Samb Modou 40 anni, Diop Mor 54 e Moustapha Dieng 34.

Samb Modou 40 anni, Diop Mor 54 e Moustapha Dieng 34 anni. Uccisi perchè neri, perchè invasori, perchè qualcuno pensa di poter usare la parola “razza”, di fare “giustizia”. Non mi interessa se l’assassino fosse pazzo o no:  non è molto importante. La storia è nota: si crea la cultura, si inizia un passetto alla volta, una storiella, una battuta. Poi arriva l’esaltato, lo sballato, il fanatico. Si lascia che passino idee, concetti. Quante volte abbiamo sentito la frase “Io non sono razzista, però…” e giù cose orrende su neri, arabi, ebrei, rom e via elencando. E noi ad abbozzare: cosa vuoi, metterti a litigare? In fondo che male c’è, è una battuta…Pochi giorni prima di Firenze, a Torino, è stato bruciato un campo Rom. Qualche protesta, un po’ di strilli e poi? Che dire? Lo sanno tutti che i Rom rubano, no?

L’assassino era di Casa Pound. Strano, pensavo fosse del Rotary o dei cavalieri del S.Sepolcro. Da anni ce li abbiamo davanti, vediamo che prendono spazi che abbiamo abbandonato, un po’ di sdegno, qualche raccolta di firme e amen. Siamo democratici. Vero. Ma la democrazia è una cosa strana, va difesa, va costruita, ogni giorno, non il 25 aprile perchè c’è il sole e siamo di festa. Ogni giorno. Io la chiamo “manovalanza democratica”. La democrazia si difende coi libri, con lo studio, non con le spranghe, qualcuno in passato ci ha creduto e stiamo ancora contando i morti.

Non dovrebbe esserci neppure bisogno di dire che Casa Pound e simili non devono avere spazi, non fisici ma culturali. La democrazia è una cosa delicata: consente la parola anche a chi vuole distruggerla, a noi tocca lavorare perchè quelle parole, quelle battute, quegli slogan cadano su un terreno arido. I fascisti parlino pure ma nessuno dovrebbe stare ad ascoltarli perchè tutti dovrebbero conoscere quella storia, una storia finita per noi italiani il 29 aprile a Piazzale Loreto.

E invece, lo sappiamo, non è così. Il nostro paese non ha mai fatto i conti con il fascismo, è andato avanti e basta. Ha usato la Resistenza come alibi, per lavarsi le mani e la coscienza in un bagno collettivo autoassolutorio, un bel giubileo nel peggior stile cattolico possibile. Un perdono sparso come un bel disinfettante su tutti, innocenti e colpevoli, vittime e carnefici. Passata la febbre ci siamo dichiarati guariti. In realtà, come certe malatte virali, qualcosa ci è rimasto dentro, sembriamo sani, tutto va bene e poi, bang, qualcosa succede. E allora ci guardiamo in faccia, stupiti, increduli. Ma con un po’ di ipocrisia dentro che ben conosciamo.

Il fascismo non è finito a Piazzale Loreto. Abbiamo dato una bella tomba di famiglia al dittatore per consentire agli ammiratori il cordoglio e l’esaltazione. I criminali nazisti sono stati uccisi, cremati e le ceneri sparse al vento. Noi abbiamo perdonato, ma un perdono senza verità è la peggiore ingiustizia.

Si vis pacem para veritatem. Devo questa bella massima all’amico Antonio Brusa ed essa contiene tutto l’impegno culturale, civile ed etico che ci viene richiesto. A noi storici, ai cittadini, agli insegnanti, genitori, persone impegnate in politica.

Anche questi tragici episodi sono l’esito della morte della politica, dell’incapacità di fare scelte e di tenerle ferme, della debolezza di idee e principi che spinge ad accettare anche che organizzazioni fasciste o razziste trovino spazio. Da almeno dieci anni subiamo una metastasi culturale. Abbiamo avuto per anni al governo un partito razzista e xenofobo, ce ne siamo resi conto o abbiamo accettato anche questo come una cosa quasi normale?

Se ci si comincia a convincere che, in fondo, il fascismo è un’opinione come un’altra, magari solo meno elegante, perchè così ci sentiamo più “moderni”, più in sintonia con “i tempi”, siamo già fuori strada, fuori pista, fuori da quella verità che, sola, ci può dare un orientamento, un senso in questi tempi difficili. Il fascismo non è un’opinione è un crimine. L’abbiamo scritto sulle nostre magliette qualche anno fa, per un Viaggio della memoria. Non lasciamo quelle magliette negli armadi.

Ma quanto di questa debolezza diffusa ricade anche sulle nostre spalle? Nel dramma, nel conflitto, ritiriamo fuori il nostro essere “antifascisti”, come una sorta di tachipirina ideologica buona a tutti gli usi. E ci accorgiamo ogni volta che l’Italia antifascista non è e ci sdegnamo perchè gli altri non capiscono. Ma siamo sicuri che quel farmaco sia ancora valido, abbiamo controllato la data di scadenza sulla confezione? Ne abbiamo meditato la storia, valutato il percorso, siamo certi che quella formula non vada rivista, ridiscussa, resa, finalmente, più efficace? O dobbiamo aspettare ogni volta che torni la febbre, che ci vengano i brividi addosso per porci qualche domanda?

Elegia per i dittatori

a1945d.jpgUrlavano impettiti nelle loro divise inventate e la gente sotto ad ascoltare, urlare, applaudire, sognare i loro incubi. Le donne pronte, a disposizione, gli altri potenti alla porta in attesa. Abbracci, i baci, le strette di mano, il sorriso a uso della foto, del video, del ricordo storico.

I dittatori forse sanno vivere, di certo non sanno morire. Abituati a far morire gli altri, negli ultimi cinque minuti fanno tutti pena. I proclami eroici sono lontani, baratterebbero un’altra mezzora per tutti i loro conti bancari, per i gioielli, le piscine, la loro pistola d’oro.

Muoiono come topi, infilati in un buco o appesi a una corda, chiedono pietà, piagnucolano, tutti dicono sempre la solita frase “non ho fatto niente”. L’uomo della Provvidenza, l’eroico difensore del ridotto della Valtellina lo trovarono in fondo a un camion tedesco, un pastrano addosso, un elmetto calato sugli occhi. Fuggito così male da non aver fatto neppure in tempo a cambiarsi i calzoni. L’eroico.

Quasi quasi quel tizio infilato nel bunker di Berlino può dare qualche lezione. Cianuro e un colpo di pistola. Questione di stile, non aveva creato il Reich millenario ma almeno non ha piagnucolato nell’ultimo istante.

I dittatori si uccidono, vanno uccisi e fanno pena e ridicolo i buoni samaritani aperti per turno che chiedono il processo, le garanzie. Le storie iniziate vanno chiuse e chiuse bene. Da sessantacinque anni qualcuno continua a indagare sulla morte del Cavaliere: Dongo? Non Dongo? Valerio? Non Valerio? Ognuno perde tempo come vuole, quel che conta è che qualcuno quel grilletto l’abbia tirato, abbia chiuso quella storia. Chi ha sparato ha fatto il suo dovere, magari l’avessero fatto anche gli altri dopo. Disperdere le ceneri nel Mediterraneo (non è il mare nostrum?) o farci concime. No, abbiamo Predappio per il caro estinto. Povero estinto, meritava di meglio, italiani ingrati, dice la nipotina che abbiamo conosciuta sulle copertine di Playboy. Ogni albero dà i frutti che sa e può. Vergogna, ripetono i pietosi pietisti di ogni parte, si sa, bisogna essere moderni, innovativi, amnesty e mojito. Piazzale Loreto: che vergogna, che insulto! Come se la guerra fosse una partita con la Wii o la playstation. Cosa meritava chi aveva sulla coscienza centinaia di migliaia di ragazzi morti, bruciati, congelati? Certo, un bel processo, una pacca sulla spalla e via, è stato brutto ma adesso è finita, tutti a casa, business as usual?

I dittatori vanno uccisi e dittatori ce ne saranno sempre, alcuni comodi  anche a noi, altri scomodi, ma dittatori sono e restano, finiti in un tubo di cemento o appesi a testa in giù. Non voglio neppure provare pietà ma solo voltare pagina e non ascoltare i pietisti di giornata, senza memoria e vergogna, a commentare le foto oscene di quello che avevano taciuto e onorato poco prima.

“Sic transit gloria mundi” ha detto un vecchio maniaco, il suo amico se n’è andato, niente più affari, donne e cavalli berberi. Basta aspettare e un tubo di cemento o la risata (o il rutto?) finale prima o poi arriva per tutti.

Ustica: 31 anni dopo, in Italia esiste la verità? (Stefano Corradino)

ustica.jpgSono le 20:08 del 27 giugno 1980. Si alza in volo da Bologna il DC-9 I-TIGI. Destinazione Palermo. Parte con un ritardo di due ore, il doppio del tempo necessario per completare il viaggio. In un’ora fai giusto in tempo a sederti, allacciare le cinture, buttare un occhio sulle procedure di emergenza mimate dal personale di volo, sfogliare la rivista alloggiata nel retro del sedile davanti e bere un caffè che già inizia il momento della discesa. 69 adulti e 12 bambini aspettano di scendere dall’aereo per tornare a casa o per iniziare una settimana di vacanza. Come la famiglia Diodato. La moglie, la cognata, e i tre figli bambini di Pasquale detto Lino, muratore, muscoli possenti. Lino li ha messi sull’aereo per raggiungerli i giorni successivi. Ad attenderli all’aeroporto di Punta Raisi ci sono i nonni e gli zii ansiosi di stringere i loro cari.

Ma alle 21:04, quando dalla torre di controllo di Palermo parte il contatto radio per autorizzare la discesa sul Dc9 nessuno risponde. Elicotteri, aerei e navi si precipitano nelle ricerche ma il volo è disperso. Solo alle prime luci dell’alba viene individuata ad alcune decine di miglia a nord di Ustica, una chiazza oleosa. Lì ci sono i primi relitti e i primi cadaveri.

Sono trascorsi 31 anni da quella terribile notte. Anni e anni di indagini, migliaia di cartelle di atti per oltre un milione e mezzo di pagine e circa trecento udienze processuali. Inchieste ostacolate e manomesse come affermano gli stessi inquirenti che hanno ripetutamente parlato di depistaggi e inquinamenti delle prove.

A 31 anni di distanza da quella tragedia sappiamo molto e non sappiamo niente.

Sappiamo che nel cielo di Ustica il Dc-9 non era solo ma c’erano ben 21 aerei che circondavano il velivolo precipitato. Lo ha ricordato recentemente Andrea Purgatori, il giornalista che per primo seguì la vicenda sul Corriere della Sera.
Non sappiamo di quale nazionalità fossero questi aerei ma si ipotizza che alcuni fossero libici e che l’intento fosse quello di eliminare il colonnello Gheddafi che si presumeva essere su quel volo.
Sappiamo che oltre 30 anni fa abbiamo contratto un bel debito economico con il governo libico che è forse stato tale da tollerare attraversamenti dei loro aerei nei nostri cieli.
Non sappiamo (ma per le ragioni di cui sopra lo immaginiamo) perché fino a oggi nessuno ha chiesto perentoriamente conto a Gheddafi di quella notte del 27 giugno.
Sappiamo di avere un sottosegretario, Carlo Giovanardi che oltre a quella per i gay ha anche un’ossessione per i missili perchè “Nessun missile abbattè il DC9 dell’Itavia su Ustica” – ripete ossessivamente infischiandosene delle valutazioni della magistratura e dei familiari delle vittime.
Non sappiamo perché dobbiamo essere l’unico paese democratico in cui permane il segreto di stato sulle tante stragi che hanno insanguinato l’Italia.
Sappiamo, come scriveva Pier Paolo Pasolini, anche se non abbiamo né prove né indizi ma perché “cerchiamo di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; di coordinare fatti anche lontani, mettere insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico,  ristabilire la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.

“In Italia esiste la verità?” c’è scritto in alto a sinistra nel manifesto del film “Il muro di gomma”. L’ho rivisto ieri sera in tv e, per l’ennesima volta, mi si è accapponata la pelle alla straziante scena finale quando il giornalista Rocco dopo il processo detta il suo articolo al Corriere: “Perché chi sapeva è stato zitto? Perché chi poteva scoprire non s’è mosso? Perché questa verità era così inconfessabile da richiedere il silenzio, l’omertà, l’occultamento delle prove? C’era la guerra quella notte del 27 giugno 1980. c’erano 69 adulti e 12 bambini che tornavano a casa, che andavano in vacanza, che leggevano il giornale, che giocavano con una bambola. Quelli che sapevano hanno deciso che i cittadini, la gente, noi, non dovevamo sapere: hanno manomesso le registrazioni, cancellato i tracciati radar, bruciato i registri; hanno inventato esercitazioni che non erano mai avvenute, intimidito i giudici, colpevolizzato i periti e poi hanno fatto la cosa più grave di tutte: hanno costretto i deboli a partecipare alla menzogna, trasformando l’onesta in viltà… Perché?”

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/06/27/ustica-in-italia-esiste-la-verita/126471/

Perché la sinistra domina cultura, giornali (Marcello Foa)

Tratto da: http://blog.ilgiornale.it/foa/2011/06/26/perche-la-sinistra-domina-cultura-giornali-scuola/

KGB.jpgVisto da est, l’Occidente può apparire molto curioso; soprattutto se incontri personaggi del calibro di Serghei Kara Mourza. Immagino già la faccia del lettore: è chi sarà mai costui? E’ un sociologo che, pur vivendo a Mosca, riesce a capire in che modo e in quale misura le società occidentali sono soggette alla propaganda, soprattutto a quella non dichiarata, che, essendo invisibile, è la più insidiosa. Tema delicato che dovrebbe essere al centro della riflessione pubblica, ma che in realtà viene ignorato non solo dai media più autorevoli, ma anche dal mondo accademico, salvo rare eccezioni.

Scavando in questa direzione, si scoprirebbe, ad esempio, per quale ragione in un Paese di consolidata tradizione cattolica, nel dopoguerra tutto il mondo culturale sia diventato comunista, così come gran parte della scuola, dell’università e dell’informazione. Com’è possibile che persone colte, istruite d’un tratto abbiano adottato il pensiero unico bolscevico abiurando valori nazionali e identitari? Si trattò di un fenomeno spontaneo e frutto di tante scelte individuali e consapevoli, per quanto curiosamente simultanee? La risposta è no. Non fu affatto un moto spontaneo, bensì una raffinatissima operazione di condizionamento delle masse, nell’ambito di un tentativo di occupazione dell’Italia attraverso l’occupazione delle istituzioni dall’interno, come prescritto da Gramsci e con la decisiva pianificazione del Kgb, che in quegli anni dedicava a questi scopi addirittura un Dipartimento.

Certo, se oggi si dicesse a uno dei tanti intellettuali ex comunisti, che peraltro ancora dominano buona parte della cultura italiana, di essere stato uno strumento del Kgb, costui si arrabbierebbe moltissimo . E, verosimilmente, non avrebbe torto. La maggior parte degli intellettuali, dei giornalisti, dei docenti nemmeno sospettò di essere manovrata e proprio per questo l’operazione ebbe successo, come si spiega in uno dei libri più intelligenti degli ultimi 40 anni: “Il montaggio”, scritto Vladimir Volkoff, intellettuale francese di origine russa ed esperto di manipolazione delle masse, che nel 1982, avvalendosi dell’artificio romanzesco, descrisse le tecniche usate dagli strateghi sovietici. Libro strepitoso e scomodo, che naturalmente il mondo intellettuale europeo all’epoca ignorò. Ora l’editore Alfredo Guida lo ripropone  in italiano con un’iniziativa altamente  meritoria e che i lettori aperti di spirito apprezzeranno. Il Kgb non esiste più, ma i suoi montaggi continuano a produrre effetti.

Chi lo capisce troverà una chiave di lettura ancora attualissima per capire perché, dopo oltre mezzo secolo, nella cultura, nella scuola, nell’informazione e in parte della magistratura certi clan continuino ad essere prevalenti. Il sistema sopravvive al madante e all’ideologia, continuando a far danni.

E noi che pensavamo che la sinistra avesse conquistato la “egemonia culturale” perchè aveva intellettuali come Gramsci, Vittorini, Pavese, Pasolini, Visconti…Tutto sbagliato: erano/eravamo tutti manovrati dall'”Impero del Male”. Il KGB era dentro (e dietro) di noi e non lo sapevamo. Facile, no?

Resta comunque aperta la domanda “perchè la destra italiana non ha prodotto uno straccio di cultura europea”? Ma il sapido articolo di Foa dà già un’implicita risposta…

 

Benigni e “Fratelli d’Italia”, dubbi su una lezione di storia (A.M.Banti)

 
Abbracciare la soluzione di un neo-nazionalismo italiano vorrebbe dire infilarsi dritti dritti nella più perniciosa delle culture politiche che hanno popolato la storia dell’Italia dal Risorgimento al fascismo.

Roberto Benigni a Sanremo: ma certo, quello che voleva bene a Berlinguer! Quello che –con gentile soavità – insieme a Troisi scherzava su Fratelli d’Italia … Che trasformazione! Sorprendente! Eh sì, giacché giovedì 17 febbraio «sul palco dell’Ariston», come si dice in queste circostanze, non ha fatto solo l’esegesi dell’Inno di Mameli. Ha fatto di più. Ha fatto un’apologia appassionata dei valori politici e morali proposti dall’Inno. E – come ha detto qualcuno – ci ha anche impartito una lezione di storia. Una «memorabile» lezione di storia, se volessimo usare il lessico del comico. Bene. E che cosa abbiamo imparato da questa lezione di storia? Che noi italiani e italiane del 2011 discendiamo addirittura dai Romani, i quali si sono distinti per aver posseduto un esercito bellissimo, che incuteva paura a tutti. Che discendiamo anche dai combattenti della Lega lombarda (1176); dai palermitani che si sono ribellati agli angioini nel Vespro del lunedì di Pasqua del 1282; da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; e da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci. Interessante. Da storico, francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt’altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l’infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po’ che si va a scoprire in una sola serata televisiva. Ma c’è dell’altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori – stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli. E anche questa è una nozione interessante, una di quelle che cancellano in un colpo solo i sentimenti di apertura all’Europa e al mondo che hanno positivamente caratterizzato l’azione politica degli ultimi quarant’anni. Poi abbiamo anche capito che dobbiamo sentire un brivido di emozione speciale quando, passeggiando per il Louvre o per qualche altro museo straniero, ci troviamo di fronte a un quadro, che so, di Tiziano o di Tintoretto: e questo perché quelli sono pittori «italiani» e noi, in qualche modo, discendiamo da loro. Che strano: questa mi è sembrata una nozione veramente curiosa: io mi emoziono anche di fronte alle tele di altri, di Dürer, di Goya o di Manet, per dire: che sia irriducibilmente anti-patriottico? E infine abbiamo capito qual è il valore fondamentale che ci rende italiani e italiane, e che ci deve far amare i combattenti del Risorgimento: la mistica del sacrificio eroico, la morte data ai nemici, la morte di se stessi sull’altare della madre-patria, la militarizzazione bellicista della politica. Ecco. Da tempo sostengo che il recupero acritico del Risorgimento come mito fondativo della Repubblica italiana fa correre il rischio di rimettere in circuito valori pericolosi come sono quelli incorporati dal nazionalismo ottocentesco: l’idea della nazione come comunità di discendenza; una nazione che esiste se non ab aeterno, almeno dalla notte dei tempi; l’idea della guerra come valore fondamentale della maschilità patriottica; l’idea della comunità politica come sistema di differenze: «noi» siamo «noi» e siamo uniti, perché contrapposti a «quegli altri», gli stranieri, che sono diversi da noi, e per questo sono pericolosi per l’integrità della nostra comunità.
Ciascuna di queste idee messa nel circuito di una società com’è la nostra, attraversata da intensi processi migratori, può diventare veramente tossica: può indurre a pensare che difendere l’identità italiana implichi difendersi dagli «altri», che – in quanto diversi – sono anche pericolosi; può indurre a fantasticare di una speciale peculiarità, se non di una superiorità, della cultura italiana; invita ad avere una visione chiusa ed esclusiva della comunità politica alla quale apparteniamo; e soprattutto induce a valorizzare ideali bellici che, nel contesto attuale, mi sembrano quanto meno fuori luogo. Ecco, con la performance di Benigni mi sembra che il rischio di una riattualizzazione del peggior nazionalismo stia diventando reale: tanto più in considerazione della reazione entusiastica che ha accolto l’esibizione del comico, quasi come se Benigni avesse detto cose che tutti avevano nel cuore da chissà quanto tempo. Ora se questi qualcuno sono i ministri La Russa o Meloni, la cosa non può sorprendere, venendo questi due politici da una militanza che ha sempre coltivato i valori nazionalisti. Ma quando a costoro si uniscono anche innumerevoli politici e commentatori di sinistra, molti dei quali anche ex comunisti, ebbene c’è da restare veramente stupefatti. Verrebbe da chieder loro: ma che ne è stato dell’internazionalismo, del pacifismo, dell’europeismo, dell’apertura solidale che ha caratterizzato la migliore cultura democratica dei decenni passati? Perché non credo proprio che un simile bagaglio di valori sia conciliabile con queste forme di neo-nazionalismo. Con il suo lunghissimo monologo, infatti, Benigni – pur essendosi dichiarato contrario al nazionalismo – sembra in sostanza averci invitato a contrastare il nazionalismo padano rispolverando un nazionalismo italiano uguale a quello leghista nel sistema dei valori e contrario a quello solo per ciò che concerne l’area geopolitica di riferimento. Beh, speriamo che il successo di Benigni sia il successo di una sera. Perché abbracciare la soluzione di un neo-nazionalismo italiano vorrebbe dire infilarsi dritti dritti nella più perniciosa delle culture politiche che hanno popolato la storia dell’Italia dal Risorgimento al fascismo.

Alberto Mario Banti – il Manifesto
20 Febbraio 2011

Mladic, Eichmann e i mostri della storia (Emilio Carnevali)

Il 12 ottobre 2010 è in programma a Genova la partita Italia-Serbia, valida per le qualificazioni ai campionati europei di calcio. Fin dal pomeriggio i tifosi serbi si scontrano con le forze dell’ordine nel centro della città. La sera, dentro lo stadio, si scatenano. Il capitano della Serbia, il giocatore dell’Inter Dejan Stankovic, corre insieme ad altri compagni di squadra sotto gli spalti dei suoi tifosi e cerca di “calmarli” applaudendoli e esibendo tre dita da entrambe le mani (il gesto dei cetnici, simbolo del nazionalismo serbo). Il telecronista Rai Marco Mazzocchi spiega ai telespettatori italiani (cito a memoria): “Sta facendo il gesto del 3. Gli sta dicendo: se continuate così ci fanno perdere 3 a 0 a tavolino”. Ovviamente i tifosi serbi continueranno nella loro opera di devastazione e la partita verrà sospesa.

_41629000_mladicapok.jpgD’altra parte quelle erano probabilmente le stesse persone che pochi giorni prima avevano attaccato i manifestanti del Gay Pride in corso a Belgrado e probabilmente ancora le stesse che qualche giorno fa sono scese in strada a migliaia per protestare contro l’arresto dell’ex generale Ratko Mladic. L’intreccio fra il calcio e le vicende politiche e belliche della ex Jugoslavia rimanda a un capitolo di quel conflitto che non possiamo affrontare nemmeno sommariamente. Ci limitiamo a ricordare che Zeljio Raznatovic, più noto con il famigerato soprannome di Arkan, era un capo ultras della Stella Rossa, la più blasonata squadra di Belgrado, prima di dar vita al gruppo paramilitare delle Tigri, i cui componenti vennero in gran parte reclutati proprio fra gli ultras e che si rese protagonista di alcuni dei peggiori massacri perpetratati durante la guerra di Bosnia. Quando Arkan fu assassinato – nel 2000, a guerra ormai finita – fu salutato a Belgrado da una folla di 20.000 persone; anche in Italia, nella curva dei tifosi della Lazio (notoriamente infarcita di gruppi di estrema destra), fu issato uno striscione che recitava “Onore alla tigre Arkan”.

Tuttavia il collegamento fra un elemento ordinario della nostra esperienza quotidiana come il calcio ed un evento assai lontano, di difficile comprensione almeno per le generazioni più giovani, come la guerra – la guerra nella sua stra-ordinaria atrocità – può forse essere utile per riflettere sul pericolo che un certo tipo di pratica della memoria possa scivolare paradossalmente nel suo opposto, ovvero in una Grande Rimozione. E’ il pericolo che corriamo quando separiamo certi fenomeni dall’orizzonte delle nostre possibilità, dei nostri destini collettivi, appiccicandogli addosso l’etichetta della mostruosità dis-umana. Siamo di fronte a una problematica ben al di là del dilemma – anch’esso presente in casi come questi – di una giustizia che opera sempre e solo nei confronti degli sconfitti, ovvero del terribile ammonimento che ci ha lasciato Joseph Goebbels quando nel 1943 dichiarò: “Passeremo alla storia come i più grandi statisti di tutti i tempi, o come i più grandi criminali” (ai giorni nostri George W. Bush non è celebrato come un grande statista, ma c’è da esser certi che non sarà mai condotto alla sbarra per rispondere di crimini contro l’umanità).

Lo scorso 3 giugno l’ex generale Mladic, il cosiddetto “boia di Srebrenica”, è comparso – vecchio e traballante – in un aula del Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia. Contro di lui ci sono undici capi di imputazione: genocidio, sterminio, omicidio, deportazioni, torture, crimini contro l’umanità, violazione delle leggi di guerra, presa di ostaggi (i soldati delle Nazioni Unite), attacchi contro civili inermi. Di fronte al giudice Mladic ha dichiarato: “Non sono né colpevole né innocente”.

Eichmann.GIFSignificativa l’assonanza fra questa dichiarazione e quella fornita nel 1961 dall’ex gerarca nazista Adolf Eichmann al giudice del tribunale di Gerusalemme che lo processava per crimini contro l’umanità e contro il popolo ebraico: “Non colpevole nel senso dell’atto d’accusa”. Mladic ha detto di aver aver semplicemente difeso il suo popolo, Eichmann dichiarò di aver operato in osservanza delle leggi del suo paese (e su questo punto è difficile eccepire).
E’ probabilmente vero che per esercitare il ruolo che Mladic rivestì nel corso della guerra è necessaria anche una buona dose di personale efferatezza. Come è sensata l’obiezione che Timothy Garton Ash – in un articolo pubblicato su Repubblica lo scorso 4 giugno – muove ai critici che domandano: “Perchè vi limitate a mettere sulla graticola i pesci grossi e lasciate nuotare via i pesci piccoli?”. “Questo è vero”, ha risposto Garton Ash, “ma è inevitabile. Non è immaginabile processare tutte le decine di migliaia di colpevoli, con diverse responsabilità, delle atrocità commesse da una qualsiasi dittatura. O si crede che sia forse meglio il contrario: catturare i pesciolini e lasciare liberi i pesci grossi?”. Se però questo è vero dal punto di vista del diritto, non può essere valido dal punto di vista della storia, della memoria e della costruzione di una lettura dei fatti utile a poter almeno tentare di fare in modo che certe cose non accadano più.

Il “mostro disumano” può infatti essere un modo comodo – e pericoloso – per attuare quella cancellazione della responsabilità collettiva che sola può spiegare l’odio come prodotto di complesse dinamiche culturali, sociali ed economiche e non semplicemente come risultato dell’esaltazione di un pugno di individui.

E’ forse un meccanismo simile a quello che sta anche alla base della morbosa attenzione dedicata dalle nostre televisioni e da certa stampa ai numerosi casi di cronaca di nera con i relativi “mostri” da prima pagina: che sia in fondo un modo per esorcizzare gli spettri più spaventosi e inconfessabili che si aggirano anche fra i pensieri e le fantasie delle persone più “normali”? Che tutta questa nostra passione per i vari plastici della villetta di Cogne e della casa di Garlasco sia un modo per marcare comunque la distanza fra noi e loro (i mostri), per rassicurarci sul fatto che noi non potremo mai essere come loro?

Sono tutti interrogativi le cui risposte non sono davvero alla nostra portata. Più modestamente – tornado al tema iniziale – ci vorremmo limitare a mandare un applauso simbolico al signor Andy Newman, segretario del sindacato Gmb Union. Ogni anno la sua organizzazione versava 4000 sterline alla squadra dello Swindon Town (quarta divisione inglese), ma da quando è stato chiamato a dirigerla l’ex calciatore italiano Paolo Di Canio ha deciso di interrompere la sponsorizzazione: «Siamo un sindacato di lavoratori e non possiamo avere rapporti commerciali con un club che ha un allenatore fascista. Non abbiamo scelta. E’ un peccato, ma non possiamo fare altro». Cose che possono accadere solo in Inghilterra. Da noi i saluti romani di Paolo Di Canio sono considerati inoffensiva goliardia. Sarà questa la “banalità del male”?

(6 giugno 2011)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/mladic-eichmann-e-i-mostri-della-storia/

Una scheda completa sulla strage di Sebrenica è in: http://news.bbc.co.uk/2/hi/europe/675945.stm

Germania, 17 ergastolani nazisti vivono liberi
. Tra loro ex criminali di guerra ultraottantenni

nazi02.jpgSono stati condannati con sentenze definitive al carcere a vita, ma vivono tranquillamente nelle loro case. Per i mandati di arresto europeo, emessi dalla magistratura militare, la Germania ha sempre rifiutato la consegna

ROMA – Sono stati condannati definitivamente al carcere a vita, ma sono liberi. Diciassette ex criminali di guerra nazisti, vivono tranquillamente nelle loro case in Germania perché i mandati di arresto europeo nei loro confronti sono stati respinti al mittente (solo in due casi gli ordini di cattura non sono stati ancora emessi), così come non hanno avuto esito le successive richieste di far scontare le pene nel loro Paese. Tra questi ex criminali di guerra, tutti ultraottantenni e alcuni quasi centenari, vi sono i responsabili di alcuni dei peggiori eccidi compiuti nel corso della seconda guerra mondiale.
Il dato è stato confermato all’Ansa dal capo della procura militare di Roma, Marco De Paolis, l’ufficio giudiziario attualmente competente per la maggioranza di questi procedimenti. Processi che lo stesso magistrato ha in buona parte istruito a partire da metà degli anni ’90, dopo la scoperta del cosiddetto armadio della vergogna” (dove furono occultati centinaia di fascicoli di indagine), quando era procuratore militare della Spezia.
In particolare, sono otto i condannati all’ergastolo dalla Cassazione per la strage di Sant’Anna di Stazzema (560 vittime) che sono ancora in vita e non scontano la pena; tre quelli per Marzabotto (770); uno per gli eccidi di Civitella Val di Chiana, Cornia e San Pancrazio (244); uno per Branzolino e San Tomè (10), uno per la Certosa di Farneta (oltre 60 morti) e uno per Falzano di Cortona (16 i civili trucidati). Solo un secondo condannato all’ergastolo per quest’ultima strage, Josef Scheungraber, di 93 anni, è finito in prigione, ma soltanto perché è stato condannato anche in Germania per quell’eccidio.
Per tutti i condannati definitivi la magistratura militare ha emesso nel tempo i relativi mandati di arresto europeo, ma la Germania ha sempre rifiutato la consegna. I giudici hanno quindi inoltrato al ministero della Giustizia la richiesta di esecuzione della pena in Germania, ma a tutt’oggi non hanno ricevuto alcuna risposta: non si sa nemmeno se sia il governo tedesco che deve ancora pronunciarsi, oppure se è quello italiano che non ha mai inoltrato l’istanza alla Germania.
Solo per due dei condannati dalla Cassazione al carcere a vita – ritenuti responsabili delle stragi compiute nell’agosto ’44 nel comune toscano di Fivizzano, dove furono trucidate complessivamente 346 persone, in maggioranza donne e bambini – il pubblico ministero non ha ancora spiccato il mandato di cattura europeo in attesa che diventi irrevocabile la condanna anche per altri due coimputati. Ma è difficile che la Germania adotti una decisione diversa dalle precedenti.
In Italia ancora 30 inchieste ancora aperte. Sono una trentina le inchieste su eccidi compiuti in Italia da militari tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale su cui ancora indaga la magistratura militare: in particolare, una dozzina di fascicoli sono aperti presso la procura militare di Roma e circa 15 procedimenti sono nella fase delle indagini preliminari a Verona. I processi nei confronti di criminali di guerra nazisti celebrati in Italia furono solo una decina, dal dopoguerra fino al 1994, anno in cui venne rinvenuto il famoso ”armadio della vergogna” dove erano stati occultatati 695 fascicoli di crimini nazifascisti mai perseguiti. Le inchieste su questi episodi vennero dunque avviate solo nel 1995 ma, soprattutto a causa dei molti anni trascorsi – con la morte degli indagati e dei testimoni e la conseguente difficoltà di condurre le indagini – in gran parte si sono concluse in un nulla di fatto. Tuttavia, una ventina di processi si sono celebrati e molti hanno portato a condanne all’ergastolo, anche se solo tre imputati sono finiti in prigione all’esito di questi procedimenti: Erich Priebke (l’unico ancora in vita, oggi ai domiciliari nella casa del suo avvocato) Karl Hass (deceduto nel 2004 nella casa di riposo di Castelgandolfo dove era agli arresti) e Michael ‘Misha’ Seifert (detenuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere e morto a novembre). I processi attualmente in corso nei vari gradi di giudizio sono invece tre.
(La Repubblica, 29 maggio 2011)

Per vedere nella sua casetta in Germania uno di questi assassini:

http://multimedia.lastampa.it/multimedia/nel-mondo/lstp/51328/

25 aprile, la nostra festa

b0d99341ebf9bdc62e01e01c06a5ce3e_medium.jpgDomani, 25 aprile, è Festa nazionale. Il che significa che la nazione italiana riconosce in quella data il fondamento della propria identità. Detto altrimenti: il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani perché per far parte della Patria è necessario riconoscere – nel fatto storico che si celebra – la radice della propria comune cittadinanza. Ora, il 25 aprile è stato scelto a riassumere i giorni in cui i partigiani insorgono in tutte le più importanti città del nord, liberandole. “Aldo dice ventisei per uno” è la frase in codice trasmessa da radio Londra con cui il comando della Resistenza il pomeriggio del 24 aprile dà l’ordine dell’insurrezione generale.

Il 25 aprile è dunque la festa di tutti gli italiani perché è la festa della Liberazione, la festa della vittoria della Resistenza antifascista. La Resistenza antifascista è dunque il fondamento del nostro essere italiani. Chi della Resistenza antifascista nega o disprezza o combatte i valori sta semplicemente minando e negando l’identità e l’appartenenza che ci fanno Patria. Patria e Resistenza antifascista sono sinonimi, fino a che l’Italia vuole restare “Repubblica italiana” e non collassare di nuovo in quella mera “espressione geografica” di cui parlava Metternich. La Resistenza antifascista fa tutt’uno infatti con la Costituzione repubblicana, che nasce nel pieno esplodere della guerra fredda e che tuttavia custodisce l’identità comune della Nazione, al di là di uno scontro politico sempre più aspro, proprio perché radicata nell’impegno comune – fino al sacrificio della vita – cui hanno saputo dar luogo i partigiani in montagna, i militanti dei partiti clandestini nelle città, nelle carceri, in esilio.

La Resistenza antifascista, e la Costituzione che ne codifica la “buona novella” (firmata dal democristiano De Gasperi e dal comunista Terracini, ed elaborata da figure straordinarie come Calamandrei), rappresentano perciò una sorta di religione civile, di ethos comune dell’Italia democratica, nel venire meno dei quali va in pezzi la Patria stessa, e resta la nuda forza degli “spiriti animali”, le “ragioni” di chi ha più potere ed eversiva-mente lo esercita in una sorta di guerra civile soft. Forse l’articolo 1 va cambiato davvero: “L’Italia è una Repubblica democratica … nata dalla Resistenza antifascista, ai cui valori si ispira”.

Domani 25 aprile, giorno della Liberazione, della vittoria della Resistenza antifascista, è Festa nazionale. Festa dell’Italia. Chi non vi partecipa “toto corde” è perciò contro la Patria, dell’Italia si fa nemico.

Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2011

La forze del destino. Storia d’Italia

Duggan.jpgIeri abbiamo presentato il volume di Christopher Duggan La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi (Laterza, 2008),  discutendone con l’autore. Uno dei temi affrontati è stata la ricorrente mancanza di una “educazione” (civile e politica non solo culturale) come radice delle debolezze degli italiani, così restii a diventare una Nazione e così soggetti ad essere una “massa” da usare per l’uomo della provvidenza di turno. Riporto le conclusioni del volume, che consiglio ai miei 25 lettori (sono quasi 700 pagine ma si legge benissimo, senza obbligo di una lettura totale):

Per molti osservatori, sia in Italia che all’estero, è difficile capire come un uomo che sembra mostrare così poco rispetto per i valori dello Stato,e ha ripetutamente calpestato la distinzione fra sfera pubblica e sfera privata, riesca a ottenere un così ampio sostegno elettorale. Ma perché gli individui possano liberamente sceglierli come bussole per il comportamento, i valori pubblici, non diversamente da quelli privati, hanno bisogno della sanzione dell’autorità morale; e a quanto pare nel corso dell’Ottocento e Novecento l’esperienza di molti italiani comuni è stata purtroppo tale da creare un diffuso scetticismo nei confronti dei fini e valori collettivi, a tutto vantaggio del perseguimento di fini e valori privati”.

 

“Al principio del ventunesimo secolo l’Italia presentava un volto completamente trasformato rispetto al paese povero e arretrato in cui due secoli prima erano nati Mazzini, Garibaldi e Cavour. La grande maggioranza dei suoi abitanti si nutrivano di gran lunga meglio, erano di gran lunga più istruiti, e notevolmente più ricchi e più sani (e magari più felici). Erano anche indubbiamente più italiani. Ma le preoccupazioni che avevano tormentato i patrioti del Risorgimento-al cui centro stava il problema di come costruire una nazione con un passato condiviso e un senso forte di un destino e di una meta collettivi-conservavano negli anni di Forza Italia un’urgenza quasi altrettanto grande che nell’epoca dei Carbonari e della Giovine Italia. Fin dal principio, la nazione italiana era stata difficile da definire e ancor più difficile da costruire; e malgrado gli sforzi di poeti, scrittori, artisti, pubblicisti, rivoluzionari, soldati epolitici di vario colore e orientamento, era chiaro che i vecchi modelli di pensiero e di comportamento erano tuttora profondamente radicati, e  che la fede nell’ideale dell’”Italia” non aveva avuto lo sviluppo auspicato da tanti patrioti.

È d’altronde possibile che l’insistenza con cui il progetto di “fare gli italiani” era stato perseguito fino alla seconda guerra mondiale avesse finito col risultare controproducente, contribuendo a erodere la credenza in valori nazionali collettivi. Ma per funzionare bene gli Stati hanno bisogno di un senso pervasivo e dominante del più vasto insieme cui gli interessi degli individui, dei gruppi e dei partiti debbono in ultima analisi subordinarsi. E al principio del nuovo millennio l’”Italia” continuava ad apparire un’idea troppo malcerta e contestata per poter fornire il nucleo emotivo di una nazione, o almeno di una nazione in pace con se stessa e capace di guardare con fiducia al futuro.”  (pag.672-3).

Eccidio delle Fosse Ardeatine, 67 anni dopo due nuovi nomi

Dopo mesi di lavoro, i carabinieri del Ris sono riusciti ad identificare i resti di due vittime della strage nazista rimaste finora ignote. Ancora 10 tombe anonime su 335.
LaRosa--140x180.jpgUn fiore per Marco e Salvatore. E presto, forse, anche per qualche altro tra i dieci poveri «ignoti» del grande sterminio delle Ardeatine. Un fiore, una tomba, il nome e cognome, una lapide che finalmente si materializza 67 anni dopo il giorno in cui sono morti con un colpo alla nuca in quella che è stata una delle più buie stragi del nazifascismo. Identificati i resti di Marco Moscati e di Salvatore La Rosa (foto) in due delle dodici tombe rimaste finora senza nome delle Fosse Ardeatine.

L’identificazione portata a termine dai carabinieri del Ris che per molti mesi, dopo aver ricevuto da Onorcaduti l’incarico di occuparsi dei resti dei caduti senza nome, hanno indagato sul dna di ciò che rimane nei sepolcri anonimi del sacrario romano. Erano dodici ignoti su 335 caduti, ora sono ridotti a dieci. Poi ieri la comunicazione alle due famiglie, che hanno ringraziato i militari dell’Arma. Il nipote di Moscati, Israel Cesare, si è anche precipitato al sacrario ma quando è arrivato era ormai chiuso. Questa mattina è corso di nuovo lì con suo padre Angelo, domani leggerà durante la cerimonia una lettera della sua famiglia.
IL RICORDO – Ogni anno il Capo dello Stato entra alle Fosse Ardeatine e dopo essere passato di fronte al palco che riunisce autorità e rappresentanti delle famiglie delle vittime sosta in raccoglimento di fronte alla lapide che ricorda le 335 vittime. Così inizia la cerimonia del 24 marzo per ricordare la strage. Poi come ogni anno il profondo silenzio viene rotto dalla lettura del lunghissimo elenco dei morti, una lista in ordine alfabetico da Ferdinando Agnini ad Augusto Zironi a cui segue, in conclusione, un’ultima gelida notazione: «Ignoti 12». Così anno dopo anno, per sessantasei anni.

Ma stavolta, il 24 marzo del 2011, ecco questa grande novità: dopo Emanuele Moscati risuonerà anche il nome di suo fratello Marco Moscati, ebreo partigiano. E dopo quello di Boris Landesman ci sarà quello di Salvatore La Rosa, un soldato siciliano sbandato dopo l’8 settembre e poi tradito a Roma da una spiata che lo aveva fatto rinchiudere a Regina Coeli. Marco Moscati, Salvatore La Rosa: la notizia del riconoscimento coglie di sorpresa, i carabinieri del Ris sono riusciti dove non si era riusciti prima, dopo aver riesumato però resti di tutti i dodici sarcofagi rimasti senza nome e cioè il 3, 52, 98, 122, 155, 264, 272, 273, 276, 283, 284 e 329. Avevano a disposizione cinque dna di familiari delle vittime. Marco Moscati era nel sarcofago 283 e Salvatore La Rosa nel 273. Il dna delle ossa del 283 ha combaciato con quello fornito da Angelo Moscati, fratello della vittima, e quello dei resti del 273 è lo stesso di quello fornito dalla figlia di Salvatore La Rosa, la signora Angela Alaimo La Rosa di Aragona, un paese dell’agrigentino in Sicilia. La genetica ha finalmente avuto ragione della barbarie che imponeva per queste vittime un lutto senza un luogo preciso.

Marco Moscati, giovane piazzista, aveva solo 24 anni quando era stato ucciso. L’avevano arrestato per una spiata il 15 febbraio del ’44, sulla scalinata di Trinità dei Monti. Era andato nei pressi di piazza di Spagna a rilevare un piccolo carico di armi che doveva portare a un gruppo partigiano dei Castelli. Mentre stava pagando erano arrivati i fascisti, lo avevano inseguito sparandogli dietro, l’avevano acciuffato sulle scale. Alle Ardeatine si era ritrovato col fratello Emanuele, trent’anni ancora da compiere. Un altro degli otto fratelli Moscati, David, è uno dei morti di Auschwitz, aveva solo 17 anni. Ci sono voluti tanti, troppi anni. Ma ora il grande mistero delle Fosse Ardeatine ha iniziato a sgretolarsi. Restano ancora dieci tombe a cui dare un nome. I carabinieri del Ris non disperano di poter aggiungere altre identificazioni. Prima del risultato di oggi ci sono state le docce fredde del passato: due anni fa un primo tentativo era andato a vuoto, lo avevano finanziato di tasca propria i parenti di Marco Moscati. Avevano puntato tutto su un’unica tomba, la 329, l’unica contrassegnata da una stella di David. Speravano di potervi trovare i resti di Marco Moscati, ebreo, partigiano, attivo ai Castelli. A chiederlo era soprattutto l’anziano Angelo che alle Fosse Ardeatine sa di avere due fratelli: Emanuele, nel sarcofago 245, e Marco che non si sapeva dove fosse esattamente. E con Angelo a cercare la verità c’era tutta la famiglia Moscati. Poi però un anno fa ecco arrivare il responso. Il genetista di Tor Vergata Giuseppe Novelli, affiancato dal medico legale Giovanni Arcudi e da Liana Veneziano del Cnr, non è riuscito a far combaciare i dna. Sono diversi. Il partigiano Marco Moscati infatti non era in quel sarcofago 329. Novelli, uno specialista del dna, non aveva potuto fare di più.

Un mistero inquietante, quello dei dodici sarcofagi senza nome. Si sapeva infatti che dal carcere di Regina Coeli erano usciti in 335, caricati su camion diretti alle cave ardeatine in quel primo pomeriggio del 24 marzo del 1944 per andare alla morte. Unico testimone dell’eccidio un porcaro che da una collinetta vicina aveva assistito sgomento alla strage senza poter far nulla. Poi sulla città che s’interrogava era calato quel drammatico comunicato del Comando tedesco: «L’ordine è stato eseguito…». Era marzo e solo in giugno, dopo l’ingresso in Roma degli Alleati, era stato scoperto il luogo dell’eccidio. Nel luglio del ’44 il professor Ascarelli aveva riesumato le vittime, estraendole una ad una dall’orribile mucchio che i tedeschi avevano fatto in fondo alle gallerie delle cave. Un parallelepideo di corpi largo cinque metri, lungo altrettanto e alto un metro e mezzo. Corpi macerati, che i nazisti di Kappler e Priebke avevano cercato di nascondere invano minando le entrate delle cave ma fallendo nel proposito.

LA RIESUMAZIONE – Il riconoscimento delle vittime in quell’estate terribile del ’44 era andato avanti a lungo, in mezzo a enormi difficoltà, affidato ai poveri familiari in cerca di qualche segno, un vecchio orologio, un brandello di vestito, montature di occhiali, cifre di ricami, fatture, anelli, penne stilografiche, fazzoletti. I corpi, no, quelli dopo quattro mesi erano purtroppo irriconoscibili. Alla fine il conto degli identificati si era fermato a 323 vittime. E così era rimasto da allora. Dodici i non identificati. Eppure si sapevano i nomi di parecchie delle vittime rimaste senza una tomba certa. Cinque i nomi di ebrei come Marco Moscati: Cesare Calò, Marian Reicher, Bernard Soike, Hein Eric Tuchmann. E poi i nomi di Salvatore La Rosa, Alfredo Maggini, Remo Monti, Michele Partiti, Cosimo Di Micco. Per anni alcune famiglie, dai De Micco a La Rosa ai Moscati, hanno chiesto, invano, un aiuto. Qualcuno di loro, come Angela La Rosa, ha scritto a molti presidenti della Repubblica e ad autorità varie. Forse non ci sperava più. Sembrava che la riesumazione e la ricerca delle identità con le nuove tecniche fosse infatti un’impresa impossibile. «La riesumazione? Se la paghino le famiglie. E poi bisogna che tutte e dieci siano d’ accordo…»: così la sostanza della risposta che Onorcaduti, struttura del Ministero della Difesa, aveva dato a una lettera di Walter Veltroni tempo fa. Nel 2008 la famiglia di Marco Moscati aveva autonomamente raccolto la somma necessaria per tentare quel riconoscimento poi fallito.

IL LAVORO DEL RIS – «Presidente Napolitano, ci aiuti lei – era stata infine alla cerimonia del 2010 l’esortazione di Rosetta Stame, presidente dell’ Anfim -. Dobbiamo finalmente dare un nome a tutti i nostri caduti…». E così finalmente qualcosa è cambiato, Onorcaduti ha mutato indirizzo, è stato chiamato in causa il Ris dei carabinieri. A effettuare la lunga e meticolosa ricerca è stata la struttura guidata dal tenente colonnello Luigi Ripani, l’incarico specifico è stato assunto dal maggiore Andrea Berti. Un lavoro difficile, meticoloso, complicato, possibile solo con l’aiuto di congiunti diretti. E che sta dando ora i suoi primi frutti. «Abbiamo potuto lavorare su tutti e dodici i resti – spiegano al Ris -, questo è stato decisivo per raggiungere il risultato di oggi. I dna forniti dalle famiglie sono stati finora solo cinque». Un appello infine dal comandante di Onorcaduti, il generale Vittorio Barbato: «Mi rivolgo alle famiglie che non hanno ancora fatto avere il loro dna come congiunti delle vittime di cui non abbiamo identificato i resti. Si mettano in contatto con noi, il Ris è pronto a fare tutti i confronti necessari».

Paolo Brogi
23 marzo 2011

http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/11_marzo_23/fosse-ardeatine-nuovi-riconoscimenti-paolo-brogi-190287449871.shtml