Mussolini era razzista dal 1921 (N.Tranfaglia)

Mussolini era razzista dal 1921
di Nicola Tranfaglia

L’Italia, dopo la sua tardiva unificazione nazionale, ha avuto (possiamo dirlo con sicurezza, almeno fino a questo momento) un solo dittatore ed è stato il romagnolo Benito Mussolini. Certo uomini politici dell’età liberale, come Crispi e Giolitti, hanno dominato per alcuni anni l’orizzonte politico nazionale ma non si può parlare di dittatori, nell’uno come nell’altro caso. L’unico che ha fissato la sua egemonia personale in maniera stabile, per più di vent’anni, abrogando di fatto lo Statuto Albertino e chiudendo parlamento, sindacati e giornali di opposizione, è stato Mussolini. Di qui il grande mito nato nell’immaginario collettivo degli italiani, le numerose biografie che sono state scritte, nonché l’esaltazione smisurata che anche uomini che venivano dalla sinistra hanno coltivato del caposupremo del regime e del partito unico, fondato per sostenerlo. Ora, a distanza di 70 anni dalla catastrofe del regime fascista nell’aprile 1945, vengono pubblicati presso Rizzoli i Diari 1932-38 (a cura di Mauro Suttora, Mussolini segreto, pp. 522.euro 21) di Claretta Petacci che di Mussolini fu la giovanissima (20 anni nel 1932) e poco segreta amante per tutti gli anni trenta e quaranta fino alla morte per fucilazione con il suo uomo presso Dongo. Sono diari conservati prima nel giardino della villa della contessa Rina Cervis, poi nel 1950 confiscati dai carabinieri e conservati nell’Archivio Centrale dello Stato, con il vincolo del segreto di Stato. Soltanto quest’anno sono stati resi accessibili ai ricercatori fino al fatidico anno 1938.

Ma quale è l’aspetto più interessante dei Diari emersi dopo tanto tempo dai nostri archivi? Ce ne sono almeno due che guidano il lettore interessato al passato del nostro paese, ai suoi costumi, alla sua cultura, a personaggi (parlo di Mussolini anzitutto) che hanno contato per molto tempo nella mentalità media degli italiani. Il primo aspetto evidente è la disparità tra l’uomo e la donna che emerge con grande evidenza nelle pagine di Claretta Petacci. I due amanti sono molto gelosi l’uno dell’altra ma c’è una differenza fondamentale: Mussolini fa di continuo “scappatelle” con altre donne (la ex favorita del Duce Romilda Ruspi Mingardi che alloggia addirittura a villa Torlonia dove il suo amante vive con la moglie Rachele e i figli ma anche altre amanti del passato che ogni tanto tornano da lui e lo sollecitano a riprendere il rapporto); Claretta, invece, non ha altre avventure ma viene di continuo sospettata da Benito e minacciata di essere lasciata per sempre. Emerge con chiarezza il diverso significato dei tradimenti di lui e di quelli, peraltro inesistenti, di lei: Claretta lo rimprovera e si arrabbia per le “scappatelle” ma non pensa mai di lasciarlo. E lo stesso Mussolini si scusa, chiede perdono ma in più occasioni dice che non ha potuto far diversamente. Come se alle donne fosse possibile e richiesto di non lasciarsi andare ad altri amori e lo stesso non dovesse valere per gli uomini. Mi viene in mente di fronte a queste pagine dei Diari una delle prime sentenze della Corte Costituzionale, appena dopo il suo tardivo insediamento a metà degli anni cinquanta, quando i giudici, dovendo stabilire, su richiesta di un tribunale, se la norma del codice penale che fissava un diverso trattamento per l’adulterio se compiuto dall’uomorispetto a quello compiuto dalla donna, si arrampicavano sugli specchi per differenziare i due adulteri invocando l’allarme sociale. L’intento era quello di salvare la norma del codice Rocco e non dichiararla incostituzionale, malgrado il contrasto evidente con l’articolo 3 della Carta sull’eguaglianza dei cittadini di fronte ad ogni differenza. Dovettero passare alcuni anni prima che la Corte riconoscesse quella incostituzionalità. L’altro elemento che emerge con chiarezza dai Diari riguarda le posizioni politiche e culturali che assumeMussolini nel dialogo quasi quotidiano con la giovane amante.

L’aspetto più interessante riguarda l’atteggiamento del dittatore rispetto al razzismo che appare, moderato, nei primi anni nel regime e frutto piuttosto del fanatismo di alcuni personaggi come Preziosi e Interlandi ma diventa nella seconda metà degli anni trenta la dottrina ufficiale sancita da leggi apposite e persino più precoci di quelle naziste nell’autunno 1938. «Ero razzista dal 1921. Non so come possano pensare che imito Hitler, non era ancora nato. Mi fanno ridere. La razza deve essere difesa».(4 agosto 1938). Simili affermazioni contrastano, evidentemente, con quella visione storica di cui Renzo De Felice è stato iniziatore e caposcuola, che dipinge il razzismo fascista come subalterno e di qualità diversa, culturale piuttosto che biologica, rispetto a quello nazionalsocialista costitutivo dell’ideologia tedesca.

01 dicembre 2009

http://www.unita.it/news/italia/92034/mussolini_era_razzista_dal

La storia di Giorgio Gandini

Giorgio Gandini, 17 anni da esule. Dalla persecuzione in Italia alla primavera di Praga (V.Lecis)

Alle 4 del mattino la Lancia della federazione comunista di Ferrara è parcheggiata in via Ripagrande. Al posto di guida è seduto Guido Bertacchini, l’autista del Pci locale. Bertacchini guarda impaziente dai finestrini appannati in attesa di qualcuno che deve arrivare. Finalmente il portone del numero civico 21 si apre e una lama di luce si proietta sulla strada debolmente illuminata. L’uomo che si avvicina all’auto indossa un cappotto pesante e nelle mani stringe  la custodia della sua Lettera 32. Giorgio Gandini, un giovane giornalista comunista di 28 anni, sale nella macchina. Si salutano con gli occhi gonfi di sonno. Gandini non ha perso il suo proverbiale buon umore e la voglia di scherzare anche se una valanga gli è precipitata addosso. Lui però tiene duro, fedele alla massima di Lenin secondo il quale le caratteristiche di un rivoluzionario devono essere la pazienza e l’ironia. Almeno la seconda non gli manca di certo. Insieme cominciano un lungo viaggio verso Milano.

Quella  mattina gelida del 7 ottobre 1956, Giorgio Gandini comincia a percorrere la strada dolorosa ed esaltante dell’espatrio, una scelta di vita obbligata. Inseguito da due mandati di cattura a causa delle condanne a sei-sette anni di carcere per vilipendio al governo, alle forze di polizia e istigazione a delinquere è costretto a lasciare l’Italia con destinazione Praga, la capitale di uno dei paesi del cosiddetto socialismo reale: la Cecoslovacchia.

Gandini è un giornalista brillante e tagliente. Di famiglia antifascista, giovanissimo partigiano della Brigata Garibaldi “Bruno Rizieri”, fonda a Ferrara nel 1947 con altri giornalisti l’Associazione Stampa. Nel frattempo diventa prima redattore e poi direttore responsabile fino al 1956 del settimanale della federazione comunista la Nuova Scintilla, un organo di stampa combattivo e di controinformazione. Fino al 1953 è anche il corrispondente dell’Unità dal ferrarese.

Gandini non le manda a dire. Scrive in difesa dei braccianti del Delta Padano, racconta le bestiali condizioni di vita di quella gente, descrive le violenze della polizia e dei carabinieri. In quegli anni davvero di piombo, le forze dell’ordine di Scelba sparano. E uccidono persone inermi nel Ferrarese come Ercolei, Margotti, Mazzoni, Fantinuoli. Un clima tremendo segnata da fame e repressione  costellata da centinaia di arresti e migliaia di feriti.

Finisce nel mirino. E’ conosciuto, non fa sconti. La sua è una penna affilata. In quell’epoca da una parte c’è il Pci, dall’altra gli agrari e la Dc. Due mondi contrapposti che si guardano in cagnesco divisi da concreti interessi di classe. Non c’è molto spazio per zone grige o terzismi. Gandini subisce una raffica di processi per direttissima e diverse condanne. Dicono di lui che ha “un’intelligenza subdola per attizzare i braccianti ignoranti”. (nella foto, a destra, mentre intervista proprio un bracciante negli Anni Cinquanta)

“Nella sede della Dc. Nacque lì la vera decisione di farmi espatriare” racconta oggi Giorgio Gandini, classe 1928, seduto con la moglie Lori nel divano del salotto della sua casa piena di libri, quadri e ricordi di una vita di battaglie. “Ero amico di Gilberto Formenti, allora direttore della Gazzetta Padana il giornale degli agrari. Mi telefonò proponendoci di vederci. Venne a prendermi a casa, in via Ripagrande 21. Mi disse: hai troppe condanne, ora cade la condizionale e ti arrestano. Ti porto dal prefetto dove troverai anche il segretario della Dc. Tu dovrai dire in loro presenza soltanto di aver esagerato e vedrai che sarai assolto nella prossima udienza. Che cosa ti costa?”.

Com’è andata  a finire ora lo sappiamo. Giorgio Gandini non si piega ma non vuole subire una carcerazione che considera ingiusta, una ritorsione dei nemici di sempre, di quella odiatissima classe degli agrari assenteisti e sfruttatori.. Il Pci decide che Giorgio deve cambiare aria. Allora succedeva così: il partito comunista tutelava quegli iscritti particolarmente esposti e sottoposti alle persecuzioni. Ex partigiani, giornalisti, amministratori locali, militanti operai venivano aiutati a lasciare l’Italia che viveva sotto il tallone di un centrismo che non dava respiro e che si stava preparando al boom economico.

“Andai con Italo Scalambra, all’epoca segretario della federazione comunista, a Botteghe Oscure sede della direzione nazionale a Roma. Parlammo con Sergio Segre e Pietro Ingrao. Ricordo che quest’ultimo si dichiarò in disaccordo con l’idea di farmi abbandonare l’Italia. L’incontro più importante fu con  Aldo Lampredi, il partigiano Guido, l’uomo che con il colonnello Valerio aveva giustiziato Mussolini. Lui andò subito al sodo ma chiese di proseguire la nostra conversazione fuori dagli uffici della direzione. Ci ritrovammo così in un bar di Largo di Torre Argentina. Lampredi si fece consegnare anzitutto le mie tessera del Pci e dell’Anpi. Il partito ufficialmente non c’entrava nulla, non doveva assolutamente restare coinvolto. Mi domandò quale nome volessi scegliere per la mia nuova vita. Ci pensai un istante, il partito aveva esaurito la scorta di Rossi, Verdi, Bianchi. Dissi: Michele Valle, per collegarmi idealmente con i braccianti delle valli di Comacchio e del Delta. Lui prese nota e ci disse di tornare a Ferrara, si sarebbero fatti vivi in breve tempo”.

Alle 4 del mattino del 7 ottobre 1956 un’auto attraversa una Ferrara gelida e deserta. Alla guida c’è Bruno Bertacchini, al suo fianco Giorgio Gandini. La destinzione è Milano. Luogo dell’appuntamento con Aldo Lampredi, la stazione centrale di Milano nella sala dove è esposto un vero piroscafo. Il viaggio procede semza intoppi ma, arrivati alle porte di Milano, Giorgio chiede di scendere dall’auto. La prudenza non è mai troppa e bisogna rispettare le vecchie regole della clandestinità. Anzitutto accertarsi di non essere seguiti. Saluta Bruno con un abbraccio, chissà quando si sarebbero rivisti un’altra volta.

segue in:

http://www.fuoripagina.net/tagliobasso-generale/a-praga-17-anni-da-esule-giorgio-gandini-dalla-repressione-in-italia-alla-primavere-di-dubceck.html

La storia negata

Dall’Introduzione del curatore al saggio Angelo Del Boca (a cura)  La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Neri Pozza 2009, pp.384, €20,00.

…Il 13 aprile 2008 il Pdl stravince le elezioni e acquisisce una maggioranza tale in Parlamento da permettersi ogni battaglia, ma Dell’Utri non ripropone la censura dei libri di testo. Del resto si tratta di un’operazione rischiosa e del tutto inutile, perché l’onda lunga del revisionismo ha ormai raggiunto anche i lidi più lontani e protetti. A partire dal 2000, come si è già detto, si avverte un proliferare di storici assai poco dotati, che prendono d’assalto i punti nodali della nostra storia nazionale con il preciso intento di offrirne una versione edulcorata (…).

Si prenda, ad esempio, Faccetta nera. Storia della conquista dell’impero, di Arrigo Petacco, un autore che puntualmente ogni anno sforna un libro di piacevole lettura, ma senza note e con una modesta bibliografia. E’ difficile, in meno di 230 pagine, accumulare tanti errori, tante lacune, tanti giudizi e valutazioni non corrette.

Una spietata aggressione a uno Stato sovrano, che causa la morte di oltre 300.000 etiopici, viene contrabbandata come un’impresa necessaria e urgente, tanto più che l’aggredito, l’imperatore Hailé Selassié, era, come precisa Petacco, soltanto “un ras affarista, sanguinario, crudele e schiavista». Per giustificare, infine, le stragi, le deportazioni, l’impiego sistematico (e non soltanto “in situazioni particolari», come sostiene l’autore) degli aggressivi chimici, Petacco scrive: “È forse opportuno ricordare che, nella breve vita dell’impero italiano, ciò che fu fatto, di bene e di male, accadeva o era accaduto anche negli altri imperi coloniali. Di conseguenza, prima di esprimere frettolosi giudizi radicali sulle nostre responsabilità, non si deve dimenticare qual era la morale del tempo».

L’IDEOLOGIA DI VESPA

(…) Questa produzione di libri-strenna, in cofanetto o riccamente rilegati, è stata inaugurata da Indro Montanelli già negli anni Sessanta, e ha oggi come assidui cultori Bruno Vespa e Giampaolo Pansa. Denunciando la «penosa inconsistenza storiografica e l’insidiosa valenza ideologica» di Vincitori e vinti di Bruno Vespa, Sergio Luzzatto ne delinea il meccanismo arbitrario: «La guerra di liberazione come una carneficina altrettanto sanguinolenta che gratuita; gli eccidi perpetrati dai neri ampiamente compensati da quelli perpetrati dai rossi…». «Quanto agli storici di mestiere» continua Luzzatto «pochi fra loro avranno il coraggio di prendere in mano Vincitori e vinti e di guardarci dentro, magari per riflettere intorno ai guasti morali e civili di una storia raccontata da dilettanti».

Il caso di Giampaolo Pansa è molto piu grave. Allievo di Guido Quazza, che lo «guida sino alla laurea con sollecitudine affettuosa» e gli fa pubblicare la tesi, Guerra partigiana fra Genova e il Po, da Laterza, il giovane studioso monferrino si innamora del filone resistenziale e dà alle stampe alcuni libri di notevole spessore, come L’esercito di Salò, per il quale utilizza per la prima volta i notiziari quotidiani della Guardia Nazionale Repubblicana, o per i quali sfodera una pazienza certosina come quando compila La Resistenza in Piemonte, guida bibliografica 1943-1963 (…).

La sua adesione ai valori dell’antifascismo e della Resistenza è sincera e totale. Per Italo Pietra e il sottoscritto, entrambi partigiani, e rispettivamente direttore e redattore capo de “Il Giorno” di Milano, Pansa è il nostro fiore all’occhiello, al quale affidiamo le inchieste più delicate e difficili. E quando ci lascia per andare a “La Repubblica”, attratto come altre grandi firme dalla ventata di novità del quotidiano romano, ne siamo veramente dispiaciuti. Ma anche per Pansa il distacco da “Il Giorno” e dalla sua direzione non è indolore. Nel dedicarmi L’esercito di Salò scrive: «Ad Angelo Del Boca, con amicizia (e un po’ di rimpianto)». Egli non può dimenticare, infatti, le notti in redazione; le lunghe e appassionate conversazioni sui temi della Resistenza, lui infaticabile ricercatore e io testimone e protagonista di una guerra per la libertà e, nello stesso tempo, formidabile occasione per diventare uomo.

Che cosa accade nella sua psiche e per quale ragione, quando, di colpo, demolisce il patrimonio di valori, di certezze, di emozioni, accumulato in vent’anni, e passa dall’altra parte della barricata e con Il sangue dei vinti comincia a gettare fango, a piene mani, sull’antifascismo e la Resistenza?

Egli sa benissimo, nel calcare la mano su certi lati oscuri della guerra di liberazione, di non rivelare nulla di nuovo, nulla di essenziale, nulla di indispensabile, perché lo hanno preceduto, sul piano narrativo, Fenoglio, Calvino e il sottoscritto, e, nell’ambito della ricerca scientifica, storici di professione come Claudio Pavone, Mirco Dondi, Guido Crainz, Santo Peli, Massimo Storchi, Ermanno Gorrieri. Dunque Pansa sa benissimo, lui che ha compilato con amore e pazienza la Guida bibliografica della Resistenza in Piemonte, di non fare nulla di inedito e tantomeno di eroico nel dare la parola “a chi è stato costretto a tacere per anni dall’arroganza dei vincitori della guerra civile». E visto lo straordinario successo di vendita de Il sangue dei vinti, ogni anno sforna un nuovo volume, più o meno con gli stessi ingredienti, la stucchevole forma narrativa, le stesse storie che grondano sangue, con un crescendo di insulti per chi lo critica e lo rimprovera. Poco a poco Pansa si convince che la sua è un’autentica, benedetta missione, e quando Rizzoli gli chiede di scrivere un’autobiografia accetta senza indugi e la intitola Il revisionista. (…) Ma questo Pansa, che oggi si vanta di revisionare la storia a suo piacimento, per darla in pasto ai nostalgici del fascio e di Salò, è lo stesso Pansa che mi sedeva dinanzi, nel mio studio in via Fava, al Giorno, e visibilmente si emozionava nell’ascoltare storie sulla guerra di liberazione? È proprio lui? Conservo qualche dubbio.

 

 

Gino Giugni e il riformismo

E’ morto Gino Giugni, lo chiamavano “il padre dello Satuto dei lavoratori”, anche se in realtà è stato molto di più, aveva studiato negli Usa il diritto del lavoro dell’età di Roosevelt e del New Deal, aveva insegnato in Italia. Era stato ministro del Lavoro nel Governo Ciampi. Un galantuomo insomma, di quei socialisti estinti, come i dinosauri.

Nel 1970 nacque lo Statuto dei Lavoratori, approvato in Parlamento con l’astensione, NON con il voto favorevole, del PCI. Nel 1983 Giugni fu “gambizzato” dalle BR. Dimostrazione esemplare di chi fosse il vero “fascista” dell’epoca.

Ma Giugni era un riformista sincero e onesto, dichiarò più volte che il “suo” Statuto avrebbe dovuto essere aggiornato ai tempi. Riformismo significa,  banale dirlo, riformare anche quello che si è già fatto e conquistato, per andare avanti. Restare fermi, idolatrare le “conquiste” significa soltanto aspettare rassegnati che qualcuno venga a distruggerle.

Per chi vuole approfondire: G.Giugni, La memoria di un riformista, Il Mulino 2007

Giacomo Ulivi, anni 19

Cari amici,
vi vorrei confessare, innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L’avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo all’ argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire «falso», di inzuccherare con un preambolo patetico una pillola propagandistica. E questa parola temo come un’offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi.
Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti. Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami al flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. …
Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete, perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco, per esempio, quanti di noi “sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia ed al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà: nel desiderio invincibile di «quiete », anche se laboriosa, è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. E il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent’anni da ogni lato, è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della «sporcizia» della politica che mi sembra sia stato inspirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è lavoro di «specialisti ».
Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell’opera di qualunque ladro e grassatore; Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora che nella vita politica – se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri – ci siamo scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a se stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? Che cosa abbiamo creduto? Creduto grazie al cielo niente ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.
Questa ci ha depredato, buttato in un’avventura senza fine; e questo è il lato più «roseo» io credo. Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale, la mentalità di molti di noi. Credetemi, la «cosa pubblica» è noi stessi, ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come « patriottismo » o amore per la madre che in lacrime e in catene ci chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura, è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? L’egoismo ci dispiace sentire questa parola – è come una doccia fredda, vero? Sempre, tutte le pillole ci sono state propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di retorica. Facciamoci forza, impariamo a sentire l’amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell’ombra si dilati indisturbato.

Ricordate, siete uomini, avete il dovere, se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere: che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro a un pericolo negativo? Bisognerà fare molto. Provate a chiedervi un giorno, quale stato, per l’idea che avete voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi. Se credete nella libertà democratica, in cui nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure aspettate una nuova concezione, piu equalitaria della vita e della proprietà. E se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per esempio, sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare.
Oggi bisogna combattere contro l’oppressore. Questo’ è il primo dovere per noi tutti ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi ed il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi.
Termino questa lunga lettera un po’ confusa, lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.

GIACOMO ULIVI
Di anni 19 – studente di terzo anno alla facoltà di legge dell’Università di Parma – nato a Baccanelli San Pancrazio (Parma) il 29 ottobre 1925 -. Dal febbraio 1944 è incaricato dei collegamenti fra il C.L.N. di Parma ed il C.L.N. di Carrara nonché con ufficiali inglesi – collabora all’avvio ed all’organizzazione di renitenti alla leva sull’ Appennino tosco-emiliano – cat- turato una prima volta 1’11 marzo 1944, riesce a fuggire rifugiandosi a Modena, mentre la madre viene anch’essa arrestata e sottoposta ad interrogatori e minacce – riprende il lavoro organizzativo – è catturato una seconda volta dai tedeschi nei dintorni di Modena – riesce ancora a fuggire -. Catturato una terza volta il 30 ottobre 1944 in Via Farini a Modena, ad opera di militi delle Brigate Nere – tradotto nelle carceri dell’Accademia Militare – torturato -. Dapprima amnistiato, poi fucilato per rappresaglia il mattino del 10 novembre 1944, sulla Piazza Grande di Modena, da plotone della G.N.R., con Alfonso Piazza e Emilio Po -Medaglia d’ Argento al Valor Militare.
(Lettera scritta agli amici fra il secondo e l’ultimo arresto.)

Simboli

I simboli sono importanti, le idee si sostanziano di simboli, l’uomo è attirato da simboli e da essi viene indirizzato verso un percorso ideale o un altro. Attraverso i simboli entriamo in contatto con il mondo che ci circonda, usiamo simboli per esprimerci.

I corpi dei criminali nazisti condannati e impiccati a Norimberga furono cremati e le loro ceneri sparse nel Mare del Nord. Quando i sovietici conquistarono Berlino, rasero al suolo il mausoleo di Reinhardt Heydrich, ne cremarono i resti e ne dispersero le ceneri. Pochi anni fa furono ritrovate a Berlino le ossa di Martin Bormann, il delfino di Hitler, lo si credeva riparato in Brasile mentre invece era morto fuggendo all’ultimo istante dal bunker della Cancelleria. Chiamato a ritirare le spoglie il figlio le rifiutò. Lo Stato tedesco cremò le ossa e sparse le ceneri fuori dalle acque territoriali tedesche. Fuori. Perchè non ci fossero equivoci. In Germania.

Noi, in Italia, ogni domenica possiamo andare a Predappio a visitare, nella tomba di famiglia, le spoglie del cav.Benito Mussolini. Usciti dalla mesta visita, possiamo acquistare su una delle numerose bancarelle spille, distintivi, busti, magliette rappresentanti il caro estinto. Non è apologia di fascismo. E’ pietà per un defunto.

Germania. Italia. E dire che qualche bello spirito ci racconta che qui da noi ha vinto l’antifascismo….

25 aprile: un grazie a..

Buon 25 aprile, festa di libertà per tutti!

25 Aprile, un grazie

ai partigiani combattenti che ebbero il coraggio di dire “no” e accettarono il rischio, perchè per una buona causa si può anche morire

alle donne, ragazze, bambine che rischiarono la loro vita ogni giorno perchè sulle montagne e in pianura quei ragazzi potessero combattere

ai sacerdoti che aprirono le loro canoniche a chi aveva bisogno, incarnando, giorno per giorno, un Vangelo che la Chiesa ufficiale aveva dimenticato per troppo tempo

a quei ragazzi americani, inglesi, francesi, polacchi, australiani, neozelandesi….che vennero nelle nostre terre ad aiutarci a riprendere la nostra dignità

a quei ragazzi tedeschi che capirono che la libertà, la pace e l’umanità era qualcosa che si poteva difendere e conquistare anche gettando le armi di una patria divenuta criminale

a quei ragazzi sovietici che combatterono insieme ai nostri ragazzi per la nostra libertà, pagando poi con la loro al ritorno a casa

a quei ragazzi in grigioverde che, gettati nei lager ed etichettati come IMI, rifiutarono il compromesso e rimasero a fare la loro resistenza là, al freddo, alla fame, con la morte in agguato ogni giorno

a quei ragazzi del nuovo esercito italiano che decisero che si poteva ancora combattere ma stavolta per la propria patria e non per offendere o invadere quella altrui

a tutti quegli italiani che, nel silenzio, ogni giorno, dissero il loro “no”, con azioni piccole, singole, disperse ma che contarono proprio per il loro valore di scelta individuale

Grazie a tutti se oggi siamo liberi!

Un 25 aprile di tutti

Il Presidente (provvisorio) del Consiglio festeggerà per la prima volta in 15 anni il 25 aprile. Bene. Finalmente. In Italia la normalità fa notizia e quindi accogliamo la buona novella. Nessuno lo fischi, faremmo il suo gioco, facciamolo parlare in un giorno di festa vera. Magari facciamo anche finta di vivere in un paese normale dove il Capo del Governo riconosca il calendario civile e la storia del paese. Per il 25 aprile vale la pena tentare, tanto poi, tranquilli, il 26 ci troveremo ancora i La Russa, Alemanno, Cicchitto e Quagliariello (scusate le espressioni volgari) a sparare le loro indegnità.

Ma il 25 aprile lasciateci essere illusi, lasciateci credere di essere in Europa, lasciateci credere che Leone Ginzburg, don Pasquino, Luciano Fornaciari e tanti altri sono morti per qualche buon motivo. Lasciateci credere che l’Italia abbia colto, allora, l’unica occasione degli ultimi secoli per essere un paese civile.

p.s. Ma ora che anche Berlusconi celebra il 25 aprile, chi glielo dice a Filippi?