Porta Castello, anni venti

Porta Castello

Porta Castello, anni venti. Foto aerea. A destra di Viale Umberto I è ancora visibile lo Stallo del Bagno, con la grande vasca semicircolare. La campagna arrivava ancora alle porte della città e sui viali di circonvallazione non erano ancora state costruite le villette di Viale Timavo. Campo Tocci era ancora un prato, residuo degli spazi erbosi fuori le mura. Visibili le due gabelle daziarie, abbattute negli anni sessanta. Via Mameli era solo uno stradello che partiva all’angolo di casa Largader (ancor oggi esistente). Sulla circonvallazione verso S.Pietro è ben visibile il superstite baluardo cinquecentesco.

 

La lampadina (breve apologo sul cambiamento)

La lampadina

 

Negozio, interno giorno.

Entra il cliente.

 

Cliente: “Buonasera, vorrei una lampadina, a basso consumo, 60 watt”.

Negoziante: “Perché?”.

lampadina accesa.jpgC.: “La lampadina s’è bruciata…”

N.: “Quale lampadina…”

C.: “La lampadina in sala..”

N.: “Ah,..”.

C.: “Da 60 watti non ce l’ha?”.

N.: “Per chi mi prende, lei offende la mia professionalità, certo che la lampadina ce l’ho..”.

C.: “E allora?”

N.: “Allora cosa?”

C: “La lampadina me la dà o no…”

N.: “Dipende…Lei perché vuole cambiare la lampadina?”

C.: “Perché l’altra è bruciata…”

N.: “E la vuole cambiare lei?”

C.: “Sì, certo…”.

N.: “Ah…allora lei ha qualcosa contro gli elettricisti…”.

C.: “Perché dovrei?”

N.: “Perché non chiama un elettricista?”

C.: “Per una lampadina?”

N.: “Vede? Lei non apprezza la professionalità dell’elettricista..”

C.: “Che c’entra? Per una lampadina..”

N. “Bravo, si incomincia così e poi si crea una crisi occupazionale…se nessuno chiama più gli elettricisti..già ci sono quelli polacchi…”.

C.:”Dovessi fare un impianto…ma per una lampadina…”

N.:”Tante lampadine in meno fanno una crisi…lei vuole la crisi?”

C.: “Io volevo cambiare una lampadina…”

N.: “Dicono tutti così..ha sentito il delegato sindacale…?”

C.: “Chi?”

N.: “Lei arreca danno all’occupazione, deve concordare un piano con il delegato sindacali, anzi i delegati…lei è credente?”

C.: “Cosa c’entra? Io volevo cambiare la lampadina…”

N.:”Dicono tutti così, e poi succede il casino, con questa mania di cambiare…Se lei è credente deve concordare il piano occupazionale prima col sindacato e poi con l’associazione degli elettricisti cattolici…”.

C.:”Elettricisti cattolici…ma che roba è…”.

N.: “Non faccia finta: ci sono i maestri cattolici, i farmacisti cattolici, ci sono anche gli elettricisti cattolici: se lei cambia la lampadina e quella si accende e consente di leggere magari stampa contraria alla morale, eh? O lei mi spegne una lampadina e nel seguente buio lei mi fornica, eh? Ci ha pensato?”.

C.: “Io volevo cambiare una lampadina…”

N: “E lei fa bene, figurarsi, ma prima di fare cambiamenti ci vuole prudenza, si deve predisporre un percorso, mica si può fare così, zac, svita e avvita…E poi da solo! La lampadina a quale quota è?”

C.: “Quota? Ma è in casa, in sala…”

N.: “Vede? Lei vuole fare cambiamenti ma lei mi approssima…la lampadina è nel portalampada, giusto? Allora è a soffitto, a livello tavolino, mensola, sono quote diverse…ci vuole precisione, altrimenti poi succedono i casini…”

C.: “Casini?”

N.: “Questione di quote, beata ingenuità, la quota incide sul rapporto con il sindacato…”

C.:”Sindacato? Un altro?”

N.: “Certo, il SiScaC (Sindacato scalisti Cobas). Finchè la quota è ad altezza d’uomo allora basta una comunicazione e via, ma se la quota del portalampada richiede l’uso della scala per lo svita/avvitamento ehh, allora, lei deve concordare con il SiScaC. Deve giustificare perché lei non si chiama un elettricista/scalista. Vuol provocare una crisi occupazionale? Di questi tempi? Concordi tutto con il SiscaC, o vuole trovarsi un picchetto sotto casa di famigliari di scalisti in cassa integrazione? Vuole che vadano a Roma a spaccare vetrine in segno di protesta?”

C.: “Io volevo cambiare una lampadina…”

N.: “Ho capito, sa? E le do ragione, ma i cambiamenti vanno fatti a ragion veduta, che una volta fatto il cambiamento cosa fa? Si pente e mi torna indietro? Diceva che voleva una lampadina da 60 watt a basso consumo, ma attacco piccolo o attacco grosso…?”

C.: “Attacco grosso…”

N.: “Ahi, ahi, come pensavo, allora deve fare la 57bis…”.

C.: “57bis?”

N.: “Esatto, ci vuole un professionista iscritto all’albo che certifichi che la filettatura è destrorsa-come da norma di legge- e che garantisca che la lampadina esausta verrà smaltita a norma di legge, secondo la normativa 342/29 del 1990…”

C.: “Cioè?”

N.: “Che lei butta la suddetta lampadina esausta nei contenitori dei rifiuti e dichiara di non farne altro uso improprio…”

C.: “Altro uso improprio? Una lampadina bruciata?”.

N.: “Caro lei, sapesse la gente cosa s’inventa…allora basta una 57bis e lei è a posto…”

C.: “Bene, ho annotato tutto, adesso la lampadina…?”.

N.: “Beh, a posto proprio…manca la liberatoria dell’Ausl, sulla tutela dall’infortunio domestico…metti che…”

C.: “Metto cosa???..”

N.: “Metti che lei svita/avvitando le venga una sindrome rotativa infiammatoria del polso, come la mettiamo? Lei poi mi va al pronto soccorso e mi ingolfa il triage, mi mette in crisi la reception? Si rende conto? Chi la sente poi la AsOPRo (Associazione ortopedici del polso rotativo)?

C.: “Io volevo cambiare una lampadina…”

N.: “Dicono tutti così, voglio cambiare, voglio riformare…eeehh, giusto! Ma ci vuole avvedutezza, lungimiranza, rispetto delle regole. Si deve cambiare, perbacco, siamo qui per questo, ma ci vuole attenzione, rispettare i diritti acquisiti, le professionalità, l’armonico svolgersi del flusso naturale delle cose…”.

C.: “Io volevo cambiare una lampadina…”

N.: “Senta, facciamo così, lei ha una faccia simpatica e si vede che è una brava persona…Adesso lei vada a casa, ci pensi su, la notte porta consiglio e poi domani, a mente fresca, ci rivediamo e magari costituiamo una commissione di 7 saggi, un bel tavolo di discussione per individuare il percorso che possa portare, nella generale soddisfazione, a programmare il cambiamento che lei tanto desidera…”

C.: “E se stasera, in sala, al buio non vedo il bordo del tappeto, inciampo sul tavolino, cado all’indietro e mi rompo la base cranica sul portombrelli di terracotta della zia Cesira?”

N.:” Eehh, vede che mi da ragione? I cambiamenti comportano rischi, bisogna essere attenti…a casa vada piano in giro, sia prudente, anzi, stia fermo in poltrona…ci vediamo domani, buonasera!”

C.: “Ma io volevo cambiare una lampadina…”

 

Da capo a piedi

claudio.jpgUn libro consigliato:

Claudio Franzoni, Da Capo a piedi. Racconti del corpo moderno, Guanda, 2013.

Negli ultimi anni l’attenzione quasi ossessiva per il corpo e per l’«immagine» ha contribuito a porre in una nuova luce l’ambito della gestualità, il concetto stesso di «gesto», vale a dire quella porzione di movimento che, per una ragione o per l’altra, ci appare così speciale, così eloquente. Eppure, abituati come siamo, da secoli, ad attribuire il primato alla parola, continuiamo a trascurarne la centralità. Questo libro dimostra invece l’importanza dei gesti, spesso decisiva, nei piccoli momenti della vita quotidiana e nei grandi passaggi della storia politica. Non un trattato sulla gestualità e neppure un manuale di consigli o indicazioni meccaniche, ma una ricognizione sull’uso odierno del corpo, a cominciare dai gesti del potere: agitare mani e dita per aria, incrociare le braccia, inginocchiarsi e baciare la terra, per arrivare, tra corna e linguacce, saluti romani e pugni chiusi, baci e bacini, gesti comuni e gesti desueti, a quelli che compiamo non solo nello scambio con gli altri, ma riferendoci alle cose, quando abbiamo a che fare con un telefono, una tastiera, una chitarra. Insomma l’occasione per osservare, attraverso esempi tratti dall’oggi e dal passato, come i movimenti del corpo, incluse le pose di cui facciamo il nostro «stile», siano la conseguenza di ben precise visioni del mondo e delle relazioni tra gli uomini.

“Ma il mito sono io”. Presentazione del volume di Laura Artioli, Roma, 21.9.2013

Presentazione a:

 

Laura Artioli, “Ma il mito sono io. Storia delle storie di Lucia Sarzi: il teatro, la Resistenza, la famiglia Cervi.” Aliberti Editore, Roma, 2012.

Palazzo Valentini, Roma, 21.9.2013

 

(testo provvisorio)

***

MA_IL_MITO_SONO_IO_fronte_LOW.jpgNon è facile ricostruire-in breve tempo- un percorso ventennale che va dal 1922 al 1943, un percorso che, a differenza di una lettura “epica” che ci è stata proposta in passato, fu invece difficile, articolato e spesso contradditorio.

 

Per prima cosa definiamo l’ambito territoriale: quegli spazi di pianura emiliana-lombarda e piemontese, a cavallo del Po, dove più profonda era stata la penetrazione ideale del riformismo socialista di fine ottocento e dove più si era estesa la costruzione di un “contromondo” fatto di leghe sindacali, Camere del lavoro e Case del popolo. Il tutto sostenuto economicamente dall’organizzazione cooperativa che aveva accompagnato e sostenuto il lento processo di riscatto delle grandi masse bracciantili non solo verso condizioni di vita migliori ma anche verso il proprio ingresso nella pur incompleta cittadinanza, con l’acqusizione, attraverso l’alfabetizzazione e l’istruzione, del diritto di voto.

Un percorso lento e faticoso che culminava non nell’abbattimento delle strutture padronali ma nella conquista delle amministrazioni locali. Significativamente Reggio Emilia è il primo capoluogo di provincia ad avere un’amministrazione socialista eletta, nel dicembre 1899.

Nel giro di nemmeno vent’anni si era passati dai moti contadini del “La Boje” (che riprendevano i moti del macinato di quasi vent’anni prima) all’insediamento nei consigli comunali di maggioranze decise a cambiare, passo per passo ma dall’interno, quella società di diversi in una società di uguali. Un percorso di crescita dove, a fianco dell’affermazione crescente del movimento socialista (che agiva sulla scorta del dibattito già attivo in Francia, Germania e Belgio) trovavano spazi anche le prime organizzazioni cattoliche, nate sulla spinta della Rerum Novarum di Leone XIII ed anche, piccole per dimensioni ma dal non trascurabile influsso ideale, anche le prime comunità evangeliche.

Erano gli anni in cui si arrivò a “municipalizzare” i principali servizi  delle città padane, ancora immerse nella campagna. Acqua, gas, illuminazione ma anche farmacie e persino costruzione di linee ferroviarie (in forma cooperativa), dove lo stato, dopo la costruzione della linea Milano-Rimini, non era in grado di rispondere al bisogno di collegamenti per le prime strutture produttive protoindustriali che si stavano sviluppando nelle province.

 

Ma le pianure emiliane e lombarde a cavallo del Po furono anche la culla del fascismo quando, dopo la guerra, le borghesie agrarie si trovarono a fronteggiare non solo l’accresciuto bisogno di un nuovo ruolo sociale ed economico delle masse contadine che volevano vedere realizzate le promesse ricevute nelle trincee dopo la rotta di Caporetto, ma anche-e soprattutto-l’incubo della rivoluzione bolscevica che nel 1917 aveva travolto la Russia zarista e che stava sostituendo, soprattutto nelle masse giovanili, la progressività del processo riformista con il “tutto e subito” della rivoluzione fatta sule canne dei fucili.

La sconfitta del riformismo, già entrato in crisi alla vigilia del conflitto sulle guerre coloniali nazionali, fu anche, in quelle condizioni una crisi generazionale. Il crollo degli iscritti giovani, segnalato da Giovanni Zibordi nel 1921, ne era solo il segnale più evidente.

In quello scontro il fascismo, che fu creazione italiana, non dimentichiamolo, seppe anche introdurre un elemento devastante di modernità : l’uso della violenza nel conflitto politico, un portato decisivo della I guerra mondiale che fu, a tutti gli effetti, la vera incubatrice di tutti gli-ismi (fascismo, nazismo, comunismo) che hanno devastato l’Europa nel secolo scorso.

La vittoria del fascismo in queste terre fu inaspettatamente (per gli stessi fascisti) rapida e definitiva. Di fronte alla violenza delle squadre fasciste l’organizzazione trentennale riformista andò rapidamente in pezzi. L’analisi sulla novità-fascismo, ancora di Zibordi nel 1922, non si tradusse in azione politica. La divisione interna del partito, ulteriormente indebolito dalla nascita nel 1921 del PcdI, il rifiuto (culturale prima ancora che politico) ad utilizzare la medesima violenza dell’avversario e la frattura nel fronte antifascista impedirono la costruzione di una resistenza di fronte all’attacco squadrista e al collaborazionismo delle strutture dello stato liberale.

 

L’antifascismo socialista sconfitto scelse la via dell’esilio (il caso della comunità reggiana ad Argenteuil ne è l’esempio più concreto) o quella del silenzio e del ritiro.

La crisi  del riformismo si tradusse proprio, negli anni, in un passaggio generazionale sul fronte dell’opposizione al regime che si andava affermando dopo le Leggi speciali del 1925. Alla generazione sconfitta dei padri lentamente e faticosamente iniziò a sostituirsi quella dei figli che trovarono, inevitabilmente, nel partito comunista clandestino l’unico luogo ove iniziare il proprio percorso di formazione.

Ma non fu un passaggio facile si trattò di una rottura spesso drammatica, tanto più difficile in territori dove le figure di riformisti come Camillo Prampolini avevano assunto valenze non solo politiche ma quasi mitiche e messianiche. Il riformismo diventava, per il movimento comunista, uno dei nemici da combattere, dopo il”tradimento” operato che aveva spalancato le porte ai fascisti.

Il tutto calato in una società rurale che il regime cercava di ricondurre nuovamente ad un controllo completo da parte delle classi proprietarie con la progressiva cancellazione di tutte le conquiste che erano maturate nel “biennio rosso” del 1919-1920.

L’antifascismo si ricostruisce nelle campagne, sotto la nuova prospettiva comunista che trova però proprio nella storia di quei territori sia un elemento di forza che di contraddizione. In province dove l’industrializzazione era ancora agli albori (le Reggiane nascono solo nel 1903 e solo dopo la prima guerra mondiale assumono dimensioni rilevanti) sono i contadini ad organizzare un’azione politica di resistenza, fatta di diffusione di stampa clandestina, di aiuto ai compagni incarcerati o al confino (il “Soccorso rosso”).

E’ comprensibile e significativo, rileggendo la relazione di Teresa Noce “Estella” nel 1932 sulla sua lunga permanenza in quelle campagne emiliane, la sorpresa e quasi lo sconcerto dei dirigenti comunisti in esilio a Parigi di fronte alla situazione politica trovata. Una provincia, quella reggiana, dove gli iscritti al Pci clandestino, erano oltre un migliaio, un terzo di tutta la Regione e la federazione (clandestina) di Reggio la prima in Italia. Una relazione, quella di “Estella” che sarà poi attentamente valutata e commentata da Togliatti e che sarà una delle “fonti” per il suo discorso “Ceti medi ed Emilia rossa”, tenuto a Reggio nel settembre 1946.

Ma era un  partito clandestino quasi “di massa”, fatto di contadini (in gran parte), poco avvezzo alle regole della clandestinità e dove rimanevano aperte le porte a quelli che erano stati i giovani di Prampolini. Un Partito comunista dove la egemone classe operaia aveva ben poco ruolo e dove la socialdemocrazia non era uno dei nemici da sconfiggere ma una fase ormai trascorsa da superare.

Un Pci poco incline alla clandestinità e che per questo, pur continuando la crescita diffusiva favorita anche dalla crisi economica degli anni ‘30, venne colpito ripetutamente dagli apparati repressivi fascisti. Nei 17 anni di attività del Tribunale speciale per la difesa dello Stato furono 214 i reggiani condannati, 206 quelli inviati al confino, 260 gli ammoniti, 196 i vigilati, nella quasi totalità comunisti. La grande fabbrica Omi Reggiane, militarizzata dal 1937 con l’avvio della produzione aeronautica, fu periodicamente colpita da retate poliziesche, l’ultima delle quali proprio nella primavera 1943, a pochi mesi dalla caduta del regime.

 

In questo contesto Lucia Sarzi si muove fino all’incontro con i Cervi in quell’autunno 1941, quando a pochi chilometri da Campegine le donne di Cadelbosco svolsero la prima manifestazione di aperto dissenso contro la guerra e la mancanza di generi di prima necessità.

 

Guerrino Franzini, autore della fondamentale “Storia della Resistenza a Reggio Emilia” (1967), inizia la sua monumentale ricostruzione con una frase significativa: “La Resistenza non nacque armata dal cervello di Giove”, ma, aggiungo, fu un processo lento, doloroso e difficile, come la vicenda dei Cervi e di don Pasquino e dei suoi testimoniano drammaticamente.

Non fu facile, infatti, la transizione fra quell’antifascismo guidato dal Pci, antifascismo politico, fatto di diffusione di stampa clandestina, di aiuto alle famiglie dei carcerati, di riunioni politiche di formazione di piccolissimi gruppi, sempre agite nell’ossessione della presenza di spie ed infiltrati, a quello che la nuova situazione dopo l’8 settembre richiedeva: la lotta armata.

E se la decisione di passare alla nuova fase (con la costituzione dei cosiddetti “Gruppi sportivi”) fu immediata (con la riunione alle Scampate di Quattro Castella già il 9 settembre), la realizzazione del progetto richiese tempi bel più lunghi.

Nelle stesse settimane in cui si compiva la vicenda politica e umana dei Cervi, venne inviato a Reggio l’Ispettore “Berto” che si dovette confrontare, dieci anni dopo, con una situazione non troppo diversa da quella incontrata da “Estella”.

La lotta armata stentava ad iniziare (il primo attentato fu compiuto solo il 15 dicembre), nella grande fabbrica in primo luogo, mentre era nelle campagne che si potevano ritrovare i primi segnali concreti di una volontà di azione, come i Cervi avevano confermato seppur con troppo anticipo sulle reali condizioni di lotta e con modalità e obiettivi non del tutto coincidenti con quelle del partito.

Dopo quella visita ispettiva furono avvicendati i vertici del Pci reggiano, sostituendo figure che poi nel corso della Resistenza avrebbero svolto, altrove, ruoli decisivi come Osvaldo Poppi “Davide” e Sante Vincenzi, ma che in quel difficile contesto non erano riusciti a mettere a sistema il disperso reticolo clandestino che era sopravissuto per tutti gli anni trenta e dopo lo scoppio della guerra.

Solo con gli inizi del 1944, con i primi gruppi reggiani e modenesi sugli appennini e la grande fuga dei giovani in maggio per evitare bandi di arruolamento inizierà a svilupparsi, anche grazie alla collaborazione alleata, il movimento partigiano che riuscirà a radicarsi così profondamente nell’esperienza popolare da riuscire a diffondersi anche nelle terre dei Cervi, terre di pianura e, secondo logica, le più inadatte ad una lotta clandestina.

Ma questa, come si dice, è un’altra storia…

Silenzio su Fortezza Bastiani

 

invasione-degli-ultracorpi-201x300.jpgSilenzio su Fortezza Bastiani in queste settimane passate, sotto la pioggia e il vento, dall’alto degli spalti, a guardare le poche carovane in fondo alla valle mentre risuonavano suoni di urla lontane, di gridi scomposti, echi di rutti e peti dalla pianura di un paese ormai perduto. Quindici mesi fa quando cadde il governo del vecchio maiale e si era sull’orlo del baratro, ebbi il banale buon senso di scrivere che quello che ci voleva era “rigore”, prima di tutto verso noi stessi. Una bella rilettura interiore, prima ancora che politica, per capire come tutto era potuto accadere, come un paese in vent’anni era stato divorato, macchiato, sporcato. Noi eravamo lì, certo non tutti con le stesse responsabilità, ma anche noi eravamo lì, a prendere bricioline, ad annidarci nella broda, a conservare tutti i nostri diritti, divenuti privilegi insostenibili. Rigore per tutti e per ciascuno. Nessun tribunale, nessuna spada fiammeggiante o giustizieri da avanspettacolo. Solo un esame interiore, serio.

Ma, come noto, in Italia l’unico rigore che può interessare è quello del calcio. Caduto il porco partì la giostra dei desideri, tutti volevano tutto e subito. E a nulla serviva dire che ci eravamo fermati sull’orlo del baratro e che bisognava mandar giù rospi grossi e viscidi. Ma soprattutto che il maiale non era stato trasformato in salsicce ma grufolava ancora nella fanga a condizionare ancora il paese. Un paese dove anziché rigore dilagava di nuovo l’eterno italico senso dell’arrangiarsi, di farsi i propri, schivare i doveri per urlare i propri diritti che poi fossero diventati rovesci a carico di altri, cosa importava?

Un paese bloccato, immobile, in cui nulla funziona ma in cui non si può cambiare nulla. Riforme, riformisti del nulla. Riformisti tutti purché tutto rimanga come sempre. Una destra impresentabile e orribile e una sinistra incapace di qualunque innovazione, diventata paladina di ogni privilegio, chiusa nelle sue liturgie, nei suoi apparati.

E poi fuori, confusi, urlanti, maleducati eccoli i barbari. Li abbiamo visti crescere su quel nulla che gli altri hanno lasciato, contro quelle stanze chiuse, quei walzer di seggiole e poltrone, oltre quel linguaggio vuoto e insopportabile che parlava solo a sè stesso e ai suoi adepti. Hanno trovato il nulla e sul nulla si può fare tutto, a parole, a urla, a vaffanculo. Hanno radunato ostrogoti autostradali, vandali cibernetici, calmucchi ecologisti, garagisti teosofici, hanno raccolto, come Cola di Rienzo e Masaniello, il grido della folla confusa, che come la mosca d’inverno sbatte sul vetro a casaccio cercando l’uscita, hanno raccolto i giovani usciti dalle scuole dove il sapere è divenuto un optional poco richiesto, tanto basta il diploma, la triennale e wikipedia. Hanno raccolto il rancore e la paura dei deboli travolti dalla crisi. Le fila si sono ingrossate, le abbiamo viste dall’alto degli spalti passare là in fondo come un fiume in piena a spazzare via tutto.

E come ai tempi di Romolo Augustolo buon anima mentre le mura crollavano ognuno reiterava autisticamente il proprio copione. Chi a fuggire dai giudici, chi a parlare di innovazione senza cambiarsi nemmeno i calzini di cachemire, chi ad aspettare la rivoluzione fra un mojito e un weekend nelle città d’arte.

Rigore? Nemmeno il calcio. Un paese perduto, una folla ubriaca a sbevazzare sulla tolda del Titanic, a questionare su tutto mentre la disoccupazione è aumentata del 22% e lo spread è lì a minacciare tutti. Un paese scoperto nella realtà di quello che è, un paese che sceglie al 50% o ancora il vecchio maiale o la tribù dei barbari urlanti. Un paese dove la sinistra si condanna alla futura irrilevanza, nella onanistica purezza di una conservazione dell’inesistente.

Andate sul web o in videoteca e guardatevi la miglior rappresentazione del nostro oggi: L’invasione degli ultracorpi, film del 1956 di Don Siegel, la terra invasa dagli alieni che, in silenzio, si sono presi tutti i terrestri, senza dolore, senza raggi laser, semplicemente entrando nei loro corpi e nelle loro menti.

“Sentinella a che punto è la notte?”. La notte è appena iniziata.

La mossa del Colle per prendere tempo (F.Bei)

“Abbiamo guadagnato un po’ di tempo”. Arrivato a un passo dal precipizio, con le sue dimissioni pronte per essere firmate, Giorgio Napolitano ci ha ripensato. E l’aver trovato una soluzione, quella dei dieci saggi, per “guadagnare un po’ di tempo “, serve soprattutto a dare all’estero “un segnale di tranquillità ” e di “continuità istituzionale”. Altrimenti da martedì, senza un governo con i pieni poteri, senza più un capo dello Stato, con le tre principali forze politiche incapaci di formare una maggioranza, davvero l’Italia avrebbe rischiato grosso sui mercati. È stata questa la motivazione principale che ha convinto Napolitano, dopo una notte insonne, a resistere qualche altro giorno al suo posto, pur nello scoramento per la trattativa fallita per arrivare a un “governo di scopo”. Nei colloqui riservati con importanti esponenti della comunità d’affari interna e internazionale, nei contatti con la Banca d’Italia, il capo dello Stato ha trovato infatti la conferma dei suoi timori: le sue dimissioni, per quanto giustificate dallo stallo politico e dalla volontà di accelerare l’elezione di un successore “con i pieni poteri”, sarebbero state lette sui mercati come il suggello finale di un paese allo sbando. Senza timone e senza timonieri. “Lei è l’unico punto di riferimento rimasto in Italia”, gli hanno ripetuto in molti. Una telefonata ci sarebbe stata ieri anche con Mario Draghi, il presidente della Bce, che gli avrebbe appunto ribadito i rischi seri sui mercati per l’incertezza della situazione politica. Con le agenzie di rating pronte a un ulteriore declassamento del Paese. Una situazione insostenibile, che ha consigliato prudenza al Presidente. Anche il rapporto con Monti si ricostituito, dopo le tensioni dei giorni scorsi legate alla vicenda incresciosa delle dimissioni del ministro Terzi. Ieri il capo dello Stato si è sentito al telefono con il premier (anche per chiedergli il “permesso” di inserire Moavero nella squadra) e a Monti ha fatto molto piacere constatare che il Presidente lo avesse nuovamente investito di fiducia, definendo il governo ancora “operativo “, “in carica” e “non sfiduciato dal Parlamento”. Ma certo Napolitano è il primo a sapere che le due commissioni di saggi serviranno a futura memoria. Egli stesso lo ha fatto capire, spiegando che i testi prodotti dagli esperti “potranno costituire comunque materiale utile: voglio dire anche per i compiti che spetteranno al nuovo presidente della Repubblica nella pienezza dei suoi poteri”. Napolitano è infatti consapevole che spetterà al successore nominare il nuovo capo del governo. Il programma uscito dalla commissione di sherpa faciliterà il lavoro. E gli stessi componenti della squadra, i dieci saggi, potrebbero diventare i futuri ministri del governo del Presidente. Di fatto la loro indicazione consente di congelare la crisi, proiettando in avanti l’ora della decisione. “Guadagnare tempo ” quindi, per i mercati e per lasciare al prossimo inquilino del Colle la scelta. Già, il nuovo capo dello Stato. Di fatto è questa la partita che si è aperta ieri, lasciando sullo sfondo il tentativo di formare il governo. Nelle consultazioni con i presidenti delle Camere, Napolitano si è sincerato che venga fatto ogni sforzo per accelerare le procedure di convocazione del Parlamento in seduta comune. E se prima si parlava di lunedì 22 aprile come inizio delle votazioni, adesso sembra che si riuscirà ad anticipare a giovedì 18. In modo che già all’inizio della settimana successiva, forse già lunedì 22, potrebbe saltar fuori il nuovo capo dello Stato. L’obiezione di attendere le elezioni in Friuli non vale più, dato che il Consiglio regionale ha provveduto a nominare la scorsa settimana i rappresentanti da mandare a Roma per partecipare all’elezione del presidente della Repubblica. Per stringere ulteriormente i tempi, Napolitano starebbe valutando anche l’ipotesi di lasciare anzitempo (la fine del mandato è fissata al 15 maggio) – ma solo ad elezione avvenuta – in modo da evitare la coabitazione e passare subito le consegne. Se la gara per il Colle è di fatto aperta, opposti sono gli scenari e gli identikit dei possibili pretendenti. “L’elezione del capo dello Stato  –  ragiona Lorenzo Dellai, uno di quelli che ha suggerito a Napolitano l’idea dei saggi  –  sarà il banco di prova per vedere se i partiti vogliono un Presidente da combattimento oppure una figura di garanzia e di equilibrio. È chiaro che se il clima si deteriora, l’elezione sarà una prova muscolare e si avvicinerà la fine anticipata della legislatura “. Presidenti diversi per scenari diversi. Un Presidente “di combattimento” potrebbe essere Romano Prodi se il centrosinistra rompesse ogni dialogo con Berlusconi. E non a caso ieri Grillo ha citato come possibile presidente proprio il fondatore dell’Ulivo, uno che “cancellerebbe Berlusconi dalle carte geografiche”. E che potrebbe uscire fuori grazie ai voti di Pd e cinquestelle. Ma certo è possibile che il lavoro dei saggi porti a un cambiamento del clima e che si arriva a un capo dello Stato frutto dell’intesa tra centrodestra e centrosinistra. Sono tre i nomi che circolano in questa cornice. Nell’ordine: Giuliano Amato, Franco Marini e Massimo D’Alema. Se uno dei tre riuscirà a salire al Quirinale vorrà dire che si sarà formata una maggioranza politica Pd-Pdl, capace anche di dar vita a un governo del Presidente o persino di Grande Coalizione. La terza ipotesi è quella più caldeggiata da Scelta Civica e dal centrodestra: la riconferma di Napolitano. Nonostante la netta contrarietà dell’interessato, sia Berlusconi che i montiani ancora ci sperano. Perché a un Napolitano nella pienezza dei suoi poteri difficilmente il Pd potrebbe dire di no.

(La Repubblica, 31.3.2013)



La soluzione 54%

01_recupero_rovine_Ralph%20Horsley_Copyright_Wizard_of_the_Coast.jpgLa campagna elettorale volge-finalmente-all’epilogo. Stavolta mi sbilancio e vi dico cosa succederà la prossima settimana (tanto io lunedì parto e me ne vado a Praga…) 

Nella sera di lunedì le cose erano abbastanza chiare ma ben pochi riuscivano a capire cosa era successo: la solita sfilata di interviste lampo ma con una differenza che emergeva faccia dopo faccia, occhio sbarrato dopo occhio sbarrato. Stavolta non avevano vinto tutti. Aveva vinto soltanto lui. Il comico. Il movimento. La percentuale ormai si era assestata su quelle due cifre. Due numeri. 54%. Maggioranza assoluta. Camera e Senato. Porcellum o non porcellum.

Nelle strade i primi cortei di ragazzi ed attivisti, tuffi nelle fontane gelate, assideramenti e bottiglie di birra alzate al cielo.

Martedì mattina le testate del mondo occidentale (compreso il giapponese Ekke Kakkio) titolavano: “Lo tsunami Italia”.

Nei quartieri generali dei partiti di destra e di sinistra era stato un otto settembre in poche ore. Uffici vuoti, scrivanie deserte, fogli sparsi. I primi saccheggi di Ipad e cartelline stampa. Sul web i primi moderati annunci sotto il logo stellato: “L’Italia è nostra. Gli abbiamo fatto il culo”.

La gente si chiuse in casa, un po’ per il freddo, un po’ perché non si sa mai. Molti con nella testa quella domanda: “Oddio, ma cosa ho fatto?”, ripensando al voto dato. A quel 54%. Tutti attaccati al video dei pc, perché le varie tv riproponevano in loop le dichiarazioni della sera prima insieme al meglio di Masterchef. A seguire un “Porta a porta” vecchio di una settimana, un Santoro che urlava, un Sallusti ghignante. Il vincitore non aveva mai parlato con le tv, perché farlo ora, con il paese in mano?

Verso sera arrivò la prima notizia dalla FAZ (Frankfurte Allgemeine Zeitung), rilanciata dall’Ansa. Un vecchio suino siliconato era partito in tutta fretta da un aeroporto privato in Lombardia per ignota destinazione con il suo jet privato. Dopo di lui si era alzato in volo un Airbus colmo di ètere, leccardi, inquisiti e camorristi. I conventi lombardi registravano il tutto esaurito per l’improvviso afflusso di ciellini sulla via della redenzione.

Le strade verso la Val Seriana erano intasate da colonne leghiste, decise ad arroccarsi nel ridotto della Valtellina. La situazione divenne insostenibile quando ci si accorse che dalla Val Seriana non si arriva in Valtellina. La rivelazione provocò un totale blocco stradale che sarebbe durato un paio di settimane.

Anche a sud del Po la situazione divenne in breve tempo critica, dall’Emilia, Toscana e Marche si alzò una sorta di onda sonora crescente, facilmente ascoltabile fino a Basilea, un mantra lamentoso simile ad un ripetuto “om” ma che ascoltato attentamente suonava come

“madovecazzoabbiamosbagliatomadovecazzoabbiamosbagliato madovecazzoabbiamosbagliato…”.

Mentre il vento gelido spazzava la via Emilia deserta, fra ipercoop assaltate e coop edili in cenere, un piccolo gruppo di irriducibili fu segnalato al Lido di Ravenna mentre, imbarcato su un dodici metri, capitanato da un esperto lupo di mare, salpava verso la costa croata. Grande lo sconcerto a bordo quando scoprirono dalle mappe che la costa agognata non era più quella jugoslava e che il presidente Tito non era più su questa terra da qualche settimana.

Mercoledì verso mezzogiorno, perdurando il silenzio stampa dei vincitori, a parte un sobrio titolo sul sito web “Stronzi, adesso sono cazzi amari!”, un reporter della CNN individuò lo stato maggiore dei centristi arroccato in una cabina del telefono nei pressi dell’Università Bocconi, intanto il gruppo dirigente Fiom era salito sulla cima dell’ultima torre di raffinazione di Marghera intonando l’Internazionale, rigorosamente in lingua russa, mentre altri compagni salpavano su un gommone da Rimini verso Cuba.

Nel frattempo la Meloni e sodali erano segnalati essersi barricati nel cripta Mussolini del cimitero di Predappio dove però presto iniziarono le prime randellate fra camerati sul tema “so’ più fascio io…”.

Giovedì mattina, per abbreviare i tempi e la sofferenza, e prima che anche l’ultimo palafreniere fosse fuggito in Svizzera a godersi una dorata pensione, il presidente Napoletano convocò il vincitore al Quirinale. Il comico gli rispose con deferenza: “Vecchia mummia dei soviet, ficcati nel c..la tua convocazione” ed annunciò, in diretta web, twitter, ruzzle e google che la rete aveva scelto il premier al quale la “vecchia mummia” avrebbe affidato l’incarico di formare il nuovo governo monocolore.

Trattavasi di Assuntina Ghislanzoni, anni 42, collaboratrice domestica, con un passato luminoso di animatrice di comitati per la difesa del rospo smeraldino in val Coppetta e per la costituzione di una Commissione d’inchiesta sulle scie chimiche nel cielo di Vigarano Mainarda, madre di 4 cocker, 3 gatti e 1 varano. La Ghislanzoni, (nota ai militanti come la “Ghisla di ghisa” per la qualità della sua scatola cranica) veniva segnalata in partenza dal proprio domicilio (presso casa Casaleggio dove svolge le funzioni di colf) verso Roma. Arrivo previsto entro giorni otto, visto che, da tempo, per dare un segnale forte di innovazione, la “Ghisla” si muove solo su un velocipede ad energia mesmerica.

In attesa dell’arrivo del premier designato, apparve sul sito del Movimento, ribattezzato “La veritàààà” (incerta l’origine: un chiaro riferimento zavattiniano o alla Pravda di augusta memoria?) l’ordine del giorno n.1 recante la dicitura: “TxT: Tutto…per tutti”: 1. Internet per tutti; 2. Reddito garantito per tutti; 3. Nutella per tutti; 4. Solare e fotovoltaico per tutti; 5. Wii e PS per tutti; 6. A casa tutti…mo’ ci siamo noi”.

Venerdì furono rese pubbliche le prime nomine, dettate dall’Assuntina (in transito un po’ faticoso al Passo della Futa) in base a precisi curriculum di competenza: alla presidenza di Mediobanca Ciccio Pippozzi (ragioniere di Seregno); alla presidenza ENI Anselmo Brunazzi (benzinaio di Celle Ligure);  alla presidenza RAI Paolo Bisuzzi (antennista di Pistoia); alla presidenza Finmeccanica Mariuccia Ghisollo (nipote di Nino, già operaio alla Oto Melara); alla presidenza Cassa depositi e prestiti Francuzza Bassanini (omonima ma non congiunta del presidente uscente).

Sabato la CNN anticipa i primi nomi per i prossimi ministri: Celentano agli Interni, Dario Fo all’Economia, Antonio La Trippa agli Esteri e Checco Zalone ai rapporti con l’Europa.

Viene confermato che il nuovo Governo non si presenterà mai fisicamente in Parlamento ma interverrà solo su Skype e sul nuovo sito (www.soleamorecuorereteliberta.gov) che sostituirà, con decorrenza immediata, la obsoleta Gazzetta Ufficiale. Tutte le votazioni dei provvedimenti di legge avverranno on-line con il nuovo sistema “SR” (san remo): il 35% dei voti attribuiti ai parlamentari (che potranno farlo direttamente da casa senza affollare inutilmente Roma e dintorni), il 60% direttamente alla “ggente”, il restante 5% alla giuria tecnica fornita dalla Casaleggio Associati che elaborerà direttamente i risultati presso i propri server e li comunicherà nei tempi e modi dovuti.

Domenica a reti web unificate viene comunicato dal premier Ghislanzoni l’uscita dall’euro e il passaggio al sesterzio a decorrere dalla mezzanotte, la dichiarazione di guerra alla Germania e lo svelamento del quinto mistero di Fatima.

Lunedì mattina scatta l’operazione “Zwei Kügeln” (Due palle) la Germania invade l’Italia e viene costituito un governo collaborazionista. L’Italia può iniziare a diventare un paese normale.

 

 

 

Guerra, guerre. Ancora sul terrorismo..

Continua il dibattito su questo blog con un nuovo intervento dell’amico Gianni:

Caro Massimo, permettimi di rientrare nel merito.
Ci sono due aspetti del tuo commento che mi mettono in disaccordo con te.
Il primo è la condanna tout court a Gallinari e al brigatismo in forma di anatema che non risparmia neanche la dignità della persona.
Il secondo è la distorsione della storia resistenziale.
Procedo per ordine.
La fantasia che ho voluto usare ipotizzando Gallinari alle prese con la lotta al nazifascismo serve per inquadrare la sua buona fede e l’abnegazione alla causa che lo muoveva, ma anche per rimarcare la tragicità dei suoi errori nell’aver abbracciato invece cause sbagliate.
Seppur i brigatisti reggiani si sentissero continuatori di una lotta resistenziale, ciò non fu perché quella lotta finì, pur con tutti i suoi strascichi e malumori, nel 45 con l’adesione alla dialettica del sistema democratico.
Per quanto marcio possa essere un sistema democratico (basta pensare all’oggi) è sempre un sistema da preferire rispetto a modelli che privano la libertà individuale; inoltre al suo interno contiene la possibilità di rivoluzionare le cose con gli stessi strumenti della democrazia.
Il risultato di quegli anni di lotta armata è devastante in tutti i suoi aspetti umani e politici, ed oggi ne continuiamo a pagare le conseguenze con una Italia ed una sinistra spostate a destra.
Il dramma quindi è un dramma politico.
Il secondo aspetto riguarda il tentativo di qualificare come criminali senza dignità Gallinari ed i brigatisti come lui, attraverso l’esercizio della retorica della “non violenza” e con paragoni falsificati con le lotte resistenziali.
E’ verissimo che molti fatti compiuti fossero disumani, quelli da te citati e altri.
Ma è sbagliato il teorema che li vuole criminali perché “…uccidere a sangue freddo persone, in nome di una qualunque ideologia, quello è e resta”, sottraendo al medesimo giudizio la lotta armata della Resistenza ed avvertendo che ogni paragone sarà trattato come oltraggio alla memoria.
La Masini che ha solo responsabilità politiche può permettersi di imbracciare il bastone e mettere tutti in riga dalle colonne del Carlino di ieri, semplificando il paragone delle due lotte armate attraverso la elevazione di quella resistenziale a insurrezione di popolo.
Tu no, per il tuo lavoro scientifico di storico specializzato nel periodo resistenziale che conosce bene i fatti ed ha scritto libri come “Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra. Reggio Emilia 1943-1945”.
In esso tu descrivi con precisione come in un primo tempo c’era chi era contrario ad imbracciare la lotta armata e chi invece voleva un salto di qualità dell’antifascismo proprio attraverso l’innesco della violenza.
Tu ben descrivi le difficoltà che incontrarono i dirigenti comunisti locali nel trovare le persone che andassero a colpire a sangue freddo, e quando ciò iniziò il primo caso successe davanti agli occhi della figlia della vittima. Per non parlare poi delle esecuzioni fra le proprie fila, come testimoniato da libri quali “Il Commissario” di Osvaldo Poppi, o dalle vicende riguardanti il comandante Facio.
Inoltre per lunghi mesi la Resistenza non fu insurrezione popolare ma cospirazione. Fu una opzione alternativa e un riparo per i giovani che volevano sottrarsi all’arruolamento forzato e per i militari allo sbando.
Ma fu anche gesto eclatante di “sicariaggio” ad opera di persone inquadrate nei GAP, corpi “scelti” della Resistenza, che rimandano ai corpi speciali di un esercito.
Non possiamo trasformare e sterilizzare la storia cruda e reale in una favola retorica, quanto meno non lo puoi fare tu.
Se vuoi puoi giudicare e condannare fatti, mezzi e persone, se credi puoi dividere la Resistenza in buona e cattiva, ma non puoi trasfigurare le cose ad uso di una propaganda moralizzante e normalizzatrice.
Io Massimo non ti so dire se il fine viene o meno qualificato dal mezzo, se l’uccisione a freddo di uomini simbolo sia un assassinio o un atto di guerra.
Però so che se i partigiani avessero perso, il potere che si sarebbe consolidato non gli avrebbe dato l’onore delle armi considerandoli combattenti di un esercito (già erano chiamati terroristi nella RSI) e sarebbe stato loro negato ogni valore di scopo per il quale combattevano, relegandoli a criminali sanguinari.
Questo perché il giudizio del potere non è necessariamente la verità e non è neanche il giudizio della storia, ma può essere invece la propaganda di chi ha vinto.

Prospero Gallinari ha perso la guerra che ha combattuto, ha ammesso di aver perso e ciò forse ha significato per lui aver capito l’errore tragico di averla intrapresa. Non ha abiurato scegliendo così la strada scomoda del non cercar sconti dal sistema che ha combattuto. Ha evitato di render pubblico il suo travaglio interiore e nulla ha fatto per scagionarsi dall’accusa più infamante di essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio Moro.
Non ha cercato attenuanti nell’opinione pubblica attraverso il pietismo. Forse perché le contraddizioni erano troppo devastanti da dirimere o forse perché ha così rivendicato il suo ruolo di combattente.
Tutto ciò non fa di lui un eroe, ma suscita rispetto anche nei suoi nemici, nonostante l’enormità dei suoi errori.
Gallinari ha riconosciuto nel nemico Cossiga che li ha combattuti, l’unico che riconoscesse loro l’onore delle armi e, proprio perché consapevole e determinato antagonista, anche l’unico che poi operò per chiudere la guerra degli anni di piombo con la liberazione dei detenuti, al pari dell’amnistia di Togliatti dopo la Liberazione.
Oggi, alla distanza di tanti anni dai fatti e dall’epilogo voluto da Cossiga, quale senso ha combattere e denigrare l’uomo Gallinari dopo aver combattuto e vinto il Gallinari politico e militare?
E’ solo un eccesso di preoccupazione democratica o la polemica è utile per aprire una nuova ulteriore fase di revisione storica?
Verso il brigatismo o verso la Resistenza? O verso una parte di quest’ultima?

In quest’epoca maleodorante evitiamo di offrire ai giovani polpette sterilizzanti, volte a innestar loro una morale di plastica ed il controllo delle loro emozioni; parlando di brigatismo spieghiamo loro il valore ed il primato della democrazia.

Caro Gianni,

ti ringrazio per il tuo contributo a discutere questioni che mi sembrano rilevanti nella costruzione di una comune consapevolezza civile. Non condividiamo le stesse idee ma è questo un altro fattore costruttivo, finchè c’è possibilità di discussione, intelligente e aperta.

Vengo alle questioni che continuano a dividerci. Certo la mia condanna al terrorismo è una condanna che lascia ben poco ai se e ai ma: come storico e come testimone degli eventi, posso approfondire quei fatti, leggerne le meccaniche, auspicare una totale disponibilità di fonti ma tutto questo non muta il giudizio su quel periodo. Un giudizio che coinvolge, logicamente, quanti di quel fenomeno politico-criminoso furono attori. Io non pratico, come dici, la retorica della non violenza, credo che la violenza sia nella storia umana un motore importante e spesso sia stata “levatrice della storia”, ma ogni violenza deve essere inserita nel contesto che l’ha prodotta e vincolata ai valori che la motivano. Uccidere, in tempo di pace persone inermi, per il senso che un’ideologia attribuisce loro, è un crimine e chi lo pratica è un “criminale”. E non credo che simili persone meritino nessun onore. Nelle mie considerazioni non ho mai parlato del caso specifico che ha animato le cronache di questi giorni, pietà per i morti ma nessun endorsement con quanto sono stati da vivi. In tutti questi anni mi ha sempre irritato vedere personaggi condannati per crimini di sangue apparire in tv a dire, spiegare, rilasciare interviste, come reduci di chissà quale meravigliosa avventura. Sono legalista: una volta scontata la pena il reo torna ad essere un cittadino, con tutti i diritti di “rifarsi una vita”. Un cittadino, non un maestro, un opinion maker. Tutti i protagonisti hanno scritto il loro libro (alcuni anche più di uno). Bene, bravi, grazie. Bastava quello. La mancanza di dignità sono stati loro a dimostrarla nel continuare ad apparire, a mostrarsi, a rivendicare. Questo da vivi. Ora che sono morti valga il classico “e il resto è silenzio”.

Vengo alla seconda questione, il nesso violenza-terrorismo-resistenza. Se qualcuno non ha capito quello che ho scritto chiedo scusa: non mi sono evidentemente spiegato bene. Citare un mio testo per equiparare resistenza-terrorismo, significa che quanto scritto è da buttare. Ma parto da un aneddoto: negli anni sessanta Giorgio Bocca richiese, per motivi di lavoro, il passaporto. Dopo qualche giorno giunse la chiamata dalla Questura di un funzionario che conosceva il giornalista che gli annunciava il rifiuto alla concessione del documento. Stupito, Bocca chiese perché. Il funzionario spiegò che la causa era l’informativa di un maresciallo dei carabineri di un paese delle montagna piemontese che riferiva che “il sunnominato Bocca Giorgio è stato visto aggirarsi armato per questa valle, insieme ad altre persone parimenti armate”.

“Sì, ero io-sbottò Bocca-ma era il 1944, eravamo partigiani…”.

Se nei miei saggi non sono riuscito a spiegare l’elemento-tempo, devo riconoscere che sono un storico mediocre e che è meglio (come forse farò) che cambi mestiere e mi dedichi al tombolo o al dècoupage. Il tempo è il fattore decisivo negli atti delle persone. Sparare a un fascista (armato o no) il 30 aprile 1945 nell’Italia del nord era un’azione militare e politica, sparare allo stesso fascista (armato o no) il 3 maggio 1945 era un omicidio. Perché il 2 maggio 1945 alle ore 12 in Italia finisce la guerra. Guerra. War. Krieg. Questa è la parola che da un senso o un altro allo stesso gesto. Guerra, e la regola da sempre è che vince chi ne uccide uno più dell’altro. Non esiste (per favore non dirlo a me!) una Resistenza buona e una cattiva, esiste una lotta armata in tempo di guerra, agita da uomini (i migliori come i peggiori). Ma era guerra. Seconda guerra mondiale. Non la guerra contro le multinazionali e il capitalismo decisa a tavolino da quattro strateghi che volevano cambiare il mondo. Sono stati sconfitti, e per fortuna! E sono stati sconfitti anche per l’impegno, per il no deciso, di operai ed ex partigiani, sono stati sconfitti dallo Stato ma anche dall’essere avanguardia del nulla.

Sconfitti ma quanti innocenti hanno pagato per niente? Caro Gianni, nel 1978 avevo 23 anni, ricordo il giorno di via Fani come fosse oggi, ma ricordo anche l’ubriacatura di ideologia, i volantini fumosi e incomprensibili, le assemblee deliranti, la violenza legalizzata sempre contro inermi, lo strizzare d’occhi di tanti a quei “compagni che sbagliavano”. Non c’era nessuna guerra, c’era un paese con i suoi problemi, in un contesto internazionale complicato e bloccato (che oggi quasi rimpiangiamo). C’erano tante cose in quegli anni, anche belle: entusiasmo, voglia di fare, sentimenti. Tutto spazzato via da quel delirio ideologico al quale ha risposto la durezza inevitabile dello Stato. Cossiga è la logica interfaccia di Gallinari e non mi ha stupito il suo atteggiamento.

Vedere riaffiorare oggi quelle facce, quelle parole, quei gesti mi provoca un misto fra pena e inquietudine.

Nessuna guerra e quindi nessun “militare” contro cui accanirsi oggi. Gli “sconfitti” hanno avuto anni da vivere che altri, per causa loro, non hanno potuto avere. Personalmente avrei preferito da loro un altro atteggiamento, un altro “stile”, ma da persone con la loro vicenda e personalità forse era chiedere troppo.

 

Destra e sinistra esistono ancora (A.Giddens)

da: La Repubblica, 15.1.2013

Palazzo_magnani,_giano_bifronte.jpgDestra e sinistra sarebbero concetti superati, obsoleti, privi di senso, come qualcuno ora sostiene nella campagna elettorale italiana? Non sono d’accordo. Norberto Bobbio diceva che il significato di destra e sinistra cambia continuamente, e non c’è dubbio che oggi entrambi i termini significano qualcosa di diverso rispetto al passato. Ciononostante restano due concetti politici profondamente differenti e continuano ad avere un valore specifico anche nell’odierno mondo globalizzato.

La destra tradizionale di oggi in Europa e in generale in Occidente crede nel libero mercato, in uno stato poco invasivo e contenuto, in un conservatorismo sociale nella sfera privata. La sinistra crede in un governo attivo più che nello statalismo, in una maggiore regolamentazione del mercato, nel liberalismo sociale. Le differenze tra i due schieramenti sono ben visibili, sebbene non siano più così nette come un tempo. A sinistra non c’è più l’utopia socialista. A destra possono esserci aperture in campo sociale, come dimostra David Cameron in Gran Bretagna schierandosi a favore del matrimonio gay, peraltro con forte opposizione e disagio tra molti membri del suo stesso partito.
Inoltre oggi ci sono questioni, come quella dell’ambiente, che non sono più “di destra” o “di sinistra” sulla base dei vecchi parametri: il cambiamento climatico è un problema grave, urgente e profondo, che travalica ogni schieramento ideologico, perlomeno se guardato senza paraocchi.

In parte è vero quel che Tony Blair ha scritto nella sua autobiografia politica, dopo avere lasciato Downing Street: oggi vi sono forze che si distinguono per la propria “apertura” nei confronti della società e altre che si distinguono per una contrapposta “chiusura”. Due diverse mentalità, due modi di affrontare la realtà: apertura verso l’immigrazione, le nuove tecnologie, i cambiamenti sociali, in contrasto con chi preferirebbe chiudere le frontiere, respingere le innovazioni, mantenere lo status quo.
Ma questo contrasto non basta a definire la lotta politica. Rappresenta un programma e una visione troppo limitati. Ed è portatore di frequenti contraddizioni: vi sono partiti apertissimi quando si tratta di discutere di libero mercato, che vorrebbero privo di qualsiasi regola o laccio, e poi chiusissimi sul tema dell’immigrazione, senza comprendere che quest’ultima è una componente essenziale del liberalismo e che non può esserci un mercato “aperto” con una chiusura delle frontiere agli immigrati.
La discussione sul presunto superamento di concetti come “destra” e “sinistra” ha inoltre un difetto di fondo: induce a credere che, nel mondo di oggi, ci sia bisogno di meno politica di quello di una volta, ossia di meno ideologia, meno partiti, meno governo, come se tutto dipendesse dall’essere disponibili o contrari al cambiamento, inteso come generale progresso dell’umanità. Al contrario, ritengo invece che oggi ci sia bisogno di più politica di prima, perché i problemi globali, dalla drammatica crisi economico-finanziaria all’effetto serra, dimostrano che solo un intervento collettivo, programmatico, di sana governance internazionale, può mettere il nostro pianeta sulla strada giusta.

Una migliore definizione del confronto politico odierno verterebbe allora su un termine diventato assai popo-lare, seppure utilizzato spesso a sproposito: reformer.
Oggi tutti o perlomeno tanti si autodefiniscono così. Ma chi è, cos’è, un vero riformatore o riformista? In Europa è colui che comprende la profondità della crisi che stiamo attraversando e si rende conto delle risposte radicali che sono necessarie per superarla. Oggi tutti i Paesi industrializzati sono fortemente indebitati.
Tutti, chi più chi meno, hanno perso competitività sui mercati. Finora sono state indicate e discusse due vie d’uscita da questa situazione: incoraggiare la crescita economica con investimenti pubblici, oppure puntare sul rigore, sui tagli alla spesa pubblica, sugli aumenti delle tasse, in una parola sull’austerità. Ma riproporre l’alternativa tra il metodo keynesiano e il monetarismo potrebbe non bastare più. Certo, i tagli sono in qualche misura necessari. A mio parere, tuttavia, sono come le medicine: se non le prendi, ti ammali, ma se ne prendi troppe fai un’overdose e rischi di stare ancora peggio.

E allora che fare? Ciò che un autentico riformatore europeo dovrebbe porsi come obiettivo è una ripresa sostenibile. Una ripresa in grado di preservare un welfare state che richiede sicuramente tagli e accorgimenti per fare i conti con un nuovo scenario demografico e sociale; ma che al tempo stesso non indirizzi i principali benefici della crescita sullo 0,1 per cento della popolazione, sulle fasce più alte di reddito.
Una ripresa sostenibile significa un modello economico che eviti di distruggere l’ambiente e la classe media: non credo che l’Occidente uscirà dalla crisi e diventerà più competitivo semplicemente vendendo sempre più automobili alla Cina, fino a quando i cinesi ne avranno tante quanto noi, o di più. Né continuando a indebitarsi, per poi aspettarsi che siano i giovani d’oggi, molti dei quali sono disoccupati, a pagare i nostri debiti quando saranno diventati adulti: sia i debiti in campo economico che quelli in campo ambientale.
Come realizzare un’impresa così immane e complessa? Io continuo a credere che sia possibile, attraverso un genuino riformismo di sinistra. Lo stesso spirito di quella Terza Via a cui ho dedicato una parte dei miei studi teorici, il cui primo artefice non è stato in realtà Blair, come si è talvolta indotti a credere, ma piuttosto Bill Clinton e il partito democratico negli Stati Uniti. Dunque un progressismo capace di conquistare consensi al centro, comprendendo le legittime preoccupazioni dei ceti medi su questioni come sicurezza, tasse e immigrazione, ma senza rinunciare alle aspirazioni di una società più giusta e più egualitaria, rese ancora più impellenti oggi dalle conseguenze del crack finanziario e dalle minacce del cambiamento climatico.
La Terza Via va perciò adeguata ai problemi del ventunesimo secolo, ma anche alle nuove opportunità che il secolo appena cominciato lascia intravedere, non ultima quella di una nuova rivoluzione industriale e tecnologica, che sarà necessaria perché nessun Paese potrà veramente risollevarsi dalla crisi se non produce più niente. Tra queste opportunità vi sono quelle che può cogliere l’Europa: secondo vari studiosi la nostra Unione, oggi afflitta da lacerazioni e difficoltà, ha il potenziale per uscire da questo periodo non solo rinsaldata e rinvigorita, ma perfino più forte degli Stati Uniti. È uno scenario che richiede ottimismo, ma è uno scenario possibile: a patto di usare più politica, non meno politica. E di credere che “destra” e “sinistra” vogliano ancora dire qualcosa.

Ma chi è, cos’è, un vero riformatore o riformista? In Europa è colui che comprende la profondità della crisi che stiamo attraversando e si rende conto delle risposte radicali che sono necessarie per superarla.” Questo mi sembra un punto decisivo, la necessità di risposte radicali a una crisi che non è occasionale ma sistemica. Riformare significa-letteralmente-dare nuova forma (e sostanza) a qualcosa che prima esisteva e che dopo sarà diverso. Riformare significa spezzare equilibri, privilegi, steccati, abitudini. Dopo una riforma le cose sono diverse, migliori nelle intenzioni, ma comunque diverse. Allora, pur accettando la classificazione di Giddens in destra/sinistra, introdurrei una ulteriore coppia di valori: conservazione/innovazione. Lo spettacolo che in questi anni la sinistra ha dato è stato spesso quello di un  (pur nobile) conservatorismo, che si chiamasse “difesa dei diritti acquisiti”, “difesa di principi”, “difesa della professionalità..”. Difesa, sempre difesa. Le conquiste non vanno difese, vanno fatte crescere verso nuove conquiste. Arroccarsi sulle conquiste di altri anni ed epoche è tattica perdente. La crisi richiede risposte radicali, sottolinea Giddens, ma non ci sembra ci siano vie di uscita alla situazione di un paese in cui nulla funziona e in cui nulla può essere cambiato. Un paese inchiodato dagli Ordini professionali, dalle lobby (dai taxisti ai farmacisti, perchè non i tassidermisti?), dalle cordate, dagli apparati, dalle famiglie estese a intere città. Muri questi contro cui la sinistra anzichè lottare duramente ha finito troppo spesso per adattarsi come il polpo sullo scoglio.

Soluzioni radicali. Vere riforme quindi. E come? Perchè le vere riforme non si fanno a somma zero. C’è chi guadagna e chi perde. La questione è che la preoccupazione che sia la maggioranza a guadagnare non sembra un elemento decisivo, visto che sono le minoranze attive a decidere. E sono le minoranze ad intessere la rete di legami e clientele che divora il paese, perchè la corruzione, come l’inefficienza, non sono accidenti, sono parte fondamentale di un sistema che mantiene, foraggia, centinaia di migliaia di persone, le loro famiglie, i loro figlioletti, suocere incluse. Il paese non è migliore di chi lo amministra, basta pensare a quella che era la Regione leader, quella più “moderna” , sede della “capitale morale”: Lombardia/Milano. Dopo il saccheggio operato in questi venti anni dal connubio politica/affarismo/religione sintetizzato dalla santa alleanza PdL/Lega/CL, con drammatici legami con la criminalità organizzata, come si potrebbe pensare che il consenso elettorale possa sostenere ancora simili gaglioffi? Eppure…Perchè la corruzione, lo sperpero servono, creano posti di lavoro, elargiscono risorse, costruiscono legami. Un sistema di potere che si alimenta nel pubblico e distribuisce nel privato. Riforme? Jamais! Di fronte a questo paese conta ancora la categorizzazione destra/sinistra ma che capacità esiste nella sinistra di cessare di essere conservativa e diventare davvero riformista? Ma con durezza, senza timore. Nei programmi elettorali non c’è (quasi) nulla. Ma volendo essere ottimisti, in campagna elettorale, si sa, si scherza…

Il mezzo qualifica il fine

Ritorno ancora sulla riflessione sul terrorismo, riproposto dalle vicende degli ultimi giorni. L’amico Gianni così ha commentato il pezzo di B.Tobagi “Il carceriere di Moro trasformato in eroe” di pochi giorni fa:

Credo che il valore di quest’articolo stia nella frase
“La retorica del “dovere” e del “valore” della memoria è vacua, se prescinde da una riflessione che riconosca l’esistenza di letture del passato e della società profondamente divergenti (laddove riconoscere, ovviamente, non è giustificare), s’interroghi sulle motivazioni dei conflitti,…”
e di conseguenza nella firma di un figlio di vittima del terrorismo.
Altrimenti sarebbe un articoletto.
Così invece è proprio l’articolo ad uscire da beceri visioni di parte ed elevarsi nella più aperta delle considerazioni che fanno della storia un intreccio di protagonisti che comunque la storia ufficiale solitamente semplifica.

Personalmente non mi è capitato di ascoltare mitizzazioni su Gallinari al di là di quelle che leggo qui.
Ha fatto scelte, sicuramente perdenti e comunque sbagliate col senno del poi, visto la reazione a destra che ha avuto il paese.
Lui ne ha preso atto senza abiurare ma solo dichiarandosi sconfitto.
Ha cercato di mantenere una coerenza difficile perché in questi casi la si paga sulla propria persona, altri han fatto come lui, tanti invece han scelto percorsi più accomodanti. Ciò non fa di lui un eroe, ma sicuramente raccoglie il rispetto anche dei suoi nemici.
In questo blog ha senso fare anche un’altra considerazione di fantasia: se avesse vissuto nell’epoca della Resistenza sarebbe stato un Sintoni, un Toscanino, un Eros o in chiave più operativa un Robinson. Come loro, finito la guerra, non avrebbe fatto carriera, lasciando posto ai Sacchetti.
Invece è vissuto in un altro tempo e la storia ci dice che ha sbagliato, tragicamente per lui, per le vittime e per il paese.
Ma poi ne ha preso atto.

Il mezzo qualifica il fine, come ci ricorda Todorov, e parlando di terrorismo e anni di piombo l’osservazione mi sembra estremamente opportuna. Non si parla solo e soltanto di politica ma di uomini, di innocenti assassinati, di dolore sparso in nome di una ideologia che, proprio per i mezzi usati, ha dimostrato tutta la sua follia e potenziale criminogeno.

In questi giorni sono rimasto gelato nel ri-vedere interviste di brigatisti in cui si parlava di omicidi a sangue freddo descritti freddamente come “attacchi”. Attacco all’avv. Croce, 76 anni, partigiano, presidente dell’Ordine degli avvocati, freddato nell’androne di casa sua per aver voluto fare il proprio dovere fornendo-come previsto dalla legge- avvocati di ufficio agli imputati al processo contro le BR. Attacco? Sparare 3 colpi di pistola a una persona indifesa? Attacco? Catturare e uccidere a sangue freddo Roberto, il fratello di Patrizio Peci, per punirlo in via trasversale per il suo pentimento? Attacco uccidere Carlo Casalegno e Walter Tobagi? Eroico sparare a una persona indifesa?

Mantenere la propria coerenza. Bene, ma aggiungiamo l’aggettivo indispensabile: coerenza criminale, perché uccidere a sangue freddo persone, in nome di una qualunque ideologia, quello è e resta. Azione criminale. Poi la pietà ai morti copre tutto, come è giusto. Ma come ripetiamo da anni nel caso degli uccisi della guerra e dopoguerra: tutti i morti sono uguali, ma i vivi non sono stati tutti uguali e mi sembra moralmente inaccettabile mettere insieme Casalegno e Tobagi e i loro assassini. Per motivi etici e per rispetto della memoria storica.

Il parallelo Resistenza-terrorismo ha goduto purtroppo di buona fama e stampa, ma credo sia uno dei peggiori anacronismi mai concepiti sotto l’italico cielo. La Resistenza nacque e sviluppò in una situazione, oggettiva, di guerra aperta (si parla della Seconda Guerra Mondiale). Gli antifascisti prima dell’8 settembre per 20 anni presero bastonate e carcere (e peggio) ma non spararono mai un colpo di pistola. La violenza la portò Salò, fu la RSI a scatenare la guerra civile, i partigiani scelsero la violenza (subendone tutte le conseguenze) come mezzo inevitabile in una situazione di occupazione straniera e collaborazionismo fascista.

Negli anni 70 non c’era nessuna guerra, nessuna occupazione, nessun collaborazionista, se non nel delirio ideologico di chi dichiarò guerra allo Stato, di chi, nel chiuso di qualche stanza, per troppe e cattive letture o per troppa ignoranza e fanatismo, decise che era ora di fare la “rivoluzione”, imponendo una stagione di assassini e sofferenza a civili, alle loro famiglie e atutto il paese. Non sbagliarono con il senno di poi. Sbagliarono e basta. I partigiani fecero la scelta giusta, non con il senno di poi, ma con il senso profondo di quella scelta, fatta allora. Quindi nessun parallelo è possibile fra brigatisti e partigiani, salvo insultarne  la memoria e stravolgere il senso della loro scelta che ci ha portato alla democrazia.

Immaginando un assurdo “what if” domandiamoci cosa sarebbe accaduto se avessero vinto le BR: possiamo pensare ad una Italia divenuta “socialista” come uno qualunque dei disgraziati paesi dell’est e governata da una classe dirigente espressa dalle fila dei “coerenti” combattenti delle BR? La risposta è già nella domanda.