succede anche ai genitori. Troppe prugne secche la sera prima e così al ritorno dall’ufficio ecco i dolori, il sudore, insomma il bisogno. Entrare in cortile, spegnere il motore, uscire dall’auto e correre in casa fu un tutt’uno. Poi, superato il momento di difficoltà gastrica, ecco riprendere la normalità: a tavola con la famiglia per il normale pranzo con meritato riposino sul divano subito dopo.

Luigino fece quello che faceva sempre: attese che papà si abbioccasse e poi, lesto lesto, scese in cortile, salì in auto, come tante volte aveva fatto. Ma stavolta qualcosa di diverso c’era. Le chiavi erano innestate. Il padre, preso dall’attacco interiore, le aveva lasciate lì per arrivare più rapidamente al bagno di casa sua.

Le chiavi. Luigino non esitò un attimo. Che ci voleva? Tutti guidavano l’auto, le strade erano piene ma lui era un pi-lo-ta, altrochè, un super pi-lo-ta.

Girò la chiavetta e le lucette si accesero. Aveva osservato il padre tante volte e sapeva che col piede sinistro bisognava schiacciare qualcosa là sotto mentre si spostava la leva del cambio. Ma quale pedale? Ce n’erano tre! E poi era ancora piccolo e per arrivare a spingerne uno (quello di destra? sinistra? in mezzo? Erano uguali!) doveva quasi infilarsi sotto al cruscotto e si trovava col naso schiacciato sul volante, anzi proprio nel suo centro dove-quello lo sapeva di sicuro perché l’aveva visto fare tante volte-c’era il clacson che serviva a dire agli altri “scemo”, “spostati”, e altre parole meno educate che suo padre usava spesso guidando.

Si aggrappò al volante e si spinse verso il basso, schiacciò il pedale di sinistra, una due volte, niente, poi quello in mezzo, niente ancora. Solo quello di destra serviva a qualcosa: era il gas! Lo spinse e rimase godersi la lancetta di sinistra che saliva, il rumore tremolante e poi quasi lamentoso del motore su di giri. Poi, per mantenere il piede destro sul pedale e continuare quelle accelerate così divertenti, ormai in bilico sul bordo del sedile si sentì scivolare avanti e si aggrappò a quello che c’era. La mano destra sul pomello morbidoso e il piede sinistro sul pedale che giaceva inutile da quella parte là sotto.

La marcia fu innestata, il motore salì di giri e Luigino, finalmente ripreso l’equilibrio, potè lasciare pian piano, sempre per non perdere l’equilibrio, l’inutile pedale di sinistra.

Si accorse quasi subito che la finestra del signor Alfonso, quella a piano terra, si stava spostando e, oplà, era sparita, poi anche quella dopo sparì e quella dopo ancora.

Luigino era partito sulla macchina del papà.

Per fortuna la divina Provvidenza aveva voluto che il signor Esposito, quello del quarto piano, tornato da poco avesse chiuso il cancello d’ingresso al cortile del palazzo. Così Luigino, quando si trovò l’ostacolo davanti, da pi-lo-ta quale egli indubbiamente era, spostò il suo peso sul volante a destra e la macchina sterzò attorno all’angolo del condominio di via delle Stelle 5. Sempre in precario equilibrio teneva il piede destro sul pedale (l’unico utile), mentre col sinistro aveva finalmente trovato un appoggio ancora più a sinistra del pedale inutile là sotto.

Col motore imballato e la prima marcia ululante girò l’angolo e fu allora che la signora Rosetta del secondo piano, che era uscita sul balconcino per scuotere le briciole dalla tovaglia sulla testa della signora Ines del primo, realizzò il fatto:

-Gigino guida la macchina!

La notizia rimbalzò da un piano all’altro, risuonò di ballatoio in ballatoio, su per la tromba delle scale e giù fino alle cantine.

Nel tempo di un giro dell’auto attorno al palazzo tutti erano affacciati a finestre e balconi. Il povero signor Antonio che, resuscitato dal sonno postprandiale, aveva subito riconosciuto l’ululare  della sua Punto giallina impegnata in quel carosello circolare, riuscì solo a urlare:

-Fermatelo!

Ma la sua invocazione cadde nel vuoto, e non solo perché stava al quarto piano. Di colpo dalle finestre, balconi, tinelli, cucine e soggiorni ecco diffondersi in un crescendo quasi rossiniano una serie prima di sussurri poi di voci, crescenti e più forti e chiare:

-Bravo Luigino!

-E’ giovane: lasciamolo provare!

-Peggio di suo padre non farà!

La maggioranza del condominio si era espressa e, in democrazia, la maggioranza ha sempre ragione.

Il signor Antonio che era corso giù per fermare Luigino, gli urlava a ogni passaggio:

-Fermati! Fermati! Non sai guidare!

Ma le voci, ora divenute quasi un coro l’avevano presto coperto:

-Ecco, ce l’ha con lui!

-Rosichi, eh, perché lui è giovane?

-Lascialo fare, poi vedremo..

Al signor Antonio non rimase altro che sedere sul gradino d’ingresso fra un geranio ingiallito e un oleandro morente e piangere con grande dignità, in silenzio.

Al primo giro Luigino centrò due vasi (di terracotta) di ortensie, la bicicletta della signora Ines e quella della figlia del signor Alfonso che gliela aveva regalata la settimana prima, col paraurti agganciò un sacco dell’immondizia lasciato sul vialetto, lo stracciò e sparse varia roba in giro.

Al secondo giro livellò a zero Pucci il gatto adorato della signora Rosetta che restò con l’ultimo grido di incoraggiamento (“Dai, fagliela vedere a quei vecchi parrucconi!”) strozzato in gola. Staccò di netto il paraurti della Golf del signor Totò, compagno della signora Ines, trascinandoselo dietro fino a colpire lo scooter della nipote che, cadendo, travolse la portiera dell’auto a fianco, quella del geometra del secondo piano.

Al terzo giro la sorte si accanì sulla famiglia Esposito: prima fu la volta di Pixy, il barboncino, travolto ma in modo non definitivo, riportando solo la frattura della zampa posteriore destra e dell’anteriore sinistra. Poi fu la Panda della moglie ad essere centrata nel posteriore con distacco della fanaleria e afflosciamento di uno pneumatico.

Ad ogni giro davanti all’ingresso, dove sedeva in lacrime il padre, Luigino gridava forte per farsi sentire (non era riuscito ad abbassare i finestrini):

-Guarda come vado forte! Ho già la patente! Domani partiamo tutti in vacanza e guido io! Ti compro la macchina nuova! Andiamo tutti al mare!

La storia racconta poi come finì la corsa-direbbe il poeta: alla metà dell’ottavo giro, dopo 5 macchine danneggiate, tre biciclette schiacciate, due scooter da rottamare, 1 gatto morto, 1 cane sciancato, 1 pappagallino fuggito (quello del signore del 3° piano che nel trambusto non aveva richiuso la finestra dopo la sua partecipazione ai cori d’incitamento al pi-lo-ta), undici vasi di fiori distrutti, un pallone da calcio bucato (quello era di Luigino stesso che se l’era dimenticato il pomeriggio precedente), spazzatura sparsa ovunque, per dimostrare che destra e sinistra erano la stessa cosa, all’avvicinarsi dell’ennesimo angolo Luigino sterzò bruscamente a sinistra e, anziché proseguire nel fantastico percorso, la Punto si diresse decisa verso il cancello chiuso contro cui infranse fanaleria, radiatore, sospensioni e cofano, mentre il parabrezza sopravvissuto all’urto fu giustiziato dal crollo del grazioso lampioncino in pesante ferro battuto che sormontava il cancello medesimo.

Fu il silenzio. Ma per poco. Il signor Antonio accorse temendo danni fisici a Luigino ma l’audace giovinezza era stata più forte. Il fanciullo si scosse dalla polvere dell’airbag esploso, scese tranquillo e soddisfatto, guardò trionfante il padre e proclamò:

-Visto che roba? Visto come si fa? Ho vinto il Gran Premio!

++Comprate la maionese Dimaio5!++

Ormai queste prime settimane del governo giallo-nero hanno confermato un elemento importante: a differenza della lega (che rimane il partito politico più vecchio in attività), il M5S NON è un partito (lo dicono loro), ma non è neppure un movimento politico.

M5S è un PRODOTTO di consumo di massa che il proprietario (Casaleggio & A.) gestisce secondo le sue strategie di comunicazione per mantenere sempre alto il gradimento e il consenso (vendita) al proprio pubblico di riferimento che, convinto, compra\crede nel PRODOTTO, esattamente come si comporterebbe con una crema spalmabile o una marca di auto. Fidelizzazione al brand, insomma.
Se notate, le azioni di comunicazione del M5S rispondono a questo: tenere attivo il rapporto vertice-base, proponendo con campagne mirate periodici “attacchi” e “lanci” pubblicitari. Gli esperti della Casaleggio ogni mattina, in riunione, pianificano il calendario degli spot pubblicitari e la loro tempistica. Con sondaggi e analisi sottomano dispongono il calendario d’azione con una media di 2\3 spot a settimana.
In questa ultima-vi ricordate?-si è partiti con 1. la “clamorosa vittoria della democrazia!” (abolizione tassa occupazione suolo pubblico per banchetti…) ora siamo a 2. “L’aereo di Renzi” (chiudiamo il leasing, noi siamo col popolo, blabla..). Una volta preparati gli spot parte la macchina comunicativa: tweet, blog, FB, comunicati, etc….Ogni settimana il suo programma di spot: martedì non ci ricorderemo più dell'”aereo di Renzi”, perché sarà stata lanciata una nuova campagna, magari sui “tacchi della Boschi” o la “barbetta di DelRio”.
Come per un prodotto, non conta nulla se il claim corrisponde o no alla realtà (“comprate la maionese Dimaio5, nuova ricetta, solo con galline allevate a terra…!”), non conta nulla la fondatezza della “clamorosa” notizia.
Conta essere sempre in contatto con il cliente, rassicurarlo (“sì abbiamo promesso mari e monti in campagna elettorale, non lo faremo ma intanto…guarda come siamo bravi, forti e puri…”), non farlo mai sentire solo, perché, solo, potrebbe mettere gli occhi su un’altra maionese e chiedersi “se ora le galline sono allevate a terra, prima dove stavano?”. Il rischio peggiore per un prodotto è di perdere appeal sul mercato e allora non solo si magnifica la maionese Dimaio5 (l’unica, la sola, la migliore..) ma si deve anche dire che le altre maionesi sono schifose, marce, corrotte, che ti fanno venire le verruche e favoriscono l’impotenza, etc…
In uno spot non esiste la categoria “etica”, quello che era criminoso fatto dagli altri (spoilsystem, clientele, etc..) se serve alla campagna promozionale diventa logico, corretto e necessario. Quello che conta e che il cliente continui a spalmare la Dimaio5 convinto di essere migliore proprio perché ha fatto quella scelta. Ogni giorno.
Che poi la Dimaio5 sia una maionese impazzita da tempo non conta nulla, anzi, se si è abili (e la Casaleggio lo è) si può giocare proprio su quella “diversità” come ulteriore elemento a proprio vantaggio.

Quel 16 marzo

Ci sono date che restano fisse nella memoria individuale, legando eventi “storici”a quelli personali del singolo. Questo è, in fondo, un aiuto al nostro ri-memorare: è più facile ricordare dove si era l’11 settembre o il 2 agosto 1980, eventi tragici che restano come relitti affioranti nel deserto di tutto il nostro passato.

Quel giovedì ero a Verona, altra vita, altre persone, altre storie. A 23 anni pensavo avrei fatto l’ingegnere e quello stavo facendo, o meglio facevo quello che oggi chiameremmo tirocinio. Fiera dell’Agricoltura, stand della ditta paterna, giornate a parlare con clienti e curiosi, consigli tecnici, suggerimenti, offerte, prezzi, sconti, qualche scambio scherzoso con colleghi.

Quella mattina doveva essere quella del mio ritorno, avevo un esame (che non avrei mai dato) un paio di settimane dopo. Mattina in fiera e poi alla stazione per rientrare. Tempi diversi, senza cellulari e con i telefoni ancora a care tariffe, dovevano bastare quei cinque minuti alla sera con la morosa, telefonate ellittiche di parole, con il vincolo dell’apparecchio fisso, magari a muro, piazzato, per comodità famigliare, in mezzo alla sala se non proprio in cucina.

Quattro giorni in fiera, tragitti quotidiani albergo-stand. Hotel Mastino, centro città, camera doppia con il socio di mio padre. Tutto regolare anche quel mattino, barba (portavo solo i baffi), colazione (la solita di sempre: pane, burro, marmellata e cappuccino) e poi sulla vecchia Mercedes diesel color aragosta (i diesel di allora, senza turbo, velocità di crociera 110) fino al grande parcheggio. Si entrava prima, verso le nove, apertura dei cancelli al pubblico alle dieci e da quel momento, fino alle cinque, appena e non sempre, il tempo di un panino e una birra, spesso interrotte da un rubizzo coltivatore toscano o da un distinto business man del Medio Oriente. Ormai la procedura era fissata: si arrivava allo stand, si sistemavano le nostre ventiquattrore aziendali (valigette rettangolari e squadrate stile agente segreto), si rifornivano gli espositori di pieghevoli e cataloghi, una spolverata alle macchine in mostra, una controllata al nodo della cravatta ed eccoci pronti alle dieci ad accogliere il flusso dei visitatori.

Quella mattina era, per me, una specie di ultimo giorno di scuola: tornavo a casa, dalla morosa, fuori da quella confusione dove, stavo accorgendomene da un po’, fingevo di essere quello che non ero. Pensavo al prossimo giro in montagna, al Rifugio di Rio Pascolo sotto l’Alpe dove avremmo trovato ancora tanta neve, ai problemi che avevo lasciato solo quattro giorni prima.

Le dieci. Il silenzio dei grandi padiglioni sarebbe stato interrotto dal crescente vociare delle centinaia di persone che sarebbero sciamate di stand in stand, una specie di fiumana umana che dalla campagna si era riversata e concentrata in città per la grande Fiera.

Invece niente. Passavano i minuti e non succedeva niente. Il silenzio rimaneva sordo, appena in sottofondo dagli altoparlanti la solita musichetta e qualche messaggio pubblicitario registrato.

Niente. Dieci e un quarto, dieci e venti. Ricordo che pensai al solito sciopero improvviso che avrebbe magari bloccato anche i treni, e io che dovevo tornare, io che volevo andare nella neve sotto l’Alpe. Guardai Emore, il socio, lui esperto di centinaia di fiere, con la faccia scolpita da contadino di Roncocesi. Nessuna risposta. Scambiai qualche parola con la vicina di stand, una ragazza biondina di una ditta di sistemi di irrigazione a pioggia. Zero.

Eravamo soli, ognuno nel proprio stand, come chiusi in un recinto, in quella scacchiera di piccoli spazi quadrati sotto le arcate grigie di cemento del padiglione.

Poi, prima un sussurro, poi parole più articolate, lontane, echeggiate, più vicine. All’inizio incomprensibili, quasi disarticolate: sequestro, morti, moro, roma, poi un uomo, con un’atroce cravatta a scacchi, di passaggio, si fermò, guardò Emore (dovevano conoscersi, se non altro per il gusto tremendo nell’abbigliamento) e scandì:

“A Roma le bierre hanno rapito Moro e hanno massacrato la sua scorta”.

Guardai Emore. E il mio treno? A quello pensai, ne sono sicuro.

Rapito, morti, bierre. Niente smartphone, niente schermi nel capannone. Ma avevo la mia radiolina! La mia Sony che ascoltavo la sera in camera (allora non c’erano tv come ora) era nella mia ventiquattrore. Averci pensato prima.  Così ci ritrovammo in una decina di persone (gli addetti degli stand limitrofi, io ed Emore) attorno a quella radiolina, posata sulla nostra scrivania, ad ascoltare radiouno, unificata a radiodue, il filodiretto delle notizie. Come Radio Londra ai tempi della guerra.

Così seppi di quel giovedì mattina.

Prima di mezzogiorno Emore mi portò in stazione (Verona, stazione di Porta Nuova) per prendere il treno. Mi salutò dal finestrino abbassato: “Auguri!”. Ne avrei avuto bisogno.

L’8 settembre 1943 non c’ero, ma, entrato in stazione pensai che doveva essere stata una cosa molto simile a quello che stavo vedendo. La voce che annunciava che in seguito allo sciopero generale i treni erano stati sospesi, gente che correva verso i binari, scontrandosi con persone che da quei binari tornava arrabbiata e spaventata, valigie trascinate che urtavano altre valigie in senso opposto (non c’erano trolley allora). Una signora cercava di raccogliere la sua borsa, caduta nella confusione e chiedeva alla figlia: “E adesso?”, non so se pensando alle cose sparse in terra o ai destini del paese. Con la ventiquattrore nella sinistra e la borsa a tracolla con le mie cose, prese già la mattina in hotel, dribblai al meglio quella gente, arrivai al binario per Bologna. Avevo già il biglietto in tasca, andata\ritorno, un rettangolino di cartone color salmone.

La fila dei viaggiatori era parallela ai binari, quasi ordinata, ogni tanto qualcuno si sporgeva per guardava in direzione di un treno che non arrivava. Nessun tabellone luminoso allora, solo la voce che ripeteva che “in seguito allo sciopero generale…”.

Era l’una passata quando, senza nessun annuncio, apparve la motrice e poi il treno intero al suo seguito. Un treno diverso, altri colori, nuovo, quasi luccicante. Sul muso non c’era FS ma DB. Münich-Rom, Monaco-Roma. Si fermò senza stridore. Tutti restammo a guardarlo, era quasi vuoto. Ci volle qualche secondo prima che uno dalla fila, più coraggioso degli altri, prendesse l’iniziativa e abbassasse la maniglia di uno sportello (non c’erano le porte automatiche, allora). Lo stesso ardimentoso salì per primo e noi, in silenzio, dietro di lui. Nessun odore di latrina, vetri appannati, sbalzi enormi di temperatura tra corridoio e scompartimenti. Silenzio, temperatura esatta, sedili che si intuivano accoglienti e puliti. Percorrendo il corridoio guardai fuori, la gente che correva sul marciapiedi entrando e uscendo dalla stazione, era come essere in un acquario al contrario, noi pesci tranquilli e al sicuro ad osservare fuori quell’accalcarsi, correre, di centinaia di persone.

Entrai in uno scompartimento vuoto. Sistemai le mie cose e rimasi lì, il treno chissà quando sarebbe ripartito ma ero al sicuro, comodo, avrei aspettato. Il sedile era morbido, in una simile sistemazione nessuno avrebbe pensato, uso normale sui treni FS, di togliersi le scarpe e stravaccarsi su due sedili. Seduto e composto, capivo che quello era lo stile richiesto anche se ero solo.

Ancora senza nessun segnale premonitore nè stridio di freni il treno si mosse, semplicemente partì. Salvato da un treno tedesco: pensai che l’8 settembre non sarebbe stato così gradito un simile passaggio, ma i tempi erano cambiati. Per fortuna.

Senza nessuna sosta imprevista arrivammo a Bologna. Binario uno. E di nuovo mi trovai nell’effetto acquario come alla partenza ma a parti invertite, ora da quell’acquario dovevo uscire e tornare nella confusione moltiplicata dalla grande stazione in preda al caos che continuava.

Non ricordo come riuscii ad arrivare a Reggio, di certo feci il viaggio-giusto contrappasso per la fortuna germanica appena goduta-su un treno locale, ancora senza scompartimenti, con le tante porte che si aprivano direttamente nel vagone, con le panche di legno verniciato e il riscaldamento bloccato al massimo (ma tanto ogni sportello aveva un finestrino e così si poteva viaggiare nel caldo\freddo\tiepido delle varie combinazioni di getti e spifferi d’aria.

Scesi a Reggio dopo le cinque del pomeriggio, mentre la voce ripeteva ancora che “ in seguito allo sciopero generale..”.

Mi feci tutta la strada verso casa a piedi, ma non pesava, avevo 23 anni e mi aspettava la neve sotto l’Alpe.

 

Minima Elettoralia (7): Per un governo del 4 dicembre (G.Innamorati)

In quest’analisi del dopo voto vorrei spiegare ai lettori di ytali. perché è importante che nasca un governo sostenuto da tutte le forze che hanno sostenuto il “No” al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 (M5s, Lega, Fi, Fdi, LeU), e di come ci sia un legame tra quel voto, l’esito delle urne del 4 marzo scorso e i cinque anni di legislatura appena trascorsi.

Il ragionamento che proporrò richiede che si rammenti rapidamente in premessa che la politica è una scienza esatta, vale a dire che segue regole ben precise. Le prime due regole sono:

  1. La democrazia è quel sistema in cui si può cambiare un governo senza spargimento di sangue, attraverso libere elezioni.
  2. Chi vince le elezioni (per il Parlamento ma anche all’interno di un qualsiasi organismo di rappresentanza) ha l’onere di governare; chi perde sta all’opposizione, controlla chi governa e si prepara per essere competitivo alle successive elezioni.

Queste regole non vengono seguite o quando si scrivono le fiction televisive (tipo House of Cards) o quando si mira a far saltare le stesse regole e quindi la democrazia. Non a caso le fiction in cui le trame oscure sovvertono il voto democratico, sono amate da chi mette in discussione la democrazia liberale, affermando che essa non è “vera democrazia”.

Ma torniamo all’attualità. Tutti i commentatori hanno affermato che il 4 marzo ci sono stati due vincitori, M5s e il centrodestra/La Lega. Affermazione corretta anche se andrà precisata.

Tutti sono concordi nell’affermare che lo sconfitto è uno solo, il Pd, ed eventualmente i suoi alleati della coalizione. Gli elettori che hanno barrato il simbolo del Pd, in effetti, sono stati solo 6.134.727 su un totale di oltre 32,7 milioni, pari solo al 18,72 per cento. Questo significa che l’81,38 per cento del corpo elettorale ha bocciato i cinque anni di governo a guida Pd e ha deciso di relegarlo all’opposizione. Le percentuali crescono se consideriamo gli astenuti (il corpo elettorale è di 46 milioni di cittadini): anche essi non hanno ritenuto di doversi recare alle urne per asseverare l’operato dei governi Dem.

Insomma cercare di trascinare il Pd dentro un governo a guida M5s (come stanno facendo molti quotidiani main stream) è una sfida al corpo elettorale, una provocazione. Lunedì 5 marzo Matteo Renzi, nel motivare il suo “no” a questa ipotesi (“niente inciuci e niente caminetti”) ha affermato:

“Ci hanno detto che siamo corrotti, mafiosi e addirittura che abbiamo le mani sporche di sangue, ed ora chiedono i nostri voti?.”

Al di là della vena polemica di Renzi, quest’affermazione coglie un punto centrale. Queste accuse al Pd e ai governi che esso ha guidato sono state effettivamente pronunciate da Luigi Di Maio e Matteo Salvini, e gli elettori votando i loro partiti e movimenti hanno asseverato tali accuse, le hanno condivise, le hanno fatte proprie. Cosa proverebbero se oggi vedessero al governo coloro che essi ritengono “corrotti e mafiosi”. Ripeto, sarebbe una provocazione. E visto che non si sta scrivendo una fiction, si metterebbero in discussione le regole della democrazia.

Guardiamo ora i vincitori. M5s ha compiuto un importante cammino in questi cinque anni in direzione di una sua istituzionalizzazione; è passato dal “non ci alleeremo mai con nessuno” di Beppe Grillo al “siamo pronti a dialogare con tutti e ad allearci con tutti” di Di Maio, posizione che nasce dalla sua centralità elettorale, dato che il 32 per cento dei voti ne fa il primo partito. Ha compiuto lo stesso cammino di Forza Italia che nel 1994 nasceva come movimento antisistema e rivoluzionario (la famosa “rivoluzione liberale” di Berlusconi) e negli anni ha saputo modificarsi divenendo anzi l’interprete del sistema. E come Berlusconi nel corso degli anni, anche Di Maio ha saputo intelligentemente utilizzare il doppio registro comunicativo: quello movimentista indirizzato ai militanti e quello istituzionale rivolto alle realtà di sistema del paese (vedi incontri con le aziende di lobbying, o con gli investitori italiani e stranieri, con le autorità ecclesiastiche, ecc).

Anche l’altro vincitore, il centrodestra, è profondamente cambiato. Innanzi tutto la leadership della coalizione non è più di Fi e di Berlusconi, bensì della Lega. Ma anche tale osservazione va ulteriormente precisata: la Lega di Salvini non è quella di Bossi, che era un movimento trasversale e in certi aspetti centrista (“una costola della sinistra” la definì Massimo D’Alema). Il Carroccio di Salvini è un soggetto di destra-destra: via i negri dalle nostre città; in casa si deve poter sparare a qualsiasi estraneo, anche se disarmato e di spalle; ecc.

Tanto è vero che la Lega ha rubato molti elettori a Fratelli d’Italia, superandolo persino a Roma, finora feudo di Giorgia Meloni nell’elettorato di destra. Più che di centrodestra dovremmo parlare di destracentro, se non fosse una parola inconsueta. È interessante ricordare quando avviene la svolta “radicale” di Salvini e la conseguente scalata a Fi e alla leadership del centrodestra.

Siamo all’indomani delle elezioni europee del maggio 2014, quelle in cui il Pd aveva ottenuto il 41 per cento e Fi solo il 17 per cento il che mostrava come il “Patto del Nazareno” drenava voti moderati da Fi al Pd. Nella commissione affari costituzionali del Senato era stato approvato il testo della riforma costituzionale, che era stato votato non solo dal centrosinistra e da Fi, ma anche dalla Lega, la quale esprimeva il correlatore, Roberto Calderoli.

Ebbene nei giorni che trascorrono prima dell’approdo della riforma in aula, Salvini rompe proprio su quel testo facendo votare “no” ai suoi senatori, che da quel momento fanno asse con M5s. Inizia così un progressivo spostamento a destra della Lega che porta Silvio Berlusconi a inseguire l’alleato sulle sue posizioni. Lo schiacciamento a destra di Berlusconi ha raggiunto il suo culmine nell’ultima campagna elettorale, nella quale l’ex Cavaliere ha proposto il rimpatrio di seicentomila immigrati irregolari. Parole a cui non credeva palesemente neppure lui che, da Presidente del consiglio, ha sagacemente varato due sanatorie, nel 2002 (decreto 195/2002) e nel 2009 (decreto 78/2009) per complessivi un milione di immigrati regolarizzati, misura rivendicata da Berlusconi nella sua propaganda elettorale.

Come si ricorderà il patto del Nazareno si rompe il 30 gennaio 2015 sull’elezione del Presidente della repubblica. Da allora Fi si allinea a livello parlamentare a Lega, Fdi e M5s non solo nel votare contro la riforma costituzionale e l’Italicum (appena votato in Senato tre giorni prima), ma anche su tutte le altre riforme promosse dal governo Renzi e poi da quello Gentiloni. M5s, Fi, Lega, Fdi hanno votato compattamente insieme contro la riforma del mercato del lavoro, la riforma Madia della pubblica amministrazione, la riforma del terzo settore, le unioni civili, il testamento biologico, la riforma delle Banche popolari, ecc, oltre l’Italicum nel successivo passaggio alla Camera.

E compattamente hanno votato contro le proposte del governo su altre tematiche: ne accenno solo due, quella dei crediti deteriorati delle banche e quella dell’immigrazione. Sulle banche M5s, Fi, Lega e Fdi hanno votato contro la creazione del fondo Atlante per la gestione degli Npl; e in tema di immigrazione il 4 luglio 2017 hanno votato contro il mandato al governo di chiedere al vertice europeo di Tallin il cambio delle regole di Triton, in modo tale che le navi che salvavano i migranti nel Mediterraneo potessero approdare non solo in Italia e Malta, ma anche nei porti di altre nazioni Ue. Per il vero i quattro partiti hanno sempre votato contro a tutti i mandati ai governi Pd prima dei semestrali vertici Ue.

Insomma il “no” al referendum costituzionale del 4 dicembre da parte di M5s, Lega, Fi e Fdi è stato l’ultimo di una serie compatta di altri “no” a misure ed atti del governo del Pd.

D’altra parte anche dalla società civile che si è espressa per il “no” al referendum costituzionale sono arrivate pesanti critiche anche alle altre riforme del governo Renzi, in particolare la riforma del mercato del lavoro e della scuola. Penso ad esempio a molti professori del Comitato del No guidato dal professor Alessandro Paci.

Tanto i partiti presenti in Parlamento quanto i professori, hanno sempre detto che il “No” al referendum costituzionale sintetizzava la loro contrarietà a tutta l’azione del governo a guida Pd-Renzi. “Mandiamo il governo Renzi a casa” è stato il mantra ripetuto in quella campagna da Salvini, Di Maio, Brunetta, Berlusconi, Meloni e da molti professori. Il voto anticipato ci stava tutto (come d’altra parte nel 2011) anche alla luce del fatto che nel 2018 la Bce avrebbe interrotto il QE a protezione dei nostri titoli di debito pubblico.

La bocciatura della riforma costituzionale ha fatto cadere anche il meccanismo del ballottaggio previsto dall’Italicum (così la sentenza 35/2017 della Corte costituzionale), l’unico che avrebbe permesso di avere un vincitore, tra M5s e il destracentro nelle attuali elezioni. Ma con il senno del poi, meglio così. Alle elezioni del 4 marzo, infatti, ci sono stati due vincitori in due parti ben precise del Paese. Al Sud M5s ha trionfato con una percentuale del quaranta per cento, facendo del Mezzogiorno un monocolore pentastellato. Il Nord, al contrario, non solo ha votato in massa per la nuova coalizione di Salvini, ma ha sancito la sua personale leadership barrando il simbolo della Lega che, in alcune province ha doppiato Fi.

Insomma abbiamo due vincitori perché abbiamo due Italie. Forse un ballottaggio le avrebbe messe l’una contro l’altra. Ma tale contrapposizione è un motivo in più per dar vita a un governo di tutte le forze che hanno vinto il referendum del 4 dicembre. Avrebbero la storica opportunità di unificare queste due Italie.

Il ritorno al proporzionale è stato sancito dall’elettorato italiano con il “no” del 4 dicembre, e il proporzionale implica un ritorno all’accordo post elettorale tra partiti diversi tra loro.

Il mandato a M5s, Lega, Fi e Fdi a trattare tra loro lo hanno ricevuto il 4 dicembre 2016, per di più su loro richiesta. A tale governo del 4 dicembre dovrebbero dare il loro contributo anche le altre forze che si sono battute per il “No” al referendum, da LeU di Pietro Grasso ai professori guidati da Alessandro Paci. Le diverse riforme varate dai governi a guida Pd avevano una loro coerenza interna ed erano collegate con la riforma costituzionale, nell’ottica della democrazia federale e dell’alternanza.

È giusto che si facciano avanti tutte le altre forze con il loro progetto di una democrazia sovranista e proporzionale.

Insomma il governo dell’81,32 per cento degli elettori, in base alla regola numero uno della politica che abbiamo visto all’inizio. A meno che non vogliano scrivere una fiction stile House of Cards o non vogliano portarci fuori dal perimetro di una democrazia liberale.

https://ytali.com/2018/03/09/governo-del-4-dicembre/

Minima Elettoralia (6): Un po’ di risposte di F.Costa dopo “Guardiamoci negli occhi”

Raccolgo un po’ delle obiezioni più diffuse e serie al mio post di ieri e cerco di rispondere. La versione brevissima la trovate nelle mie Storie di Instagram, se andate di fretta. La versione testuale di seguito.

Facendo così il PD non imparerà mai a essere migliore
Me lo hanno scritto in molti, la migliore esposizione di questo argomento è quella di Luca Sofri e non solo perché è il mio capo e maestro.

Non votare il Partito Democratico non significa “fare il gioco dei fascisti, o dei grillini”: significa dire “fate le cose meglio e ne riparliamo”; significa dire “il mio voto non è gratis”; significa dire “not in my name”; significa dire “se volevi convincermi candidavi Luigi Manconi invece di Tommaso Cerno” (non ho niente contro Tommaso Cerno, ma ce l’ho con un partito che decide i candidati senza nessuna ragione comprensibile); significa dire “devi smettere di approfittartene, e piantarla con questo ricattino”. Significa dare un valore lungimirante e costruttivo all’astensione, o al voto per candidati dignitosissimi fuori dal PD.
Da zero a dieci tutti gli altri sono partiti tra il 2 e il 4: bocciati senza dubbio. Il PD è tra il 5 e il 6: in questi casi certi professori promuovono “per incoraggiamento”, certi bocciano sperando che impari qualcosa e faccia meglio l’anno prossimo. Hanno buone ragioni entrambi: quando si tratta di ragazzi al liceo io di solito sto coi primi, quando si tratta di gente che ci marcia e destini di tutti quanti sono ogni volta molto indeciso.

È tutto vero ed è questa l’obiezione per me più convincente al mio post, tanto da essere anche io ancora combattuto: e sono sempre aperto a cambiare idea. L’argomento con cui mi rispondo è che mentre noi decidiamo che la cosa più importante in base a cui orientare il nostro voto a queste elezioni, queste con i matti al 50 per cento dei sondaggi, sia dare una meritata lezione al Partito Democratico, qualcuno nei prossimi anni se la vedrà molto male. Questo è ricattatorio!, mi ha scritto qualcuno. E certo che lo è. Ma non è mica un ricatto che vi sto facendo io. È come quella vecchia storia per cui non si dovrebbe trattare con i terroristi. Certo che non si dovrebbe. Però l’ostaggio c’è. L’ostaggio siamo noi, anzi: soprattutto i più deboli di noi. Qualcuno ci andrà di mezzo, sempre che il PD apprenda la lezione. Siate ben consapevoli del costo di questa scelta “punitiva” contro l’unico partito normale. Se no qualcuno ci andrà di mezzo per niente. Ma su questo torno dopo.

Sempre Luca Sofri:

Votare il Partito Democratico – il più presentabile partito che c’è, quello di maggiore qualità politica e umana, indiscutibilmente – oggi significa dire “ci sono una serie di disdicevoli cazzate che avete fatto, e una quota imbarazzante di persone mediocri a cui affidate ruoli importanti, con conseguenze pessime, ma io vi voto lo stesso per allarme sulle alternative e voi continuerete a fare le stesse cazzate, ad affidare ruoli importanti a persone mediocri, con conseguenze pessime”. Sono decenni che si vendono quell’allarme e oggi “il ritorno del fascismo” – fondato o no che sia – è un benvenuto fattore di consenso, al PD. Ma si può costruire un progetto politico sulla speranza che ci siano pericoli da scampare?

Molte cose buone in realtà sono state costruite sulla premessa dei pericoli da scampare: l’Unione Europea e le Nazioni Unite, per dirne di grandissime. Poi ripeto, l’obiezione mi sembra molto razionale: ma prendete Roma. A Roma gli elettori hanno voluto dare una bella lezione al PD alle ultime comunali, col risultato di… far restare il PD romano quello che era prima. I partiti umiliati e sconfitti si rimpiccioliscono: fanno scappare i benintenzionati e fanno restare gli altri.

Il PD ha avuto un congresso pochi mesi fa, quello era il momento di cambiarlo. Renzi, sbagliando, ha voluto ricandidarsi; i suoi avversari erano oggettivamente poca cosa; quelli a cui non piace Renzi non sono stati abbastanza e non sono stati abbastanza bravi. Se ne parla al prossimo congresso, di cambiare il PD: non alle prossime elezioni. Ah, ovviamente tutto questo è possibile solo col PD: gli altri grandi partiti italiani invece hanno un padrone inamovibile. Tutto questo però per dire anche un’altra cosa, e cioè che il PD non può lamentarsi se qualcuno non lo voterà in base agli argomenti sensati che porta Sofri: si è preparato questo piatto, a partire dai propri iscritti e militanti, e ora dovrà mangiarlo.

Voglio votare una vera sinistra!
Eh, mettiti in coda. Anche io. Però, due cose.

Primo: ognuno di noi ha in testa dieci, venti potenziali criteri in base ai quali votare, e dovrà necessariamente fare un compromesso e scegliere quello che conta di più. Chi pensa che oggi la priorità a queste elezioni sia votare una “vera sinistra” fa bene a votare LEU o Potere al Popolo o quello che vuole, se quella è la “vera sinistra” che immagina. Dico sul serio. Nessuna possibilità di governare, in un caso poche possibilità anche di andare in Parlamento, ma col proporzionale ogni seggio conta. Io mi guardo intorno, nel paese che abitiamo, e non penso che questa sia la priorità, onestamente: non quando – di nuovo – esiste la concretissima possibilità di un governo Salvini o Di Maio o addirittura Salvini-Di Maio. Mi posso sbagliare, ovviamente.

Secondo: quale sarebbe questa “vera sinistra”? Io credo che in Grecia, nelle condizioni della Grecia, voterei Syriza. E non solo perché gli altri partiti sono a vario titolo dei truffatori, ma anche perché Syriza è un partito vero, con un leader vero, un progetto vero, e idee politiche legate alla realtà. Ma Potere al Popolo non esiste (mi dispiace ma è così) e LEU non è un partito vero e non ha un leader vero. È un cartello tra più partiti che non hanno messo in comune niente, con un leader scelto da nessuno e per questo privo di qualsiasi potere e mandato, che sarà archiviato il 5 marzo. Non ha nessuna forza rinnovatrice, nessuna “missione”, nessun progetto a parte dire “esistiamo” e marcare un territorio, se non per poche persone già schiacciate da Bersani, D’Alema, Speranza e gli altri maggiorenti (lo dicono loro stessi).

Io vorrei avere un’alternativa al PD, questo era il tema del mio post, ma questa sarebbe la “vera sinistra” che dovrei votare prioritariamente su qualsiasi altro criterio per scegliere chi votare, a queste elezioni qui con i partiti dei matti usciti da Black Mirror? Per me no, poi liberi tutti.

Ma dobbiamo votare il meno peggio per salvare la democrazia tutte le volte?!
Hai ragione. Per vent’anni in Italia la sinistra, il centrosinistra e la destra antiberlusconiana – tipo Marco Travaglio e co – hanno colpevolmente abusato di parole come “regime”, “deriva putiniana”, “dittatura”, “democrazia in pericolo”, eccetera. Era una cazzata. L’ho anche scritto all’epocae più volteper fortuna, se no oggi mi dareste dell’opportunista. A forza di gridare per vent’anni “al lupo, al lupo”, poi arriva il lupo e non ce ne accorgiamo. Questa è la volta in cui siamo nella merda, non le altre. Questa in cui Movimento 5 Stelle, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno il 50 per cento nei sondaggi.

Non è anche colpa del PD se tante persone vogliono votare questi matti?
Sicuramente lo è. Ho scritto anche nel post di ieri che Renzi dal 4 dicembre non ne ha più imbroccata una. Non è il principale responsabile, però, secondo me: il principale è la stampa. Me compreso in quanto parte della categoria. La stampa che per allarmismo e sensazionalismo e due copie o due clic in più racconta ogni giorno, ogni minuto, su giornali e telegiornali, un paese in cui è sempre più pericoloso camminare per strada nonostante i reati scendano di anno in anno. Una stampa a cui non fa gioco dire che siamo ancora messi piuttosto male ma tutti i parametri economici sono in miglioramento costante ormai da un bel po’ di tempo. Una stampa che spara senza verificare, che urla, che disinforma, che in certi casi tifa attivamente caos e baratro.

Sei un orrendo privilegiato, lo ammetti anche tu!
In questi casi si fa riferimento a questo passaggio del mio post:

Io vivo in una delle città più prospere e meglio amministrate d’Italia, sono un uomo, ho la cittadinanza italiana, sono relativamente giovane, sono normodotato, sono autosufficiente, sono eterosessuale, sono bianco, non ho figli, ho un lavoro stabile e che mi piace e uno stipendio che mi permette di vivere serenamente. Sono letteralmente il ritratto del privilegio, in un posto come l’Italia del 2018. Non sono al riparo da tutto – uso le strade e gli ospedali che usiamo tutti, pago le tasse, mi affido alle forze dell’ordine per la mia sicurezza, eccetera – ma comunque vada me la caverò. Posso permettermi di votare per “dare un segnale” o perché Renzi mi sta sul cazzo, posso votare per contestare una sola questione – che sia il caso Regeni o la gestione dei flussi migratori – infischiandomene del fatto che il ministro degli Interni Matteo Salvini e quello degli Esteri Carlo Sibilia proprio su quelle questioni avrebbero fatto e faranno molto peggio. Io lo posso fare, starò bene comunque, anzi, magari mi tolgo pure una soddisfazione. Se però siete donne, studenti, stranieri, genitori, malati, disoccupati, precari, disabili, omosessuali, non bianchi, se non potete vaccinarvi, o se avete a cuore la serenità di almeno una di queste categorie di persone, io ve lo dico, guardiamoci negli occhi: forse non ve lo potete permettere, di giocare col fuoco.

Magari ho torto sull’argomento generale, ma è chiaro cosa intendo dire qui, no? Intendo che in un posto come l’Italia del 2018 sono indubbiamente un privilegiato pur facendo una vita assolutamente normale. Lo sono soltanto per il fatto che ho un lavoro normale e non faccio parte per mia fortuna di un gruppo sociale discriminato o perseguitato o svantaggiato. Per il resto non ho grandi fortune né le erediterò, non ho parenti potenti o famosi, ho un lavoro normale, non possiedo una casa né una macchina. Eccetera. Sono quello in coda dietro di voi al supermercato. Non trattatemi come Flavio Briatore, grazie.

Ti sei schierato, non mi fido più
Tutti i giornalisti hanno delle idee, tutti. La differenza è tra chi le espone, argomentandole e discutendone con i lettori, e chi no; e tra chi quelle idee ce le ha o le cambia per opportunismo. Io cerco di fare la prima cosa. Potete non essere d’accordo con me, potete pensare che stia sbagliando tutto, ma vi garantisco che sbaglio da solo: non datemi del venduto, dai.

Minima Elettoralia (5): Guardiamoci negli occhi (Francesco Costa)

La scelta in vista delle elezioni politiche del 4 marzo è purtroppo tanto semplice quanto deprimente. Qualunque analisi delle opzioni a disposizione, infatti, non può prescindere da un triste dato di fatto che non mi sembra evidenziato a sufficienza da opinionisti, esperti e addetti ai lavori, che invece nella grandissima parte dei casi stanno facendo finta di raccontare un’elezione normale, una corsa dei cavalli come tutte le altre. Cosa che non è.

Guardiamoci negli occhi. Che siate di destra o di sinistra, che vi piaccia o non vi piaccia il governo Gentiloni, se siete un minimo seri e informati, e avete un po’ di onestà intellettuale, sapete che oggi in Italia c’è purtroppo un solo grande partito in grado di farsi carico dell’immane responsabilità di governare la settima economia del mondo ed è il Partito Democratico. Lo dico senza nessun orgoglio e anzi con grande amarezza e preoccupazione. Vorrei che non fosse così, sarebbe meglio per tutti PD compreso, ma è così. Il re è nudo. Se avete anche solo un briciolo di percezione di cosa voglia dire governare un paese – prima ancora di capire se governarlo bene o male: governarlo – e farne gli interessi e rappresentarlo nel mondo, se conoscete anche solo un po’ cosa deve e non deve fare un governo, cosa può e cosa non può fare, cosa devono essere in grado di fare le persone che ne fanno parte, lo sapete anche voi: e non è una cosa bella.

Potete detestare Matteo Renzi, potete pensare che l’attuale classe dirigente del Partito Democratico sia troppo centrista oppure schiava dei soliti sindacati (sono diffusissime entrambe queste critiche), che sia troppo dura o troppo morbida con i migranti (sono diffusissime entrambe queste critiche), che gli 80 euro siano stati un modo balordo di spendere i soldi, che la Buona scuola sia un fallimento, eccetera. Non sto dicendo che non abbiate ragione, magari avete ragione, non è questo il punto: non voglio contestare queste idee. Il punto è che meritereste di trovare sulla scheda elettorale delle plausibili opzioni alternative al Partito Democratico: meritereste di avere la possibilità di scegliere un’altra strada, non fosse altro che per il sano principio dell’alternanza, senza per questo temere tragedie. Eppure – guardiamoci negli occhi – sapete anche voi che oggi l’unico governo da paese normale che queste elezioni possano esprimere, l’unica classe dirigente da paese normale che questo paese possieda, sia in questo momento quella del Partito Democratico e dei suoi alleati. Gentiloni, Padoan, Bonino, Calenda, Bellanova, Della Vedova, Boschi, Scalfarotto, Minniti, Delrio, Franceschini, eccetera. Non è la classe dirigente migliore possibile. Orrore, sto allora forse dicendo che è la meno peggio? No, magari. Sto dicendo che è l’unica.

La coalizione di centrodestra non è una coalizione, non ha un leader e non ha progetti comuni a parte qualche vuoto slogan. È enormemente più pericolosa e farsesca di quella che tra il 2008 e il 2013 ha letteralmente trascinato il paese a un passo dalla bancarotta e dal completo commissariamento in stile Grecia, cioè a un passo dal momento in cui forse i soldi che avete in banca non valgono più niente, per capirci. Il tutto mentre il suo capo, che incidentalmente era anche capo del governo dell’Italia, veniva processato per frode fiscale e prostituzione minorile e il Parlamento votava fingendo di credere che una sua giovane amica, diciamo così, fosse la nipote di Hosni Mubarak. È successa veramente quella cosa lì, sapete? Ci si mette un attimo a tornarci. Ci si mette un attimo. E lo ripeto: questa coalizione di centrodestra è enormemente più pericolosa di quella che ha già distrutto il paese una volta. Oggi non ha più quel leader, che è suonato dagli anni e ineleggibile, e non ne ha nessun altro; ed è composta per metà da due partiti di estrema destra la cui linea politica è un miscuglio di razzismo, populismo da bar e teorie del complotto.

L’attuale Lega è vista con preoccupazione e fastidio persino da gente come Roberto Maroni e Luca Zaia, che hanno almeno un’idea di cosa voglia dire la responsabilità di governare qualcosa; quando invece basta ascoltare Matteo Salvini parlare di dazi per rendersi conto che proprio non sa quello che dice. Fratelli d’Italia è una ridicola e inquietante parodia del Movimento Sociale Italiano, perché dopo Fiuggi persino dentro Alleanza Nazionale avrebbero giudicato come uno sciroccato – come minimo – chi avesse aderito a una teoria del complotto sui ricchi banchieri ebrei che vogliono distruggere l’Europa contaminandone la razza o fosse andato a fare sceneggiate da Bagaglino davanti al Museo Egizio di Torino.

Forza Italia non esiste. È un involucro con un leader che non è riconosciuto come tale da nessuno – nemmeno dal gruppetto di fedelissimi che gli fanno da badanti per affetto, per antica stima o per opportunismo – che unisce pezzetti di una logora classe dirigente guidata solo da interessi individuali, pronta a sparpagliarsi il giorno dopo il voto in nome della propria personale sopravvivenza, come già accaduto dopo le elezioni politiche del 2013. Gli unici che dentro Forza Italia hanno un’ambizione politica vera – e in quanto tale rispettabile – sono quelli che vogliono fare le scarpe a Silvio Berlusconi, che saranno quindi i maggiori agenti di caos dal 5 marzo in poi. Ma attenzione, breaking news: non si possono fare le scarpe a Silvio Berlusconi, perché Forza Italia è di sua proprietà. Non è un partito vero. Dopo il voto si atomizzerà.

Poi c’è il Movimento 5 Stelle. Di nuovo, guardiamoci negli occhi. Trattare il Movimento 5 Stelle come un’opzione politica normale e non come una grave e pericolosa minaccia per la collettività è davvero colpevole: ed è tanto più colpevole quanto è alto e illustre ogni singolo pulpito che in questi anni ha contribuito a lisciargli il pelo e giocare col baratro per guadagnare pubblico o togliersi qualche personale sassolino contro Renzi, col risultato di sdoganare una classe dirigente della quale la cosa migliore che si possa dire – la cosa migliore – è che sia tragicamente impreparata, a cominciare dal suo leader che vorrebbe governare l’Italia avendo nel curriculum l’esperienza di webmaster e steward allo stadio. La cosa peggiore: un gruppetto di buoni a nulla – pochi in buona fede, altri in malafede – che mente in continuazione, che usa la completa incompetenza come bandiera, che ottiene consensi soffiando sui nostri peggiori istinti, che sta facendo disastri ovunque governi, che non è riuscito nemmeno a fare delle liste elettorali e un programma senza commettere errori da dilettanti, che non saprebbe amministrare un condominio ed è direttamente comandato da una società di consulenza. Dai, di cosa stiamo parlando.

Non mi dilungo su Liberi e Uguali solo perché, al contrario del centrodestra e del Movimento 5 Stelle, non ha nessuna speranza di arrivare al governo, per quanto possa comunque fare danni. Dentro e fuori Liberi e Uguali anche i pochi benintenzionati sanno che fine farà questo cartello elettorale dal 5 marzo: la fine che ha fatto L’Altra Europa con Tsipras allo scorso giro, e Rivoluzione Civile a quello prima, e la Sinistra Arcobaleno a quello prima ancora. Smetterà di esistere, si sbriciolerà nelle mille sigle che l’hanno costruito allo scopo di farsi riportare in Parlamento. L’avranno sfangata, ora ognuno per sé e dio per tutti, benintenzionati e non: tra cinque anni ne riparliamo. Basterà trovare un altro nome, un altro logo e un altro estemporaneo leader da usare per tre mesi, vedremo quale innocuo ex magistrato ci sarà sulla piazza.

Ora, credetemi. Scrivo tutto questo senza un minimo di soddisfazione. Nessuna. Vorrei che ci fosse in Italia un normale partito di sinistra, come Syriza o come la Linke, e invece ci ritroviamo con questo sgorbietto utile a far fare un ultimo giro di giostra a una classe dirigente arrivata al capolinea più o meno nel 2011. Vorrei che ci fosse in Italia un vero partito conservatore, come la CDU o come il Partido Popular, e invece ci ritroviamo con una cosa a metà tra Moira Orfei e Alba Dorata. Tutti i paesi europei fanno i conti con movimenti estremisti, populisti, anti-immigrati, eccetera, ma noi siamo gli unici in cui questi movimenti contano tutti insieme – M5S più Lega più FdI – quasi il 50 per cento dei voti, secondo i sondaggi. Quasi il 50 per cento. Per cui senza dubbio questa è l’offerta politica che ci meritiamo e che avrà la meglio il 4 marzo: e d’altra parte non vedo a sinistra e a destra del PD tutto questo struggersi davanti alla scheda elettorale. Mi sembrano tutti piuttosto entusiasti di votare le opzioni di cui sopra. Gli unici che andranno a votare col mal di pancia sono quelli che andranno a votare l’unico partito normale di questo paese, che peraltro lo ha reso incontestabilmente migliore di come fosse cinque anni fa nonostante quel risultato elettorale balordo e nonostante Matteo Renzi dal 4 dicembre 2016 a oggi abbia sbagliato tutto quello che poteva sbagliare.

Questo non è un post che invita a votare Partito Democratico. Questo è un post che prende atto con enorme preoccupazione del fatto che oggi in Italia la democrazia sia mutilata non dai presunti “poteri forti” – semmai dalla loro pavida abdicazione – bensì dall’impossibilità di esercitare una vera scelta tra opzioni politiche anche molto diverse ma che non facciano temere tragedie. Perché di questo si parla, e se non ne avete la percezione forse pensate che un governo Salvini o uno Salvini-Meloni-Di Maio non possano davveroaccadere (in questo caso chiedete agli americani) oppure siete come me, privilegiati quanto basta da sapere che ve la caverete in ogni caso.

Io vivo in una delle città più prospere e meglio amministrate d’Italia, sono un uomo, ho la cittadinanza italiana, sono relativamente giovane, sono normodotato, sono autosufficiente, sono eterosessuale, sono bianco, non ho figli, ho un lavoro stabile e che mi piace e uno stipendio che mi permette di vivere serenamente. Sono letteralmente il ritratto del privilegio, in un posto come l’Italia del 2018. Non sono al riparo da tutto – uso le strade e gli ospedali che usiamo tutti, pago le tasse, mi affido alle forze dell’ordine per la mia sicurezza, eccetera – ma comunque vada me la caverò. Posso permettermi di votare per “dare un segnale” o perché Renzi mi sta sul cazzo, posso votare per contestare una sola questione – che sia il caso Regeni o la gestione dei flussi migratori – infischiandomene del fatto che il ministro degli Interni Matteo Salvini e quello degli Esteri Carlo Sibilia proprio su quelle questioni avrebbero fatto e faranno molto peggio. Io lo posso fare, starò bene comunque, anzi, magari mi tolgo pure una soddisfazione. Se però siete donne, studenti, stranieri, genitori, malati, disoccupati, precari, disabili, omosessuali, non bianchi, se non potete vaccinarvi, o se avete a cuore la serenità di almeno una di queste categorie di persone, io ve lo dico, guardiamoci negli occhi: forse non ve lo potete permettere, di giocare col fuoco.

di-maio-salvini-ac.jpghttp://www.francescocosta.net/2018/02/19/guardiamoci-negli-occhi/

“Visto? Ve l’avevamo detto!..”. Dopo Macerata.

“Visto? Ve l’avevamo detto!..”. Questo potrebbe essere il commento a quanto è accaduto nei giorni scorsi a Macerata. E chiudere tutto lì. Ma non sarebbe serio, nè-sopratutto produttivo. Perché voglio citare anch’io-come ha fatto il Direttore della Gazzetta- De Gregori, ma quando ci ricorda: “Attenzione, la storia siamo noi, nessuno si senta escluso..”.

E ripartire da lì, dalla storia, da una storia che coinvolge tutti gli italiani, antifascisti e non, senza distinzioni di appartenenza o (prossima) scelta elettorale. Coinvolge tutti perché arriva alle radici stessa della convivenza democratica, al nostro sentirci (o no) parte di questa nazione, ai nostri simboli più importanti come il Tricolore.

Si poteva prevedere l’accaduto? Sì, credo di sì. Quando si lasciano che le parole esprimano odio, divisione, vendetta, violenza, prima o poi arriva sempre un qualche sgangherato che mette in pratica quelle cattive parole, frutto di un cattivo pensiero, producendo violenza e dolore. Se si pensa che il Mein Kampf sia un libretto come un altro, che bandiere e vessilli nazisti e fascisti siano innocua paccottiglia da vendere ai mercatini, che si possa discutere se fare il saluto romano sia o no un espressione di un’idea o un reato, succede.

E’ sempre successo. Quando si finge (o si crede davvero) che tutto sia uguale, qualunque idea sia come un’altra, si perdono i punti di riferimento, quando si invitano ai talk show esponenti nazisti e fascisti come se tutto fosse normale, è chiaro che qualcosa si è già rotto e non da ora. Si dice che negli anni novanta si sia sdoganato il fascismo, si tira in ballo Berlusconi e la compagnia circense dell’epoca (e certo non fu piccolo lo shock nel vedere Fini accolto a una festa dell’Unità) ma la realtà è più semplice e più antica.

Non c’era nessun bisogno di sdoganare il fascismo perché il fascismo aveva continuato a fare parte della nostra storia e della nostra società anche dopo Piazzale Loreto. Era successo quasi subito quando, nel dicembre 1946 si era consentita la nascita del Movimento sociale (che non a caso come simbolo portava la fiamma accesa davanti alla salma del Duce), era continuato nel 1957 quando proprio di quella salma, dopo alterne vicende, era stata consentita la tumulazione della tomba di famiglia a Predappio, anzichè-come la Germania aveva insegnato-cremare quelle ossa e spargere le ceneri al vento (e ora si sta realizzando un Museo del fascismo proprio a Predappio…).

Era continuato consentendo la continuità di apparati e personale politico e amministrativo fra fascismo-RSI e Repubblica, consentendo, ad esempio, senza troppi clamori che un criminale di guerra, condannato all’ergastolo in Grecia per le azioni di strage compiute dalle nostre truppe di occupazione, continuasse in Italia la sua carriera burocratica fino a diventare Prefetto di Palermo prima e di Roma poi (si chiamava Giovanni Ravalli e tale rimase fino al 1974).

Abbiamo già scritto della debolezza dell’antifascismo italiano, del suo essere rimasto patrimonio solo di una parte del paese e non sentire diffuso, oggi ci sorprendiamo che, anche grazie ai social, si riveli questo umore fascioleghista, innervato di violenza, ignoranza (letterale) e disagio sociale.

Ci sorprendiamo che quello sgangherato che ha tentato una strage si sia coperto del simbolo nazionale per affermare un suo “diritto” alla cieca vendetta ma non siamo mai riusciti a ragionare proprio su quel simbolo che Reggio ha dato alla nazione.

Non siamo riusciti, anche in questo caso, a farlo condividere davvero. Perfino a Reggio il 7 gennaio si festeggia “soft”, scuole e negozi aperti, business as usual, come pretendere che la ricorrenza diventasse festa nazionale, festa vera per tutti gli italiani?

E poi abbiamo riflettuto su quel simbolo, che come Mario Luzi ci ricordò nel giorno del Bicentenario “Ne ha di macchie e di abusi, il Tricolore, di vergogne e di smarrimenti”?

Perché quel Tricolore fu portato e issato sul balcone del nostro Comune da Giorgio Morelli “Il solitario” il 24 aprile 1945, a segnare la sconfitta del fascismo e la liberazione della città, ma quello stesso Tricolore (nella copia donata dalla nostra città) sventolò su Addis Abeba, conquistata dalle truppe del criminale di guerra Rodolfo Graziani e quello stesso Tricolore veniva portato dalle nostre truppe nei massacri in Jugoslavia, Montenegro e Grecia nel 1941-1942.

Non esistono simboli magici, capaci di rigenerarsi miracolosamente, resta la loro storia, una storia dolorosa e complessa che la nostra società colpita da una sorta di “Alzheimer di massa” (come il prof.Melloni ha ricordato l’ultimo 7 gennaio) ha rimosso e\o rifiutato.

Si tira in ballo il sistema educativo, giusto (anche se nella scuola di fascismo, Shoah e Resistenza forse si è parlato di più negli ultimi quindici anni che nei cinquanta precedenti) si può fare certamente di più e meglio, ma una società non è solo le sue scuole, di ogni ordine e grado, è anche le famiglie, le associazioni, i “corpi intermedi” oggi così in affanno. Una società è anche, banalmente, fatta di singoli, persone, noi.

Quanti di noi hanno ascoltato in treno, per strada, dal vicino, dal conoscente il famoso incipit “io non sono razzista, però…” o la variante “Io non sono fascista, però..Mussolini ha fatto anche delle cose buone”? Dimenticando che il fascismo non è un’opinione ma è un crimine?

Cosa abbiamo fatto? Siamo rimasti tranquilli, in silenzio. Al massimo, arrivati a casa su Facebook abbiamo raccontato, sdegnati, da bravi democratici, la vergogna appena sentita, godendoci magari quel po’ di “like” che ci hanno fatto sentire meno soli.

Ecco, la prossima volta non restiamo in silenzio, con educazione ma con fermezza diciamo a quei signori che no, non è così, che il fascismo ha distrutto l’Italia, che la nostra Costituzione dichiara la uguaglianza di tutti, ma proprio tutti.

Perché questo ci riguarda uno ad uno, perché davvero “la storia siamo noi, nessuno si senta escluso.”

Minima Elettoralia (4): Lo statuto iraniano del M5S (M.Taradash)

Nel novembre del 2012, quando Dario Fo, autore del Mistero Buffo, annunciò il suo voto per il M5S cominciai a definire i grillini “fascisti buffi”. Il loro modo di operare in Parlamento non me ne ha fatto pentire. Ora il nuovo Statuto del M5S dà forma a quel progetto di distruzione della democrazia parlamentare avviato col Vaffaday. In attesa, nelle aspettative di Grillo e del Clan dei Casaleggesi, di trasferirlo nella nuova Costituzione della Repubblica Democratica Diretta Italiana, come vedremo.

Una premessa: pensare che il fare, o il non fare, o il mal fare, o persino il malaffare, o persino persino il ben fare, quando capitasse, del movimento di Grillo possa spostare un solo voto in meno o in più è sbagliato. Concordo con chi invita a cercare nella politica un’alternativa, non nel corpo a corpo che spesso finisce col confondere i corpi.

In Italia è già avvenuto una volta, cento anni fa, e fu una tragedia. La seconda volta può materializzarsi anche in una sagoma comica

Accade, alle volte, nella storia

In Italia è già avvenuto una volta, cento anni fa, e fu una tragedia. La storia oggi potrebbe ripetersi. La seconda volta però non sempre assume la forma di farsa, può materializzarsi anche in una sagoma comica. Una comica avvelenata, grottesca spesso, disgustosa alle volte, ma ridicola sempre – nel doppio senso di far sorridere scetticamente i geometri politici e di divertire fino far scoppiare la pancia della brava gente, del “popolo”. Fino a condurre sulla soglia del governo di una nazione.

Per capire come questo possa accadere nell’Italia del nuovo millennio è consigliabile leggere un romanzo, il miglior romanzo civile di questo nuovo secolo, “Canale Mussolini” di Antonio Pennacchi. Vi si racconta come, con quotidiana ineluttabilità, ampie fasce di popolazione che si erano riconosciute nel movimento socialista poterono acclamare in Mussolini, il socialista rivoluzionario che aveva trasferito nel suo movimento – che mai doveva diventare partito e nel giro di due anni partito divenne – l’interprete delle loro speranze. Molto semplicemente allora, stanca delle frustrazioni e delle difficoltà della vita quotidiana, delle “chiacchiere” della politica, dei soprusi, la gente, e alla fine la stragrande maggioranza della gente italiana, a un certo punto aveva smesso di pensare con la sua testa e si era affidata a qualcuno che aveva un gran capoccione (e una mascella volitiva) e si dichiarava capace di trasformare in azione la volontà vera di tutti. La volontà generale.

E alla fine tutto questo gran rivolgimento di stomaco si è concentrato in una persona, un comico dalla grande capigliatura e capace di attraversare volitivamente a nuoto lo stretto di Messina, uno che al posto di Sorel e del sindacalismo rivoluzionario ha come mentore Gianroberto Casaleggio e il suo Rousseau, la sua visione fantascientifica del futuro, i suoi algoritmi, la sua dissoluzione della democrazia parlamentare, la sua rinnovata fiducia nell’intellettuale collettivo, il mediatore assolutista della “democrazia diretta”. Identificato in Grillo, in se stesso ma a distanza di sicurezza, e poi, per diritto ereditario, in suo figlio.

In un prezioso libro del 1961, ‘Le delusioni della libertà’, anticipatore in qualche misura dei monumentali studi di Renzo De Felice, Paolo Vita-Finzi scriveva che “nel primo fascismo confluivano correnti diverse e contraddittorie, in maggioranza però di sinistra (massoni, repubblicani) e anche di estrema sinistra, come i sindacalisti rivoluzionari… ma persino fra i socialisti moderati il fascismo non appariva allora con i contorni mostruosi che una falsa prospettiva tende ad attribuirgli sin dall’inizio”. Vita-Finzi invitava a rileggere grandi intellettuali e politici anche di matrice liberale e democratica sedotti, almeno per un breve periodo, dall’antiparlamentarismo che impregnava all’inizio del ‘900, in Italia e in Europa, il sentimento popolare e culturale. Si racconta di Peguy, Sorel, Prezzolini, Pareto, Croce, D’Annunzio…

Ai fascisti buffi di oggi è bastato meno, molto meno: l’eredità giustizialista di Mani Pulite e il superstite Davigo, l’Antimafia di Di Matteo, la simpatia di Dario Fo, la vanità di Stefano Rodotà. Oltre a Rousseau, ovviamente, e alla sua piattaforma-bancomat.

Torniamo allo statuto

A differenza dei politici “democratici” le cui promesse sono specchietti per le allodole, quelli autoritari vanno presi alla lettera

Perché allora indugiare sullo statuto del nuovo partito a 5 stelle, se la conoscenza dello spirito e della lettera autoritaria dei suoi articoli non influiranno sulle scelte degli elettori? Perché gli aspiranti dittatori vanno presi sul serio. A differenza dei politici “democratici” le cui promesse sono spesso specchietti per le allodole, quelli autoritari vanno presi alla lettera, anche se sembrano dei pazzoidi. La Stampa ha pubblicato la scorsa settimana un’intervista fatta da Giulio De Benedetti a Hitler nel 1923, dieci anni prima che prendesse il potere. C’è già la guerra, la soluzione finale, la liquidazione del Parlamento e della democrazia rappresentativa. Eppure vinse le elezioni.

Il M5S ha annunciato spesso che intende modificare la Costituzione una volta giunto al potere (al potere, perché il governo di coalizione non gli interessa, al massimo intende raccogliere adesioni al suo programma se non raggiungerà la maggioranza assoluta). Lo Statuto del M5S è quindi un’utile anticipazione di quali saranno i fondamenti culturali della eventuale nuova Costituzione della Repubblica Democratica Diretta Italiana.

Veniamo così informati nell’art 1 che “Gli strumenti informatici attraverso i quali l’associazione si propone di organizzare le modalità telematiche di consultazione dei propri iscritti … saranno quelli di cui alla cd. Piattaforma Rousseau”. E, come ci ha fatto sapere, prendendola un po’ alla lontana, un autorevole dirigente del M5S, il deputato Manlio Di Stefano, responsabile del dipartimento nazionale LEX, questa sarà la prima innovazione costituzionale dei fascistibuffi: “Norberto Bobbio diceva ‘Nulla rischia di uccidere la democrazia più che l’eccesso di democrazia’? Sì, ma lo stesso Bobbio aggiungeva ‘a meno che non si raggiunga la capacità tecnologica di coinvolgere tutti’. Noi siamo oggettivamente l’unico movimento al mondo che ha avviato un progetto di questo tipo. Siamo in continua evoluzione. Vogliamo arrivare ad una piattaforma universale che coinvolga tutti i cittadini, non solo gli iscritti al M5S. L’idea è di inserire strumenti di democrazia diretta e partecipata in Costituzione”. La “piattaforma universale” Rousseau in Costituzione. La centralità della Piattaforma risulta chiarissima dal codice etico degli eletti. Questi si obbligano ad “accettare che l’organizzazione e la costituzione di gruppi di comunicazione spetta al Capo Politico per quanto riguarda il Parlamento Italiano ed Europeo, per quel che riguarda la Camera, il Senato, la Presidenza del Consiglio, i ministeri ed il Parlamento Europeo” (sì, è scritto così); a che “il 50 per cento delle quote stanziate dalle rispettive Camere per il funzionamento dei gruppi parlamentari sia stanziato per il sovvenzionamento dei predetti gruppi di comunicazione”; “ad utilizzare la cd. Piattaforma Rousseau come principale mezzo di comunicazione per uniformarsi agli obblighi di trasparenza e puntuale informazione dei cittadini e degli iscritti al MoVimento 5 Stelle delle proprie attività parlamentari”. E infine a versare di tasca propria 300 euro al mese per il funzionamento della piattaforma (che quindi avrà a disposizione più di 50 mila euro al mese più tutto il denaro destinato alla comunicazione).

Costruito così il partito-regime quale sarà il ruolo dei “cittadini iscritti”? Più o meno quello delle “folle oceaniche”, la grancassa. Intanto si scopre che “L’iscrizione al partito è gratuita” (art.3). Questo favorisce i maneggi, ma soltanto dal vertice, come vedremo.

L’art. 4 tratta della “democrazia diretta e partecipata”. E’ rassicurante: “Tutte le decisioni più importanti sono delegate agli iscritti: l’elezione del Garante, del Capo Politico, del Comitato di Garanzia, dei Probiviri, dei candidati alle elezioni, del programma politico”. E’ tutta fuffa, però. Continuando a leggere si scopre che in realtà gli iscritti non decidono un bel nulla, avendo soltanto il potere di ratificare le decisioni del Garante e del Capo politico.

I quali infatti, spiega l’articolo successivo (art. 5) si riservano il diritto di rimettere in discussione il voto, qualsiasi voto:

“Entro 5 (cinque) giorni, decorrenti dal giorno della pubblicazione dei risultati sul sito dell’Associazione, il Garante o il Capo Politico possono chiedere la ripetizione della consultazione, che in tal caso s’intenderà confermata solo qualora abbia partecipato alla votazione almeno la maggioranza assoluta degli iscritti ammessi al voto”.

Per il primo voto basta la maggioranza dei votanti, per la controprova è necessaria la maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto. Obiettivo irraggiungibile in un partito in cui ogni iscrizione è gratuita e deve per giunta passare al filtro del Garante.

Tanto per capirci, alle elezioni che hanno sancito l’investitura del candidato unico Luigi Di Maio a “premier” gli aventi diritto al voto erano circa 140.000 e hanno votato in 37.000. Se anche il numero restasse invariato dovrebbero votare contro il veto del Garante, per impedirlo, almeno 70.000 iscritti. Facile.

L’art. 6 tratta dell’Assemblea degli iscritti, che si riunisce ogni anno in un luogo fisico e/o per via telematica. E’ l’equivalente di ciò che i partiti pre democrazia diretta chiamano Congresso. E’ il luogo della sovranità dei “cittadini’ iscritti. In apparenza. In realtà non ha nessun potere di decisione.

Infatti ad essa spetta “approvare i documenti politici proposti dal Capo Politico ovvero da almeno un terzo degli iscritti, ferme le competenze e responsabilità del Capo Politico nella determinazione ed attuazione dell’indirizzo politico del MoVimento 5 Stelle; eleggere il Tesoriere, su proposta del Garante; su iniziativa del Garante o di almeno un terzo degli iscritti, approvare le proposte di indirizzi vincolanti per l’adozione e/o modifica dei regolamenti di competenza del Comitato di Garanzia”.

Capito? I documenti politici vengono proposti dal Capo politico, e, di fatto, solo da lui. Ma l’Assemblea ha il potere di presentare un altro documento, no? Certo. Basta che sia sottoscritto da poco meno di 50.000 iscritti. Una presa di giro megagalattica.

Per l’elezione di una figura decisiva come il Tesoriere, si applica un meccanismo ancora più rigido (si fa per dire): la proposta è fatta dal Garante e non è neppure presa in considerazione la possibilità che venga rigettata.

Ora vediamo come si svolge l’Assemblea, che è presieduta dal Capo Politico, il quale “determina le modalità di svolgimento e votazione dell’assemblea” e, naturalmente, ne trae le conclusioni: “Il Presidente dell’Assemblea, tenuto eventualmente conto delle eventuali osservazioni e/o considerazioni e/o opinioni ricevute, predispone una proposta di delibera da sottoporre alla votazione dall’Assemblea”. Si noti l’iterazione: “tenuto eventualmente conto delle eventuali osservazioni…”.

Annamo bene. E se a qualcuno saltasse in mente di proporre modifiche a questo statuto ritenendolo un tantino rigido? Semplice. Prima dovrà raccogliere le firme di un terzo degli iscritti, intorno alle 50.000, poi le modifiche verranno votate ed eventualmente approvate. Naturalmente, in questo caso, il Garante potrà mettere il veto: “Entro 5 giorni, decorrenti dal giorno della pubblicazione dei risultati sul sito dell’Associazione, il Garante può chiedere la ripetizione della votazione che, in tal caso, s’intenderà confermata qualora abbiano partecipato alla votazione almeno la metà più uno degli iscritti”.

Basterà, per vedersi approvata la modifica, convincere a votare poco più di 70.000 iscritti e conquistarne la maggioranza. Tuttavia, a maggior tutela di tutti, come spiega l’art.8, “al Garante è attribuito il potere di interpretazione autentica, non sindacabile, delle norme del presente Statuto”. Me-ra-vi-glio-so.

Le violazioni che possono portare a “richiamo, sospensione o espulsione” sono molteplici e vaghe; l’iscritto grillino è sempre sotto stress

Il Capo Politico viene però eletto dall’Assemblea, questo va riconosciuto. Ma qui lo Statuto, così puntiglioso in tutti i suoi passaggi, si fa più vago. Spiega infatti che: “Il Capo Politico è eletto mediante consultazione in Rete secondo le procedure approvate dal Comitato di Garanzia (CdG), e resta in carica per 5 anni.

E’ rieleggibile per non più di due mandati consecutivi”. Quali procedure? Non si sa, le deciderà il CdG. Per giunta questo Capo può essere revocato sia dal CdG che da Garante. Decisione che che dovrà essere ratificata dagli iscritti. Come? A differenza di tutti gli altri casi di votazione non si danno i numeri. La proposta infatti dovrà essere “ratificata da una consultazione in Rete degli iscritti, in conformità a quanto previsto dal presente Statuto”.

Come abbiamo già visto spetta al Garante l’interpretazione insindacabile dello Statuto, e quindi possiamo stare tutti tranquilli. Tutti tranne uno, il Capo Politico, lo vediamo fra poco.

Il Garante modello Teheran

Per quanto tempo resta in carica il Garante? “A tempo indeterminato” recita lo statuto. A vita, quindi. A meno che non sia sfiduciato dal Comitato di Garanzia. In questo caso basterà che vada al voto la metà degli iscritti (quindi, oggi, solo 70.000) e sarà sufficiente per sradicarlo dalla carica la maggioranza assoluta. Guai però al Comitato di Garanzia se perde la partita perché in tal caso decadrà immediatamente.

Cosa ricorda? Lo statuto sembra la Costituzione della Repubblica islamica dell’Iran, con al vertice la Guida Suprema (Garante) a vita

Cosa ricorda tutto questo? Lo statuto sembra modellato sulla Costituzione della repubblica islamica dell’Iran. C’è la Guida Suprema (il Garante) nominato a tempo indeterminato, c’è il Consiglio di Vigilanza (il Comitato di Garanzia) e il Presidente eletto (il Capo Politico). I poteri sono molto simili. La Guida suprema (il Garante) può tutto, anche licenziare il Capo Politico (non ancora farne arrestare uno, come è capitato di recente al ribelle Ahmadinejad, ma diamo tempo al tempo).

Ma chi elegge il Comitato di Garanzia? L’Assemblea naturalmente, siamo o non siamo nel paradiso della democrazia diretta? L’Assemblea potrà addirittura sceglierne 3, sui 6 proposti dal Garante. Dal Garante e solo da lui, a cui però è dato il compito di “tutela delle minoranze e della rappresentatività di genere” nell’ambito dei 6. State sereni.

Poteva mancare il il Collegio dei Probiviri? Naturalmente c’è, formato da 3 persone. Da chi è eletto? Dall’Assemblea. Chi può proporne i candidati? Il Garante. Ma stavolta, sorpresa, può proporne non 6 bensì 5. Perché? Sarà una cautela numerologica, non sappiamo.

Vediamo ora come si svolge la vita politica degli iscritti e dei “portavoce’ ossia degli eletti. Dovrebbero riesumare un vecchio slogan: “Noi dormiamo con la testa sullo zaino”. L’articolo più lungo dello Statuto è infatti l’art. 11, intitolato non a caso “Procedimento per l’irrogazione di sanzioni disciplinari”. Le violazioni che possono portare a “richiamo, sospensione o espulsione” sono molteplici e vaghe, per cui la vita quotidiana dell’iscritto grillino si svolge in una spiacevole situazione di stress. E’ particolarmente rilevante, sotto il profilo politico, questo capo d’imputazione: “Promozione, organizzazione o partecipazione a cordate o gruppi riservati di iscritti”. Vietati gli assembramenti, in altre parole. Non è invece specificato a che ore scatta il coprifuoco.

Nello Statuto si parla anche di “sospensione cautelare” – che inibisce la candidatura alle elezioni anche prima che il puntiglioso procedimento d’accusa venga concluso – e di “particolari circostanze attenuanti” che possono ridurre la pena che dovrebbe essere inflitta. Un testo, come si vede, che risente del lessico inquisitorio proprio di quella parte della magistratura che guarda al M5S in vista della catarsi politica. Non basta. Fra le infrazioni di cui si possono macchiare gli iscritti candidati o eletti si prevedono “mancanze che abbiano provocato o rischiato di provocare una lesione all’immagine od una perdita di consensi per il MoVimento 5 Stelle, od ostacolato la sua azione politica”. Mancanze, c’è scritto proprio così. Non poteva mancare la censura da grottesco processo staliniano: severamente punito è “il rilascio di dichiarazioni pubbliche relative al procedimento disciplinare medesimo”.

Quanto ai parlamentari l’espulsione è possibile per “violazioni dello Statuto e del Codice Etico ancorché non sfociate in un procedimento disciplinare a norma di Statuto”. Ancorché. Oppure per “comportamenti suscettibili di pregiudicare l’immagine o l’azione politica del MoVimento 5 Stelle o di avvantaggiare altri partiti”. Suscettibili di. Infine ci sono le coserelle che piacciono tanto ai giornali, tipo il controllo meticoloso sugli emolumenti dei parlamentari e il loro drastico ridimensionamento, l’obbligo di non utilizzare il titolo di onorevole (giusto, ma va via anche quello di deputato o senatore, che fa troppo democrazia rappresentativa), sostituito da “cittadina” o “cittadino”.

Infine le multe: l’eletto oggetto di una espulsione dovrà rifondere 100 mila euro per le spesa sostenute dal movimento in campagna elettorale e versare al movimento (con destinazione un ente benefico che verrà indicato dal Garante) la metà degli emolumenti annuali. Sono multe impossibili da riscuotere, visto che i parlamentari ricevono gli emolumenti direttamente dalle Camere di appartenenza, ma servono per ricordare a tutti gli eletti che che essi non rispondono alla Costituzione e all’art. 67 che vieta il vincolo di mandato in quanto rappresentanti della Nazione. No, loro rispondono del loro operato soltanto al Garante e al suo catenaccio magico. E alla Repubblica Democratica Diretta di un prossimo futuro. Possibile, improbabile? Dipende dagli elettori. Che hanno ormai esaurito la loro quota di presunta ingenuità. Scegliendo Grillo, scelgono di essere complici del suo progetto.

In: https://www.ilfoglio.it/politica/2018/01/24/news/statuto-m5s-nuove-regole-democrazia-diretta-174797/

Minima Elettoralia (3): Dal meno peggio non c’è scampo (R.Tallarita)

C’è questa idea piuttosto popolare secondo cui, quando in un’elezione tutti i candidati lasciano parecchio a desiderare, ci sono due diversi modi di comportarsi. Il primo è pigro e rassegnato: accontentarsi del meno peggio. Il secondo è nobile, coraggioso, e ispirato: svincolarsi da quel ricatto e astenersi o votare un candidato simbolico con nessuna chance di farcela.

Quest’idea, però, si fonda su un equivoco, e cioè che scegliere “il meno peggio” sia una possibile filosofia del voto (e una piuttosto triste, peraltro) e che ci sia invece un’alternativa da considerare. In realtà, il meno peggio è l’unica scelta possibile. Meno peggio vuol dire semplicemente “meglio, ma insoddisfacente”. Però lo scopo del voto non è trovare soddisfazione, ma contribuire a far prevalere l’opzione migliore. Per quanto il candidato meno peggio possa essere lontano dalle nostre aspirazioni, gli altri lo sono certamente di più. E siccome qualcuno sarà eletto comunque, abbiamo solo due alternative: aiutare il migliore (o meno peggio, che dir si voglia) o aiutare quegli altri.

 Ho scritto “lo scopo del voto è”, ma ovviamente intendevo “dovrebbe essere”. Molti di noi votano anche per sentirsi bene con se stessi: per aver fatto il proprio dovere, per aver esercitato un importante diritto politico, e per aver fatto una scelta gradevole. Quando le scelte possibili sono tutte spiacevoli, votare il meno peggio è più un dovere che un piacere. Egoisticamente, ci possiamo anche permettere di rifiutare l’offerta: la probabilità che il singolo voto faccia la differenza è talmente minuscola che, se guardiamo solo al nostro interesse personale, votare (o astenersi) per titillare l’ego è probabilmente una scelta razionale.

Basta però intendersi: Non è il nobile atto politico al servizio dei più alti ideali, ma – assai più banalmente – un calcolo narciso e interessato.

L’obiezione dei più ragionevoli spesso è: Astenersi, o votare il candidato simbolico che non potrà mai farcela, manda un segnale forte. Si vuole, insomma, rifiutare la povertà dell’offerta politica per far sì che si arricchisca; negare la propria la complicità a un sistema mediocre; chiedere ai partiti di selezionare persone migliori e di formulare proposte più degne.

Tutte cose buone. Anche questo, però, ha senso solo se è il meno peggio. Cioè se il risultato che si pensa di poter ottenere per il miglioramento dell’offerta politica sia migliore (o meno peggio, insomma) del risultato elettorale che si contribuisce a causare aiutando la vittoria del peggiore.

In teoria è un ragionamento valido. Il peggior candidato potrebbe essere non così tanto peggio del meno peggio, così che una chance anche modesta di influire sull’offerta politica potrebbe valere il prezzo di un voto (indiretto) a favore dei peggiori.

L’importante però è capirsi sul linguaggio e sul calcolo che c’è dietro: Chi segue quella teoria non si sta liberando dal ricatto del meno peggio ma più semplicemente pensa che il meno peggio sia proprio aiutare il peggiore a vincere oggi per avere – forse – qualcuno molto migliore domani. Dipende da quanto peggio è il peggiore, e da quanto probabile è che i partiti accolgano il messaggio di protesta.

Quando però la differenza tra i candidati, seppur tutti parecchio difettosi, è tanta, questo calcolo a lungo termine diventa impraticabile anche per i più ottimisti. Il rischio concreto è di far vincere il peggiore oggi e non avere granché di meglio domani.

In ogni caso, comunque la si pensi, la scarsa qualità dei candidati credibili non basta a giustificare l’astensione o il voto simbolico. Bisogna sempre considerare se i benefici attesi di quella scelta siano davvero maggiori dei costi. Non si scappa dal calcolo delle conseguenze e dalla filosofia del meno peggio. Quando scegliete l’astensione o il voto simbolico, esattamente come quando scegliete un candidato che può vincere, c’è una sola cosa di cui volete assicurarvi: Che si tratti del meno peggio.

http://www.ilpost.it/robertotallarita/2018/01/18/dal-meno-peggio-non-ce-scampo/

Minima Elettoralia (2): il “Piano Kalergi”

Che cos’è – o sarebbe – il “Piano Kalergi”

Storia della teoria del complotto cara all’estrema destra – Salvini compreso – secondo cui dietro l’immigrazione ci sarebbe un complotto organizzato dalle élite europee

Nei circoli dell’estrema destra europea e italiana circola da qualche tempo una spiegazione complottista della crisi dei migranti. Secondo questa tesi, completamente infondata, l’arrivo di centinaia di migliaia di persone in Europa sarebbe parte di un piano segreto architettato dalle élite politiche ed economiche del continente per importare milioni di potenziali lavoratori a basso costo, mischiarli con le “razze europee” e creare così un meticciato debole e facilmente manipolabile. A ideare questo piano sarebbe stato un eccentrico filosofo aristocratico austro-giapponese del primo Novecento: Richard Nikolaus Eijiro. Più di dieci anni fa uno scrittore complottista e negazionista ne usò il titolo nobiliare (conte di Coudenhove-Kalergi) per battezzare il complotto che prevederebbe la sostituzione etnica dei bianchi europei. Nacque così il “Piano Kalergi”.

Come ha raccontato un lungo e documentato articolo di Vice, sono diversi anni che il Piano Kalergi è uscito dagli ambienti ristretti dei cospirazionisti per entrare a pieno titolo nel dibattito pubblico italiano. Di recente anche il candidato alla presidenza della Lombardia, il leghista Attilio Fontana, ha fatto riferimento a qualcosa che somiglia al Piano Kalergi. Nel corso di un’intervista a Radio Padaniaha parlato del rischio di sostituzione etnica da parte dei migranti che corre la “razza bianca” (Fontana si è poi scusato per l’utilizzo del termine). Fontana, in realtà, ha ripetuto quella che è oramai la linea non ufficiale del suo partito sull’immigrazione: non è un fenomeno economico e sociale di portata secolare, ma un preciso piano organizzato dall’alto.

A sostenere questa tesi è lo stesso segretario della Lega, Matteo Salvini, che da almeno tre anni ripete che quello in corso in Italia ed Europa non ha nulla di spontaneo. La prima volta in cui Salvini suggerì qualcosa del genere fu nel febbraio del 2015, quando disse che ci trovavamo di fronte a «un’operazione di sostituzione etnica coordinata dall’Europa». Non è chiaro se Salvini abbia preso ispirazione da un libro pubblicato da una piccola casa editrice proprio all’inizio del 2015 – “La verità sul Piano Kalergi. Europa, inganno, immigrazione” di Matteo Simonetti – che è il primo libro in italiano dedicato al tema. Da allora il segretario della Lega ha ripetuto il concetto più volte: l’immigrazione sarebbe voluta e organizzata da una misteriosa “élite europea” con lo scopo di eliminare la popolazione autoctona del continente. In alcune circostanze, Salvini ha utilizzato anche l’espressione “genocidio”.

Google Trends mostra che fu proprio nel periodo a cavallo tra 2015 e 2016 che l’interesse per il Piano Kalergi cominciò a diffondersi. Nell’estate del 2016 la storia divenne definitivamente mainstream quando la trasmissione di La7 “La Gabbia” gli dedicò alcuni servizi. Nel corso degli anni, la tesi è stata raccontata di nuovo da tutti i principali cospirazionisti italiani, come il più famoso tra loro, l’ex responsabile della comunicazione del Movimento 5 Stelle Claudio Messora.

Ironicamente, se non fosse per i cospirazionisti Kalergi sarebbe stato oramai dimenticato dal grande pubblico. Kalergi, che nacque a Tokyo nel 1894, non è infatti uno dei padri politici dell’Europa unita, come Altiero Spinelli o Konrad Adenauer. Appartiene piuttosto alla famiglia degli idealisti utopici che, nel periodo tra le due guerre mondiali, si opposero all’avanzata del fascismo e del nazionalismo con la loro difesa dell’integrazione e della pacificazione tra i popoli. Nel 1923, mentre l’Europa era in subbuglio e in Italia Mussolini aveva già preso il potere, Kalergi divenne famoso pubblicando il suo “Manifesto Pan-Europeo” in cui proponeva la creazione degli Stati Uniti d’Europa, un superstato dove le differenze tra i singoli popoli europei sarebbero state messe da parte in nome della reciproca collaborazione. Kalergi ottenne fondi con cui creare un giornale, raccolse alcune adesioni di personaggi importanti, ma non riuscì mai a creare un movimento popolare. A raccogliere voti e a guidare il dibattito dell’epoca erano i partiti nazionalisti di estrema destra e quelli socialisti e comunisti dell’estrema sinistra. Gli aderenti al “Manifesto Pan-Europeo” rimasero sempre un piccolo gruppo di utopisti e intellettuali, molto noti nell’alta società, ma praticamente ininfluenti sul piano concreto.

Per le sue idee Kalergi era osteggiato dai nazisti e Hitler gli dedicò alcune righe sprezzanti nel suo “Secondo libro” (mai pubblicato), definendolo «quel bastardo di Coudenhove-Kalergi». Negli anni Trenta, Kalergi divenne uno dei bersagli favoriti della loro propaganda. Fu accusato di essere ebreo, di essere un massone (in realtà aveva lasciato la loggia di Vienna nel 1926) e di voler “annacquare” la purezza delle razze europee, indebolendole così di fronte ai loro nemici: l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Quando i nazisti occuparono l’Austria, nel 1938, Kalergi fu costretto a fuggire in Francia e dovette fuggire nuovamente due anni dopo, nel 1940, durante l’invasione nazista. Secondo alcuni, la sua fuga rocambolesca attraverso Svizzera e Portogallo per arrivare negli Stati Uniti ha fornito l’ispirazione del personaggio di Victor Laszlo che nel film Casablanca è il leader politico idealista che i nazisti vogliono arrestare.

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, con l’inizio del processo di integrazione europea, Kalergi fu celebrato come uno dei grandi padri ideali dell’Europa e ricevette il primo premio “Carlo Magno”, da allora assegnato ogni anno dalla città di Aachen a coloro che contribuiscono alla creazione di un’Europa unita. Senza una carriera politica o amministrativa alle sue spalle, Kalergi fu però lasciato sostanzialmente fuori dai processi politici e decisionali che portarono alla creazione di quella che oggi si chiama Unione Europea. Nel 1955, per esempio, suggerì di adottare l’Inno alla gioia di Beethoven come inno ufficiale europeo, ma la sua idea fu accolta solo 16 anni dopo, poco prima della sua morte nel 1972. Oggi non ci sono palazzi dell’Unione a suo nome (come invece ci sono per Schumann, Spinelli e Adenauer), i suoi libri e il suo manifesto sono stati in gran parte dimenticati e, a parte la recente fama, il suo nome è ricordato soprattutto dagli storici dell’integrazione europea.

Le ragioni per cui Kalergi è tornato a essere uno spauracchio dell’estrema destra sono abbastanza evidenti rileggendo cosa scriveva Hitler di lui più di 80 anni fa. Kalergi sosteneva la necessità di stemperare le differenze tra i popoli in nome di una comunità collettiva, più ampia del singolo stato, una ricetta che non può che essere accolta con fastidio dai nazionalisti degli anni Trenta come da quelli degli anni Duemila. Kalergi, inoltre, è stato un massone e ha ricevuto finanziamenti dalla famiglia Rothschild, due dei nemici scelti con più frequenza dai teorici del complotto. Ma il motivo per cui, tra tutte le colpe, gli è stata attribuita proprio quella specifica della “sostituzione etnica” degli europei con i migranti è probabilmente dovuto al caso.

Kalergi non ha mai fatto sostanzialmente alcun cenno alle migrazioni extra-europee che alla sua epoca, sostanzialmente, non esistevano: erano semmai gli europei a migrare all’interno del continente o verso gli Stati Uniti. L’aggiunta dell’immigrazione alle idee di Kalergi si deve a Gerd Honsik, il neonazista e negazionista austriaco che con il suo libro del 2005 ha sostanzialmente inventato il “Piano Kalergi”. Honsik mise insieme diversi libri di Kalergi e ci aggiunse del suo. Da un testo prese l’idea di Kalergi secondo cui l’uomo di città, cosmopolita e meticcio, sarebbe superiore per spirito ma inferiore per volontà all’uomo di campagna. Da questo trasse la conclusione che l’uomo di città fosse debole e facile da governare.

Kalergi, sostenne quindi Honsik, voleva che gli uomini di città si diffondessero per rendere la popolazione più facile da governare. Ma come era possibile creare questi uomini meticci di città? Per Kalergi era necessario aumentare gli scambi, le comunicazioni e gli spostamenti all’interno dell’Europa. Honsik, invece, che scrisse il suo libro quando in Austria si parlava molto della potenziale immigrazione dai paesi balcanici, scrisse che Kalergi e i suoi alleati avevano in mente un altro mezzo: l’immigrazione di massa. Così le idee utopiche e probabilmente ingenue di un eccentrico aristocratico del Novecento si sono fatte strada nel dibattito interno all’estrema destra europea per anni. Da lì sono arrivate in Italia e, negli ultimi giorni, sono riuscite a sfiorare persino la campagna elettorale per la regione Lombardia.

in: http://www.ilpost.it/2018/01/16/piano-kalergi/