Risorgimento tra storia e metafora (Alessandro Portelli)

Molti anni fa, in un’intervista in cui si parlava d’altro, una signora mi raccontò la seguente storia. Il giorno del suo matrimonio, mi disse, dopo essere andato a casa con la sposa, mio bisnonno uscì per andare a comprare da mangiare. Mentre era in strada, passò di lì Garibaldi con la sua truppa. Mio bisnonno si scordò della spesa e della sposa, si aggregò a loro, andò a liberare l’Italia e tornò a casa solo quattro anni dopo.
Il 17 marzo, in una trasmissione radiofonica sull’unità d’Italia, si parlava del rapporto fra storia e metafora, e a me è venuto in mente che tutta la narrazione di questi giorni si regge su una metafora: Risorgimento – qualcosa che torna a vivere. E allora ho pensato anche a quello che dice Toni Morrison: ogni cosa morta che torna a vivere duole. Non capiamo il significato stesso della parola “risorgimento” se non ci domandiamo dov’è che questa cosa, tornando a vivere, duole.
In questo ci può aiutare la memoria – non tanto quella consolidata di libri, celebrazioni e musei (che vanno benissimo) ma quella più sotterranea e inafferrabile che passa per le famiglie, per le narrazioni private e familiari. Un’altra signora, anche lei discendente di garibaldini: mio nonno si doveva fare prete, e venne via dal convento. Si dette alla macchia, stava nel bosco e per il bosco passò Garibaldi, e andò con Garibaldi”. In ogni “nascita di una nazione” c’è un momento di rottura e un momento di ricomposizione – è la dinamica americana di rivoluzionecostituzione, e forse anche la nostra, risorgimentounità.
In tutte le narrazioni familiari che ho ascoltato, andare con Garibaldi comincia con una rottura – con la famiglia (due fratelli ternani “si arruolarono con Garibaldi di nascosto dai genitori: lasciarono una lettera e andarono tutti con Garibaldi”), con la chiesa (la figlia di un partigiano ucciso alle Ardeatine raccontava di un nonno anche lui scappato dal seminario per andare con Garibaldi), con l’ordine costituito: il parroco che mi fece la prima comunione mi disse anni dopo che i garibaldini erano “gente un pochino esaltata, senza regolarità di cose”, seguaci di “un brigante fortunato”. Una pronipote mi spiegava che in famiglia sono molto fieri delle amicizie del bisnonno con Mazzini e Garibaldi, ma tendono a minimizzare il fatto che per queste amicizie fece anni di galera. Un antenato eroe va bene, un antenato galeotto un po’ meno; ma – ed è questa la dialettica della nascita delle nazioni – si è galeotti e briganti prima di essere eroi.
Ogni nascita di nazione è costituzione di un nuovo ordine ma anche traumatica rottura e violazione di un ordine precedente; e come spesso nei traumi, la coscienza si organizza per esorcizzarlo. Qui ci aiuta anche quella forma speciale di memoria che è la letteratura. Il vero racconto della rivoluzione americana è “Rip Van Winkle” di Washington Irving, in cui il protagonista si addormenta prima della rivoluzione e si sveglia vent’anni dopo, a cose fatte. Ma una storia del genere c’è anche nella letteratura italiana: si chiama “Mastro Domenico” (1871), dello scrittore toscano di Narciso Feliciano Pelosini, e racconta di un personaggio che si addormenta del Granducato di Toscana e si sveglia anni dopo nel Regno d’Italia. Da un ordine a un ordine, esorcizzando il trauma del doloroso e disordinato risorgimento.
In tanti di questi racconti familiari Garibaldi “passa di lì”. E’ stato ascoltandoli che ho capito perché non c’è luogo dove non ci sia una lapide con scritto “qui ha dormito Garibaldi”: perché Garibaldi l’Italia se l’è fatta davvero tutta, da Quarto al Volturno, da Roma a Ravenna, dall’Aspromonte a Bezzecca. Quest’eroe brigante in viaggio che aggrega seguaci estemporanei è davvero un personaggio “on the road”, e pure coi capelli lunghi (ha scritto Omar Calabrese che la figura letteraria che più gli somiglia è Sandokan – un pirata, appunto, e un combattente antimperialista). Poi gli fanno il monumento, ma varrà pure la pena di ricordarci che “Garibaldi fu ferito”. E da chi.
Delle tre R maiuscole che scandiscono la nostra storia – Rinascimento, Risorgimento, Resistenza – solo la resistenza, non è una metafora (anche se hanno provato a negarla con un’altra metafora, quella della “morte della patria” l’8 settembre), perché i partigiani hanno resistito letteralmente. E infatti in questi giorni dovremmo tenere ben presente che quelli che a riempirsi la bocca di Patria sono stati proprio quelli che nel 1943 l’hanno spaccata in due, fra Brindisi e Salò. Per rimettere insieme l’Italia ci sono voluti i partigiani: li chiamavano banditi (“siamo i briganti della montagna”); ma tanti di loro si chiamarono “garibaldini”.

il manifesto, 18 marzo 2011

Don Pasquino e i “suoi”

jpg_3210397.jpgLunedì 30 gennaio ho commemorato don Pasquino Borghi e gli altri otto antifascisti fucilati dai fascisti il 30 gennaio 1944. Questo il testo del mio intervento (a stampa sul prossimo Notiziario Anpi).

Beati i miti perché erediteranno la terra

Non è facile parlare in questo luogo, prima della celebrazione ho passeggiato attorno a queste mura pensando alle parole più adatte a ricordare fatti di 67 anni fa e ho pensato di iniziare raccontandovi degli incontri, tre incontri avvenuti in quei mesi dell’autunno inverno 1943-1944.

Il primo incontro si svolge il 24 ottobre 1943, i giorni sono quelli dell’autunno dopo l’armistizio. Il nostro Appennino era diventato il crocevia di ragazzi in fuga, alleati dai campi tedeschi e italiani, italiani abbandonati dopo il disastro dell’8 settembre. Cercavano un rifugio, una casa, un luogo dove fermarsi, chi una notte, chi giorni e settimane. Sul nostro Appennino sono le canoniche ad aprirsi per prime. In quel 24 ottobre Don Pasquino prende possesso della sua parrocchia. Don Pasquino ha quaranta anni e arriva in quella parrocchia sperduta dopo un lungo viaggio, non solo interiore ma anche geografico: dall’Italia al Sudan, dal Sudan di nuovo in Italia, alla Certosa di Farneta, fino a Canolo. Don Pasquino arriva in quella montagna e incontra altri sacerdoti, un disegno della Provvidenza per chi crede, un caso fortunato per gli altri. Lo accoglie don Paolino Canovi, parroco di Gazzano, che sarà arrestato la vigilia di Natale per aver ospitato soldati inglesi, portato ai Servi e torturato; lo accoglie don Mario Prandi che ha già avviato a Fontanaluccia quell’esperienza eccezionale di carità che è giunta fino ad oggi; lo accoglie don Vasco Casotti, parroco a Febbio, che  nasconderà, dopo lo scontro di Cerrè Sologno, “Miro” e “Barbolini” feriti nella sua canonica che sarà poi la sede del Comando Unico della formazioni partigiane reggiane; lo accoglie don Venerio Fontana, arciprete di Minozzo che sfuggirà, il 1 agosto, alla strage dove cadranno sei dei suoi; lo accoglie il più anziano di quei sacerdoti: don Battista Pigozzi che cadrà il 20 marzo sull’aia di Cervarolo con 23 dei suoi parrocchiani. A poca distanza poi don Enzo Bonibaldoni, parroco di Quara, riconosciuto “Giusto fra le nazioni”, per l’aiuto dato alla salvezza di fratelli ebrei. Quella era la montagna reggiana, dove la “via delle canoniche” offriva soccorso e difesa ai più poveri di quelle tragiche giornate.

Il secondo incontro si svolge il 10 gennaio 1944, il luogo è la canonica di S.Pellegrino, don Angelo Cocconcelli, Giuseppe Dossetti incontrano don Pasquino che è già “in fuga”, dopo la lettera del 27 dicembre al vescovo Brettoni dove scrive “sembra di essere tornati alla catacombe”. Don Angelo e Dossetti lo invitano alla prudenza, la sua attività di aiuto ai fuggitivi e ai primi nuclei partigiani (i Cervi) ormai è nota ai fascisti. Quei ragazzi che ospita dovrebbero cercare altri rifugi, “ma dove li mando con trenta centimetri di neve gelata, se nessuno li vuole!”-obietta don Pasquino. Il buonsenso dei due amici incalza: “Ma è un pericolo mortale!”, ma lui taglia corto: “Ma si può dare anche dare la vita per la patria libera!”

Il terzo incontro, quello finale, si svolge nella notte fra sabato 29  e domenica 30 gennaio, carcere dei Servi (un luogo di memoria che abbiamo cancellato). Don Pasquino, che era stato imprigionato a Scandiano, viene unito ai “suoi”. Incontra Romeo Benassi, 40 anni, muratore; Umberto Dodi, 49 a., operaio alle “Reggiane”; Dario Gaiti, 47 a,  muratore; Destino Giovannetti, 53 a., operaio “Reggiane”; Enrico Menozzi, 53 a., piccolo proprietario; Contardo Trentini, 42 a., cordaio; Ferruccio Battini, 32 a, falegname; Enrico Zambonini, 51 a., anarchico, di Secchio. Vite diverse, lontane che si incrociano per finire insieme.
Qui al Poligono arrivano insieme alle 6,30, muoiono insieme alle 7,18 di quelle domenica mattina di gennaio.

Oggi noi siamo qui, dopo 67 anni, per commemorare, cioè per ricordare insieme, per fare memoria comune di quei fatti. Da poco abbiamo celebrato la “Giornata della memoria” per ricordare le vittime della Shoah, e usiamo molto questo termine “memoria”, ma cos’è la “memoria”? Dei tanti contenuti ne voglio sottolineare alcuni.

Ricordare è una forma di giustizia: nessuno dei 9 uccisi qui il 30 gennaio ha avuto giustizia. I 4 responsabili non hanno mai pagato per le loro azioni: due uccisi ancora in guerra, altri due, pur processati (contumaci) nel 1946 e condannati a 24 anni di carcere, hanno visto cancellata la loro giusta condanna dall’amnistia. Ricordare don Pasquino e i suoi è dare loro un po’ di giustizia.

Ricordare è una forma di educazione: “Noi siamo quello che ricordiamo” (M.Luzi) e, aggiungo io, noi diventiamo anche quello che abbiamo dimenticato. Oggi ce la prendiamo con gli immigrati: e ci scordiamo di essere stati un popolo di migranti (26 milioni di italiani hanno lasciato l’Italia nei 150 anni dell’Unità), costruiamo i CPT, moderni lager e ci scordiamo Ellis Island, a New York, dove i nostri migranti erano rinchiusi e schedati.
Il 27 gennaio siamo a commemorare la Shoah e dimentichiamo i nostri campi di concentramento in Libia, ad Arbe. Infatti, per meglio dimenticare, non abbiamo voluto aggiungere un’altra data per il giorno della Memoria da affiancare al 27 gennaio: ad esempio il 16 ottobre, memoria della razzia del ghetto di Roma.
Ce la prendiamo con gli zingari e i rom e dimentichiamo che furono i primi ad essere arrestati e sterminati perché di loro nessuno si curava. E la forza di una democrazia si misura sulla tutela che si dà ai più deboli non ai più forti della società.

Oggi siamo a commemorare un evento, parliamo di “dovere” della memoria, ma dobbiamo stare attenti, istituzioni e cittadini, che il “dovere” non si trasformi in “obbligo”, qualcosa da soddisfare una volta all’anno perché si “deve”, e basta. Se la memoria è educazione la memoria si costruisce sempre, non basta una giornata, si costruisce con un lavoro continuo, con i “Viaggi della memoria”, con le scelte culturali e amministrative.
Oggi si parla di “devastazione antropologica” ma se noi diventiamo quello che ricordiamo e non ricordiamo niente cosa diventiamo? Diventiamo il “nulla” che conduce, appunto, alla “devastazione antropologica”, un processo che è passato, silenzioso nel tempo, anche attraverso l’oblio, la riscrittura della storia, la sua cancellazione.
Oggi poi ci troviamo in un passaggio storico decisivo con la scomparsa dei testimoni. Noi abbiamo avuto la fortuna di ascoltare don Cocconcelli, Romolo Fioroni, Placido Giovannetti (il figlio di Destino che veniva qui al Poligono portando in tasca l’ultima lettera del padre ucciso) ma i nostri figli?
Senza testimoni come potremo ancora “fare memoria”? Certo tocca a ciascuno di noi adempiere all’invito biblico “Quello che avete visto e udito ditelo ai vostri figli”, ma non basta.
Dopo la scomparsa dei testimoni due elementi sono diventati decisivi per trasmettere memoria: i luoghi e le fonti, i documenti.
Allora perchè le parole non restino solo buoni propositi diamoci delle scadenze per il prossimo Giorno della Memoria, il Ghetto aspetta da 15 anni segni concreti che dicano al passante che lì è esistita per secoli una comunità che è stata cancellata; collochiamo le “pietre di inciampo” davanti alle case dove vissero i dieci ebrei reggiani finiti ad Auschwitz; in montagna segniamo le canoniche di Tapignola, di Febbio, di Quara come luoghi di coraggio e di salvezza.
Don Pasquino diceva che per la patria libera si può anche morire, a noi non è chiesto tanto, è chiesto però un impegno concreto e quotidiano per difendere quei valori, per trasmetterli ai nostri figli, per essere, in fondo, cittadini migliori.

Buon compleanno, professore!

In questi giorni il massimo storico contemporaneo italiano Claudio Pavone compie 90 anni. 90 anni spesi bene, per la cultura e la crescita etica e civile del nostro (povero) paese. Riporto l’intervista uscita sul Corriere della Sera alcuni giorni fa.

Pavone: non servono memorie condivise
«Da Foa ho imparato che non bisogna disperare mai»
«Sminuire le ragioni della lotta tra fascisti e partigiani significa banalizzare la storia»
di Antonio Carioti

La denuncia dell’autore che compie novant’anni: trascurato lo studio dei crimini di guerra italiani dal 1940 al 1943

«Oggi viene spesso criticata la decisione di esigere la resa incondizionata del nemico, assunta dagli Alleati alla conferenza di Casablanca nel 1943. Si dice che prolungò la guerra. Ma io non sono d’accordo. Credo sia stata una scelta giusta, che consentì in Germania una ricostruzione democratica radicale, con un’epurazione seria che non ha lasciato spazio alle scorie del nazismo».

Alla vigilia dei novant’anni, che compie il 30 novembre, lo storico Claudio Pavone conserva intatta la capacità di spiazzare i suoi interlocutori. Come quando nel 1991 intitolò Una guerra civile (Bollati Boringhieri) il suo fondamentale libro sulla lotta partigiana, legittimando l’uso di un’espressione fino allora ritenuta sconveniente per definire la Resistenza.
In questo caso invece Pavone si ricollega ai suoi studi sulla continuità dello Stato dal fascismo alla Repubblica:

«In Italia, rispetto alla Germania, ci siamo portati dietro un’eredità del passato regime molto più consistente. E abbiamo rischiato che, dopo l’armistizio del 1943, quasi tutto rimanesse come prima, con lo Statuto albertino, la monarchia e la corte, la vecchia legge elettorale prefascista . Quando il generale Eisenhower, a Malta, chiese a Pietro Badoglio se non avesse pensato di lasciare a un civile la guida del governo italiano, l’altro rispose facendo il nome di Dino Grandi, l’ex ministro degli Esteri che con il suo ordine del giorno aveva provocato la caduta del Duce. Eisenhower ribatté: “I nostri ragazzi non sono morti per sostituire Mussolini con un altro fascista”».


Il merito maggiore della Resistenza, secondo Pavone, è aver evitato soluzioni del genere:

«Grazie alla lotta partigiana abbiamo avuto la Costituzione, frutto di una grande assunzione di responsabilità da parte di forze politiche che erano divise su tante questioni importanti, ma riuscirono a realizzare un compromesso di alto livello tra le culture cattolica, liberale e marxista. E infatti per molti anni le sinistre e i moderati hanno sempre considerato la Resistenza un evento positivo, anche se le attribuivano, polemizzando tra loro, significati diversi».


Oggi invece si tende a svalutarla, si dice che a sconfiggere il Terzo Reich furono gli Alleati, non certo i partigiani:

«È un’ovvietà. Del resto nell’autunno 1943 i tedeschi erano ormai sulla difensiva e si poteva anche pensare di limitarsi ad attendere l’avanzata angloamericana, senza fare nulla. Ma proprio questo aumenta il valore etico della scelta resistenziale: i partigiani presero le armi e rischiarono la vita, anche se non era strettamente necessario dal punto di vista militare, perché non vollero essere liberati dagli eserciti stranieri, senza contribuire alla lotta contro il nazismo. Del resto, se nessuno si fosse mosso, credo che gli attuali critici della Resistenza sarebbero i primi a dire: vedete, mentre tutti i popoli d’Europa insorgevano contro Hitler, solo in Italia non succedeva nulla».


Pavone inoltre considera ingiusto il termine  usato per liquidare l’opera degli Istituti per la storia del movimento di Liberazione:

«In realtà hanno compiuto un lavoro enorme, raccogliendo una documentazione fondamentale per tutti gli studiosi. E sono anche usciti dalla visione oleografica ed eroica della lotta partigiana. In quest’ambito vanno ricordate le ricerche sulla resistenza civile e sulla presenza delle donne realizzate da Anna Bravo, a partire dal saggio di Jacques Sémelin Senz’armi di fronte a Hitler. Oppure ai precoci studi di Guido Crainz sulle uccisioni di fascisti dopo la Liberazione, ben più serie e attendibili delle polemiche attuali sul “sangue dei vinti”. La stessa visione sessantottina, riassumibile nello slogan “La Resistenza è rossa, non democristiana”, ha avuto una sua utilità: ha aiutato a superare la ritualità ufficiale e la retorica unitaria del Pci, per analizzare il movimento partigiano nelle sue diverse componenti, anche se poi i contestatori ne valorizzavano solo una, quella classista, e trascuravano le altre».


Dunque la storiografia ha fatto la sua parte?

«C’è ancora tantissimo da studiare. Ad esempio serve una visione più complessiva del ruolo svolto dall’Italia nella Seconda guerra mondiale, che non si concentri solo sul periodo 1943-45, ma indaghi a fondo i tre anni precedenti, compresi i delitti commessi dai nostri militari soprattutto nei Balcani, per i quali non c’è stata alcuna punizione. Sarà un caso, ma i due giovani studiosi che si sono occupati maggiormente dell’argomento, Davide Rodogno e Lidia Santarelli, non hanno trovato posto nell’università italiana e lavorano all’estero. Ma ci sono anche le atrocità commesse dai vincitori, che sono state rimosse fino a poco tempo fa: dai bombardamenti indiscriminati sulle città tedesche, privi di reale utilità bellica, all’espulsione violenta di intere popolazioni dalle zone orientali della Germania». Tuttavia Pavone non apprezza i richiami alla «memoria comune», né alla buona fede dei ragazzi di Salò: «La sincerità di un combattente – osserva – non può riscattare una causa sbagliata. Del resto Hitler fu sempre in buona fede: fin dall’inizio non nascose le sue intenzioni e le mise in pratica con assoluta coerenza. Quanto alla memoria comune, è un concetto privo di senso. Non c’è niente di più soggettivo della memoria: un ex partigiano e un reduce della Rsi non potranno mai avere la stessa visione del passato. Erano italiani entrambi, ma volevano due Italie diverse, inconciliabili. Mettere una pietra sopra alle ragioni del conflitto non è un progresso né civile né storiografico. Tra l’altro così si finisce per banalizzare il fascismo che invece fu un fenomeno storico molto serio».D’altronde, sostiene Pavone, l’auspicio della memoria comune è presto scaduto nel tentativo di mettere le due parti sullo stesso piano e di squalificare la lotta partigiana: «La destra italiana ha bisogno di un nemico: i comunisti, la sinistra e anche la Resistenza. Di recente il ministro Gelmini ha dichiarato che la sua riforma serve a superare l’egemonia comunista nella scuola. Ma vorrei che mi elencasse i ministri della Pubblica istruzione che ha avuto il Pci dal 1945 in poi». Eppure Silvio Berlusconi, lo scorso 25 aprile, ha celebrato la Resistenza in Abruzzo, con un fazzoletto partigiano al collo: «Non mi ha convinto affatto – replica Pavone – perché il berlusconismo esalta proprio il sottofondo peggiore della nostra cultura nazionale: il conformismo, la mancanza di senso dello Stato, il primato assoluto dell’interesse privato. Per giunta consente alla Lega di diffondere il veleno della divisione tra Nord e Sud. No, Berlusconi può mettersi al collo tutti i fazzoletti che vuole, ma nei fatti rappresenta l’anti-Resistenza».

Insomma, Pavone è molto preoccupato:

«Sì, anche se ricordo quello che mi diceva Vittorio Foa: nel carcere fascista, perfino quando Hitler sembrava avere la vittoria in pugno, non aveva mai perso la fiducia. Anche di fronte alle tante sconfitte della sinistra, ripeteva che c’è sempre una via d’uscita e non bisogna smettere di cercarla. Era il segreto della sua vivacità intellettuale, che gli permetteva di dialogare con i giovani in età molto avanzata. Da Foa ho imparato che non bisogna disperare mai».

Corriere della Sera, 26.11.2010

Bufale e falsità, arrivano i diari del Duce

Il Duce Benito Mussolini (3).jpgdi Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2010

Una postilla. Una frase laconica che tanto spiega e con voluta ambiguità, molto altro lascia intendere. Neanche il tempo di arrivare a riga cinque della Nota editoriale non firmata sui diari di Mussolini editi da Bompiani, che già le braccia, in un movimento inconsulto, toccano terra. L’autenticità delle cinque agende, precisa l’anonimo estensore, “rimane, ad oggi, controversa”. Elisabetta Sgarbi e Marcello Dell’Utri ce l’hanno fatta. Le patacche che nessuno voleva, i fogli dattiloscritti che mezza Europa ha valutato, per poi cestinare dandosi di gomito, arrivano in libreria. E sono subito pile in bella vista, poster in vetrina, strenne natalizie per ingenui e nostalgici. Qui la ricerca storiografica non c’entra nulla. È una campagna di cinismo, delirio d’onnipotenza, calcolo. Nello sforzo editoriale, Ely e Marcy hanno però smarrito la barbarica baldanza che, appena qualche mese fa, aveva portato entrambi a eccellere nelle Olimpiadi dell’equilibrismo dialettico. Benito Mussolini in copertina, una fotografia sfuocata che è la sintesi di un’operazione maldestra. Sotto il titolo, tra parentesi (forse per la vergogna) un inedito assoluto per la letteratura italiana. “Veri o presunti” si legge. Il tutto e il niente, con prevalenza evidente per la seconda ipotesi in cui la bufala, da sola, non basta a spiegare un sogno di scoperta diventato in fretta incubo. A pagina sette, infatti, invece della minuziosa grafia del Duce, prende il via un lungo capitolo scisso in tre parti. L’introduzione non firmata (un vizio) si allunga e si distende per quasi settanta pagine. Più in là dell’ossessione del giornalista inglese del Sunday Telegraph Nicholas Farrel (firma di Libero, come l’ineffabile Francesco Borgonovo, i due progettano un’operazioncina pseudoletteraria, furba e chirurgica, da dare alle stampe con il quotidiano di Belpietro entro un mese), piovono smentite.

Un’epidemia. Smentisce Edda Ciano, nel 1994, qualche mese prima di morire: “Soltanto parole buttate al vento come molte altre cose che si sono dette su mio padre”. Nega risolutamente Luciano Canfora, picchia duramente Emilio Gentile, al termine di un’indagine durata due mesi e non poche ore al tavolo di un ristorante di confine, come accadde a Denis Mack Smith anni prima. Gentile mette in fila omissioni, elementi mancanti che nell’esistenza di Mussolini assunsero un ruolo chiave. Nota l’assenza di giudizi sui gerarchi del partito e di commenti sui libri letti : “Mentre è certo che le note di lettura erano una caratteristica dei diari di Mussolini”. Ma perdersi nelle minuzie non renderebbe giustizia al vero cuore dell’impresa. Non riscrivere i diari, in qualche soffitta per poi venderli a bibliofili colti il cui mecenatismo confina con l’ego, ma riscrivere la Storia. Riabilitare Mussolini, lavarne le colpe, mondarne le responsabilità. Hitler?, lo sterminio del popolo ebraico? l’entrata in guerra? Eventi e determinazioni che avrebbero trovato Mussolini in opposizione. Ed è qui, in passaggi che se non fossero tragici, farebbero sorridere, che il grottesco si fonda con lo straniamento. 13 novembre 1938, si vota la legge per la difesa della razza. Nei falsi diari, Benito ha la pietas di Madre Teresa: “Si vorrebbero espellere gli ebrei dal Partito. No-non approvo”. O ancora, nelle riflessioni dell’11 febbraio 1939: “Io sono contro le leggi razziali. Gli ebrei vivano come hanno sempre vissuto. La razza ariana o no, per me è la stessa cosa”. E se l’intento autoassolutorio, potrebbe far propendere qualche esegeta sull’autenticità delle pagine ripensate all’uopo, in attesa di processi che il corso degli eventi renderanno inevitabili, sono le spudorate copie dei resoconti dei giornali dell’epoca, le date di compleanno sbagliate di Mussolini stesso (notevole deviazione nel non-sense), gli errori ortografici: “Il movimento popolare iniziato da Marx ed Hegel (sic)”, i nomi delle persone che il Duce conosceva bene da alcuni anni, riportati come se Mussolini li incontrasse per la prima volta, gli elogi a D’Annunzio (in realtà detestato) a dare davvero la cifra dell’inganno.

Non è solo la storiografia di sinistra a dubitare, ma anche profondi studiosi del periodo di destra come Giordano Bruno Guerri: “La mia impressione che si tratti di un falso è nettissima” e docenti alla Cattolica di nome Marino Viganò: “Questi diari si devono smascherare (…) è pressoché inutile una perizia di carta, inchiostro e grafia”. A Bompiani che si è prestata alla farsa sostenendo di non dover dare un giudizio di veridicità a un sedicente libro storico (perché una prova regina, in un senso o nell’altro non esiste sostengono, e quindi, di corsa in stampa a monetizzare), è riuscito il miracolo che lo stesso Duce non realizzò se non a prezzo della dittatura: unire mondi inconciliabili, far parlare, con la stessa opinione, gente delle più diverse estrazioni. Dell’Utri si lamenta di chi, illiberalmente, gli impedisce di fare apologia di fascismo in pubblico presentando il volume. Ha ragione. Non si è mai ridicoli per le proprie qualità, ma per quelle che si fa finta di possedere. La Rochefoucauld, quello vero, dovrebbe averlo letto.

Mussolini, in arte Gino
di Marco Travaglio

La casa editrice Bompiani, fondata da un quivis de populo chiamato Valentino Bompiani, che ha in catalogo oscuri autori di dubbia fama quali un certo Umberto Eco, conosce finalmente il suo momento di gloria. Merito di Elisabetta Sgarbi, che rende finalmente giustizia al noto bibliofilo Marcello Dell’Utri (a Palermo il problema è il traffico) dando alle stampe – citiamo testualmente dal titolo di copertina – “I diari di Mussolini [veri o presunti]. 1939”. L’opera, davvero imperdibile, è preceduta da una nota editoriale anonima, da un’introduzione anonima e da una raffica di “perizie e pareri (prevalentemente negativi) dal punto di vista storico” anche quelli anonimi, e da un’avvertenza redazionale ovviamente anonima. Non s’è trovato un cane che volesse lasciar traccia di sé. L’unica parte firmata sono i diari del Duce che non sono del Duce. Ma questi son dettagli. Il Duce dei falsi diari del Duce è un antesignano del “ma anche” veltroniano: mentre approva le leggi razziali, si dice contrario alle leggi razziali. Perché lui perseguita gli ebrei, però li ama. L’apoteosi però la raggiunge quando festeggia il compleanno un mese dopo il suo compleanno: essendo nato il 29 luglio, spegne le candeline il 29 agosto. Mica scemo: doppia festa, doppi regali. Oppure, più semplicemente, Mussolini si era scordato la sua data di nascita: capita, alle volte. Del resto l’ex socialista Mussolini confonde Engels con Hegel. A volte, lento di riflessi, posticipa di un giorno un bel po’ di date cruciali, come se copiasse dai quotidiani dell’indomani. Altre volte, dotato di notevoli virtù divinatorie, cita nel 1939 i carri armati tedeschi “Tigre” introdotti nel 1942. L’ipotesi che il falsario si sia un po’ confuso con tutte quelle date viene scartata a priori. Manca soltanto che il Duce si firmi Gino Mussolini. Prossimamente in libreria da Bompiani: “Il seguito dei Promessi Sposi, di Alessandro Manzoni [o chi per lui]”, “Il Gattopardo-2 la vendetta, di Tomasi di Lampedusa [ma anche no]”, “La Divina Tragedia, di Dante Alighieri [boh]”, “Il Principe cerca moglie, di Niccolò Machiavelli [ci siete cascati, eh?]”.

Le colpe di Pierpaolo (Massimo Fini)

phpThumb_generated_thumbnailjpg.jpegHo incontrato per la prima volta, nel settembre del 1974, Pier Paolo Pasolini, di cui ricorre in questi giorni, mi pare senza particolari celebrazioni, il 35° anno dalla tragica morte, una morte molto pasoliniana. Lo andai a trovare nella sua casa romana, all’Eur, per intervistarlo sul “Fiore delle Mille e una notte” uscito da poco. Non c’era intorno a lui alcun odore di zolfo. Normale, piccolo borghese, era il quartiere dove abitava, così come la sua casa, con i centrini sotto i vasi di fiori, i ninnoli, i comodini e tutto quanto. Una casa piccolo borghese. Mentre parlavamo sulla terrazza, in un dolce mattino di fine estate, lo osservavo con attenzione. Non aveva, Pasolini, a differenza di tanti altri intellettuali italiani (parlo di quelli di allora, s’intende), la conversazione spumeggiante, il linguaggio pirotecnico, la citazione seducente, ma il modo di parlare piano, pacato, rettilineo, modesto di chi è profondamente consapevole della propria cultura e perciò non la esibisce. E in questa atmosfera anche le cose che diceva, le stesse che scritte suscitavano scandalo, irritavano o entusiasmavano, parevano cose normali, elementari e quasi banali. I gesti erano misurati, tranquilli. Solo il volto di Pasolini era un po’ diverso, un volto profondamente segnato, un volto quasi da Cristo, ma un Cristo molto diverso dal terribile “Cristo putrefatto” di Matias Grünewald o, tanto meno, dal Cristo oleografico dell’iconografia cattolica. Insomma, anch’esso, un Cristo molto normale, un Cristo piccolo borghese.

Pasolini non aveva, nei gesti, nel parlare, nel modo di porgersi, nulla della “checca”. Era anzi piuttosto virile. La scena cambiò quando sulla terrazza entrò la madre e vidi quest’uomo infantilizzarsi, sdilinquirsi in bacini e bacetti, in un puci-puci imbarazzante. Era lì, come sempre, l’origine della sua omosessualità. Mi invitò a pranzo. Per Pasolini infatti l’intervista non era, come di solito, una partita burocratica in cui l’intervistato cerca di stendere sul tappeto le proprie bellurie, disinteressandosi completamente dell’interlocutore. Era un incontro. Mi fece molte domande, su di me, sul mio lavoro, sulla mia vita. Nel pomeriggio arrivò Ninetto Davoli e cominciò a manifestarsi il Pasolini sulfureo. La sera mi caricò sulla sua Bmw e mi portò, come sarebbe accaduto un altro paio di volte, a cena in una bettola di un quartiere periferico, mi pare la Magliana. Ogni tanto si avvicinavano dei ragazzi, le classiche “marchette”, e ci scambiava due chiacchiere. Uno di questi lo avrebbe ucciso. L’intellighentia di sinistra italiana, nella sua ipocrisia, non ha mai accettato che Pasolini fosse morto com’è morto. Come minimo doveva essere stato un complotto dei “fascisti”, fantasticheria cui diede voce per prima la Fallaci che aveva orecchiato qualcosa dal parrucchiere. E invece andò proprio così. “Pino la rana” si ribellò a una richiesta sessuale particolarmente umiliante di Pier Paolo e contando sui suoi diciassette anni, nonostante Pasolini fosse ancora un uomo atletico (giocava a calcio, che gli piaceva moltissimo) lo ha ammazzato. Così come questa intellighenzia non ha mai capito che il fondo oscuro di Pasolini era proprio l’humus necessario al suo essere artista e, soprattutto, un grande, un grandissimo intellettuale.

Non si può trattare qui, in poche righe, l’opera di Pier Paolo Pasolini, mi piace solo ricordarne una frase che scrisse nel 1962 inserita ne “Le belle bandiere”: «Noi ci troviamo alle origini di quella che sarà probabilmente la più brutta epoca della storia dell’uomo: l’epoca dell’alienazione industriale».

Da Il Fatto Quotidiano del 6 novembre 2010

Lo sconosciuto Schindler di Bordeaux

sousa_mendes.jpgLo sconosciuto Schindler di Bordeaux Sousa Mendes, il console portoghese salvò 12mila ebrei. Salazar lo destituì dall’incarico, la sua vita fu rovinata, morì in povertà in un monastero francescanoAristides de Sousa Mendes e sua moglie Maria Angelina Mentre in una tranquilla giornata autunnale ammiro l’elegante palazzina di Bordeaux, non posso fare a meno di pensare al caos che vi doveva regnare una certa settimana del giugno 1940. Proprio in questa palazzina un uomo si rivelò ancor più coraggioso del celebrato Oscar Schindler. Aristides de Sousa Mendes era un eroe inatteso ed improbabile. Gentiluomo cattolico di origini aristocratiche e non più giovanissimo, all’epoca dell’invasione tedesca della Francia era console portoghese a Bordeaux. Nato nel 1885 era fratello gemello del ministro degli Esteri. Aristides Sousa e sua moglie Maria Angelina avevano 14 figli.

Tra i suoi debitori, politici e futuri attori
Con l’invasione nazista della Francia, Bordeaux divenne meta di decine di migliaia di sfollati in fuga da Parigi, di spie, di politici, di gente che tentava di lasciare il Paese. Il dittatore portoghese Antonio de Oliveira Salazar diramò un dispaccio con il quale invitava le rappresentanze consolari a non consentire l’ingresso in Portogallo agli ebrei o ai dissidenti. Secondo Sousa Mendes il provvedimento era in contraddizione con i tradizionali valori del Portogallo e, per di più, Sousa era amico personale di un rabbino. Dopo due giorni di riflessione riunì il personale del consolato e disse: “Non posso permettere che moriate. Molti di voi sono ebrei e la nostra costituzione afferma chiaramente che non si può rifiutare la residenza in Portogallo per motivi religiosi o politici. Come cristiano ho deciso di comportarmi secondo coscienza”. Il 17 giugno mise in piedi una piccola organizzazione che rilasciò 30.000 visti e documenti di viaggio. Di questi, 12.000 furono consegnati a ebrei. Ma il console portoghese salvò la vita anche al principe ereditario austriaco Otto von Habsburg, all’attore di Hollywood Robert Montgomery e all’intero governo belga.

A poche centinaia di metri da Sousa un altro uomo stava combattendo la sua battaglia. Il generale De Gaulle ara alloggiato all’Hotel Splendid che ospitava anche il governo francese. Il generale De Gaulle partì poi alla volta di Londra a bordo di un aereo della Raf mentre il maresciallo Petain firmava la capitolazione condannando la Francia ad una umiliante occupazione. Ma la ribellione di Sousa Mendes contro il suo governo non passò inosservata. Fu richiamato a Lisbona da Salazar che lo giudicò psicologicamente inadatto a rappresentare il governo portoghese. “Non mi importa – disse Sousa Mendes – Come cristiano posso agire solamente secondo coscienza”. Non solo fu rimosso dal suo incarico, ma fu anche privato dello status di diplomatico, gli fu tolta la pensione e gli fu vietato di praticare l’avvocatura, sua originaria professione. In un certo senso fu dichiarata la sua “morte civile”. Tutti i suoi figli, tranne uno, abbandonarono il Paese per rifarsi una vita. Per 14 anni visse come un paria e morì nel 1954, sei anni dopo Maria Angelina, in stato di assoluta indigenza in un monastero francescano.

Su Facebook il gruppo dei superstiti
Nel giugno scorso un giornale dello Utah ha pubblicato una insolita notizia: Olivia Mattis, in occasione del compleanno del padre, come regalo gli aveva presentato Ari Mendes. Nel 1940 suo padre Daniel, che all’epoca si chiamava Matuzewitz, aveva otto anni e, grazie al visto concesso dal nonno di Ari alla sua famiglia, era riuscito a fuggire in Portogallo e da lì, attraverso il Brasile, era arrivato negli Stati Uniti. Ho deciso di mettermi in contatto con Olivia Mattis. “Conoscevo la storia della famiglia di Sousa Mendes attraverso i racconti e i ricordi di mio padre”, mi ha detto. “Ma quando li ho incontrati di persona è stato uno shock. Davanti a me c’erano persone che avevano sofferto di tutto, povertà, esilio, calunnie, per salvare la vita della mia famiglia e di altre famiglie come la mia”. Olivia mi ha anche detto che su Facebook c’è un gruppo di cui fanno parte le famiglie di coloro che sono stati salvati da Sousa e che il loro scopo è quello di onorare la sua memoria. Molti di quelli che debbono la vita all’allora console portoghese si sono fatti strada. Lissy Jarvik insegna psichiatria e scienze del comportamento alla facoltà di medicina dell’Università di Los Angeles (Ucla). Nel 1940 era una sedicenne terrorizzata: “I miei genitori, mia sorella 14enne ed io vivevamo ad Amsterdam”, ricorda. “Raggiungemmo Parigi, tentammo di imbarcarci a Calais, ma le navi, persino quelle olandesi, prendevano a bordo solo passeggeri di nazionalità britannica. Ci spingemmo fino a Biarritz. Avevamo quasi perso le speranze. Un giorno per fortuna un amico di mio padre ci disse che il governo portoghese concedeva visti di ingresso e ci consigliò di andare subito a Bayonne”.

Fu Sousa Mendes a firmare il visto. “Salimmo su quello che sarebbe stato l’ultimo treno che lasciava la Francia con dei rifugiati a bordo. Il treno era diretto a Figueira da Foz, dove i locali, che non avevano mai visto un ebreo, ci accolsero cordialmente. Rimasero sorpresi nel vedere che il nostro aspetto non era diverso da quello degli altri esseri umani”, aggiunge Lissy Jarvik sorridendo. Ma è Sonja, sorella di Lissy, a riassumere l’importanza di quel gesto per la sua famiglia: “Aristides de Sousa mi ha salvato la vita. Mi ha permesso di avere una famiglia nella quale ci sono persone che lavorano per il bene dell’umanità. Il valore del suo sacrificio è enorme e si tramanda di generazione in generazione”. Durante la mia permanenza a Bordeaux mi reco nell’ufficio spoglio di Hellen Kaufmann che dirige l’‘Associazione Anonimi, Giusti e Perseguitati durante il Periodo Nazista’. L’associazione dispone di una preziosa banca dati e lo stesso ufficio ospita anche Manuel Diaz, presidente del ‘Comitato francese Aristides de Sousa Mendes’. Insieme si propongono di compilare l’elenco completo di tutti coloro che furono salvati quella estate.

“Molti non sannodi dovergli tutto”
Hellen Kaufmann è convinta che il gesto di Sousa ebbe conseguenze dio notevole importanza nella ricostruzione dell’Europa dopo la guerra in quanto salvò la vita a membri del governo belga e polacco, alle famiglie reali del Lussemburgo e dell’Austria e ad esponenti politici di primo piano di ogni parte del continente. “La cosa straordinaria – dice Hellen, minuta, capelli neri, una tazzina di espresso in una mano e una sigaretta arrotolata nell’altra – è che Sousa ignorava che ci sarebbe stato un Olocausto e agì per intuizione”. Verso la metà degli anni ’80 Otto von Habsburg scrisse ad Antonio Moncada Sousa Mendes, uno dei 39 nipoti di Aristides, che insegna in Portogallo ed è membro della Fondazione Sousa Mendes. “Volevo esprimere per iscritto la mia eterna gratitudine a suo nonno. In un momento in cui molti uomini si comportarono da vigliacchi, lui è stato il vero eroe dell’Occidente. Il mio sentimento è condiviso dalla Granduchessa Carlotta di Lussemburgo”.

Nel 1966 Israele conferì a Sousa il titolo di “Giusto tra le nazioni” per aver salvato la vita a molti ebrei e nel 1988 il parlamento portoghese lo riabilitò ufficialmente promuovendolo al rango di ambasciatore. E non di meno nessuno dei moltissimi libri scritti in Francia sugli avvenimenti del 1940 fa il suo nome.

“Ci sono molte famiglie che non sanno di dovergli la vita”, spiega Hellen Kaufmann. Tra loro c’era Harry Oesterreicher i cui nonni e il cui padre ottennero il visto da Sousa. “Con l’immaginazione si possono vedere i profughi in attesa per la strada e che dormono sulle scale”, dice Oesterreicher. “Mi rivedo nelle orme lasciate sul terreno da mio nonno Jacques”. “L’attuale generazione di nipoti di Sousa Mendes ha finalmente l’occasione di scrivere il lieto fine alla epica tragedia della famiglia di Aristides de Sousa Mendes”, dice Olivia Mattis. Novanta chilometri a sud-est di Porto si trova il paesino di Cabanas de Variato. Tra i vicoli e le case, spicca una villa che i bambini da tempo chiamano ‘villa dei misteri’. Era la casa di famiglia di Sousa Mendes. Fu venduta alla sua morte per pagare i creditori. Nel 2001 la casa è stata restituita dal governo portoghese alla famiglia a titolo di risarcimento unitamente ad una somma in denaro servita a creare la Fondazione. Antonio che ha superato i 60 anni, ricorda ancora la gioviale presenza del nonno nella casa di famiglia. “Avevo quattro anni e mezzo quando morì. Ricordo che gli piaceva ridere e fare scherzi”. Antonio da giovane andò in Canada per non essere inviato con l’esercito in Angola e tornando in patria ha trovato un Paese che porta ancora i segni della dittatura di Salazar. “La casa è un disastro”, dice Antonio. “Il governo portoghese ha deciso di dichiararla monumento nazionale. Ma a parte gli onori, finora non ci hanno dato i fondi per restaurarla e trasformarla in museo”.

Una Fondazione in suo onore
La vita della Fondazione è stata ostacolata dalla pastoie burocratiche. Ma ora stanno per cominciare i lavori. Lo Stato contribuirà a finanziare l’80% dei costi mentre alcuni donatori privati forniranno il resto del denaro.
Ma non sono soli. Lissy Jarvik e Olivia Mattis hanno creato una sede americana della Fondazione e si impegnano attivamente. Il costruendo museo sarà in Portogallo l’unico luogo eretto per commemorare la Seconda guerra mondiale e per ricordare l’importanza dei diritti umani. Ma Sousa Mendes non si riteneva né un eroe né un perseguitato. “Non avrei potuto agire diversamente”, disse quando era ormai anziano. “E quindi accetto con amore tutto quello che mi è capitato”. Forse fu più dura per la sua famiglia.

di Christian House

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/10/31/lo-sconosciutoschindlerdi-bordeaux/74517/

Se le bugie negazioniste diventeranno un reato

Fare i conti con la realtà di Auschwitz e della Shoah è un compito che ci sta davanti, che domina il nostro presente e dominerà il futuro della nostra specie

di ADRIANO PROSPERI

SI TRATTA di un peso insostenibile. È un passato che non passa: e che non deve passare se questo significa affidarlo al metabolismo illimitato di una storia come galleria degli orrori. Né deve essere oggetto di comprensione, se comprendere significa giustificare. È la sua realtà storica che deve essere conosciuta. E questo è un compito immenso, appena avviato e sempre minacciato dal bisogno di sfuggire, di ridurre, di negare. È qui che si affacciano i «negazionisti» e i «riduzionisti»: termini orrendi.

Preferiremmo parlare, con Pierre Vidal-Naquet, di «assassini della memoria». L’ultimo in ordine di tempo è un professore che si è appellato a una nozione notarile della storia: manca un atto con firma autografa di Hitler, dunque il dittatore nazista non è colpevole della Shoah. E forse Hitler non è nemmeno morto. E forse le leggi razziali fasciste sono state azzerate da quegli italiani che ci piace immaginare come brava gente.

Prende così forma in un depresso e deprimente contesto italiano di barzellette antisemite e di rigurgiti razzisti e clerico-fascisti l’ennesimo caso di fuga dalla storia come verità verso una storia come proiezione delle illusioni del momento, falsificazione del certo e del documentato. Bisognerà forse cacciare quel professore dall’università, medita un ministro incapace di fornire a chi studia e insegna il minimo indispensabile di risorse. O non si dovrà punire per legge i negazionisti, come propone il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici?

Diciamo subito che comprendiamo la reazione di sdegno e di sconforto dei membri della comunità ebraica romana. La tragica eredità di memoria che quella comunità reca nel cuore dei suoi membri ha trovato voce corale nelle testimonianze rese di recente dai suoi membri che la benemerita attività editoriale di Daniel Vogelmann con la sua «Giuntina» manda in libreria in questi giorni. Ma crediamo che si debba dissentire senza incertezze dalla proposta di affidare a una legge il compito di far rispettare la verità storica. Il principio della libertà intellettuale e l’inviolabile diritto di ciascuno a non essere punito per legge per le proprie convinzioni sono il frutto di secoli di lotte contro l’intolleranza e la censura di poteri religiosi o politici.

Sarebbe una vittoria postuma dei regimi totalitari sconfitti al prezzo di un’immane conflitto mondiale se nella nostra repubblica democratica si dovesse ricorrere alla barriera del codice penale per difendere dalle deformazioni e dagli errori la verità storica. La verità della storia è tutelata quando esiste la tranquilla coscienza che l’indagine degli storici ha per oggetto il passato come realtà di cose accadute. È solo così che si reagisce alla cultura del falso e dell’apocrifo, alla fabbrica della propaganda e della disinformazione, alla confusione deliberata tra ricerca del vero e «fiction», alla riduzione della storia a racconto piegato a piacere a seconda delle convinzioni soggettive.

La riduzione del lavoro degli storici a una costola dell’invenzione romanzesca ha conosciuto una moda diffusa nei decenni del tardo ‘900: prova se ce ne fosse bisogno che la malattia del nostro tempo ha una radice nell’incapacità di fare i conti con la realtà di Auschwitz. Una realtà talmente enorme e spaventosa da spingere a evitarla nei due modi opposti della negazione e della ritualizzazione retorica della memoria. Dobbiamo diventare consapevoli che quella realtà non è nata come un fungo, non è un tumore che può essere escisso isolandolo da tutto il percorso che lo ha generato o circoscrivendolo cautelosamente con una norma di legge. Non è né col codice penale né coi «giorni della memoria» che si fa fronte alla pulsione a ripetere gli errori del passato o addirittura a farne l’apologia.

I rigurgiti di antisemitismo che affiorano ogni giorno in Italia si curano con la volontà di fare i conti con la realtà storica di qualcosa che ci appartiene, che è stato generato dal profondo della storia europea ed è stato portato all’ultima maturazione dall’Italia fascista e dalla Germania nazista. Ed è tanto più urgente farlo in un paese come il nostro, dove la rinascita repubblicana non ha avuto la forza necessaria per affrontare in radice le responsabilità del passato e rendere giustizia alle vittime. Una giustizia che coincide con la verità. La storia come ricerca del vero e la memoria come dimensione del ricordo sono realtà diverse: ma vivono quando sono legate insieme da una tensione speciale. C’è stato il tempo dei testimoni, dei superstiti.

E poi c’è stata la verità delle carte. Oggi è il tempo di scegliere con decisione la via giusta per opporsi alla minaccia della distruzione della memoria. Lo storico Michele Battini ha parlato in un libro recente della condizione di «estrema solitudine» in cui oggi gli ebrei italiani e non italiani affrontano il ricordo della Shoah. E ha ricostruito la lunga elaborazione di un falso, quella leggenda del «complotto ebraico» che fu la premessa del complotto vero, quello destinato alla distruzione degli ebrei come obbiettivo primario del nazionalsocialismo e del fascismo.

Ma c’è anche una solitudine di chi indaga la verità storica coi poveri mezzi e con l’asfittica burocrazia di una università in gravissima crisi. Compito del governo di un paese democratico non è quello di cacciare dall’Università un povero untorello del negazionismo ma quello di ridare slancio alla ricerca e speranza di futuro ai giovani. Oggi abbiamo bisogno di tutta la loro intelligenza per fare i conti con la storia che ha prodotto Auschwitz: la nostra storia.

“La Shoah? Una fandonia, un complotto”

“La Shoah? Una fandonia, un complotto”
viaggio nel negazionismo via internet
Siti, blog, forum spesso registrati all’estero per bypassare le eventuali restrizioni. Si va da quelli dei movimenti neonazisti a quelli più o meno ufficiali di Forza Nuova, a profili privati sui social network. Interventi non sempre anonimi

di MARCO PASQUA

102209563-fadc4272-a454-442a-ba01-e27fa35ed4ec.jpgDai forum dei movimenti neonazisti a quelli, più o meno ufficiali, di Forza Nuova, passando per privati profili di Facebook e blog a tema. I negazionisti italiani e, soprattutto, i loro simpatizzanti, sfruttano il web per far circolare le loro assurde tesi che mirano a diffondere la convinzione che il piano di sterminio degli ebrei, disposto dal regime nazista, non sia mai esistito. Non sempre si nascondono dietro all’anonimato e, talvolta, firmano i loro interventi con nome e cognome. Alcuni di loro sono disposti ad ammettere che i nazisti hanno fatto delle vittime, ma certamente non nelle “camere a gas”, di cui negano l’esistenza. I loro siti sono spesso registrati all’estero, con l’intento di bypassare le eventuali restrizioni sui contenuti imposte da alcune piattaforme di blogging. Contenuti che sono costantemente monitorati dalla polizia postale che, alcune volte, riesce a contestare loro la violazione della legge Mancino. Una lista di queste pagine web era già finita al centro di un’indagine promossa dal Comitato di indagine conoscitiva sull’Antisemitismo, presieduto dalla deputata Fiamma Nirenstein, e oggetto di minacce sugli stessi siti.

Il forum neonazista Stormfront, nella sua versione italiana, ospita spesso interventi in difesa dei negazionisti, con attacchi agli esponenti delle comunità ebraiche italiane e a quei politici che si battono per la difesa della verità storica. Sito registrato in America, espone in homepage una croce celtica e la scritta, in inglese, “orgoglio bianco mondiale”. Il suo fondatore, Don Black, è un ex leader del Ku Klux Klan. Alcuni thread sono dedicati al tema della Shoah, definita “una fandonia” oppure “un complotto ebreo”, ma anche “la colonna portante di un castello di menzogne, una colonna di cartapesta, che può e deve essere abbattuta”. I commentatori abituali, che arrivano anche a negare la veridicità dei fatti narrati da Anna Frank nel suo diario (“i fatti da lei narrati non sono una prova del piano di sterminio”), sono protagonisti di insulti contro “i truffatori ebrei” ma anche contro i media controllati, a loro dire, dalla lobby ebraica. Su questo forum circolavano, nel 2008, le canzoni dei 99 Fosse, il gruppo che irrideva la Shoah, ridicolizzando il tema dei morti nei campi di concentramento con parodie di canzoni famose.

Anche i simpatizzanti e i militanti del movimento di estrema destra Forza Nuova hanno una loro tribuna virtuale, dalla quale vengono lanciati insulti antisemiti. La strategia è la stessa dei revisionisti: negare le cifre dello sterminio e minare la credibilità delle certezze acquisite dalla ricerca storica ufficiale. “Tutti i tabù sono caduti tranne questo, ma è solo questione di tempo, perché l’opprimente Diga Liberticida è infiltrata da mille rivoli di verità”, scrive un utente a proposito dell’Olocausto, riguardo al quale, viene sostenuto più volte, non esistono documenti che testimonino l’ordine di sterminio fisico degli ebrei. E’ questo, uno dei punti cardine della lezione tenuta da Claudio Moffa 1 all’università di Teramo, alla fine di settembre (il docente viene citato ad esempio dai militanti forzanovisti). E poco importano i racconti dei testimoni, sopravvissuti alla Shoah, e le verità ricostruite dagli storici: i negazionisti non sono disposti ad ammettere che le loro tesi non possono trovare alcuna credibile conferma storiografica. Sempre dal forum riconducibile a Forza Nuova, partono attacchi antisemiti agli esponenti delle comunità ebraiche, mentre si accusa Roma di non “saper tenere a bada la manesca, fanatica tribù di Giuda. Ora questa Roma alla vaccinara antifascista ne teme la vendetta”. Stesso tenore nei commenti sul forum dedicato a Benito Mussolini, i cui utenti inneggiano al presidente iraniano Ahmadinejad, per aver negato l’Olocausto.

Tra i siti registrati all’estero, c’è “Vho”, che fa capo alla Castle Hill Publishers, casa editrice di Germar Rudolf, colonna portante della storiografia revisionistica. Negli anni Novanta è stato condannato a 14 mesi di carcere, mentre successivamente la magistratura fece confiscare un suo testo negazionista. Fuggito in Inghilterra, dove ha fondato la sua casa editrice, nel 1999, in seguito alle pressioni esercitate dalla Germania, si è rifugiato in America. Nel 2006, dopo che gli Stati Uniti hanno respinto la sua richiesta di asilo politico, è stato rispedito in Germania, dove ha scontato una condanna a due anni e sei mesi di carcere. Il sito, registrato negli Usa, raccoglie una serie di link a testi di negazionisti, tra i quali figura l’italiano Carlo Mattogno. E’ tradotto in cinque lingue e, come è immaginabile, si batte per una pseudo-libertà di ricerca “scientifica non conformista”, e per contrastare le leggi che, in alcuni Paesi europei, prevedono l’arresto dei negazionisti. Tra le sue finalità, c’è “l’assistenza finanziaria ai revisionisti che, a causa del proprio operato, vengano sottoposti a processi giudiziari, ad aggressioni fisiche o a calunnie, o che vengano vittimizzati o perseguitati in altra maniera”. “Il momento, per i revisionisti, non è allegro – si legge nella pagina principale –  non solo la ricerca storica e scientifica non conformista – quando si tratta di ‘Shoah’ – è  penalmente perseguita nella maggior parte dei Paesi europei, ma addirittura Ernst Zündel e Germar Rudolf, dopo essere stati subdolamente deportati dagli Stati Uniti, sono stati recentemente condannati in Germania. Tutto questo solo per aver scritto e pubblicato libri e articoli critici della versione ufficiale dell”Olocausto’. Dunque anche l’Unione Europea (come la vecchia Unione Sovietica) ha i propri prigionieri politici”.

Le vignette antisemite di Holywar, articolazione web di un “Movimento di Resistenza Popolare L’Alternativa Cristiana”, sono spesso fatte circolare tramite Facebook, e vengono continuamente aggiornate, anche seguendo le evoluzioni dell’attualità politica italiana (il che lascia presupporre che sia curato da mani italiane). Quasi sempre si tratta di attacchi a singoli esponenti politici: oltre al sindaco di Roma, Gianni Alemanno (ritratto spesso con Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica romana), si insultano “l’ebreo Mario Draghi”, ma anche Gianfranco Fini, la compagna Elisabetta Tulliani e il fratello di lei, Giancarlo, (definiti “i soliti arroganti ebrei”). Vengono riportati testi che dimostrerebbero le “falsificazioni fotografiche” relative alla Shoah. Anche qui si sostiene che “il diario di Anna Frank sia stato un falso clamoroso”. Il sito è intestato a nome del norvegese Alfred Olsen, cattolico tradizionalista. Nel 2000 fece discutere, perché mise in rete i cognomi di 9.800 famiglie ebree italiane. Quella lista c’è ancora oggi, su una pagina dominata dalla stella di David e della locandina di un Dvd antisemita (acquistabile online).

La nascita della fondazione dell’associazione AAArgh (acronimo che sta per Associazione degli Anziani Amatori di Racconti di Guerra e di HOlocausto) risale al 1996, e la sua pagina web è tradotta in 22 lingue, tra le quali figura anche l’ebraico. Oltre a testi revisionistici europei, ci sono molti interventi contro chi propone, in Italia, di introdurre leggi che puniscano le teorie dei negazionisti.

Variopinto il panorama dei blog personali, anche se pochi pubblicano materiale con costanza. Da quelli che ripropongono i testi dell’italiano Carlo Mattogno (che, viene scritto, è a capo della “ditta di olo-demolizioni”) a siti dedicati ai negazionisti arrestati. Come “Olotruffa”, aperto per celebrare, si legge nella sua homepage,  quei negazionisti “discriminati, perseguitati, condannati, deportati ed internati per anni nei lager olo-sterminazionisti per lo psicoreato di ‘leso olocausto'”. Anche Andrea Carancini, su un blog che porta il suo nome, si occupa di negazionismo sul web dal 2008, dando notizia degli storici arrestati, in Europa, e traducendo testi di revisionisti stranieri.

Tutti siti, questi, che vengono monitorati dalla polizia postale che, in alcuni casi, riesce ad applicare la legge Mancino, che permette di perseguire l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici religiosi o nazionali. Così, nell’aprile del 2009, la magistratura ha individuato e denunciato per propaganda di idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale, un pensionato 61enne, curatore di “Thule-Toscana”, in cui si sosteneva, tra le altre cose, che nei lager nazisti si svolgessero attività ricreative (una delle teorie che accomuna quasi tutti i negazionisti). La sua pagina web è stata sequestrata dalla Procura di Arezzo, città nella quale aveva sede il provider della pagina. Lo scorso mese di marzo, invece, è stato individuato il referente italiano del Ku Klux Klan, che, oltre a predicare la superiorità della razza bianca, insultava ebrei ed omosessuali.

http://www.repubblica.it/cronaca/2010/10/15/news/la_shoah_una_fandonia_un_complotto_viaggio_nel_negazionismo_via_internet-8071892/

Il nemico ritrovato (Luca Telese)

“Il Fatto quotidiano”, 8 ottobre 2010.

Polemiche resistenti
IL NEMICO RITROVATO
Lo storico Storchi e la deriva di Pansa: gli voglio bene, ma i suoi libri non mi piacciono.

Di Luca Telese

A Reggio Emilia lo chiamano “l’anti-Pansa”. Storico della Resistenza, pubblicato da Marsilio, Franco Angeli e Aliberti, responsabile del Polo archivistico cittadino, Massimo Storchi ha studiato molte delle cose che Pansa ha inserito nel suo Ciclo dei vinti. La cosa curiosa è che per più di dieci anni è stato un amico stretto dell’autore dell’autore del Bestiario. Poi, come in una trama shakesperiana, dopo una presentazione infuocata su Il sangue dei vinti, i rapporti cessano e resta la battaglia culturale su fronte opposti. “Io ho una grande stima per lui-spiega Storchi-ma ho idee radicalmente opposte dalle sue sulla Resistenza. Non ha senso dare a Pansa del falsario, il che non è vero, ma che la sua contestualizzazione degli eventi falsa la reale percezione dei fatti”.

Professore, lei, amico di Pansa, diventa “L’anti-Pansa”…
Se lo dicono è per prendermi in giro. Lui vende 100 mila copie a libro. Io, se mi va bene, 10 mila. Servo senso delle proporzioni. Non siamo comparabili.
Le querelle culturali non sono decise dalle classifiche…
Ci mancherebbe altro. Vuole sapere la storia dei miei rapporti?
Prego
Conobbi Pansa nel 1991. Sua moglie è di Reggio come me e ci incontrammo a casa di un’amica. Era simpatico, colto, un grandissimo comunicatore. Nacque un bel rapporto, fino al Sangue dei vinti nel 2003 ho presentato tutti i suoi libri.
Dopo lei non ha più voluto confrontarsi con lui per quello che aveva scritto?
Veramente è lui che non mi ha più invitato.
Cosa accadde quella sera?
Sala affollata, tensione. Criticai fortemente alcune delle tesi del libro. La platea, è un eufemismo, rumoreggiò parecchio.
La fischiarono?
No, erano piuttosto orientati.
Cioè di destra?
Sì, ma non è quello il punto.
Lei si è sentito scippato, come altri storici, da Pansa?
Assolutamente no. Non concepisco la lesa maestà. Fra l’altro avevo scritto il mio primo saggio sulla Resistenza a Reggio nel 1995 e, più volte citando la fonte, Pansa riportava elementi tratti da questi lavori. Dire che Pansa falsifichi è assurdo.
Cosa gli contesta allora?
È il quadro in cui inserisce le sue storie ad essere falsato.
Mi faccia un esempio.
Sto alle cose che conosco meglio e su cui Pansa ha scritto in diversi libri: Reggio Emilia.
Prego
Pansa racconta una serie di storie efferate. Ebbene, lo sono davvero. Poi scrive, cito testualmente, che sono delitti che si verificano nel “mattatoio di Reggio Emilia”. E questo dimostra la ferocia dei partigiani.
Cosa manca nel quadro?
Il contesto. E le proporzioni per aiutare a capire il lettore non professionista. Se invece che partire dalla forza emozionale di un eccidio, io parto dai dati, scopro che il “mattatoio”, in termini statistici non esiste.
Ovvero?
Ho ricostruito la lista delle vittime, in città, andando anagrafe per anagrafe a spuntare le liste. Ebbene, il dato è questo: a Reggio dal 22 aprile al 22 maggio 1945 in tutto 426 morti.
Vuol dire che sono pochi?
Se lei pensa che si era nel mezzo di una guerra civile, per quanto si tratti di morti orribili, devo dire di sì. Molto pochi. Se non si sa che era la Seconda Guerra mondiale e che si combatteva in ogni paese d’Europa, possono sembrare un’enormità.
Ma le stragi non si fermano dopo il 10 maggio.
Mi consente di essere pedante? Ecco i dati del 1945, mese per mese: a giugno 5 morti, a luglio 1, agosto 2, settembre 3, ottobre 7, novembre 1, dicembre 4. Questo sarebbe il feroce pogrom dei partigiani?
Ma ci sono altre cifre che si discostano molto da queste?
Non di molto, a dire il vero. Secondo il Ministero degli Interni, per esempio, una fonte non bolscevica, visto che lo reggeva Scelba, nel 1945 i morti sono stati 425 dispersi 90.
Quelli che Pansa chiama gli “Sconosciuto 1945”.
Bene, molti di questi dispersi risultarono essere vivi. Erano sfollati o in campi di prigionia.
Ma il triangolo della morte?
Conosce i dati per città? 1138 a Torino, 636 a Bologna, 632 a Milano…a Reggio sono 560.
Quindi non ci fu nessuna strage dei vinti, secondo lei? Niente sogni insurrezionali?
Non è che non ci fossero desideri di Rivoluzione o vendette. Ma c’è una data spartiacque, dopo di cui le uccisioni cessano.
Quale?
Nel settembre 1946 arriva Togliatti e dice ai dirigenti: “Signori, o voi sapete e siete complici. Oppure voi non sapete e siete incapaci”.
Cambia la linea?
Molto. Togliatti è il Guardasigilli, è l’uomo dell’amnistia, non può permettersi che nella città fiore all’occhiello del Pci si continui a sparare ai fascisti. E infatti la “mattanza” cessa quasi del tutto.
Ma voi queste cose le avevate scritte anche prima?
Nell’archivio de “La Stampa” c’è un’intera pagina del 1998 sul mio Combattere si può vincere bisogna”, la firmava Paolo Mieli.
Chi è per Storchi Pansa?
Un amico, che però scrive libri che non mi piacciono.
Ma i suoi libri hanno rotto alcuni stereotipi?
Sì, l’agiografia resistenziale ha prodotto danni spaventosi. Ma nel 2005, non lo dico per farmi bello, ho pubblicato Sangue al bosco del Lupo, sui partigiani uccisi dai partigiani. Però Pansa crea anche equivoci: l’idea che la Resistenza sia stata un crimine.
Cosa spiega ai suoi studenti?
Che le vittime sono tutte persone, uomini, vite. Ma che fra di loro c’era chi combatteva per Auschwitz e chi combatteva contro Auschwitz.
Mi faccia un altro esempio
Pansa scrive un capitolo sull’assassinio della figlia di un capo fascista. È tutto vero. Ma se non dico che quello era il capo dei torturatori, è ovvio che non spiego perché-sbagliando-qualcuno gli ha sparato.
Sempre a Reggio Emilia Pansa è stato contestato.
La mamma dei cretini è sempre incinta. Ma ho scoperto leggendo lui che non erano di città.
Mi dice 5 libri da consigliare.
Il bellissimo libro di Pavone sulla guerra civile. I fondamentali saggi di Guido Crainz. Il libro di Gabriele Ranzato sul linciaggio del direttore del carcere di Regina Coeli. Poi “La lunga Liberazione” di Mirco Dondi.
E “il sangue dei vinti”?
Sì, per raccontare l’altra parte. Ma assieme allo straordinario libro di Alessandro Portelli “L’ordine è già stato eseguito” sull’eccidio delle Fosse Ardeatine. E poi “Il massacro” di Luca Baldissara e Paolo Pezzino sulla strage di civili a Monte Sole.

La breccia di Porta Pia oppure la beffa di Pio IX?

porta-pia-edo.jpg20 settembre, il Vaticano riconquista Porta Pia?

Dalla «breccia» alla «beffa». Parlo del 140º anniversario della presa di Roma che verrà oggi celebrato a Porta Pia dove i bersaglieri il 20 settembre 1870 innalzarono il tricolore che costò loro la scomunica, evidentemente ormai venuta meno, vista la presenza del cardinal Bertone, accanto al presidente della Repubblica.

Se parlo di beffa non è, però, per la lodevole compresenza di Stato e Chiesa quanto per la ostentata cancellazione del significato laico della data che coincise con la fine del potere temporale del papato. E cosa altro vuol essere se non un atto di cancellazione la contemporanea orazione in Campidoglio di monsignor Ravasi glorificante Pio IX, «massimo esponente del sovrano potere temporale», nonché papa del Sillabo e responsabile delle ultime condanne alla ghigliottina dei patrioti arrestati dalla polizia pontificia, qualche anno prima del 1870?

Così, una volta ancora, un atto positivo stinge nell’equivoco embrassons nous revisionistico: tutti eguali, divisi al più da qualche equivoco di appartenenza, partigiani e repubblichini di Salò, tutti eguali i piumati fanti di Cadorna e gli zuavi pontifici comandati da un generale tedesco. La Storia si tramuta così in una marmellata dolciastra ove tutto si confonde e amalgama, ed alcun valore ispira.

Chi, ad esempio, può oggi, in questo clima, capire le parole del re sabaudo, subito dopo il plebiscito che univa l’Emilia (marzo 1860) al nascente Regno d’Italia, quale replica della scomunica maggiore lanciata da Pio IX contro gli «usurpatori delle province ecclesiastiche»? Parole che suonavano testualmente: «Se l’autorità ecclesiastica adoperasse armi spirituali per interessi temporali, io nella sicura coscienza e nelle tradizioni degli avi stessi, troverò la forza per mantenere intiera la libertà civile e la mia autorità della quale debbo ragione a Dio ed ai miei popoli».

Ebbene, credo che neanche il più ben disposto fra i cosiddetti liberali di scuola berlusconiana potrebbe oggi raffigurarsi un Cavaliere capace di ispirarsi a Vittorio Emanuele II. Piuttosto non è irriverente immaginarsi che avendo il potere temporale, nella sostanza se non nella forma, frattanto recuperato molti perduti privilegi non costi poi molto al successore di Pio IX plaudire ai bersaglieri.

Ma dietro queste riflessioni estemporanee vi è un fenomeno negativo assai più ampio di cui cominciamo a cogliere il profilo devastante: la cancellazione dalla memoria pubblica e, ancor peggio, individuale, del Risorgimento e dei suoi valori. È appena uscito in proposito un prezioso libretto (poco più di 200 pagine), «Il miracolo del Risorgimento – La formazione dell’Italia unita» di Domenico Fisichella (Carocci ed.).

Vi ho ritrovato il «racconto», ripercorso con la vivacità e l’intelligenza critica che contraddistinguono l’autore, della storia della Penisola divisa in tanti staterelli, soggetti, comprati e venduti dalle grandi potenze, l’influenza della Rivoluzione francese, i moti risorgimentali, le guerre d’indipendenza, il ruolo di Cavour, Garibaldi, Mazzini e dei re sabaudi. Infine il «miracolo» dell’unità di una nazione così a lungo dominata e spartita.

«La tradizione risorgimentale è, dunque, la tradizione della modernità, mentre la tradizione dell’eccesso regionalistico e localistico è la tradizione della vecchiezza». E qui inizia il discorso che non ho neppure lo spazio per riassumere del perché una coltre di oblio stia facilitando una regressione in fondo alla quale si profila di nuovo la frantumazione dell’Italia unita.

Certo è che la mia generazione si sente tra le ultime che hanno studiato il Risorgimento come storia viva e sentita di una patria appena ritrovata. Dopo di allora sembra quasi che la sinistra assieme a Stalin abbia gettato alle ortiche anche Garibaldi, la destra abbia subito un lavacro dei peggiori ricordi del fascismo ma anche dei valori nazionali che l’accompagnavano, gli elettori di Berlusconi siano sempre al «Franza o Spagna purché se magna»: l’Italia è tutt’altro che desta.

di Mario Pirani, da Repubblica, 20 settembre 2010