Parliamo di Tarnow..

All’inizio dell’estate 1941 la maggioranza degli Ebrei d’Europa, sottomessi al giogo nazista era ancora in vita.
A partire dal Settembre 1939, dopo l’invasione della Polonia – che aveva comunque aperto larghi vuoti tra la popolazione ebraica di quello che sarebbe divenuto il Generalgovernatorato – le condizioni generali delle diverse comunità israelitiche erano andate via via peggiorando: le violenze, le restrizioni discriminatorie, la progressiva costrizione nei ghetti erano divenute pratica comune, così come il costante degradarsi delle materiali condizioni di vita, soffocata dal lavoro obbligatorio, dal razionamento e da improponibili sistemazioni abitative: tutti eventi che provocavano il diffondersi di malattie e malnutrizione, nonchè il progressivo aumento della mortalità, soprattutto tra i più deboli ed anziani.
Ciò nonostante, dal punto di vista strettamente numerico, si può affermare che il Genocidio non era ancora incominciato.
L’uragano cominciò ad addensarsi nel Giugno 1941, dopo l’inizio della Campagna di Russia, che spalancò il Vaso di Pandora della più incommensurabile tra le tragedie umane. Il destino di milioni di uomini, donne e bambini, entrò in gioco in quella torrida e polverosa estate del 1941, quando dal Baltico al Mar Nero, interminabili colonne di uomini e mezzi varcarono il confine sovietico diretti ad est. Dietro di loro, come un quinto cavaliere dell’Apocalisse, la lucida follia annientatrice, che attraverso piccole, erranti coorti genocide (Völkermordkohorten), avrebbe inghiottito uno “shtetl” dopo l’altro con modalità tattiche ed operative che apparivano ancora piuttosto confuse ed improvvisate, ma che con il procedere delle settimane e soprattutto dopo l’attivazione in Polonia delle cosiddette “fabbriche della morte” di Belzec, Sobibor e Treblinka, si sarebbero affinate e “razionalizzate”.
Queste coorti genocide, che dal tardo Giugno 1941 alla fine dello stesso anno perpetrarono i più apocalittici eccidi di massa mediante fucilazioni in fosse comuni, erano composte da poche migliaia di individui, in parte forniti dalla Sichereitspolizei ed in parte dall’Ordnungspolizei: se i primi, in senso generale, potevano a buon titolo definirsi “guerrieri dell’ideologia”, i secondi erano invece piuttosto lontani da questa immagine un po’ stereotipata e per certi versi attualmente obsoleta. Erano piuttosto una flessibile massa di manovra, che poteva essere utilizzata nelle circostanze più disparate.
Dopo le stragi dell’estate/autunno 1941 e la relativa “pausa” invernale, all’inizio dell’estate 1942, in Polonia, reparti di Ordnungspolizei furono presenti alla “riduzione” dei ghetti di Tarnow, di Rzeszow, di Przemysl, i cui abitanti furono deportati al campo di sterminio di Belzec, così come a Kaunas, in Lituania, il cui ghetto veniva periodicamente “svuotato” mediante selezioni che avviavano alla fucilazione i cosiddetti “inabili” . Kommando tratti da battaglioni di polizia presero parte ad esecuzioni mediante camion a gas: così ad esempio, questo avvenne a Belgrado, in Serbia, a Mogilev e Smolensk, in Bielorussia e Russia centrale, nonché a Dzialdowo nella Prussia sud-orientale 3. Plotoni d’esecuzione formati con personale di polizia furono impiegati nell’eliminazione degli elementi ideologicamente indesiderabili rinchiusi nei campi di prigionia o presenti nelle varie comunità che di volta in volta subivano la furia distruttrice della “Weltanschauungskrieg” .
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Non si contano, né sarà mai possibile ricostruire, gli atti di violenza, le vessazioni, le uccisioni singole o di piccoli gruppi, le esecuzioni conseguenti a presunte mancanze verso le regole imposte alle comunità ebraiche rinchiuse nei ghetti attorno ai quali i reparti di polizia sovente prestavano servizio di guardia, oppure gli “abbattimenti” dovuti ai cosiddetti “tentativi di fuga”, durante i rastrellamenti.
E tutto questo senza considerare le attività non strettamente legate alla guerra ideologica, ma riconducibili alle operazioni di controinsurrezione, che regolarmente si concludevano con esecuzioni sommarie, distruzione di villaggi e deportazione di contadini, spesso del tutto estranei alla guerriglia e qualche volta, addirittura, vittime di essa e quindi vittime due volte. Non vi fu aspetto della guerra ideologica che non vide il coinvolgimento – ancorchè con modalità e termini differenti – di reparti dell’Ordnungspolizei: dall’esecuzione di malati di mente allo sradicamento ed espulsione di intere comunità nell’ottica di una pulizia etnica “ante litteram”; dalla persecuzione degli intellettuali alle vessazioni nei confronti del clero, specialmente quello polacco; dalla repressione del dissenso agli arresti in massa di studenti e scioperanti; dalle rappresaglie all’esecuzione delle condanne a morte comminate dai tribunali speciali.
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L’esposizione di tutto questo campionario genocida viene per scelta limitata in questo libro all’estate 1942. Ciò non significa che nel prosieguo del conflitto non si siano verificati, da parte dei reparti di Ordnungspolizei, ulteriori atti criminali: al contrario, altri ve ne furono, e di efferati, per tutto il resto del 1942 ed ancora nel 1943. Semplicemente, si è voluto chiudere con questa data, la quale per motivi tecnici legati alla saturazione dei campi di sterminio di Belzec, di Sobibor e di Treblinka, vide il rinnovato impiego dei reparti di polizia nelle esecuzioni di massa durante la cosiddetta “Operazione Reinhardt” – che comunemente è considerata il punto d’avvio della “soluzione finale del problema ebraico”.
In un certo qual modo, il Luglio 1942 in Polonia chiude anche il cerchio genocida dei reparti di polizia, che proprio in Polonia si era aperto sperimentalmente nel Settembre 1939 e che fra questi due termini vide la sua fase di massima espansione. La stessa data, il 12 Luglio 1942, coincide con il massacro di Jozefòw, da cui prende avvio la narrazione di Christopher Browning, che nel 1992 con la sua opera “Uomini Comuni” , fece luce per la prima volta sulla reale portata del coinvolgimento dell’Ordnungspolizei nel Genocidio ebraico.

http://www.ordnungspolizei.org/index.php?option=com_content&view=article&catid=37%3Aprogetti&id=150%3Aestratto-dal-progetto-polizia-dordine&Itemid=56&lang=it

Ritorno da Birkenau

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Le parole rimangono come sospese, dentro ognuno di noi.

Sperimentare tutta le debolezza dell’uomo nelle proprie carni, in un freddo dove anche un pezzo di pane secco diventa tuttto.

Lo sento, lo assaggio, lo mastico, mentre il vento fa piangere gli occhi, ma lo so bene:

non è solo vento.

Sulle tracce degli orchi: 1946-1994

Finita la guerra una parte dei protagonisti del massacro di Bullenhuser Damm sedettero sul banco degli imputati.
Il tribunale militare inglese nel cosiddetto “processo della Curiohaus” condannò a morte il comandante del campo Max Pauly. Il dottor Alfred Trzebinski e Wilhelm Dreimann salirono al patibolo l’8 ottobre 1946. Johann Frahm ed Ewald Jauch furono impiccati il 10 ottobre successivo.
Durante il processo emersero le responsabilità di Kurt Heissmeyer, di Arnold Strippel e di Hans Klein ma ci sarebbero voluti molti anni per ritrovare le loro tracce.

Heissmeyer era ritornato nella sua città natale di Magdeburgo ed aveva ripreso tranquillamente la sua attività di medico senza neppure cambiare il proprio nome.
Fu soltanto per caso che ci si ricordò di lui.
Il 21 maggio 1959 il settimanale Stern pubblicò una serie di articoli tra i quali uno di Jurgen von Kornatzsky che accennava al massacro di Bullenhuser Damm.
Il giornalista nominava Heissmeyer come responsabile degli assassinii. Un lettore della rivista segnalò di conoscere un dottor Heissmeyer che lavorava a Magdeburgo nella allora Repubblica Democratica Tedesca.
La notizia si rivelò esatta. Kurt Heissmeyer lavorava tranquillamente, aveva cresciuto i suoi figli e godeva di un discreto tenore di vita. Occorsero anni prima che le autorità l’arrestassero.
Soltanto il 13 dicembre 1963 la polizia si presentò nella sua casa di Gallertstrasse 12 per condurlo in carcere.
Durante gli interrogatori che seguirono Heissmeyer non manifestò alcun pentimento.
Il processo contro di lui si concluse il 30 giugno 1966 con la condanna all’ergastolo. Gli venne risparmiata la pena di morte (ancora in vigore nella DDR sino al 1987) perché l’accusa non riuscì a dimostrare che fu lui ad ordinare l’uccisione dei bambini e dei testimoni. Heissmeyer aveva allora 60 anni.
Venne incarcerato nella prigione di Bautzen. L’anno successivo la moglie presentò domanda di grazia in considerazione del fatto che il marito era gravemente malato di cuore. Prima di un pronunciamento della corte Heissmeyer morì di infarto il 29 agosto 1967.

strippel3.jpgL’altro orco, Arnold Strippel, era stato processato nel 1948 per la sua attività criminale nei campi di concentramento a 21 ergastoli e 10 anni di detenzione.
I capi di accusa si riferirono all’uccisione di ventuno ebrei nel campo di Buchenwald e ad altre atrocità.
Il tribunale di Francoforte che emise la sentenza non svolse alcuna indagine sui fatti di Bullenhuser Damm anche se il nome di Strippel era emerso al processo contro Trzebinski due anni prima.
Soltanto nel 1965, a seguito del processo a Heissmeyer Strippel venne nuovamente indagato ma, incredibilmente, il fascicolo venne chiuso nel giugno 1967 dal pubblico ministero di Amburgo Munzberg per insufficienza di prove.
Il 21 aprile 1969 venne rilasciato dal carcere di Butzbach. Nel 1970 chiese ed ottenne un processo di revisione della condanna del 1948: i 21 ergastoli vennero ridotti a 6 anni di carcere già scontati.
A seguito di questa decisione il ministero della Giustizia riconobbe a Strippel più di 120.000 marchi a titolo di riparazione per “l’ingiusta condanna”. Nessun ex prigioniero dei campi di concentramento ottenne mai un risarcimento così cospicuo.
Nel 1979 il giornalista tedesco Gunther Schwarberg iniziò ad occuparsi di Strippel, una campagna stampa sulla rivista “Stern” fece conoscere in Germania la storia dei bambini di Bullenhuser Damm. La scuola venne dichiarata “Luogo del Ricordo” dalla città di Amburgo il 20 aprile 1980. Pochi giorni dopo un gruppo neonazista faceva esplodere una bomba davanti all’edificio.
Grazie all’impegno di Schwarberg vennero trovati i testimoni, i parenti dei bambini e i documenti necessari per riaprire un procedimento contro Strippel.
Il processo si concluse il 20 gennaio 1987 quando il Tribunale regionale di Amburgo impose la cessazione del processo per l’impossibilità fisica di Strippel di sostenerlo. Strippel morì il 10 maggio 1994.
Petersen, l’autista del camion invecchiò tranquillamente senza alcun fastidio da parte della giustizia.
Hans Klein il patologo di Hohenlychen che studiò le ghiandole dei bambini inviate da Heissmeyer non soltanto non ebbe problemi con la giustizia ma, anzi, divenne professore universitario all’Università di Heidelberg.

“Ma chi te lo fa fare?”

“Ma chi te lo fa fare?” E’ la domanda ricorrente, ormai è diventato quasi un mantra. Ma oggi è una di quelle giornate in cui le risposte si trovano facilmente. Basta ascoltare, come stamattina al Teatro Ariosto, la testimonianza di  Andrée Geulen Herscovi, una dei Giusti fra le Nazioni. Aveva 19 anni e salvò centinaia di bambini ebrei nel Belgio occupato. Oggi ha 96 anni ma è ancora lucida, chiara, a rivendicare di aver fatto la cosa giusta. Insieme a lei uno di quei ragazzi che l’ha considerata da allora la sua “seconda mamma”. Il Teatro era pieno, centinaia di giovani, quei giovani partiranno fra poche settimane per il “Viaggio della Memoria” verso Auschwitz-Birkenau. Quasi mille giovani. Si chiama investimento sul nostro futuro, si chiama istruzione democratica, si chiama credere nel valore dell’umanità.

“Ma chi te lo fa fare?”, la risposta oggi è più facile per i tanti che lavorano perchè questo progetto vada in porto. Ma oggi è un giorno speciale. Poi viene la normalità. La fatica di lavorare sulla memoria, sulla costruzione di una cittadinanza repubblicana antifascista per gli altri 364 giorni. Fatica. Sì, a Reggio Emilia, medaglia d’oro per il suo contributo alla Resistenza. La terra dei Cervi, di don Pasquino e di altri mille ragazzi e ragazze che decisero che valeva la pena rischiare a propria vita. Facile ricordare una volta all’anno, ma l’educazione si costruisce giorno per giorno, con quell’opera di “manovalanza democratica” che coinvolge tanti amici, operatori, ricercatori. Fatica, di fronte all’indifferenza, talvolta all’educata sopportazione di amministratori e uomini di potere che ti guardano con un misto di benevolenza e noia, come a dire: “ancora ‘sta roba?”, senza rendersi conto che loro hanno quello che hanno perchè qualcun’altro ha fatto quelle scelte, ha costruito quella democrazia di cui loro stanno godendo gli aspetti migliori.

Fatica. Perchè qui a Reggio, nella quotidianità degli altri 364 giorni le cose sono difficili, quasi si tratta di ripartire ogni giorno in un’opera di convincimento che si infrange il più delle volte nell’arroganza, nella supponenza, nella vanità. Reggio è una città che non ha un luogo dove viva la Memoria della città, un luogo dove chi viene a trovarci possa capire il perchè della nostra storia, di come abbiamo costruito la nostra identità democratica e antifascista, oggi così traballante. Reggio ha condotto, in passato, un’operazione di avanguardia concentrando in un unico Polo Archivistico gli archivi del ‘900, salvandoli dalla distruzione. E’ la memoria di tutti, messa al riparo perchè tutti possano usufruirne. Ora quell’esperienza rimane appesa, mese per mese, alla generosità di un nuovo piccolo contributo, sottrattto alle “grandi iniziative” con cui si pensa di cambiare la storia della nostra comunità, cadendo invece nel provincialismo più inutile.

Reggio può vantare su un patrimonio fondamentale di luoghi, di pietre ancora parlanti: il carcere di S.Tommaso, il Poligono di Tiro, la canonica di Tapignola, la nostra montagna tutta. Quando i testimoni non ci saranno più resteranno le pietre a parlare, se le vorremo ascoltare. Ma resteranno mute, di fronte all’incapacità, alla superficialità contro cui ogni giorno ci troviamo a confrontarci. Siamo stati incapaci di rinnovare la nostra cultura democratica, di dare una sostanza al futuro. Ascoltiamo lo smarrimento degli amministratori di fronte al diffondersi del virus leghista senza capire di quanto abbia bisogno la nostra comunità di cultura, di educazione democratica. Ha bisogno di strutture, di muri, di archivi, non di vanità, di notti più o meno colorate, di kermesse intellettualistiche.

“Ma chi te lo fa fare?”. Io la so la risposta. L’ho trovata sulla judenrampe di Birkenau quella volta, nevicava, il gelo e il vento di febbraio. Il caso mi aveva portato lì nello stesso giorno, sabato 26, in cui era arrivato il convoglio da Fossoli, fra i tanti i dieci ebrei reggiani e Primo Levi. Ho recitato per loro il kaddish, la preghiera dei morti, non sono ebreo ma credo fosse quello il modo migliore per dire che c’era ancora chi ricordava. Chi sarebbe tornato a casa e avrebbe continuato a far fatica. Perchè era giusto e ne valeva la pena.

Craxi al posto di De Gasperi, Salò al posto della Liberazione…

Craxi al posto di De Gasperi, Salò al posto della Liberazione. Così legittimano Berlusconi (intervista di Bianca Di Giovanni a Giovanni De Luna)

Una rilettura della storia con un obiettivo preciso: la legittimazione dell’egemonia di centrodestra. Così
Giovanni De Luna, docente di Storia contemporanea all’Università di Torino, «legge» le cronache delle ultime
ore sul decennale della morte di Bettino Craxi. Un’operazione esplicita, che compendia il lavoro iniziato già negli anni Novanta: demolire le fondamenta della Prima Repubblica per legittimare la Seconda.
Cambiando i «Protagonisti della Storia»: non più l’antifascismo, ma l’anticomunismo. Non più De Gasperi ma Craxi. Il quale rappresenta il punto di svolta, con un paradosso di fondo che nessuna rilettura potrà mai cancellare. Il centrodestra fa di Craxi una vittima dei comunisti, eppure dalla sua caduta uscirono rafforzati proprio la Lega e lo stesso Berlusconi. Senza quella drammatica cesura, il centrodestra di oggi non esisterebbe. Così il Pdl si ritrova in un nonsenso: condannare il proprio atto di nascita per autolegittimarsi.
Allora possiamo parlare di revisionismo.
«Io sostengo che il revisionismo è lo spirito della storia, purché questo avvenga nell’ambito della ricerca.
Ma nel caso di Craxi non è così: si prescinde totalmente dalla ricerca storica. La rilettura è completamente slegata da nuove fonti, nuove scoperte. Craxi viene legittimato nell’arena dell’uso pubblico della storia. Su di luinon esistono fonti alternative a quelle giudiziarie. Non esistono fonti attendibili per lo storico. Così l’obiettivo è costruire una vulgata per giustificare il centrodestra di oggi. Si tratta di legittimare la seconda Repubblica».

Il collegamento tra Craxi e l’autolegittimazione è abbastanza esplicito. Basti leggere quello che dice Maurizio Sacconi ad Hammamet: la rilettura del passato serve a superare il giustizialismo di oggi.

«Sì, il collegamento è esplicito e si fonda su una lettura del crollo della Prima Repubblica di tipo complottistico. Secondo questa tesi Craxi sarebbe caduto per via delle toghe rosse e dei comunisti, e non perché non seppe porsi come interlocutore politico di nuovi soggetti sociali che pure lui aveva individuato. La teoria del complotto tuttavia contraddice quello che il centrodestra è. Chi si è giovato della caduta di Craxi non furono i comunisti, che in realtà volevano mantenere la Prima Repubblica essendone parte integrante, ma Berlusconi e soprattutto la Lega. La Lega è stata protagonista di quei fatti, ha organizzato il lancio di monetine contro De Michelis lungo le calli di Venezia, ha sventolato cappi in Parlamento, Bossi insultò la Boniver. I veri eredi di quell’epoca sono loro, non certo i comunisti che ne sono usciti dilaniati».
Colpisce che l’ansia di riabilitazione sia pressante negli ex socialisti, mentre i Dc che governarono con Craxi si espongono meno.
«Gli eredi della Dc non sono più in grado di organizzare la memoria. È un fatto di egemonia».
Questo tipo di revisionismo è unsegno di forza o di debolezza?
«La forza del revisionismo sta nei suoi paradigmi, più vicini ai luoghi comuni che alla complessità della ricerca storica. Sicuramente quello che sta avvenendo è una decostruzione a tutto campo. Sta avvenendo la stessa cosa su Salò. la ricerca storica continua a portare prove molto pesanti sulle responsabilità degli italiani negli eccidi. Eppure l’unica costruzione che ha vinto è quella di Gianpaolo Pansa sul sangue dei vinti. E l’unica vulgata che ancora regge è di stampo azionista. La storiografia ex comunista si è totalmente disintegrata. È un segno dei tempi che i primi due segretari del Pd abbiano scritto due romanzi. Con i vecchi leader del pci non sarebbe avvenuto così. La sinistra ha perso il rapporto con la storia: anche l’albero genealogico del Pd resta poco chiaro. Gramsci c’è o non c’è? E Togliatti? E l’antifascismo?»

Da: “L’Unità”, 18.1.2010

“Sorridevano ed erano felici”

Al processo Trzebinski ricordò il massacro con queste parole:
“I bambini avevano con se tutti i loro bagagli, del cibo, i giocattoli. Si sedettero sulle panche che erano lì tutt’intorno, sorridevano ed erano felici di trovarsi fuori dal campo”
.

Dopo aver impiccato i medici, gli infermieri e i russi le SS rientrarono nella stanza dei bambini.
Avevano atteso a lungo seduti sugli sgabelli. Trzebinski tirò fuori dalla borsa le siringhe e la morfina:
frahm.jpg“Frahm (foto) rientrò (…) lo presi da parte e gli domandai cosa sarebbe successo ai bambini. Lui rispose che li avrebbe impiccati.
Potrei raccontare il falso e dire che venni minacciato con la pistola ma la verità è un’altra: non vi fu nessuna discussione perché secondo me i bambini non potevano più essere salvati. Se avessi fatto l’eroe i bambini forse sarebbero morti più tardi ma il loro destino non sarebbe cambiato.
Avevo con me della morfina era una soluzione 0,2 da 20,0. Chiamai un bambino dopo l’altro. Si stesero su uno sgabello ed io feci loro una puntura sul sedere, dove è più indolore. Affinché i bambini pensassero che questa fosse veramente una vaccinazione, ho sempre preso un ago nuovo. Il dosaggio entrava in circolazione e i bambini si facevano deboli. Dicevo a tutti i bambini che erano in una buona condizione, tranne uno di 12 anni che era veramente in pessima salute. A causa della debolezza fu lui a prendere sonno per primo.
Erano rimasti svegli dai 6 agli 8 bambini, gli altri dormivano già. Frahm prese in braccio il ragazzo dodicenne e disse agli altri: “Lo porto a letto”. Andò con lui in una stanza che era 6 o 8 metri lontana dalla sala dove aspettavamo e lì vidi un cappio appeso ad un gancio. A questo cappio Frahm impiccò il bambino addormentato e vi si appese con tutto il peso del suo corpo affinché il cappio si stringesse.
Nel periodo che ho trascorso nel campo di concentramento ho visto molte cose inumane nel lager ed ero anche in qualche modo insensibile, ma non avevo ancora visto un bambino impiccato.”

Il 29 marzo 1946 al processo il pubblico ministero Stewart interrogò il boia Frahm.

Frahm: Portarono i bambini nella cantina e fecero loro delle iniezioni. Trzebinski fece le iniezioni, e Speck e Dreimann li portarono in cantina.
Stewart: Cosa accadde ai bambini?
Frahm: Si addormentarono.
Stewart: E cosa successe allora?
Frahm: I corpi furono portati via il giorno dopo.
Stewart: Cosa intende quando parla di corpi?
Frahm: Erano morti.
Stewart: Morirono per le iniezioni?
Frahm: Sì.
Avvocato Lappenberg: Morirono per effetto delle iniezioni o per qualche altro motivo?
Frahm: Morirono per effetto delle iniezioni. Qualche bambino fu successivamente impiccato.
Lappenberg: E quando avvenne l’impiccagione?
Frahm: Immediatamente dopo.
Lappenberg: Chi mise la corda al collo dei bambini?
Frahm: Io.
Stewart: Quanti bambini furono impiccati dopo le iniezioni?
Frahm: Forse la metà.
Stewart: Erano più o meno di dieci?
Frahm: più.
Stewart: Quanto durarono le impiccagioni dei bambini?
Frahm: Rimasero impiccati per circa dieci minuti, ma non sono sicuro.
Presidente: Lei ha detto che ne furono impiccati dieci?
Frahm: Non so il numero esatto.
Lappenberg: Lei ha detto che circa la metà dei bambini fu impiccata. Non furono impiccati tutti?
Frahm: Non lo so.
Avvocato Halben: Era lì il comandante Strippel?
Frahm: Sì, era lì di volta in volta.
Presidente: Ha ricevuto qualche ricompensa?
Frahm: Sì, abbiamo ricevuto sigarette e grappa.

Bullenhuser Damm

Il camion con i bambini a bordo impiegò una decina di minuti, alle 22.30 circa si fermava in Spaldingstrasse davanti alla scuola di Bullenhuser Damm.
bullenhusen.jpgSi trattava di un palazzo che era rimasto indenne intorno ad un mare di rovine provocate dai bombardamenti Alleati su Amburgo. Le SS avevano adibito la ex scuola a campo di concentramento satellite di Neuengamme e vi avevano concentrato prigionieri provenienti dalla Danimarca e dalla Norvegia.
La vecchia scuola era vuota: tutti i prigionieri erano stati evacuati sui camion della Croce Rossa Svedese.
Ad aspettare il camion a Bullenhuser Damm c’è l’Obersturmführer Strippel: è il comandante del subcampo.
Secondo quanto racconta Trzebinski tra le due SS si accese una discussione:
“Chiesi a Strippel di parlargli in privato, gli parlai molto chiaramente, gli dissi che occorrevano istruzioni: il “Dipartimento Heissmeyer era stato dissolto e Max Pauly mi aveva affidato lo spiacevole compito di avvelenare i bambini.
Gli dissi che non avevo intenzione di farlo e che non avevo veleno. Strippel mi rispose che se Pauly aveva dato un ordine occorreva eseguirlo.
Gli dissi allora che non avevo portato con me il veleno intenzionalmente. Strippel si irritò e mi disse che se le cose stavano così avrebbe potuto mettermi al muro e che non era il caso che lo sfidassi.
Ribattei che occorreva un ordine da Berlino e che se fosse arrivato l’avremmo eseguito. Continuammo a discutere a proposito del veleno che non avevo con me. Alla fine disse che visto che io ero un codardo avrebbe preso in mano lui la cosa”

I russi, i medici, gli infermieri vennero fatti scendere dal camion e fatti entrare nella scuola. I due medici francesi e gli infermieri olandesi furono sistemati in una stanza, i bambini in un’altra e i russi nel locale caldaie.
Nella scuola insieme a Trzebinski c’erano Strippel, Jauch, Frahm e Dreimann.
Erano circa le 23 del 20 aprile 1945. I primi a morire furono i medici francesi e gli infermieri olandesi.
Al processo Jauch ricordò:
“Dreimann aveva attaccato quattro corde a dei ganci e mise il cappio intorno al collo dei prigionieri poi li sollevò dal suolo e li tenne così per tre o quattro minuti fino a che non morirono. Constatai che contrariamente a quanto era stato detto nessuno oppose resistenza. Sarei stato contento di salvare il medico francese [Quenouille] ma non ero in grado di farlo.”
Quenouille, Florence, Deutekom e Holzel pendevano dai ganci, strangolati dal cappio. Nell’altra stanza venivano impiccati i sei russi. Ora toccava ai bambini.

http://www.olokaustos.org/argomenti/bambini/bullen12.htm

Ordine da Berlino: uccidete i bambini

Heissmeyer non tornò più a Neuengamme. Il fallimento dell’esperimento rendeva inutile la sua permanenza nel campo di concentramento.
In quei giorni tra il marzo e l’aprile del 1945 il Terzo Reich era agonizzante. I Sovietici hanno sfondato in Austria, Vienna è caduta. Berlino è circondata. Americani ed Inglesi sono a Brema e Lipsia.
Nel campo di Neuengamme per ordine di Himmler vengono evacuati i prigionieri scandinavi che, a bordo di camion della Croce Rossa, si dirigono verso la Danimarca.
Il comandante del campo Max Pauly non ha però istruzioni chiare riguardo ai bambini: Heissmeyer è sparito e non si sa esattamente cosa fare.
Il 7 aprile 1945 Pauly invia una richiesta scritta al comando dell’RSHA di Berlino: “Cosa si deve fare dei bambini?”.
Le condizioni disastrose della Germania hanno gettato nel caos le comunicazioni. Per giorni non arriva nessuna risposta, poi il 20 aprile 1945 giunge a Neuengamme un messaggio per telescrivente:
“Il Dipartimento Heissmeyer è annullato”. L’aiutante di campo Karl Totzauer consegna il messaggio al comandante Pauly.
Ore 20 – Il campo di Neuengamme è in piena confusione: i camion della Croce Rossa svedese sono ancora nel campo.
Non si possono uccidere i bambini subito. Non davanti a dei testimoni. Infine Pauly da gli ordini a Wilhelm Dreimann.
Dreimann esce dall’ufficio del comandante e si dirige verso la baracca 4a, la baracca dei bambini. Chiama a rapporto i due prigionieri olandesi Deutekom e Holzel e dice loro di svegliare i bambini e prepararli perché si è deciso di portarli a Theresienstadt in aereo dai loro genitori. Frattanto Pauly aveva fatto chiamare il medico SS del campo Alfred Trzebinski, gli disse che il Dipartimento Heissmeyer era stato dissolto e che i bambini andavano uccisi.
Ore 22 – Trzebinski raggiunge la baracca 4a. Di fronte al cancello c’è un camion usato per il servizio postale.
Intorno oltre alle SS ci sono i due medici francesi, i due infermieri olandesi e sei prigionieri russi.
Ore 22.30 – Gli infermieri insieme con la SS Johann Frahm svegliano i bambini.
I due medici francesi Florence e Quenouille aiutano a caricare il camion.
Quenouille dice all’infermiere prigioniero Paul Weissmann: “Non credo ci rivedremo più”.
I bambini sono assonnati e fanno i capricci, non vogliono alzarsi. Gli viene detto che sarebbero stati portati dai loro genitori ed allora si alzano in fretta e cominciano a vestirsi prendono i bagagli, i più piccoli anche i giocattoli.
Sul camion salgono i medici francesi, i due olandesi e i sei russi. Dietro con loro tre SS: Wilhelm Dreimann, Heinrich Wieagen e Adolf Speck. Davanti prendono posto Trzebinski e l’autista Hans Friedrich Petersen.

http://www.olokaustos.org/argomenti/bambini/bullen11.htm

Gli esperimenti

Il 9 gennaio 1945 Heissmeyer iniziò gli esperimenti con i bambini. Il professor Quenouille aveva compreso che cosa aveva intenzione di fare e pochi giorni prima aveva cercato di sterilizzare parte delle colture di batteri che sarebbero stati utilizzati per infettare i bambini.
L’inoculazione della tubercolosi fu abbastanza rapida: Heissmeyer asportava parte della pelle dei bambini sotto l’ascella destra e praticava una incisione a croce, inoculava i batteri e applicava un cerotto. Si trattava di aspettare che la malattia cominciasse il suo orribile lavoro.
bambini.jpgIl 19 febbraio 1945 tutti i bambini sono apatici, febbricitanti, presentano ulcere e accusano forti pruriti. Heissmeyer procede con una ulteriore inoculazione della malattia, questa volta ancora più robusta.
Heissmeyer tentava di stimolare una risposta immunitaria. Prima faceva ammalare i bambini e poi somministrava “tubercolina” nella convinzione che si sarebbe verificata una reazione del sistema immunitario. Per verificare la portata della risposta immunitaria Heissmeyer pensò di asportare i linfonodi della regione ascellare: se la teoria era giusta i linfonodi avrebbero dovuto produrre degli anticorpi.
Il 3 marzo 1945 alle 19.00 i bambini vennero condotti in sala operatoria. I bambini vennero fatto spogliare e fatti sdraiare su di un tavolo operatorio su un fianco. Ad operare è un medico cecoslovacco prigioniero, il dottor Bogumil Doclik. Per l’anestesia vennero usate iniezioni di novocaina. Doclik fece delle incisioni di cinque centimetri e asportò la ghiandola linfatica all’altezza della ascella. L’intera operazione dura un quarto d’ora circa, quella sera furono 9 i bambini operati. La sera successiva si completò l’opera.
Le ghiandole linfatiche venivano messe in bottigliette piene di formalina, etichettate con il nome dei bambini e consegnate a Heissmeyer. Dopo una settimana i bambini vennero nuovamente portati in sala operatoria e i tamponi furono rimossi. Dopo un’altra settimana vennero asportate tutte le ghiandole ascellari.
Heissmeyer partì per la clinica di Hohenlychen e consegnò le ghiandole al suo collega Hans Klein per l’esame.
Il 12 marzo 1945 Klein diede il suo responso: nelle ghiandole linfatiche dei bambini non era stato riscontrato alcun anticorpo contro la tubercolosi. L’esperimento di Heissmeyer era fallito: i bambini ora non servivano più.

Viaggio verso l’incubo: da Auschwitz a Neuengamme

I venti bambini rinchiusi nel Block 10 di Auschwitz vennero sottoposti ad esami medici da un altro e forse più famoso assassino: il dottor Josef Mengele.
Una volta stabilita la loro idoneità venne stabilito il loro trasferimento a Neuengamme presso il “dipartimento Heissmeyer”.
Il comandante del campo verso la metà del dicembre 1944 convocò la dottoressa Paulina Trocki, una internata che lavorava presso l’ospedale del campo, e la informò che avrebbe dovuto accompagnare un trasporto speciale di venti bambini diretto a Neuengamme e precisò che si trattava di bambini privi di genitori.
Il 13 dicembre 1944 il treno uscì da Auschwitz, così Paulina Trocki anni dopo ricordò il viaggio:
Il trasporto era scortato da una SS per la quale venne aggiunto un apposito vagone. A bordo c’ero io, tre infermiere e i venti bambini. Erano 10 bambini e 10 bambine tra i 6 e i 12 anni d’età, tutti ebrei ma di diversi Paesi, 2 erano di Parigi.
Durante il viaggio ci fecero indossare i distintivi da ebrei [la stella gialla NDT] affinché la popolazione non fraternizzasse con noi. Per evitare che qualcuno ci avvicinasse durante le soste sparsero la voce che si trattava di un convoglio di malati di tifo.
Nel trasporto c’era un bambino di 12 anni, il figlio del dottor Kohn che ricordo era il direttore dell’ospedale “Rotschild” di Parigi.
Quando arrivammo a Berlino e il ragazzo la vide dal treno disse: «Se conoscessi un qualsiasi indirizzo fuggirei di qui». Durante il viaggio il vitto era buono: c’era cioccolata e latte.
Dopo due giorni, alle 22 arrivammo nel lager di Neuengamme (…) Parlai con uno studente di medicina belga che era internato lì che mi disse che nel lager non c’erano bambini e che temeva li volessero usare per degli esperimenti. Lo studente lavorava nella farmacia del campo. Non vidi più i bambini
“.

Quando la dottoressa Trocki ripartì per Auschwitz i bambini vennero affidati alle cure dei due prigionieri olandesi Anton Holzel e Dirk Deutekom che in breve divennero i “papà” del gruppo di cavie umane. A Neuengamme per collaborare con Heissmeyer erano stati fatti arrivare anche i due medici francesi: Florence e Quenouille.
Per un qualche tempo i bambini vissero un periodo di relativa tranquillità. Il 24 dicembre 1944 Jupp Handler, un prigioniero austriaco si travestì da Babbo Natale e, sfidando i divieti delle SS, distribuì doni ai bambini. Il piccolo Marek James ricevette un paio d’occhiali, era miope e le SS al suo arrivo ad Auschwitz glieli avevano tolti.

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