Minima elettoralia (1)

Siamo in campagna elettorale e, visto che alcuni dei 25 lettori di questo blog me lo hanno chiesto, mi sembra opportuno intervenire, nei modi e tempi dovuti, sulle questioni che emergeranno in questa campagna che si annuncia fra le più sgradevoli e limacciose degli ultimi anni.

Per sgombrare il campo sin dall’inizio dichiaro che voterò PD, convintamente, come votai, altrettanto convintamente, “SI” al referendum del 2016. Se qualcuno dei miei 25 lettori abbandonerà, a questo punto disgustato, la lettura me ne farò una ragione e amici come prima.

Aggiungo che nelle mie tasche l’unica tessera che sopravvive è quella dell’ACI.

Ciò detto, il 4 marzo voterò PD perché è l’unica forza politica capace, con tutti i limiti della umana politica, di governare un paese portandolo faticosamente fuori da una crisi storica, come hanno dimostrato i governi Renzi e Gentiloni.

Voterò PD perché credo che la sinistra sia l’unica in grado di modernizzare questa Italia, congelata, ammuffita, corporativa e, culturalmente e sociologicamente, di destra. Se perde il PD non perde la sinistra, ma consegnamo il paese alla peggiore destra o ad una setta di fanatici incompetenti.

Perché il vero avversario sono loro: la destra e il M5S.

Dopo questo intervento non troverete, fino al 4 marzo, una riga contro chi ha preferito uscire dal PD, spaccando e indebolendo la principale forza politica progressista per ideologico calcolo politico, per rancore, per malinteso senso della democrazia, per ritardi e conservatorismi culturali e politici.

Ogni confronto è benefico e benvenuto ma quello che ho trovato, e trovo, irritante è che, anche questo nel solco della peggior tradizione storica della sinistra, qualcuno si attribuisca la potestà di distribuire (o no) patenti di “sinistrità” a questo o quello. Un po’ come quando, in occasione del referendum, qualcuno mi venne a tenere lezioni di “antifascismo”. Qualcuno che poi votò come la Lega e Forza Nuova.

Ogni volta che la sinistra si è divisa, dal secolo scorso ad oggi, ha vinto la destra. Questo per quel poco che so di storia.

De hoc satis.

Perché il vero avversario sono loro: la destra e il M5S.

Gita a Predappio

Gita a Predappio

La solita (e prevista) tempestina mediatica sul ritorno della coppia reale sul patrio suolo, nel corso della quale abbiamo sentito di tutto e di più, mi ha lasciato perplesso, per usare un eufemismo.

Si è dibattuto su chi sosterrà i costi del volo di Stato (lo Stato, visto che trattavasi di atto dovuto), sul rifiuto logico a tumulare le loro maestà al Pantheon (ci mancherebbe), sulla liceità dell’intera operazione (dopo l’abolizione della XII norma transitoria solo un grillino avrebbe potuto trovare qualche fantasioso appiglio per impedirla).

Siamo stati deliziati da interviste al principe ballerino e al padre sparatore imbolsito, abbiamo appreso con comprensibile preoccupazione del conflitto interno ai Savoia fra Emanuele e Gabriella. Con tutto ciò abbiamo acceso un cero al Padreterno (o chi per esso) che il 2 giugno ci diede la Repubblica.

Ma tutto questo ha concorso in minima parte alla mia perplessità.

Abbiamo perso giorni a discettare su cosa? Sul concedere la sepoltura ha chi ha portato l’Italia al disastro, a chi ha rotto il patto di cittadinanza su cui si fonda ogni Stato moderno firmando le leggi razziste del 1938, a chi è fuggito abbandonando il proprio posto di comando, configurando così il reato di alto tradimento l’8 settembre 1943?

E allora? Per dirla in modo educato: quisquilie, bazzecole.Tutto qui?

Nel 2017 si poteva festeggiare un anniversario significativo: il sessantesimo della restituzione della salma di Benito Mussolini alla vedova, la sua tumulazione nel cimitero di S.Cassiano a Predappio e l’inizio dell’omaggio al corpo e alla memoria del dittatore.

Sono sessant’anni che consentiamo che quella tomba sia luogo di pellegrinaggio, di adunate, di turismo politico-gastronomico e ora solleviamo questioni per il ritorno delle loro maestà?

Vi immaginate in Austria, a Braunau, la cappella della famiglia Hitler che accoglie le spoglie del caro estinto?

Quando nel 1988 l’ultimo dei gerarchi nazisti Rudolph Hess morì nel carcere di Spandau si pose il problema della sua sepoltura. I gerarchi impiccati a Norimberga nel 1946 erano stati cremati e le loro ceneri disperse, lo stesso trattamento era stato riservato in Israele ad Adolf Eichmann. Il sacello di Reinhard Heydrich nel cimitero degli Invalides a Berlino era stato ruspato dai sovietici.

Un parroco caritatevole accolse le spoglie di Hess nel cimitero di Wunsiedel in Baviera, ma nel 2011 non rinnovò l’atto di carità chiedendo che gli eredi ritirassero i resti del congiunto, visto che il cimitero era divenuto meta di pellegrinaggio per i neonazisti. Gli eredi fecero cremare le ossa e disperdere le ceneri in mare.

Anche in Italia ci è stata data una lezione di come la memoria non possa essere taciuta e rimossa. Nel cimitero militare tedesco di Costermano (VR) sono sepolti 22.000 caduti tedeschi, Wehrmacht e SS. Fra essi alcuni criminali di guerra: Christian Wirth (operazione T4, inventore delle camera a gas al monossido di carbonio, organizzatore di campi di sterminio nell’est e comandante della Risiera di San Sabba), Franz Reichleitner (Operazione T4, comandante di Sobibor e persecutore di ebrei e partigiani in Istria), Gottfried Schwarz (aiutante di Wirth a Bełzec, Majdanek e Udine). Nel 2004 si costituì la “Iniziativa italo-tedesca per la memoria a Costermano” che richiedeva che fossero tolti i “Libri dell’onore” (Erhenbücher) in cui, su bronzo, erano riportati tutti i nomi dei sepolti nel cimitero e che fosse posta una targa che ricordasse i crimini commessi dai nazisti e ne ricordasse le vittime, visto che in quel luogo, oltre i tre più noti, erano tumulati ufficiali e sottoufficiali responsabili (secondo gli atti della Magistratura italiana) delle stragi di civili di Monte Sole, S.Anna Stazzema, Valla, Vinca. Sepolti accanto a militari che avevano svolto il loro dovere di uomini di coscienza, come i cinque di Albinea, fucilati per avere tentato di cooperare con la Resistenza nell’agosto 1944. Carnefici e vittime insieme.

Già dal 1992 quei tre nomi erano stati cancellati dagli Erhenbücher, ma le richieste furono accolte sia dal Volksbund (Lega per la cura dei cimiteri tedeschi di guerra) e, in\direttamente dal Governo Federale che, dopo aver incaricato una commissione di storici di elaborare il testo dei pannelli introduttivi, nel novembre 2006 inaugurarono la nuova sistemazione del cimitero militare, nel corso di una breve cerimonia che vide, all’esterno del luogo, la presenza di Forza nuova presente a difendere l’”onore” dei camerati nazisti.

Nel 1998 Sergio Luzzatto nel suo bel saggio “Il corpo del Duce” ha raccontato e analizzato le vicende che hanno condotto a consentirne la tumulazione e l’avvio delle pratiche che ben conosciamo. Con quella salma (il “salmone” come fu definito all’epoca del suo trafugamento) l’Italia repubblicana ha convissuto, infarcita di un miscuglio maleodorante di pietismo, complicità e rimpianto, sovrapponendo la propria storia a quel “non fatto” che avrebbe dovuto essere la distruzione di quell’oggetto, perché gli italiani se per una volta hanno ucciso il tiranno non hanno avuto poi il coraggio di andare fino in fondo, scambiando misericordia per giustizia, generosità per scelta di civiltà. Una fragile e decomposta identità nazionale non poteva forse compiere l’intero processo necessario, così una Repubblica nata dall’antifascismo ha consentito il paradosso di piazze (sempre più vuote) inneggianti alla Resistenza accanto a luoghi di memoria fascista, testimoniando scandalosamente la mancanza di una resa dei conti con la propria storia.

Ora si sta lavorando per realizzare a Predappio un Museo sul fascismo, troppo poco e troppo tardi, continuando oltretutto a fare di quel luogo un punto preciso di attrazione perché, sono convinto, che nella debolezza e superficialità etica e culturale nazionale, fra qualche hanno leggeremo in qualche programma di gita scolastica o di qualche tour operator: “Gita a Predappio. Programma: mattina visita al Museo del fascismo, pranzo, visita al cimitero di S.Cassiano”.

Viva l’Italia.

Appello ai lettori renziani e non: sopportiamoci (Michele Serra)

Tante lettere accusano “ Repubblica” di essere anti-Pd. Ma così la base litiga come i capi

Può un renziano sopportare Zagrebelsky, o Giannini, o Tomaso Montanari? E può un antirenziano sopportare Recalcati, o Scalfari quando esprime opinioni favorevoli al governo? La domanda, nel suo banale schematismo “bipolare”, una volta tanto non riguarda i rissosi, suscettibili esponenti dell’establishment del centrosinistra. Riguarda noi, comunità di Repubblica. Giornalisti e lettori, commentatori e opinione pubblica di sinistra, o democratico-repubblicana, o progressista: quella che, grosso modo, questo giornale ha raccolto, lungo più di trent’anni, attorno a sé, cercando di rappresentarne le idee, le opinioni, i sentimenti di speranza o di sconforto. Se mi permetto di porre a tutti noi, scriventi e leggenti, questa domanda, è perché nelle ultime settimane la mia rubrica delle lettere sul Venerdì (che ho ereditato, e ne sento la responsabilità, da Eugenio Scalfari) è destinataria di un numero impressionante di lettere amareggiate o irate nei confronti del giornale: accusato di essere anti-governativo per partito preso, e troppo critico nei confronti del Pd. “Vi leggo dalla fondazione – scrivono alcuni – e per la prima volta sto pensando di non leggervi più”. Alcune sono state pubblicate; moltissime, per ragioni di spazio, no. Tutte quante lette con attenzione. In nessun giornale, e specialmente in un giornale di forte impronta politica, vocato alla discussione e alla disputa perché così vuole la tradizione dialettica della sinistra, mancano le lettere di critica. Questo non fa eccezione: per rimanere solo all’ultimo scorcio della nostra storia, la polemica tra i fautori del nuovo corso del Pd e coloro che considerano Renzi un invasore alieno è sempre stata molto vivace: ed entrambe le fazioni lamentavano che il giornale non desse sufficiente spazio al loro punto di vista. La mia rubrica sul Venerdì, negli ultimi anni, ne è lo specchio fedele e, spero, imparziale. Ma ora si registra un salto di qualità, e anche di quantità. Una vera e propria bordata da parte di lettori, diciamo così, della sinistra moderata, legati al Pd, che considerano Repubblica “casa loro” e non si riconoscono nelle voci critiche (secondo loro, troppe) nei confronti di Renzi e del governo in carica. In assenza (per fortuna) di una contabilità attendibile delle opinioni “pro”, di quelle “contro” e di quelle “così così”; preso atto che, in questo specifico momento, la critica “renziana” al giornale è nettamente prevalente su quella “antirenziana”; e detto che un giornale è tenuto a dare conto di quanto accade nel Paese – opinioni comprese – e non di “dare la linea”; mi sento di rivolgere ai lettori – che sono una comunità certamente difforme, ma con riconoscibili assonanze culturali, biografiche e politiche – una specie di contro-lamentela, che mi verrà concessa, diciamo così, in ragione del mio stato di servizio, dopo quasi vent’anni che abito in queste pagine. Si usa imputare il settarismo e la litigiosità a sinistra all’ego ipertrofico e alla suscettibilità dei Capi. Sarebbe meglio, dunque, non imitarli. Cercando, come dire, di dare il buon esempio dal basso. Le ragioni altrui sono sempre difficili da ascoltare, ma il loro manifestarsi, ancorché irritante, è semplicemente inevitabile. I lettori renziani (mi scuso per la definizione secca secca, ma è per capirci) non possono non tenere conto degli effetti divisivi che non solamente il carattere, ma anche gli atti politici di Renzi hanno prodotto nel vasto corpo dell’opinione pubblica di centrosinistra. Per fare l’esempio più ovvio, una riforma del lavoro “lib-lab” come quella in atto può piacere, ma anche no, e non per pregiudizio politico, ma perché ha indubbiamente rotto con la tradizione sindacale e ideologica di molta sinistra. Se Repubblica non desse atto anche dei traumi prodotti, e del dissenso in campo, farebbe male il proprio mestiere di giornale. Quanto agli antirenziani, l’idea che il nuovo corso del Pd sia il frutto di una sorta di trama aliena, di usurpazione di un corpo reso inabitabile dai nuovi occupanti, non ha solamente il torto di rassomigliare da vicino alle paranoie complottiste così in voga. Distorce la realtà, perché la “scalata” di Renzi al Pd si è avvalsa, gradino dopo gradino, del voto di milioni di elettori che vengono dalla stessa storia, e in buona parte vogliono le stesse cose, di chi per Renzi non ha votato e mai voterà. Sono i lettori-elettori che oggi scrivono a Repubblica per dire “guardate che questo giornale, da sempre, è anche casa nostra”. E però accettano con qualche difficoltà che sia, questa, anche la casa dei tanti che, a sinistra, non la pensano come loro, e nel Pd vedono un problema più che una risorsa. Scusandomi per la sintesi, certo non da politologo ferrato, e assicurando che non è per ecumenismo sciocco, e men che meno per ruffianeria commerciale, che mi rivolgo ai lettori irrequieti, torno a chiedere: può un renziano sopportare Zagrebelsky? Può un antirenziano sopportare Recalcati? E potrebbe mai un giornale degno di questo nome rinunciare a dare voce, e pagine, e repliche, al coro animatissimo della cosiddetta sinistra? Serve tolleranza e serve volontà di ascolto. La pretendiamo dai leader politici, cominciamo a fornirne piccoli esempi quotidiani. Se il giornale non desse conto dei traumi e del dissenso in campo a sinistra, farebbe male il proprio mestiere Divisivo

Cara sinistra, per guarire rileggi Turati (Massimo Recalcati)

La Repubblica, 28 novembre 2017

La malattia della sinistra italiana pare cronica e rivela radici antiche. Uno dei suoi sintomi maggiori è la spinta alla frammentazione, alla litigiosità interna che porta le sue diverse componenti a entrare in competizione tra loro e a lottare ottenendo l’esito fatale di indebolire la propria forza. La sua matrice non è tanto psicopatologica, ma pienamente politica: ” Noi siamo spesso contro noi stessi, lavoriamo per i nostri nemici, serviamo le forze della reazione ” . Chi parla così? Da dove provengono queste parole che sembrano scritte da un commentatore della crisi attuale della sinistra? Sono le parole che Filippo Turati pronuncia in occasione del congresso socialista del 1921, svoltosi a Livorno, dove si consumò la scissione dalla quale nacquero i comunisti italiani.
Il discorso di Turati andrebbe oggi riletto per intero e meditato profondamente. Non tanto e non solo per la diagnosi e prognosi che esso formula con vera lucidità anticonformista sul destino fatalmente nefasto della rivoluzione d’ottobre, ma per l’elogio che egli compie dell’anima riformista della sinistra italiana in quel momento storico messa sotto accusa dalla tendenziale prevalenza dell’anima massimalista. Secondo Turati se si sceglie la via del riformismo si deve rinunciare alla violenza della rivoluzione.
Traduco e attualizzo a mio modo: l’opzione riformista per essere tale implica la castrazione di ogni miraggio utopico. Una delle ragioni che impedisce la costituzione di un campo unitario della sinistra non è forse dovuta alla prevalenza di una componente ideologicamente neo-massimalista che non riesce a cogliere il carattere necessariamente imperfetto, provvisorio e sempre migliorabile dell’azione riformista? La critica implacabile delle riforme varate dai governi Renzi e Gentiloni e la necessità di un cambio di rotta radicale e, ovviamente, inconciliabile con la direzione di quelle riforme sostenuta dalla sinistra radicale, ricalcano tutti i limiti politici del massimalismo. La storia è sempre la stessa: essere contro se stessi e lavorare per il nemico. Con l’aggravante, se posso esprimermi così, che il neo-massimalismo appare geneticamente imparentato con un profondo conservatorismo. Essere di sinistra significherebbe coltivare una concezione immobilista della propria identità, ribadire il valore di concetti, categorie, principi che appartengono al secolo scorso.
Il circolo è vizioso: il neo-massimalismo si nutre del conservatorismo e, a sua volta, il conservatorismo diventa una manifestazione estrema del neo-massimalismo. Si tratta, insomma, di un mostro a due teste. La rigidità politica del neo- massimalismo che considera ogni riforma inadeguata, incerta, compromissoria e ambigua deriva direttamente dal conservatorismo ideologico a sua volta combinato, non a caso, con un certo odioso paternalismo. È una combinazione micidiale (conservatorismo=paternalismo=massimalismo) che genera effetti altrettanto micidiali: l’utopia diventa una galera che impedisce di intervenire nella trasformazione effettiva della realtà. L’idealismo neo-massimalista implica sempre e unicamente la testimonianza della sua sconfitta. Non a caso il frazionamento politico a sinistra del Pd rivela il carattere elitario del narcisismo delle piccole differenze; ciascuno rivendica la propria maggiore coerenza ideale senza tener conto che nel frattempo il mondo è cambiato. Perché accade? Perché lo scissionismo è una malattia che affligge sempre più la Sinistra della Destra? Perché, appunto, la sua matrice è l’idealismo o, se si preferisce, la vocazione utopica del massimalismo. Nel nostro caso si tratta di una sinistra che resta agganciata a un paradigma teorico superato, che utilizza categorie che il tempo storico ha svuotato di senso e ha reso simili a carcasse spiaggiate.
La difficoltà per ogni uomo di sinistra – quale io stesso sono – è quella di elaborare un lutto compiuto di quel paradigma. Ma perché è così difficile? Perché la sinistra italiana ha avuto lo straordinario merito nella storia del nostro Paese di elevare la politica alla dignità di un poema collettivo. Esistono una simbologia e un immaginario densissimi che resistono al loro necessario superamento: l’eroismo e l’intelligenza di Gramsci, la bandiera rossa, la lotta di classe, la resistenza, l’antifascismo, le grandi conquiste sindacali, la contestazione del ‘ 68, la battaglia contro il terrorismo e la difesa dello Stato democratico, il volto di Berlinguer e la sua testimonianza morale. Per l’uomo di sinistra questo patrimonio non può essere svenduto, né semplicemente liquidato. Esso mantiene una tale forza attrattiva che però può, purtroppo, far scordare che quella narrazione del mondo si è definitivamente esaurita perché il nostro mondo non è più il mondo del Novecento. Quando Matteo Renzi dichiara che il punto il riferimento ideale della sinistra oggi non è più Gramsci, Togliatti o Berlinguer, ma Obama non ci invita a cancellare il passato ma a incorporarlo per guardare avanti.
Lo strappo è forte: in gioco è la realizzazione di un lavoro compiuto del lutto. Non si tratta di cancellare la memoria di ciò che la sinistra è stata, del suo poema collettivo, ma di incorporare quella memoria senza volgere più il nostro sguardo all’indietro. Bisogna lasciare che i morti seppelliscano i morti. Fintanto che la sinistra non compirà questa operazione simbolica sarà destinata a ripetere la sua antica malattia diagnosticata lucidamente da Turati: ” essere contro se stessi, lavorare per i nemici, alimentare le forze della reazione “.

Il PCI a Reggio: un partito “speciale”

Il PCI a Reggio: un partito “speciale”

M.Storchi

Il socialismo si prospettava come soluzione di qualsiasi problema e ci sembrava talmente vicino che non ci preoccupavamo di stipendio pensione, mutua..si lavorava alla garibaldina perché il socialismo, panacea di tutti i mali, era dietro l’angolo, non avrebbe tardato ad apparire”, nel ricordo di Ermes Grappi, giovane partigiano e poi funzionario di partito (uscito bruscamente nel 1958) c’è la sintesi di tante vite spese per il “partito”. Un partito vissuto quasi 70 anni esatti che ha dato un contributo decisivo alla democrazia italiana, in un paese che ebbe la fortuna “di avere i comunisti senza avere il comunismo”.

Un partito che dal primo segretario, Angelo Curti, all’ultimo, Fausto Giovannelli ha segnato la storia del novecento nel reggiano, qualcosa di più di un’organizzazione politica: una chiesa laica, una speranza, un’utopia, un ricordo.

Un partito “speciale” soprattutto a Reggio Emilia, già dagli anni trenta quando, una incredula Teresa Noce, inviata dalla direzione estera del PCI a verificare forza e strutture del partito clandestino nel reggiano, si trovò di fronte non solo oltre 1000 iscritti (più di Torino), ma un movimento dove i contadini (e non gli operai come previsto dall’ortodossia comunista) erano la maggioranza e ancora con forti legami con la  predicazione di Prampolini, in anni in cui il >socialfascismo> era uno dei principali avversari del movimento comunista internazionale.

Un partito “speciale” per il prezzo pagato prima con 1200 anni di carcere inflitti dal Tribunale speciale a 190 militanti reggiani e poi, dopo l’8 settembre, con le decine di caduti nelle fila partigiane, non solo i Cervi e i Manfredi, ma i tanti giovani uccisi da tedeschi e fascisti (uno per tutti: Marcello Bigliardi, massacrato a Villa Cucchi il 13 aprile 1945 a diciotto anni). Una Resistenza pagata anche a caro prezzo dai dirigenti: il segretario “Toti” Saltini, Paolo Davoli, Angelo Zanti e Sante Vincenzi cadono prima della Liberazione e la loro assenza avrà un grande peso nei mesi difficili del post-liberazione fino a quando dovette intervenire direttamente Togliatti nel settembre 1946 -non solo con il famoso discorso “Ceti medi ed Emilia Rossa” che rilancia le basi della via italiana al socialismo con una visione interclassista dell’azione politica- ma anche con un severo richiamo al rispetto delle direttive politiche nazionali al di fuori di smanie giustizialiste  e rivoluzionarie.

Un partito “speciale” per il terremoto provocato da Valdo Magnani nel gennaio 1951, un partito meno “speciale” negli anni successivi, gli anni della chiusura della segreteria Boni che ritardò l’avvio della destalinizzazione fino al 1959 (ultima federazione emiliana a giungere alla svolta) nonostante l’annus terribilis 1956.

E poi un partito capace di portare alla democrazie masse operaie e contadine e a progettare e pianificare la ricostruzione non solo economica ma anche etica e culturale, contribuendo in buona misura a realizzare quel modello emiliano fatto di “comunismo ideale e socialdemocrazia reale”.

Un partito “speciale” a Reggio dove il PCI era il potere, e dovette gestire la nascita interna di un estremismo che rivendicava, proprio contro quello stesso partito, ancora più purezza e ortodossia rivoluzionaria.

Che cosa rimane di quel “partito “speciale” 26 anni dopo la sua morte?

Rimangono “orfani e vedove” inconsolabili che raccontano, proprio come nel caso del caro estinto, solo i suoi lati positivi, rimuovendo tutti quegli aspetti conflittuali e problematici (ma che erano parte della ricchezza di quell’esperienza) per non dovere confrontare il loro agire di oggi con quello che l’appartenenza a quella chiesa laica allora non avrebbe mai consentito.

Rimangono sempre più sparute schiere di quel personale politico che è stato capace di attraversare le varie fasi di evoluzione di quel partito (se non di semplice cambiamento nominale della ragione sociale) più per umana autoconservazione che per capacità di pensiero politico.

Rimane il vuoto di riflessione e di approfondimento che caratterizza ormai ogni struttura-partito dopo che, come è stato detto, “si sono chiusi gli uffici-studi e si sono aperti gli uffici-stampa”.

Rimane l’occasione persa di una Bad Godesberg italiana che, impossibile nel 1959 (considerato ancora il radicamento stalinista nella base e in parte della dirigenza), poteva essere colta almeno nel 1989 quando il mondo davvero iniziò a cambiare.

Si riuscì solo a convocare alla Bolognina una riunione di ex-partigiani e militanti, era il 12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del muro di Berlino. Troppo tardi e troppo poco.

 

Perché ha vinto l’Italia di Matteo (Salvini) di Guido Moltedo

Negli ultimi giorni, prima del referendum, il mio vecchio amico e compagno Samir mi ha tempestato via whatsapp di immagini e video in un crescendo di scherno anti-renziano. Che votasse no e che pensasse che anch’io votassi no, ok, ma che pensasse di poter condividere con me un servizio tv del fascio-leghista Gianluigi Paragone, solo perché antirenziano, be’ mi è sembrato un po’ troppo. Specie, poi, quando l’ho visto, quel servizio tv. E sì, era la solita storia della JP Morgan, la grande banca d’affari, “la vera autrice della riforma costituzionale renziana”. Sì la banca della plutocrazia (mondiale ebraica), come diceva il sottotesto, non dichiarato ma neppure tanto.

Caro Samir, so che hai avversato con limpida convinzione la riforma bocciata, anche con la rabbia di chi immagina Renzi come un pupazzo in una rete internazionale di poteri forti, gli stessi che, dal tuo punto di vista, danno sostegno a Israele contro il tuo popolo. In quest’idea ti sei trovato in numerosa e variegata compagnia. La storia della JP Morgan e dei poteri forti è stata uno dei Leitmotiv della campagna del no, inclusi i suoi evidenti brutti non detti. D’Alema ci ha molto insistito su, anche insinuando incongruamente un’amicizia di Renzi con Benjamin Netanyahu, e perfino facendo sapere in giro, con nonchalance, che dietro Matteo c’è il Mossad.

Pure questo è servito per mandare a casa il premier. Ma, caro Samir, devi sapere che la causa dei popoli oppressi, come il tuo, non conviene consegnarla alla cricca Salvini-Berlusconi-Grillo-Casa Pound, i veri vincitori del referendum uniti dal comune odio verso gli oppressi, specie quelli in fuga da altri paesi, Medio Oriente e Africa.

Su questo hanno costruito la loro vittoria. Sulla paura. Sull’avversione agli immigrati. Sulcombinato disposto, questo sì, vero, di crisi economico-sociale e immigrati.

In un tweet nella notte dei risultati referendari, il politologo americano Chris Cillizza riassumeva così il senso dclle notizie provenienti dall’Italia. Trumpism is everywhere. Il trumpismo è ovunque.

Il trumpismo è americano e l’America influenza il mondo, ma dell’attuale versione italiana del trumpismo parte importante è il precursore riconosciuto di Trump, il Cavaliere. A esso s’aggiungono un pezzo rinnovato della prima coalizione berlusconiana (Salvini che salda il leghismo estremista con il neofascismo) e il movimento 5 Stelle. Una coalizione populista che non aveva certo bisogno di The Donald per mettersi in luce, ma che grazie alla concomitanza con l’avvento di Trump trova triste notorietà oltre confine, come parte di un movimento euro-americano e non solo, teso a imporre un nuovo ordine mondiale fondato sul ritorno alla superiorità e all’egemonia dell’uomo bianco, messe in discussione dalla rivoluzione demografica globale unita a una trasformazione economica anch’essa globale che corrode i tradizionali fondamenti della prosperità medio-borghese occidentale.

Che ci possano riuscire, queste forze reazionarie, è da vedere. Ma che questo tentativo sia in atto, è sotto gli occhi di tutti. Anche in Italia.

Alla globalizzazione reagisce insomma un fronte nazionalista internazionalista che intende portare indietro le lancette dell’orologio della storia, con la demagogia e la manipolazione.

I dati dell’affluenza al referendum di domenica ci parlano di una grande mobilitazione popolare, che con il merito della consultazione aveva poco a che fare, e quel poco era anche subalterno alla voglia di dare una sberla al governo e al suo presidente, che non ferma gli immigrati e neppure la disoccupazione.

Se fosse andata secondo le aspettative, se cioè ci fosse stata un’affluenza ben minore con un risultato vicino al pareggio, la quota di elettorato di sinistra avrebbe potuto essere l’ago della bilancia e giustamente rivendicare il peso dei suoi voti per far vincere il no. L’esito dice invece che la componente di sinistra è stata del tutto ininfluente ai fini del successo del no, un no a valanga giustamente rivendicato da grillini, Salvini e Berlusconi, su una piattaforma di avversione alle politiche del governo, proprio quelle più sociali e aperte.

In un contesto così, che adesso appare più chiaro, in cui si stagliano più nitide le ragioni di uno scontento e di una paura diffuse che hanno fatto da carburante della rivolta elettorale, Matteo Renzi ha compiuto un errore di portata strategica, avventurandosi su un terreno di scontro del tutto a lui socialmente sfavorevole e in un momento sfavorevole, un terreno sul quale avrebbero avuto buon gioco le forze della destra e della demagogia. Una battaglia persa in partenza.

Il quaranta per cento del sì, conquistato grazie al sostegno di Emilia e Toscana, fotografa un perimetro elettorale che nessuno nel centrosinistra è mai riuscito a espandere, vincendo, quando ha vinto, grazie alle divisioni nel fronte avverso, sia nelle consultazioni nazionali sia in molte consultazioni locali. Renzi si era illuso di avere il piglio e la popolarità personale per andare oltre quel recinto, prendendo voti nel campo avverso in nome di un rinnovamento del paese. Molti degli elettori da conquistare, non a torto, hanno interpretato la linea di  Renzi come un’apertura al mondo, alle interrelazioni, agli scambi, quando l’aria che tira è invece quella della chiusura, del ritorno al protezionismo, perfino all’autarchia, come predica Trump. È l’aria dei muri. Della flotta a cui va dato ordine di bloccare i natanti dei profughi, anche sparando.

I tempi sono quelli dell’altro Matteo, di Salvini, non di Renzi. Adesso è chiaro, ma da un talento come Renzi ci si sarebbe aspettati che l’avesse capito prima lui degli altri, e non si fosse buttato in una prova elettorale che, in ogni caso, era l’equivalente di un voto di medio termine e, dunque, per definizione sfavorevole al governo.

Poteva andare in modo diverso se avesse affrontato diversamente la partita? Sulla sua conduzione personalista e solitaria sono piovute critiche e improperi. La dimensione della sconfitta fa pensare che in ogni caso non sarebbe andata diversamente in modo significativo.

Certo, all’errore strategico della battaglia referendaria s’aggiunge quello di aver impegnato gran parte delle risorse in un confronto tutto interno al suo partito, come se l’esito del referendum dipendesse dal regolamento di conti con D’Alema e Bersani, quando tutte le energie avrebbero dovuto essere impiegate fuori del partito, contro Grillo, Salvini e Berlusconi, con nessuno dei quali peraltro ha sostenuto un confronto televisivo (furbescamente si sono sottratti lasciando che si dilaniassero a sinistra). Lo scontro nel Pd è stato ovviamente dilatato dai media, a tutto vantaggio dei più temibili avversari di Renzi.

Adesso che Matteo è ko, i “vincitori” interni del Pd devono spiegare agli elettori del centrosinistra le ragioni politiche più di fondo della loro opposizione, non tanto al referendum, ovviamente legittima. Devono piuttosto dar contro della loro persistente critica a ogni atto e azione del governo Renzi, un’avversione intransigente e incessante – in una fase estremamente delicata per il nostro paese – che si è sommata a quella dell’opposizione parlamentare del centrodestra e grillina. Mai si era visto un presidente del consiglio del centrosinistra – l’unico governo di centrosinistra rimasto in piedi in Europa – così sistematicamente preso di mira da una parte consistente del suo stesso partito, capeggiata da due ex-segretari del partito stesso.

Una guerra civile che adesso rende difficile, se non impossibile, la ricostruzione di un senso di direzione condiviso. E questa è la vera sconfitta.

https://ytali.com/2016/12/05/perche-ha-vinto-litalia-di-matteo-salvini/

Serenamente deluso

Questa notte\mattina ho postato su FB l’espressione del mio stato d’animo dopo la sconfitta referendaria: “Serenamente deluso”. Come sapevamo, ed abbiamo visto in maniera spesso grottesca in queste settimane, FB non è il luogo per riflessioni che vadano oltre le dieci righe (c’è chi ci affligge con articolesse infinite, ma questo è un altro discorso), così provo-in breve perché le sensazioni sono ancora troppo recenti-a chiarire il mio punto di vista. Non mi soffermo sul “deluso” perché è abbastanza ovvio. Speravo che il SI vincesse, ho portato quanti più voti sono stato capace di raccogliere e motivare ma le cose sono andate come sappiamo (anche se a Reggio il NO è stato sconfitto).

Mi interessa quell’avverbio che ho usato: “serenamente” che viene in buona parte, come esprimevo nel mio post, dalla consapevolezza di aver votato con la “parte migliore” del paese. Subito mi è stata contestata questa convinzione “ecco la solita presunta superiorità morale…per quello avete perso..blabla”. Io credo che esista un’Italia migliore di quella che ha scelto di non cambiare nulla, per paura, protesta, ideologia o calcolo. Uno sguardo al risultato del voto provincia per provincia me ne da una prima conferma: le poche isolette di verde (SI) nel mare di un’Italia rossa (NO) restano fra le terre dell’Emilia e della Toscana, proprio dove la Resistenza che la Costituzione fece ed ispirò pagò i prezzi più alti (oltre alle province europee di Trento e Bolzano).

E questo è il primo, e forse più solido, motivo di serenità: io non ho votato come i fascisti e i leghisti, questione di storia, di storie, di idee e di principi.

L’antifascismo come punto di riferimento in una campagna elettorale dove, proprio su questo tema, la rottura è stata netta e, per quanto mi riguarda, definitiva.

Un antifascismo che  a 27 anni dalla caduta del Muro non è stato ancora in grado di esprimere e affermare la sua anima di antitotalitarismo non ha futuro. Un antifascismo che piange sulla morte di un dittatore, che rimpiange il sovietismo, che si inchina al primo capataz sudamericano, che innalza ancora nomi e simboli che per decenni hanno significato oppressione e negazione dei diritti, è una semplice autonegazione dei principi su cui dovrebbe fondarsi. Un antifascismo i cui esponenti, istituzionali e non, mostrano, nel dibattito, gli stessi toni della destra, gli stessi schemi settari e infantili vecchi ormai di 80 anni fa, non mi riguarda né può essere elemento positivo per nessuna costruzione politica futura.

Serenità perché, abituato per mestiere e passione a ricorrere alle “fonti”, ho raccolto parecchie centinaia di “mega” di materiale uscito sulla stampa e\o sul web in questa brutta campagna elettorale e quindi posso dimostrare “de facto” non solo quanto vado ora accennando ma anche quanto, in fondo, sia stato utile questo scontro. Ho scritto più volte “Oportet ut scandala eveniant” e lo confermo. Perché è stata una sorta di epifania politica, culturale e sociale. Tutto il carico di settarismo predetto, infantilismo, estremismo parolaio e qualunquismo era già presente, latente ma radicato, aspettava solo l’occasione per emergere ed in questo senso i social ne sono stati lo strumento più efficace. E tutto ciò nella parte politica, la <sinistra> cui io ho fatto (e faccio) riferimento. Il resto non mi interessa-per ora-sia la setta grillina o la galassia di una destra esplosa\implosa da tempo.

Serenità perché osservo come ancora una volta, dopo il 1998, sia stata parte della <sinistra> a giocare contro un’altra parte della <sinistra>. Nel 1998 chiusi i rapporti con quella <sinistra> massimalista e parolaia, nel 2016 procederò nello stesso senso con questa altra <sinistra>, divenuta ormai semplice conservazione dei privilegi, dello status quo, di piccole nicchie di gestione del potere, ben rappresentata da ex-leader concentrati sul proprio ego e interesse personale politico. Incapace a produrre alcuna progettualità, estasiata nella contemplazione di un passato (in parte) glorioso, cieca alla crisi generale del concetto stesso di <sinistra> come si sta rivelando in tutta Europa. Una <sinistra>che non ha voluto capire che il 1989 è stata la fine di un mondo e ha semplicemente rincorso l’oggi, il mantenimento del potere, con un affannoso mutare di sigle e organigrammi, anziché sedersi e riflettere per progettare un futuro adeguato. Una <sinistra>che non ha capito quanto l’evoluzione del lavoro degli ultimi 20 anni avesse modificato totalmente il suo rapporto con la società e la democrazia ed ha insistito in schemi e strutture che il tempo aveva reso obsolete, un po’ come ostinarsi nella nobile arte del maniscalco ai primi del 900, quando le auto ormai stavano diffondendosi ovunque.

Serenità perché la chiarezza è sempre meglio di una taciuta disapprovazione. In queste settimane ho visto\letto amici e conoscenti, che stimavo da anni, abbandonarsi a polemiche puerili, ad insulti, dileggi, battute degne del peggior bar Sport di Benniana memoria. Travolti da un furore ideologico che rivelava un disagio, una frustrazione che, forse per colpa mia, non avevo mai recepito, o almeno non in queste dimensioni e intensità. Epifania personale, quindi, e questo è un altro elemento positivo anche se doloroso.

Serenità infine perché questa sconfitta (cui in fondo sono elettoralmente abituato) è servita a rileggere tanti passaggi della storia italiana europea, arricchendo così il mio esiguo bagaglio di conoscenze e aumentando, lo dico con un pizzico di presunzione, la mia capacità di correlarmi ad una realtà che comunque esiste e procede. Il sole infatti, stamattina, è sorto regolarmente.

Fidel. Notarelle dopo una morte: qualche domanda

La morte di Fidel Castro offre l’occasione per un paio di riflessioni buttate così, a caso, nella grande confusione di questo tempo di pre-referendum.

Potremmo chiudere tutto con una delle tante battute fulminanti che il web ci offre “E dal comunismo è tutto. A voi XXI secolo”.

Ma le tante reazioni, fra il commosso, il poetico e l’artistico per la morte del “Lider Maximo” (quello vero, non quello taroccato di Gallipoli), apparse sul web e sulla stampa, fanno sospettare che ci si dia di più sotto. La domanda è chiara: ma davvero qualcuno rimpiange Fidel Castro? Certo-come si dice-la storia darà il suo giudizio- ma nel frattempo qualche anticipazione magari possiamo permettercela e allora torniamo a quella battuta fulminante “A voi XXI secolo”, perché siamo nel 2016, non nel 1961 con la crisi dei missili, Kennedy e Papa Giovanni e Castro sembra ormai davvero un personaggio consegnato alla storia, un altro caso residuale di fallimento di quell’utopia globale (già allora) che, diventata realtà, ha significato una delle tragedie del XX secolo.

Eppure il sospetto che Castro rimanga ancora oggi un simbolo, un’icona (non come quella ben pubblicizzata del Che ma poco ci manca) nel Pantheon di quella che continua definirsi <sinistra>, c’è ed è forte. E qui nasce il problema.

Banalizzando si può sintetizzare: si può essere di <sinistra<, <antifascisti> e poi ammirare\rimpiangere\sognare Cuba e Fidel Castro nel 2016?

Il problema non è nuovo, anzi, e qui sta un’ulteriore aggravante.

Io lo ricordo vecchio di almeno 30 anni. All’epoca (1987) lavoravo al Museo Cervi, Pantheon dell’antifascismo italiano e non solo. Accoglievamo delegazioni internazionali nella casa dei sette fratelli, fra esse delegazioni sovietiche che arrivavano con la solennità e la pompa che ci si poteva aspettare anche in quegli anni ormai di declino.

Arrivavano, portavano doni (ho ancora un’invidiabile collezione di spille, spillette e gadget vari originali soviet) e pronunciavano commossi discorsi sulla libertà, l’antifascismo, la fratellanza fra i popoli.

Poi andavano e io restavo lì a farmi domande strane: discorsi sulla libertà fatti da chi rappresentava una dittatura che usava manicomi e gulag per reprimere il dissenso? Da chi aveva costruito muri e usato carri armati per affermare un potere imperialista e nazionalista? Da chi aveva accolto quei partigiani che con i Cervi avevano combattuto, al loro ritorno in patria, non con gli onori o almeno con una stretta di mano riconoscente, ma li aveva spediti in gulag per anni (come era stato il caso di Anatoli Tarassov?). Qualcosa non tornava, ma ero giovane e le risposte rimanevano sospese nell’aria.

Ma le domande sono rimaste quelle: si può essere antifascisti e proclamarsi, a vario titolo, oggi nel 2016 <comunisti>? Si può ascrivere un dittatore come Castro nel Pantheon di una <sinistra> del XXI secolo? So bene le osservazioni sui livelli della sanità e dell’istruzione che Cuba oggi può vantare o del dolore popolare che la scomparsa del capo fa emergere. Ma sono argomenti insostenibili, non faccio similitudini con l’Italia fascista o nazista solo per non far torto alle altrui intelligenze.

Rimane il problema del rapporto fra un passato (che non passa) e un presente che sembra non solo non produrre nulla ma che procede comunque con la sguardo rivolto all’indietro senza però alcuna capacità critica o di analisi.

Questa grottesca campagna elettorale, come un’ondata sul bagnasciuga, ha fatto riemergere relitti e  rottami che sembravano sepolti nel tempo ma che ora restano lì, in secca. Il futuro dirà se a marcire definitivamente o a essere raccolti e portati in trionfo (verso la prossima sconfitta).

 

 

In fuga dalla retorica (Marco Simoni)

L’ultimo editoriale di Walter Veltroni mi ha suscitato alcune domande, ma parto da una convinzione: ormai è chiaro che nel 2008 è finita un’epoca, senza che una nuova sia arrivata

Nel suo editoriale di domenica scorsa, Walter Veltroni incita la sinistra a non indugiare, a riscoprire l’importanza dell’innovazione politica e del riformismo per dare risposte a quella parte impaurita della classe media che sembra trovare rifugio nei messaggi dei demagoghi contemporanei. Veltroni, si sarebbe detto, storicizza il tema, identificando tre spartiacque: il 1989, il 2001, e il 2008, tappe in cui è nato un nuovo mondo, che è poi entrato in crisi. Il suo pezzo mi ha suscitato alcune domande, ma parto da una convinzione: ormai è chiaro che nel 2008 è finita un’epoca, senza che una nuova sia arrivata.

Ricordiamo che dopo la crisi finanziaria, paesi e governi, che avevano esaltato per t re n t ’anni il libero mercato come panacea, dovettero rapidamente far intervenire lo Stato per salvare banche (dunque risparmi: no facili populismi), fabbriche di automobili, altre istituzioni economiche. Quell’anno fu distrutto il mito dello Stato minimo che aveva sorretto i trent’anni precedenti. Con esso ne distrusse un altro: quello che nel mercato chi sbaglia paga sempre. Perché se alcune banche in quanto tali furono cancellate dal panorama, il senso che rimase a tutti fu di un fallimento collettivo in cui non c’erano responsabilità personali: eppure molte condizioni personali, dopo quell’anno, peggiorarono. Si è rotto di colpo un paradigma politico e un vincolo di fiducia nel sistema che ha aperto gli argini al mare di sfiducia che oggi sembra invadere le nostre città.

Attenzione: i trent’anni fino al 2008 videro l’espandersi della democrazia nel mondo, l’uscita di un miliardo di persone dalla povertà, progressi tecnologici, culturali ed economici (meno in Italia per ragioni che ho discusso altrove, e per questo Grillo arrivò prima degli altri). Ma nel 2008, l’equilibrio di quel tempo è finito, inutile (politicamente) spiegarne i successi, giusto cercarne i limiti. Tuttavia, il pensiero e la politica progressista si pongono oggi contro una alternativa che ora sembra davvero chiara.

È troppo presto per sapere nel dettaglio cosa farà l’amministrazione Trump, quello che sappiamo è che ha messo su finora una squadra reazionaria in campo economico, sociale, culturale, come non se ne erano mai viste.

Sempre sbagliato, anche con gli avversari, dare giudizi sulle persone: bisogna far parlare i fatti. Ma le parole sentite finora non lasciano presagire nulla di positivo. Una cosa però abbiamo imparato, spero definitivamente. Gli elementi di «novità» che i demagoghi mostrano nel loro stile, da Trump a Grillo passando per Farage, Le Pen, eccetera, fatti di insulti, menzogne, e paranoie complottiste, sono solo cortina fumogena per una politica di chiusura reazionaria che non è nuova affatto, ma storicamente l’istinto di tante persone nei momenti di incertezza.

Questo si vede in tutti i luoghi, dagli Usa, alla Gran Bretagna, fino a Roma o Torino, dove i demagoghi sono andati al potere. Si è tanto parlato in questi giorni, come nei giorni dopo la Brexit, di «rivolta contro le élite», o contro «l’establishment». Così facendo, i commentatori specialmente quelli progressisti, stanno semplicemente arrendendosi alla stessa retorica e alla stessa logica traditrice propugnata dai demagogici che, al contrario, sono parte consustanziale delle élite più trite. Infatti, come giustamente richiamato da Veltroni: la classe più ricca ha votato soprattutto Trump mentre la più povera soprattutto Hillary.

Inoltre, Hillary ha preso molti più voti di Trump e dunque bisogna sapere di essere dentro una sfida che stavolta è stata persa di un soffio, non di esser stati «sopraffatti dalla rivolta» (si è persa per il voto dello 0.03% degli americani, concentrato in alcuni stati chiave, come rileva Luca Sofri sul Post).

Sicuramente esistono nuove disuguaglianze che vanno messi sistematicamente al centro delle politiche progressiste. Disuguaglianze non solo economiche, ma soprattutto sociali, di legami, geografia e strumenti: i meno istruiti e chi vive lontano dalle città sono i principali gruppi ad aver votato Trump o per la Brexit. Esistono prudenze riformiste e pigrizie nostalgiche, ovvero vizi di entrambe le due facce storiche della sinistra occidentale, che hanno fatto nel passato danni rilevanti nutrendo la sfiducia. Resta il fatto tuttavia che l’onda demagogica è soprattutto una reazione culturale, da combattere dal punto di vista politico e sociale, contro il valore di sinistra oggi più vivo di tutti: l’internazionalismo –paradossalmente: l’unico che non si cita mai, con un nome vintage, ma il più egemonico di tutti. Infatti, mentre fanno finta di prendersela con qualche «potere forte» immaginario, e mentre poi si appoggiano sui poteri più vecchi e cupi, i demagogici combattono soprattutto le facce normali delle persone che vivono e lavorano sentendosi naturalmente parte di un mondo più ampio del tinello della loro cucina.

Ci sono quelle che per una parte lunga o breve della vita vanno all’estero a vivere, una minoranza di qualche decina milioni di persone che –vi assicuro –si sobbarca un percorso che tutto è tranne che elitario nel senso di privilegiato. Ma ce ne sono assai di più che pur rimanendo tutta la vita nel loro quartiere praticano ogni giorno valori di solidarietà, apertura, curiosità, condivisione, fiducia nella scienza e nel sapere, fiducia nel lavoro e nell’impegno, umiltà che non è sottomissione, rigetto di pratiche patriarcali, sessiste e razziste, persone il cui amore per il proprio Paese non diventa neanche per scherzo nazionalismo, ma la base su cui costruire la propria identità di cittadini del mondo. Allora queste persone oggi, sotto chiaro attacco, devono anche sentirsi parte di un’immaginaria «élite», snob e distante, che ha permesso la vittoria di Trump? Onestamente mi pare troppo. Certo è importante, quando emergono, riconoscere i limiti dei leader politici progressisti, sforzarsi di operare per far prevalere il senso collettivo sull’opportunismo individuale, e cercare di promuovere nuove politiche per ridurre disuguaglianze che sono state trascurate, oltre che la credibilità di chi si candida.

Ma bisogna anche avere presente che lo scopo è quello di battere questi miliardari senza scrupoli, che usano i mezzi più scorretti, a partire da Grillo e i suoi seguaci. Uno di loro purtroppo ha vinto in un posto importante mercoledì scorso, ricordiamo: grazie allo 0,03% del voto degli americani.

http://www.unita.tv/opinioni/in-fuga-dalla-retorica/

I Cavalieri Del Nulla. L’Ordine e la Regola (di Martino Branca)

L’Ordine dei Cavalieri Del Nulla è una Regola, non una struttura. Prende forma definita e concreta a periodi, con geometria variabile. Si incarna, assumendo la veste e la consistenza di un esercito multiforme, ogni volta che l’accenno di un movimento o addirittura un segno di vita in un punto qualsiasi dello suo spazio geografico segnalino l’urgenza di un intervento repressivo. Tuttavia di norma l’Ordine è dormiente, vive in sonno allo stato potenziale, disaggregato nelle sue componenti: le Confraternite del Nulla. Queste viceversa hanno carattere stabile, continuità e organizzazione; all’interno si articolano in diete, comitati, organi fiduciari, funzioni condottiere. Per evidenziare la durata e la quadratura culturale del proprio impegno esse assumono quasi sempre nomi riferiti all’universo scientifico: l’astronomia (“Cinque Stelle”), la botanica (“Sinistra Radicale”), la ginecologia (“Travaglio”) eccetera.

Le Confraternite non sono uguali né equipollenti. Pur nell’osservanza rigorosa della Regola, esse si differenziano per l’indole, la taglia e soprattutto quanto ai modi dell’operare, che sono tipici di ciascuna: l’inquisizione (“Travaglio”), l’ostruzione (“Cinque Stelle”), il deragliamento (per i radicalisti c’è sempre, di lato, qualche altra priorità), il rinvio ad una palingenesi cosmica futura (tutti).

Unità operativa di ogni Confraternita, e attraverso questa dell’Ordine, sono i Cavalieri Del Nulla, insieme opliti ed eroi, materia e simbolo.

cav5

 

2_

L’orizzonte dell’Ordine Del Nulla è la quiete assoluta, l’assenza di quantità di moto. L’Ordine esiste in funzione dell’esistente. Il suo imperativo è la preservazione dell’immobilità dell’essere, perciò esso combatte ogni possibile divenire del contesto di cui è parte. Tocca ai suoi organi costitutivi, le Confraternite, il compito di segnalare accenni anche minimi di cambiamenti, embrioni di processi evolutivi, focolai di movimento. Non appena percepita una vibrazione, una Confraternita si attiva e sollecita le altre a fare squadra, a destare l’Ordine dalla sonnolenza, per incarnare tutte insieme attivamente – s’intende pro tempore –  il verbo della Regola.

All’interno di ogni Confraternita i Cavalieri riproducono il dispositivo che governa la relazione tra l’Ordine e il mondo. Essi sono votati a preservare la Confraternita dal divenire, a mantenerla per sempre uguale a sé stessa. Accade raramente che un Cavaliere, violando la Regola, colto da una inopinata pulsione vitale tenti di modificare lo statuto o lo stile della sua Confraternita, ovvero che, assurto per combinazione a responsabilità di governo, dispieghi un progetto ambizioso, diverso dal Nulla. In quei casi un Campione o una Cerchia cavalleresca si ergono,  disarcionano il traditore, lo espellono o lo inviano in un paese lontano.

Come alle Confraternite anche ai Cavalieri è imposto il vincolo dell’eterna uguaglianza a sé stessi. Ad esempio, se all’atto dell’Ordinamento e dell’assunzione del Voto di fedeltà un Cavaliere indossa i baffetti, quello sarà il suo vessillo fino al termine dei suoi giorni.

caaaaaaaaaaaaaaavvvvvvv

3_

Ogni Cavaliere del Nulla dispiega la sua opera su tre livelli – la nazione, la Confraternita, la persona – ma con metodi differenti. Nella dimensione più ampia egli non ostacola la formazione di governi esterni all’Ordine, altrimenti non vi sarebbe stabilità né stasi. Simula ostilità e assalti ma osserva attentamente i governanti: purchè non causino alcun tipo di cambiamento egli nel suo cuore li ama e li rispetta, e senza apparire spende la sua indole generosa per aiutarli a superare le loro crisi.

Diverso è il portamento del Cavaliere all’interno della sua Confraternita di pertinenza. Qui egli è inflessibile nell’impedire che la Confraternita dia vita o prenda parte all’amministrazione della nazione o di un segmento di essa. Qualora per un capriccio del popolo o per una sfortunata combinazione astrale la sua Confraternita sia indotta a governare, il Cavaliere del Nulla attacca quella compagine esecutiva fino a provocarne la caduta e procede contro i responsabili affinché siano sfiduciati per sempre. Se si è distinto nella battaglia gli vengono tributate ovazioni, poi viene dimenticato. Non è escluso tuttavia, benché accada raramente, che un Cavaliere dall’intelligenza spregiudicata partecipi, per astuzia tattica, ad un’attività di governo. In quel caso egli trasgredisce in apparenza, allo scopo di procurarsi un’occasione più alta di diniego. Ad esempio, la mattina partecipa all’attività del consiglio dei ministri, il pomeriggio scende nell’Arengo e da lì marcia in massa contro il proprio Ministero. Per questa via il Cavaliere, reprimendo nel medesimo tempo la Confraternita e sé stesso,  raggiunge la condizione del Sublime.

ccaaavvooooo

4_

La storia procede, in un modo o nell’altro. Il Cavaliere Del Nulla è ben conscio di non poterne fermare il corso. Tuttavia resta tranquillo perché sa che la logica è dalla sua parte. Egli non perde mai di vista la Regola e difende con tutta le sue capacità lo stato di cose esistente. È il Campione del Presente e il nemico implacabile del Futuro e del Passato: si impegna con pari energia tanto per bloccare qualunque moto di avanzamento quanto per impedire ogni tentativo di ripristino. Quando le circostanze avverse o la preponderante forza del nemico producono, nonostante i suoi sforzi, una innovazione qualsiasi Il Cavaliere De Nulla non si scoraggia. Egli sa attendere che il cambiamento si affermi e si consolidi, e perciò stesso termini di prefigurare Futuro e diventi attualità. A quel punto il Cavaliere lo riconosce come Presente e si dispone a difenderlo, anzi  diventa il suo Campione. E così via.

In forza del medesimo logos, Il Cavaliere Del Nulla si oppone sempre alla riparazione di guasti prodotti da attività pubbliche pregresse, perché le ritiene ormai legittimate dal tempo trascorso. In generale egli non cade mai in contraddizione perché è attento alle circostanze. Lo spirito della Regola gli consente, anzi gli impone, di colpire duramente iniziative e intenzioni oggi pericolose per la quiete, incluse quelle che in passato aveva sostenuto quando un diverso contesto le rendeva innocue.

Il Cavaliere agisce sempre in funzione del Principio Superiore del Nulla e non indulge alle categorie della morale comune, quali il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, l’utile e il dannoso.

cav8

5_

IL Cavaliere Del Nulla combatte strenuamente contro la vita, ispirato dalla Regola dell’Ordine. In generale egli agisce come oplita dell’alleanza delle Confraternite, nel rispetto delle disposizioni statutarie che sono parte inevitabile delle condizioni al contorno. Ma è all’interno della sua Confraternita che egli da il meglio di sé, dimostrando di saper coniugare il rigore con la licenza, la creatività con la norma.

Egli non dimentica mai la scala dei valori autentici, che pone il Nulla al disopra di tutto, perciò non si lascia influenzare da ricatti ideologici. Dentro la Confraternita accetta il gioco democratico, ma con riserva, solo  finchè questo gli garantisce spazio nella maggioranza degli adepti. Ma non appena si accorge di trovarsi ai margini della partita egli ripudia la democrazia, riconosce la maggioranza come forza nemica della Regola e la combatte. Se la battaglia volge a suo sfavore il Cavaliere è colto da un sospetto crescente. Ha motivo di credere che la sua Confraternita sia in contrasto con l’Ordine, perciò la abbandona senza rimpianti. E con i compagni ed i seguaci ne fonda immediatamente una nuova, più piccola ma più aderente alla Regola.

Non sempre l’atto rifondativo risolve la contraddizione. Può darsi che nella nuova Confraternita il Cavaliere si ritrovi nello stato di minoranza che lo aveva indotto a lasciare quella originaria. Egli non si avvilisce per questo. Sa dalla logica che lo spazio politico è divisibile all’infinito, e provvede ad una ulteriore scissione. Sicché avviene che esistano Confraternite talmente numerose che solo la rete di interconnessione globale può governarle, accanto ad altre piccolissime, consistenti in una sola persona (“Travaglio”, “Civati”).

cavvo

6_

Così come combatte e si ingegna per mantenere il Tempo in un eterno Presente, allo stesso modo il Cavaliere Del Nulla difende la forma dello Spazio da ogni tentativo di alterazione. E poiché l’Architettura è l’insieme delle modifiche e delle alterazioni operate sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane, essa è il principe dei suoi nemici. Esperto di comunicazione e arte retorica, il Cavaliere non la nomina mai, ma vi allude con disprezzo, usando i nomi dei materiali ordinari da costruzione: “Il Mattone”, “Il Cemento”. L’astuzia gli consiglia di evitare, nella sineddoche, parole altrettanto pertinenti (Pietra, Acciaio, Vetro, Titanio) ma pericolosamente suggestive per la semplice psicologia del popolo. Egli sa di essere il custode dell’inerzia delle sue città e dei suoi contadi, perché lui solo è indifferente agli esempi inquietanti forniti dal resto del mondo: sviluppi impetuosi di reti, innumerevoli e monumentali opere pubbliche, torri spericolate.

Con analoga, simmetrica lucidità il Cavaliere Del Nulla si oppone all’anastilosi dei monumenti caduti. Egli è conscio del pericolo insito nel ripristino: la restituzione della forma architettonica perduta. Conservando ai ruderi la condizione attuale, mantenendoli a terra, muti e inerti, garantisce la funzione di preziosa testimonianza degli eventi banali che li hanno ridotti al silenzio: i cataclismi, i terremoti, le guerre.

https://ytali.com/2016/11/03/i-cavalieri-del-nulla-lordine-e-la-regola/