Rieccolo!

RIECCOLO!
Era il 9 dicembre 2008 e invitavamo il (poco) reverendo Abramowicz a vergognarsi, unitamente ai compagnucci della Padania. Poteva mancare il nostro nei dintorni della Giornata della Memoria a sparare la sua cialtronata da negazionista? Eccolo, il nostro (poco) reverendo da Treviso a confermare le cosette del vescovo scomunicato sull’inesistenza dell’Olocausto. E noi, poveri credenti, peccatori recidivi ci dobbiamo rassegnare a convivere nella stessa medesima Chiesa con simili, belle, personcine…Per fortuna abbiamo chi gioca dalla nostra parte: no, non è il pastore tedesco (figurarsi!!), è un ragazzo ebreo di tanti anni fa, finito su una croce. Do you remember mrs. Williamson? Erinnern sich Sie, herr Abramowicz?

“Marco, vieni c’è Primo Levi al telefono” (2)


Data la mortalità elevatissima, pensa che la sua sopravvivenza sia dovuta a fortuna o ad altri fattori?
“Io penso che, in primo luogo, molto abbia giocato la fortuna. Inoltre non sono stato mai ammalato: mi sono ammalato più tardi, in modo provvidenziale. Ed ecco come avvenne. Io, lavorando in fabbrica, rubavo al laboratorio ciò che mi poteva servire per la sussistenza e puntualmente dividevo il bottino con Alberto; c’era infatti un patto tra di noi, per cui dividevamo fraternamente ogni colpo buono (ecco qui l’arte di arrangiarsi!). Un giorno che avevo rubato del tè in laboratorio, andai con Alberto a venderlo all’ospedale, dove ne avevano bisogno per gli ammalati. Ci pagarono con una gamella di zuppa, quasi gelata e già un po’ intaccata. Probabilmente era stata toccata da un malato di scarlattina: io presi la scarlattina, fui mandato in ospedale e sopravvissi; Alberto che aveva avuto la malattia da bambino, non ne fu contagiato e morì in campo. Altro fattore fondamentale per me è stato quell’operaio, Lorenzo, di Fossano, che mi ha portato per molti mesi quanto bastava per integrare le calorie mancanti. Egli, che pure non era un prigioniero, è tornato molto più disperato di me: era un uomo molto mite e molto pio, rozzo e insieme religioso, e era terrificato di quanto aveva visto, spaventato, ferito. È tornato in Italia da solo, a piedi, e non ha voluto più vivere. Ha incominciato a bere e, a me che lo andavo a trovare spesso, diceva molto freddamente che non desiderava più vivere, che ne aveva viste abbastanza. Morì tubercoloso; e infelice”.

Qualche episodio insolito che ricorda e che non è stato detto nei suoi libri.
“C’era con noi un medico ebreo osservante. Lei sa che la religione ebraica prevede dei digiuni molto rigorosi: in quei giorni non si mangia niente e neppure si lavora. Questo medico alla sera – dopo il lavoro – disse al capo-baracca che la zuppa non la voleva, perché era giorno di digiuno e lui non la poteva mangiare. Il capo-baracca era un comunista tedesco, abbastanza indurito dal suo mestiere (aveva dieci anni di lager alle spalle), però, colpito dalla forza morale del prigioniero, gli conservò la zuppa fino a quando quest’ultimo non terminò il suo digiuno. Questo atto di umanità mi aveva molto impressionato”.

Può stabilire un rapporto tra lei e gli altri scrittori di religione ebraica (Ginzburg, Bassani)?
“Un rapporto complesso c’è, evidentemente. L’ambiente di Natalia Ginzburg è il mio stesso ambiente; abbiamo parenti in comune; lei è nata Levi e suo fratello era il nostro medico. L’ambiente della borghesia ebraica torinese è quello in cui sono nato e cresciuto. Quello di Bassani è diverso; sia Bassani che i suoi personaggi appartengono ad un’altra borghesia ebraica, quella di Ferrara, che io conosco abbastanza poco. E che non mi piace tanto, perché erano una classe abbastanza consapevole dei propri privilegi, abbastanza esclusiva (vedi il famoso muro di cinta) e riservata e chiusa”.

Per quale motivo la Ginzburg le ha rifiutato il manoscritto?
“Premetto che non le serbo rancore (ma forse sì, per un certo periodo gliene ho serbato). Ho pensato a tante cose: forse era satura di manoscritti – fare il lettore in una casa editrice è un brutto mestiere; si è costretti a falciare… poi… è un fatto che, pur conoscendola bene, non abbiamo mai chiarito”.
Ha ancora dei contatti con i compagni del lager?
“Enick l’ho perso di vista completamente. Ho ritrovato invece quel Pikolo, quello del canto di Ulisse; con lui ci vediamo sovente; viene a fare le vacanze in Italia e fa il farmacista in un piccolo paese vicino a Strasburgo. È uno di quelli che hanno rimosso tutto: si è imborghesito completamente e non ama parlare di queste cose. Sono stato a trovarlo, l’ultima volta, con la Televisione italiana; gli ho chiesto di riceverci e mi ha risposto: te sì, ma le telecamere no. Poi però ha accettato anche loro, ma non volentieri”.

Che pensa dei giovani d’oggi?
“La differenza fondamentale tra la nostra giovinezza e la giovinezza attuale è nella speranza di un futuro migliore, che noi avevamo in modo clamoroso e che ci sosteneva anche negli anni peggiori, anche nel lager: la meta c’era e era costruire un mondo nuovo di uguali diritti, dove la violenza era abolita o relegata in un angolo, costruire il Paese per riportarlo a livello europeo. Invece, i giovani d’oggi, mi pare abbiamo molte meno speranze. In generale vedo che tendono a scopi immediati, e questo forse è anche abbastanza giusto, in quanto non distinguono un altro futuro. Mi pare, paradossalmente, che sia stata più facile la nostra giovinezza, perché oggi sono troppi i mostri all’orizzonte: c’è il problema della violenza, il problema energetico, dell’inquinamento; il mondo è diviso in blocchi, c’è una totale incapacità di prevedere l’avvenire e nessuno osa fare previsioni sensate di qui a due anni. C’è sempre il problema atomico. Trovo che sono pochi i giovani che pensano di fare o studiare in qualche modo per un loro preciso futuro. È il senso del tramonto dei valori, per cui bisogna godere e bruciare tutto subito”.

Come mai ha lasciato passare tanto tempo, quindici anni, da Se questo è un uomo alla seconda opera?
“Se questo è un uomo, edito nel ’47 presso De Silva, uscì in duemilacinquecento copie: avevo delle buone recensioni, ma ho avuto cinquemila lettori (un libro lo leggono due persone in media). Dopodiché… non ho avuto più incentivo a scrivere; mi pareva di avere fatto il mio dovere di testimone, di essermi scaricato delle mie tensioni e non sentivo il bisogno di scrivere altro. Solo dopo molti anni mi ha ripreso questo desiderio, perché si è ricominciato a parlare della Seconda guerra mondiale, e dei lager in specie, in modo diverso, in senso storico appunto. Verso il ’60, o forse prima, si tenne un ciclo di conferenze sul tema e io mi sono ritrovato protagonista: molti allora mi hanno incoraggiato a raccontare anche la seconda parte della mia esperienza, cioè il ritorno dalla Russia. Ripresi la penna anche per un altro motivo: era cessata la Guerra fredda e ora potevo raccontare la verità completa, umana. Prima era impossibile parlare della Russia: o se ne parlava come dell’inferno o come del paradiso. E io non me la sentivo, in un ambiente così, di scrivere un libro-verità come La tregua. Solo dopo la distensione è diventato possibile scrivere di queste cose in un linguaggio non retorico”.

Perché è nato Malabaila?
“Perché sarebbe stato scandaloso a quel tempo: non avrei potuto, io, lo scrittore di Se questo è un uomo venire fuori a quei tempi con aneddoti, storie fantastiche. Proposi allora questo pseudonimo all’editore, il quale accettò con entusiasmo, pensando forse di farne un “caso letterario”: poi il caso non ci fu, ed io ripresi il mio nome”.

(18 gennaio 2009)

“Marco, vieni, c’è Primo Levi al telefono”

“Marco, vieni, c’è Primo Levi al telefono…”. Marco Viglino aveva diciannove anni e si stava preparando alla maturità in un liceo cattolico privato quando una sera dell’aprile 1978 arrivò, a sorpresa, la telefonata dello scrittore dalla quale è nata l’intervista inedita che Repubblica ha proposto il 18 gennaio. Trent’anni dopo, l’autore di quella intervista è diventato magistrato, mentre a Torino è nato il centro di studi che dovrà raccogliere e catalogare il grande lascito di appunti e lettere dello scrittore

PRIMO LEVI
“Io, scampato al lager
per poterlo raccontare”
di MARCO VIGLINO

Mi ha colpito il suo desiderio di rendere testimonianza sulla tragica esperienza nel lager: quando è nato questo desiderio?
“Questo desiderio, del resto comune a molti, mi è nato nel lager. Volevamo sopravvivere anche e soprattutto per raccontare ciò che avevamo visto: questo era un discorso comune, nei pochi momenti di tregua che ci erano concessi. Del resto è un desiderio umano: lei non troverà mai un reduce che non racconti. (No, mi correggo, ve ne sono alcuni che non raccontano; ve ne sono alcuni che sono stati feriti talmente a fondo che hanno censurato il loro passato, l’hanno sepolto per non sentirselo più addosso). In primo luogo c’è il bisogno di scaricarsi, di buttare fuori quello che si ha dentro. Poi ci sono anche altri motivi… c’è forse anche il desiderio di farsi valere, di far sapere che siamo sopravvissuti a certe prove, che siamo stati più fortunati, o più abili, o più forti”.

Il punto di contatto tra i primi libri e quelli di fantascienza, mi pare possa essere la sua “indignazione”, che prima è rivolta al lager e poi verso certe storture della civiltà. È giusto?
“Sì, è giusto: è una domanda che mi fanno in molti e a cui veramente non sono il più autorizzato a rispondere, perché non è detto che chi scriva sappia sempre bene “perché” scrive. Io ho due radici: una è il senso del lager e l’altra è il senso della chimica con le sue dimensioni. Avevo in mente di scrivere qualcosa sulla storia naturale ancora prima di entrare nel lager: già da studente sentivo un desiderio del genere (non come progetto chiaro e distinto, ma come vaga aspirazione) e trovavo un terreno fertile nel mio mestiere di chimico. Perciò – dopo aver terminato Se questo è un uomo e La tregua – non è che io abbia “scritto” gli altri due libri: ho raccolto alcune idee e anche alcuni racconti che avevo già scritto prima. Per esempio, il primo racconto delle Storie naturali, quello del vecchio medico che raccoglie essenze, l’ho scritto prima di Se questo è un uomo. E… probabilmente sì, benché il tema sia diverso, anche gli altri scritti risentono dell’esperienza del lager, in una forma molto indiretta, in una forma di delusione profonda, di un ritirarsi dalla vita”.

Tra i personaggi che si incontrano nei suoi libri, Lei mostra particolare simpatia e indulgenza verso alcuni che incarnano una certa “furbizia” o arte di arrangiarsi, come Cesare o il Greco.
“Anzitutto questi personaggi agiscono in un contesto tutto particolare, che è quello della fine della guerra: ora, su questo fondale, direi che si può essere abbastanza indulgenti. Non ammetterei, oggi, un Greco; lo eviterei, mi terrei lontano da lui, ma in quel momento lo sentivo quasi un maestro. Egli soleva dire: la guerra è sempre. E poi ancora mi diceva: “Vedi le scarpe belle che io ho: è perché sono andato a rubarle nei magazzini dei russi. Tu sei uno sciocco, non sei andato a cercarle”. Io rispondevo che pensavo che la guerra fosse finita e che i russi avrebbero provveduto. “La guerra è sempre”, mi ripeteva, e, allora, io ero d’accordo con lui. Oggi sarei più severo nei suoi riguardi, così anche nei riguardi di Cesare: ma la furbizia di Cesare era così solare, così aperta, così ingenua in fondo e così innocua che mi sta bene ancora adesso. Non sarei un censore tanto severo da escluderla, in quella forma: furbizia così “italiana”, sempre mescolata con bonomia. Cesare ingrassava i pesci con l’acqua, poi però, davanti ai bambini affamati della donna russa, glieli regala. Questo fa parte di un’arte di vivere che è vecchia come il mondo e davanti alla quale non si può essere troppo severi”.

Quella carica di ribellione che sta alla radice dei primi due libri si è attenuata con gli anni oppure no?
“Io contesto “quella carica di ribellione”: di indignazione sì; di ribellione purtroppo no perché non c’era modo, almeno per chi era al mio livello. Ribellioni in senso tecnico ve ne sono state, in alcuni lager: l’episodio che ho raccontato di quell’impiccato che muore gridando “io sono l’ultimo!” si ricollega a una ribellione che c’era stata in un altro campo: i prigionieri avevano fatto saltare i forni crematori pochi giorni prima e costui, di cui non conosco neppure il nome, era implicato nella faccenda, probabilmente aveva procurato dell’esplosivo. Riprendendo, l’indignazione sì persiste, ma diciamo che si è ramificata. Sarebbe stupido oggi continuare a vedere il nemico solo lì, solo il nazista, anche se a mio parere è ancora il principale. Però il mondo di oggi è molto più articolato che non quello di una volta. Non erano bei tempi quelli in cui io ero giovane, però avevano il grande vantaggio che erano netti; l’alternativa amico/nemico era molto netta e la scelta non era difficile. Oggi lo è molto di più. Perciò anche l’indignazione persiste, ma è… erga omnes. Verso molti, non più verso “quelli””.

Nella famosa lettera al suo editore tedesco, lei dice che non può capire i tedeschi e quindi non si sente di giudicarli.
“No, ho detto che non li capisco, ma li giudico sì”.

E come, allora?
“Li giudico male: sì, anche i tedeschi di oggi. Non tutti, naturalmente; io ho molti amici tedeschi, anche per il fatto che parlo la loro lingua, e mi interessano, e mi rifiuto di giudicarli in blocco. Però devo dire che, statisticamente, sono un paese pericoloso. Sono un pericolo intanto perché sono divisi in due e questo essi non lo accettano: pochi fra i tedeschi accettano questa divisione. E poi hanno delle virtù che diventano pericolose: questa loro straordinaria passione per la disciplina (che a noi manca – ed è male – ma loro ne hanno troppa!) per cui sono pronti ad accodarsi a chiunque comandi, mi fa paura”.

Com’è che allora, sempre in quella lettera, lei dice che i tedeschi, oltre ad essere pericolo, sono speranza per l’Europa?
“Ecco… la lettera io l’ho scritta molti anni fa, nel ’60, sulla corda dell’entusiasmo che avevo provato io per il fatto che un editore tedesco aveva accettato di pubblicare la mia testimonianza, e anche a seguito di vari contatti che avevo avuto allora con i giovani tedeschi degli anni Sessanta. E mi era sembrato che la Germania fosse veramente un’altra. Sembrava una roccaforte della democrazia, allora: oggi un po’ meno, anzi molto meno”.

Come reagiva vedendo i compagni di sventura andare ogni giorno alla morte a causa della selezione: lo prendeva, alla fine, come un dato di fatto, o questo le procurava ogni volta lo stesso dolore e lo stesso disgusto?
“Ci si incontrava, al mattino, all’appello e quando ne mancava uno, era considerato di cattivo gusto andare a fondo, un po’ come capita oggi quando uno muore di cancro: non se ne parla volentieri. Era una forma di accettazione, in sostanza, per cui l’atteggiamento verso il compagno morto in selezione non era molto diverso da quello verso uno morto di morte naturale. Quel mio amico Alberto, di cui ho parlato a lungo, era in campo con il padre: era un ragazzo molto intelligente e insieme parlavamo sovente di queste cose, senza inibizioni e senza cedere a questa tendenza di negare la verità. Pure, quando il padre fu scelto per la selezione, Alberto disse di essere sicuro che suo padre non era mandato nelle “camere” bensì veniva trasferito con altri prigionieri in un altro campo di convalescenza. E io ero stupito e impressionato nel constatare come il mio amico si fosse prontamente costruito un riparo, per celarsi una realtà altrimenti intollerabile”.
(1-continua)

Il silenzio dei credenti?

DURA PRESA DI POSIZIONE DEL PRESIDENTE DELL’UNIONE DELLE COMUNITA’ ITALIANE RENZO GATTEGNA

“Ci auguriamo che prenda una decisione sul vescovo antisemita”
Gli ebrei: “Infame negare la Shoah la Chiesa deve intervenire”

ROMA – La remissione della scomunica dei vescovi lefebvriani “è una questione che deve essere tenuta separata dalle opinioni storiche. La prima è un fatto interno alla chiesa su cui non abbiamo niente da dire, sulle tesi negazioniste, invece, abbiamo molto da dire perchè sono un’infamia”. Il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna torna sulla polemica tra Vaticano e mondo ebraico suscitata dalla decisione di Papa Benedetto xvi di riabilitare quattro vescovi lefebvriani. Nei giorni scorsi la comunità ebraica aveva parlato di una Chiesa “contaminata” da affermazioni antisemite, oggi Gattegna rincara la dose e chiede una esplicità presa di distanza del Vaticano dalle parole di monsignor Williamson (uno dei riabilitati) che ha sostenuto tesi negazioniste sulla Shoah.

“In questo momento – spiega Gattegna – siamo attenti osservatori delle decisioni che la chiesa prenderà in merito a chi sostiene tesi negazioniste. Ci auguriamo che ci sia una smentita di queste tesi che chiarisca ogni dubbio a riguardo”.

Critico anche il presidente della comunità ebraica di Milano, Leone Soued. “Il ritiro della sua scomunica – dice Soued – porta a un momento di riflessione ma la Chiesa ha immediatamente chiarito che è un reintegro soltanto nella sua veste religiosa e non tanto con riguardo alle sue idee personali, prima fra tutte la negazione della Shoah”. La decisione, comunque, “deve portare – sottolinea Soued – a una profonda riflessione nei rapporti con la Chiesa, che ultimamente sono stati difficili ma devono assolutamente continuare”.

(http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/esteri/benedetto-xvi-29/leggi-infamia/leggi-infamia.html)

E noi credenti possiamo tacere? Pensiamo che sia una questione fra ebrei e lo Stato estero del Vaticano?

Adiuvamos eos ut pudeant (Aiutiamoli a vergognarsi /6)

Adiuvamos eos ut pudeant (Aiutiamoli a vergognarsi /6)

Il Vaticano ha ritirato la scomunica ai vescovi lefebvriani.
Adiuvamos eos ut pudeant. Che si vergognino. Ma davvero! Modesta richiesta di un povero cristiano che è stanco, di vedere la gerarchia insultare il diritto, il buon senso, la storia. Una gerarchia che rappresenta sè stessa, autoriproducente. Le chiese si svuotano, i seminari sono in vendita, ci vorrebbero segni profetici e questi cosa fanno? Sordi ai segni dei tempi, rincorrono piccoli brandelli di potere, illusioni di rivincita, incuranti del distacco morale, prima ancora che politico di quel popolo di Dio che pretenderebbero di rappresentare.
Ma le vie della Provvidenza, si sa, sono infinite. Anche questo Papa, alla fine, penso sia provvidenziale, per la nostra salvezza, come sconto dei nostri peccati, come una penitenza, come una lunga Quaresima.

Alberigo_301006_DossettiConcilio.pdf

Il vescovo: “L’olocausto non è mai esistito”

Tale Richard Williamson, nominato vescovo da tale Marcel Lefebvre, ha dichiarato: “..Sì,..secondo me le camere a gas non sono mai esistite..L’antisemitismo può essere cattivo solo quando è contro la verità, ma se c’è qualcosa di vero non può essere cattivo.” Un suo sodale, tale Franz Schmidburger, responsabile della Fraternità [lefebvriana] in Germania afferma che gli ebrei di oggi portano la colpa del deicidio, finchè non prenderanno le distanze dai loro avi e non riconosceranno la natura divina di Gesù Cristo.

(La Repubblica, 23.1.2009)

Al signor Williamson, al suo sodale Schmidburger e ai loro amici non chiedo di vergognarsi, perchè per poterlo fare ci vuole coscienza e onestà, doti di cui sono notoriamente sprovvisti, chiedo invece di vergognarsi alle gerarchie vaticane se si realizzasse quanto ventilato negli ultimi giorni, ovvero il ritiro della scomunica ai lefebvriani che sarebbe stata nelle intenzioni del pontefice germanico. Ricordo che non è stata mai ritirata la scomunica irrogata ai comunisti nel 1949.

La destra ci riprova: è un’infamia

LA DESTRA CI RIPROVA: E’ UN’INFAMIA
Vittorio Emiliani

Criminalizzare la Resistenza, i suoi eroi è una pratica diffusa, tesa a dimostrare che democrazia e Costituzione sono nate dalla vendetta, dal sangue dei vinti. Ci provarono, attivamente, anche nei primi anni ’50: a migliaia (5.144 soltanto a Modena), ex resistenti vennero incarcerati e processati. Dopo mesi e anni di galera molti furono assolti. Ora la destra getta nuovo fango su Arrigo Boldrini, decorato sul campo di medaglia d’oro dal generale dell’VIII Armata, Richard Mac Creery. Organizzatore della più incredibile e coraggiosa resistenza di pianura. Nel Ravennate nazisti e repubblichini fra i più feroci imperversarono: 70 stragi, 426 civili uccisi, intere famiglie (Baffè, Foletti, Orsini) spente. Uno dei suoi uomini, il ventiduenne Umberto Ricci, torturato, ferito, malato, scrisse ai genitori e agli amici: «Io ho l’onore di rinnovare qui a Ravenna l’impiccagione. Però non ho nessuna paura della morte». Impiccato con Lina Vacchi il 24 agosto ’44 al Ponte degli Allocchi, fu lasciato marcire appeso. Dieci suoi compagni vennero fucilati.
Agli uomini di Bulow dobbiamo anche la salvezza dei monumenti ravennati. Gli Alleati erano decisi a bombardare preventivamente la città. Boldrini li scongiurò: «I nazifascisti si sono già ritirati». Poi chiese e ottenne di venire incorporato nell’VIII Armata. Bulow sperava – me lo disse anni dopo – di arrivare con gli Alleati fino a Trieste e di costituire una sorta di cordone protettivo rispetto ai partigiani di Tito. Purtroppo non gli fu concesso. Nel 1949 alcuni dei suoi furono accusati di aver partecipato all’eccidio di Codevigo: assolti. Nel ’91 la Procura di Padova giudicò «infondata» un’altra denuncia. Anche Cossiga lanciò un’accusa contro Bulow, per poi riconoscere che «fonti storiche e giudiziarie escludono in modo inoppugnabile tale coinvolgimento». Ora ci riprovano, infami.

(L’Unità, 23.1.2009)

La Shoah sul web: www.zwangsarbeit-archiv.de

L’ORRORE DELLA SHOAH SUL WEB
on line 600 testimonianze
Racconti di sopravvissuti a disposizione di studiosi, scuole, giornalisti
dal corrispondente ANDREA TARQUINI

BERLINO – La tragedia e le inenarrabili sofferenze dei forzati di Hitler rivive su internet con 600 interviste-testimonianza e racconti in diretta, grazie a un team di storici tedeschi. Da oggi è aperto, operativo, e funziona gratis per ricercatori, storici, professori e scuole, giornalisti, il sito www.zwangsarbeit-archiv.de. E’ un’iniziativa eccezionale che un team di decine di storici e ricercatori delle università berlinesi, appoggiati attivamente prima dal governo di Gerard Schroeder prima e da quello di Angela Merkel poi, hanno realizzato e mettono ora a disposizione della Memoria del mondo.

Circa 600 sono le testimonianze raccolte nel link. L’utente le può chiamare: alcune sono audio e video insieme, altre solo audio. I sopravvissuti raccontano quegli anni terribili in cui furono strappati alla loro terra e ai loro cari, deportati nei territori occupati dal ‘Reich millenario’, e costretti a lavorare in condizioni bestiali, malnutriti, maltrattati, e spesso percossi e torturati ogni giorno dagli aguzzini hitleriani. 341 uomini e 249 donne sono i sopravvissuti che i team dei ricercatori tedeschi sono riusciti a trovare sparsi per il mondo: la maggior parte attualmente vive in Russia, Ucraina o Polonia, o negli Usa, o in Israele, altri in Europa occidentale. Un terzo almeno degli intervistati sono ebrei, altri gitani, altri erano solo cittadini dei paesi occupati sospettati di simpatie per la resistenza o giudicati abbastanza giovani e forti da essere abili al lavoro.

I tempi erano già pessimi per il Terzo Reich, la scommessa hitleriana di vincere la guerra era già perduta. Prima la Royal Air Force aveva battuto l’aviazione nazista, cioè la Luftwaffe, nella battaglia aerea sull’Inghilterra. Poi l’America di F. D. Roosevelt aggredita dal Giappone era entrata in guerra con tutto il suo imbattibile potenziale industriale, e grazie a ingenti forniture militari del massimo livello americane e britanniche, alla sua stessa industria militare e al sacrificio spaventoso della sua gente (27 milioni di morti) l’Unione sovietica aveva respinto l’attacco della Wehrmacht alle porte di Mosca e a Stalingrado e l’Armata rossa avanzava verso ovest. Dalla Polonia alla Francia, dall’Olanda alla Norvegia, gruppi partigiani sfidavano l’occupante. La macchina da guerra nazista aveva bisogno di produrre sempre più armi, e si affidò ai forzati trattando milioni di persone come schiavi, come bestie.

“Io sono l’unico sopravvissuto della mia famiglia, tutta scomparsa nella deportazione”, racconta in una delle testimonianze online Henry F., ebreo ungherese, oggi abitante ad Atlanta, Georgia, Usa. “Ci picchiavano ogni giorno, era bestiale”. Altri sopravvissuti hanno ricordi diversi. Come il francese René: “A volte i capi tedeschi erano umani o quasi umani con noi, semplicemente perché tenerci in vita serviva loro per continuare a farci produrre le armi per la loro guerra”.

L’iniziativa del sito è partita dalla Fondazione tedesca per il ricordo e il futuro, creata nel 2001. E’ l’istituzione che dopo l’accordo tra Berlino e le organizzazioni ebraiche e dei sopravvissuti alla Shoah ha gestito il pagamento di risarcimenti alle vittime per oltre 4 miliardi di euro presi dal bilancio tedesco. Ma non contano solo i soldi, fa capire Felix Kolmer del Comitato internazionale di Auschwitz. Per i sopravvissuti, dice all’agenzia France Presse, conta anche che pure con Internet ci sia in futuro per loro una garanzia di non sparire dalla Memoria.

(http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/esteri/shoah-2009/shoah-2009/shoah-2009.html)

The times they’re a changing


I cinici non riescono a capire che la terra è franata sotto i loro piedi che gli argomenti politici stantii che ci logorano da tempo non valgono più. Oggi non ci chiediamo se c’è troppo Stato o troppo poco Stato, ma ci chiediamo se la macchina dello Stato funziona – se aiuta le famiglie a trovare un lavoro retribuito in maniera dignitosa, a curarsi sopportando costi contenuti, ad avere una pensione dignitosa. Ogni qual volta la risposta è affermativa, abbiamo intenzione di continuare sulla stessa strada. Quando invece la risposta è negativa è nostra intenzione porre fine ai programmi pubblici che non funzionano. E quelli di noi che gestiscono il denaro pubblico debbono rispondere del loro operato – debbono spendere con saggezza, rivedere le cattive abitudini e operare alla luce del giorno – perché solo così facendo possiamo ripristinare il rapporto di fiducia tra il popolo e il governo.

Sappiamo infatti che la nostra composita eredità è una forza, non una debolezza. Siamo una nazione di cristiani e mussulmani, ebrei e indù e di non credenti. Si mescolano nel nostro Paese lingue e culture di ogni parte della terra e, dal momento che abbiamo assaggiato l’amara brodaglia della guerra civile e della segregazione e siamo emersi da quel buio capitolo della nostra storia più forti e più uniti, non possiamo non credere che i vecchi odii un giorno svaniranno, che i confini della tribù presto si dissolveranno, che nella misura in cui il mondo diventerà sempre più piccolo, si rivelerà la nostra comune umanità e che l’America deve svolgere il suo ruolo nell’aprire la strada ad una nuova era di pace.

Questo è il significato della nostra libertà e del nostro credo che uomini, donne e bambini di ogni razza e fede possano celebrare insieme in questo magnifico spazio e che un uomo il cui padre meno di 60 anni fa poteva non essere servito in un ristorante ora è dinanzi a voi dopo aver pronunciato un sacro giuramento.

Che i figli dei nostri figli possano dire che quando siamo stati messi alla prova non abbiamo consentito che il nostro viaggio fosse interrotto, che non abbiamo voltato le spalle, che non abbiamo esitato e, con lo sguardo fisso all’orizzonte e con la grazia di Dio su di noi, abbiamo portato avanti il grande dono della libertà e lo abbiamo consegnato alle generazioni future.

(Barack Hussein Obama, Washington, 20 gennaio 2008)

Parole di Politica

Grazie alla cortesia della rivista HOPE della Fondazione Madonna dell’Uliveto onlus, ospito l’intervento del prof.Romano Prodi pubblicato nel n.15-dicembre 2008

PAROLE DI POLITICA
Romano Prodi

Mi è stato chiesto di riflettere sul rapporto tra la parola e la politica, e cioè di dire la mia su un tema immenso e quasi smisurato. Confesso che non ce la faccio proprio ad affrontarlo tutto intero, con tutte le sue infinite implicazioni. Mi limiterò quindi a ragionare su un solo aspetto del rapporto fra la parola e la politica e cioè sulla parola come strumento di conquista del consenso politico. Per essere ancora più preciso sulla parola nella campagna elettorale.
Sotto molti aspetti si può affermare che, almeno negli ultimi duemila anni, nulla è cambiato nell’uso della parola per convincere gli elettori. Ma poi, guardando bene dentro alle cose, possiamo invece affermare che tutto è cambiato.
Cerchiamo di divertirci un poco partendo da due documenti di duemila anni fa per poi passare direttamente a oggi.
Il primo documento è un vero e proprio manuale scritto da Quinto Tullio Cicerone per aiutare il più illustre fratello Marco Tullio durante la campagna elettorale per il consolato nel 63 A.C.. Un documento raffinato ma anche estremamente semplice su cosa bisogna fare ma, soprattutto, su cosa bisogna dire per conquistare la fiducia degli elettori (Quinto Tullio
Cicerone, Manualetto di campagna elettorale, Ed. Salerno, Roma, 2006). Di insegnamenti che oggi potremmo chiamare “politicamente corretti» ne leggiamo ben pochi. La parola è ritenuta un semplice strumento per convincere gli elettori e, perciò, ogni parola, ogni promessa è lecita, purché raggiunga il suo scopo. La conquista del voto dipende dalla promessa di benefici, dalla speranza e, anche, dalla simpatia che si riesce il. suscitare in coloro che debbono depositare il loro voto nelle urne. La parola deve perciò essere esclusivamente dedicata a raggiungere questi tre obiettivi. Tutto il manuale elettorale è perciò dedicato a come promettere, a come creare speranze e simpatia, con qualsiasi strumento. E per raggiungere questo obiettivo tutto è lecito, a partire dalla simulazione, per cui il candidato non dovrà limitarsi a pronunciare solo le parole gradite ai suoi interlocutori, ma dovrà anche accompagnare alle parole le espressioni del volto e gli atteggiamenti che più saranno in grado di costruire consenso attorno alla propria persona. Il raffinato manuale non si limita tuttavia a questo e, come succede nelle migliori famiglie, si dedica accuratamente ad elencare gli strumenti di denigrazione da usare nei confronti degli avversari politici. Antonio e Catilina debbono essere perciò attaccati nel modo più violento possibile, calcando la mano sui loro debiti, le amicizie dubbie, lo sperpero del denaro, il lusso, la lussuria e tutti i vizi di cui si può macchiare un essere umano. Si adombrano anche ipotesi (non ben confermate) di delitti e nefandezze che, certamente, possono colpire l’immagine degli elettori. Un manuale completo, metodico e raffinato per un politico raffinato che, chiamandosi Cicerone sa, più di ogni altro, fare buon uso della parola.
Il secondo documento a cui voglio riferirmi, ci porta di fronte ad una realtà radicalmente più popolare, riguardo alla quale vengono usate parole semplici, dirette al popolo minuto, per una gara elettorale di livello locale. Mi riferisco alle divertentissime e semplici scritture murali di propaganda elettorale che ancora oggi si possono leggere sui muri di Pompei. Parole che il Vesuvio ha portato direttamente a noi. «I fruttivendoli chiedono di votare per Marco Cerinio». E tanti altri scritti in favore del candidato degli osti, dei professori, dei mulattieri o degli abitanti dei diversi quartieri. Nessuna raffinata motivazione: al massimo il candidato viene definito virtuoso, meritevole e capace di interpretare gli interessi della collettività. Parole semplici, che vengono ripetute migliaia di volte sui muri di tutta Pompei: basta pensare che più di mille di questi «murales» ante-litteram sono arrivati fino a noi.
In fondo analizzando questi due diversi esempi di espressione politica, si potrebbe concludere che, riguardo all’uso della parola, non vi è nulla di nuovo rispetto alle campagne elettorali di oggi: allora come oggi si usavano parole semplici per le persone semplici e parole raffinate per convincere gli elettori di livello più elevato.
Le similitudini sono evidentemente molte perché anche oggi la parola nelle campagne elettorali è usata per creare promesse, speranze, simpatie e, soprattutto, per denigrare gli avversari. E, oggi come allora, non vengono dedicate molte energie perché queste parole siano fra di loro coerenti e, complessivamente veritiere.
Le similitudini, però, si fermano qui perché la parola, nelle campagne elettorali moderne, viene accompagnata da strumenti che la rendono infinitamente più potente ed efficace rispetto a quanto avveniva in passato. Il primo strumento è la moltiplicazione in modo diretto ed indiretto della sua intensità attraverso i moderni canali di comunicazione. Ed in questi canali il modo indiretto prevale ormai sulla parola stessa. Un moderno manuale di campagna elettorale non solo non potrebbe mai contenere le scritte ingenue e dirette dei muri di Pompei, ma non potrebbe nemmeno accontentarsi dei complessi insegnamenti del fratello minore di Cicerone. L’attacco diretto all’avversario si rivolgerebbe facilmente contro chi lo pronuncia. Occorre qualcosa di più complesso: uno screditamento generale dell’avversario e di tutto quello che gli sta attorno. Una demolizione progressiva della sua personalità, un feroce uso del ridicolo: il tutto possibilmente in modo obliquo, nel quale il linguaggio del candidato è sempre accompagnato dagli echi presunti o reali degli effetti delle sue parole sugli elettori. Non basta la parola ma occorre dimostrare che essa ha prodotto effetti devastanti sugli avversari. Alla parola si accompagnano perciò le indagini demoscopiche e gli opinion polls. Essi non servono solo a mettere in luce la forza del «nostro candidato», ma ci abituano a modificare e ad adattare le parole che verranno pronunciate successivamente agli effetti delle parole precedenti, che appunto emergono dalle indagini e dagli opinion polls. La parola diventa quindi non solo strumentale ma sempre più provvisoria, in attesa di essere modificata a seconda delle reazioni che la parola precedente ha provocato. Viviamo cioè nel continuo inseguimento fra la parola e la sua eco. E l’eco diventa più importante della parola stessa.
Questo gioco fra la parola e la sua eco diventa così rapido che il cittadino, cioè l’elettore finisce con l’essere così stordito, da non capire più il significato delle parole stesse. Lo stordimento è tale che si perde una condizione indispensabile perché la parola sia efficace, e cioè la memoria. E senza la memoria diventa impossibile giudicare l’aspetto più importante della parola, e cioè la sua coerenza. Il martellamento diretto ed indiretto dei media raggiunge infatti dimensioni e ritmi tali per cui diventa sempre più difficile costruire i legami e i collegamenti che permettono alla parola di conservare il suo contenuto espressIvo.
Se è quindi vero che l’uso della parola nella campagna elettorale non sembra offrire novità radicali rispetto a duemila anni fa, esso è oggi totalmente diverso per effetto della presenza sempre più pervasiva del sistema dei media. L’eccesso di parole e il modo con cui questo eccesso viene gestito rende incomprensibile la realtà sottostante e rende sempre più difficile distinguere questa realtà dalla mistificazione. Il processo è andato così avanti per cui molti si chiedono se questo non mette addirittura a rischio la vita della democrazia stessa.
lo credo che questo processo di deterioramento stia procedendo in modo quasi inarrestabile e che sia perciò necessario ed urgente adottare importanti misure correttive. La democrazia, per funzionare, richiede infatti una presenza equilibrata della parola e dell’ascolto. Questo obiettivo non è però raggiungibile senza un uso misurato ed equilibrato dei media che trasportano ed amplificano la parola fino a falsarne completamente l’ascolto. Senza equilibrio e senza misura la parola non può arrivare né al cuore né al cervello. E se non vi arriva non dobbiamo stupirci se la democrazia si inaridisce e i cittadini diventano sempre più scettici e rabbiosi.